di Tess McClure


«Siate forti e siate gentili». Le parole della prima ministra erano arrivate al termine di una conferenza stampa frettolosamente programmata, annunciando il primo blocco della Nuova Zelanda di fronte a un virus sconosciuto e mortale. Per molti neozelandesi sono diventati uno slogan della prima pandemia, quando il Paese è riuscito a eliminare il coronavirus all’interno dei suoi confini. Negli anni a venire, sarebbero diventati anche sinonimo della politica di Jacinda Ardern – per i suoi ammiratori, incapsulando una miscela caratteristica di empatia e forza, e per i critici, un esempio di retorica impennata non sempre sostenuta dalle riforme legislative desiderate.

Nel 2017 Ardern è divenuta la donna leader più giovane del mondo e ha continuato a fare la storia come seconda donna a partorire mentre ricopriva una carica elettiva. Sei anni dopo, questo giovedì, ha fatto un annuncio scioccante: si dimetterà alla fine del mese, ponendo fine al suo incarico di due mandati prima delle prossime elezioni di ottobre.

Ardern è apparsa sulla scena politica della Nuova Zelanda poche settimane prima di un’elezione che i laburisti avrebbero dovuto perdere quasi universalmente. «È stato uno di quei rari momenti in cui tutto cambia grazie alla forza di una sola personalità», afferma lo scrittore politico neozelandese Toby Manhire. «Quando il suo antagonista, l’allora primo ministro Bill English, parlò della sua “polvere di stelle” intendeva insultarla, ma ci aveva visto giusto». Cavalcando un’onda di popolarità soprannominata “Jacindamania”, ha guidato il partito a ottenere una vittoria contro ogni previsione.

Nei sei anni successivi, la sua leadership è stata modellata e definita da una serie di crisi nazionali e internazionali e le sue risposte in quei momenti di pressione, che hanno ripetutamente enfatizzato i valori di empatia, umanità e gentilezza, costituiranno probabilmente l’eredità straordinaria della sua carriera politica.

«È sempre stata… una leader che dà il meglio di sé nei momenti di crisi e, sfortunatamente, di crisi ne ha avuto la sua parte», afferma Madeleine Chapman, autrice della biografia non autorizzata Jacinda Ardern: A New Kind of Leader.

Nel marzo 2019, circa 18 mesi dopo l’elezione di Ardern, la Nuova Zelanda è stata colpita dal peggior attacco terroristico della sua storia, quando un suprematista bianco sparò sui fedeli in due moschee di Christchurch, uccidendone 51. Le parole «loro siamo noi», scarabocchiate da Ardern su un foglio di carta A4 nei minuti successivi all’attacco, ha costituito il fulcro del suo discorso quel pomeriggio, che ha abbracciato le comunità di immigrati e rifugiati presi di mira dall’attacco. Le immagini di lei vestita con un hijab che abbraccia una donna alla moschea hanno fatto il giro del mondo.

La sua risposta politica – denunciare immediatamente il tiratore come terrorista e introdurre una legislazione bipartisan sul controllo delle armi – è stata in netto contrasto con l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump. «La risposta all’attacco terroristico… è stata semplicemente straordinaria», afferma Manhire. «Empatica, umana, ma anche d’acciaio, risoluta nell’affrontare le questioni scomode che ha portato alla luce». Questi attributi avrebbero tracciato un modello per i momenti più significativi della leadership di Ardern negli anni successivi.

«Ha un’intelligenza emotiva estremamente sviluppata – e quella era davvero la qualità di cui avevamo bisogno, in particolare nel periodo di Christchurch, ma anche durante la pandemia», afferma il commentatore politico Ben Thomas, ex membro dello staff del precedente governo nazionale. Nel primo anno della pandemia, ha unito con successo i neozelandesi nei confinamenti straordinari per eliminare il Covid-19, una decisione politica che ha portato la Nuova Zelanda a raggiungere tassi di malattia e di mortalità tra i più bassi al mondo.

In quel periodo ha conquistato la sua enorme popolarità, oltre a «una fama globale decisamente sproporzionata rispetto alle dimensioni della Nuova Zelanda», afferma Manhire. Sulla stampa d’oltremare, ha brillato come una stella, presentando un avvincente esempio di leadership progressista in un’era di crescenti timori per l’ascesa dell’estrema destra, la disinformazione e l’erosione delle norme democratiche.

Una leader rara, un’eredità contraddittoria

Nel suo paese, in particolare con il trascinarsi degli anni della pandemia, la sua eredità e la sua immagine pubblica erano più complesse. Il governo di Ardern ha lottato per avanzare nel contrasto alla crisi degli alloggi, che aveva portato un numero enorme di persone a vivere per strada, in auto o in alloggi temporanei. Una vena di conservatorismo fiscale – che ha escluso una patrimoniale e la tassazione sulle plusvalenze e ha limitato il prelievo e la spesa pubblica – ha limitato le possibilità del suo governo di attuare programmi sociali costosi e su larga scala, a parte la risposta al Covid. Nonostante i grandi impegni sul cambiamento climatico, il paese non è riuscito a ridurre significativamente le proprie emissioni.

Su alcune delle questioni più care alla premier ci sono state concrete conquiste legislative. La povertà infantile, il problema a cui ha attribuito il merito di averla spinta a impegnarsi in politica, si è ridimensionata enormemente in Nuova Zelanda, anche durante la crisi del Covid 19 e la recessione economica che ne è conseguita. Il governo può rivendicare le principali vittorie laburiste per i lavoratori: occupazione record, 26 settimane di congedo parentale retribuito, aumento del congedo per malattia, maggiore potere contrattuale per i settori a basso salario, salario minimo aumentato di oltre il 30%. Ma gli altri tentativi di riforma, quelli per aumentare drasticamente il numero di alloggi popolari, per innovare la gestione dei corsi d’acqua e stabilire un meccanismo per valutare le emissioni agricole, si sono impantanati nelle difficoltà.

«Quando si è trattato di progettare e produrre una legislazione complessa o una sofisticata riforma legislativa, i progressi sono stati molto, molto più lenti», afferma Thomas. Questa eredità contraddittoria rivela alcune delle possibilità e dei limiti di “essere gentili” come principio politico guida. «L’idea di gentilezza ed empatia può avere dei limiti perché la politica riguarda spesso i compromessi», afferma Thomas, in particolare nelle lotte quotidiane di gestione, costruzione di coalizioni e compromesso.

Mentre la pandemia continuava, sono emerse nuove sfide: è emersa una piccola ma molto rumorosa frangia di gruppi no vax e antigovernativi, che è culminata in un’esplosione di violente rivolte nei giardini davanti al parlamento e ha diretto un flusso tossico di minacce di morte e retorica violenta contro la prima ministra. L’elevata inflazione e i venti contrari economici – molti dei quali di origine internazionale, ma fortemente sentiti in Nuova Zelanda – hanno inasprito l’umore generale dell’elettorato, portando a un calo di popolarità di Ardern e del Labour durato mesi. Entro la fine del 2022, diversi sondaggi successivi avevano indicato il partito nazionale di centrodestra come l’opzione più probabile per formare un nuovo governo, insieme a una coalizione di destra libertaria.

Le imminenti elezioni – previste per ottobre – sarebbero state probabilmente una battaglia molto più ardua di quanto Ardern avesse mai affrontato in precedenza. Nel 2017, è stata scelta come leader laburista a poche settimane dalle elezioni, scavalcando i duri mesi dello scontro elettorale. Nelle ultime elezioni generali del 2020, il sostegno schiacciante alla risposta al Covid ha portato i laburisti a una vittoria quasi senza precedenti. Fin dai suoi primi giorni nell’arena politica, Ardern ha sempre espresso la sua avversione per gli aspri scontri e la caccia al voto associati alle competizioni politiche, afferma Chapman. «Aveva sempre detto che non le piaceva quel tipo di politica, quel tipo di campagna elettorale. Ed è esattamente ciò che sarebbero state queste elezioni, quindi non sono sorpreso che non si sentisse incredibilmente entusiasta».

E c’erano altri fattori in gioco. Dopo sei anni di crisi e calamità, la Ardern era rimasta senza benzina. «So che ci saranno molte discussioni all’indomani di questa decisione su quale ne sarà stata la cosiddetta “vera ragione”. Posso assicurarvi che quello che vi sto dicendo oggi è l’unico aspetto veramente rilevante: dopo sei anni di grandi sfide, sono umana», ha detto. «So cosa richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza benzina nel serbatoio per rendergli giustizia. È semplicemente così».

Sua figlia Neve, che ha accompagnato Ardern all’assemblea generale delle Nazioni Unite, sta per iniziare la scuola. Ardern ha detto giovedì che quello che ha sacrificato di più è stata la sua famiglia. Concludendo le sue dichiarazioni, si è rivolta direttamente a loro. «Neve: la mamma non vede l’ora di esserci quando inizierai la scuola quest’anno». E a Clarke: «Sposiamoci, finalmente».

Mentre ha annunciato le sue dimissioni – con la voce che ogni tanto si spezzava per l’emozione – Ardern è tornata sui principi che hanno costituito i pilastri centrali del suo mandato. «Spero di lasciare ai neozelandesi la convinzione che puoi essere gentile, ma forte, empatica ma decisa, ottimista ma concentrata», ha detto. «E che puoi essere il tipo di leader che vuoi, anche una che sa quand’è il momento di andarsene».


Versione originale:

https://www.theguardian.com/world/2023/jan/19/from-stardust-to-an-empty-tank-one-of-a-kind-leader-jacinda-ardern-knew-her-time-was-up


(The Guardian, 19 gennaio 2023, traduzione a cura della redazione del sito della Libreria delle donne. Titolo originale: From stardust to an empty tank: one of a kind leader Jacinda Ardern knew her time was up)

Angela Passarello, Poema Rupe, ed. New Press 2022. È l’amata Rupe Atenea di Agrigento, dove è nata. Luogo reale e immaginario in cui memoria e presente si incarnano nelle parole. Cardine del continuo venire al mondo. Avevamo già incontrato Angela Passarello quando ha presentato alcuni dei suoi libri e anche una sua opera visiva. Adesso è il fuoco vivo della lingua che ci conduce in una strada abitata da umani, vegetali, animali, e dalle loro tracce. Angela Passarello, poeta e narratrice, dialoga con Giusi Drago, poeta e con Angelo Lumelli, poeta e scrittore. Introduce Renata Sarfati.

Per acquistare online Poema Rupe: https://www.bookdealer.it/goto/9788893561921/607


di Franca Fortunato


Se fosse riuscito il colpo di Stato con l’assalto a Brasilia dei palazzi del potere da parte di sostenitori e sostenitrici dell’ex presidente brasiliano Bolsonaro, che non ha riconosciuto la vittoria del presidente Lula da Silva insediatosi il primo gennaio scorso, Marielle Franco, consigliera comunale, uccisa in un agguato il 14 marzo 2018 a Rio de Janeiro, sarebbe stata uccisa per la seconda volta. Il suo assassinio, infatti, è maturato negli stessi ambienti politici dell’estrema destra e nelle forze militari che quel giorno non hanno fatto nulla per fermare l’assalto. Nel 2019 sono stati arrestati come esecutori dell’assassinio cinque ex poliziotti militari, come lo è Bolsonaro il cui figlio Flávio, senatore, è accusato di legami con loro. Marielle aveva 38 anni quando è stata uccisa e una figlia di 19, Luyla. Era una donna che «amava la vita. Era negra, madre, socialista e innamorata di un’altra donna. Amava il Carnevale, il suo compleanno e il Natale, Aveva gioia di vivere» come racconta di lei la sua compagna Mônica Benicio nel libro Marielle, presente! di Agnese Gazzera. Una donna, una politica, appassionata, libera, coraggiosa che rivendicava «l’amore per Mônica in una società omofoba e violenta». Entrata in politica nel 2006 come consigliera parlamentare del deputato Marcelo Freixo del Partido Socialismo e Libertade (Psol), nato da una scissione del partito di Lula, che lei votò e sostenne nelle due elezioni a presidente (2002-2011), nel 2016 fu eletta consigliera comunale. Era l’unica donna, unica donna nera della favela della Maré, tra le zone più violente di Rio. Ogni giorno, in un Consiglio di solo uomini, con il suo turbante colorato, parlando al microfono con voce ferma ripeteva: «Sono donna, negra, madre e figlia della favela della Maré». Parlava della sua politica come «la politica con affetto» fatta di ascolto della gente «nei luoghi dove di solito i politici non vanno, le favelas». Denunciava le violenze e gli abusi della polizia militare che nelle favelas con la scusa della lotta ai trafficanti di droga pestava e uccideva a sangue freddo giovani, terrorizzava con violente incursioni notturne nelle case. Marielle si unì alle madri che chiedevano giustizia per i loro figli e crearono il movimento “Posso identificarmi”. Si batté per i diritti delle donne, presentò proposte di legge per «includere nel calendario cittadino il giorno della visibilità lesbica», portò nel suo staff Lana de Holanda, donna transessuale e attivista, presentò progetti di legge contro la violenza maschile sulle donne, si batté per rendere possibile l’accesso all’aborto. Con la sua compagna conobbe la paura dello “stupro correttivo” da parte di uomini convinti che le lesbiche siano tali perché non hanno mai conosciuto un “vero uomo”. Contro i traffici illeciti immobiliari della polizia militare nelle favelas presentò una proposta di legge, considerata il movente dell’omicidio. Insomma, una donna, una politica, scomoda, irregolare, pericolosa, oscena, che gli avversari dell’estrema destra in Consiglio comunale attaccavano e insultavano, tra cui Carlos Bolsonaro, altro figlio dell’ex presidente. Alla sua morte Rio insorse, in migliaia scesero per strada al grido “Marielle, presente”, in molti quartieri apparvero murales con il suo volto, la protesta dilagò in tutte le piazze del mondo. Respinto il tentato golpe, Marielle è presente nel governo di Lula con la sorella Anielle che, divenuta ministra per l’Uguaglianza Etnica, insieme con Marina Silva, ministra dell’ambiente e Sônia Guajajara, ministra per le popolazioni indigene, può riprendere la lotta della sorella contro le disuguaglianze.


(Il Quotidiano del Sud, 14 gennaio 2023)

di Viviana Daloiso


Niente «abiti troppo eleganti o vistosi» o «gioielli e oggetti di valore», meglio l’invisibilità. Guai ai sorrisi, specie se «ironici o provocatori», soprattutto agli sconosciuti. Quanto ai ragazzi delle altre, «non guardarli insistentemente e non fare commenti». Più che offensiva, appare disarmante l’infilata di “consigli utili” messi nero su bianco in un opuscolo che il Comune di Cividale del Friuli (Udine) ha deciso di distribuire nelle sue scuole per combattere e prevenire il fenomeno della violenza sulle donne. Partendo dal presupposto – evidentemente – che questa violenza dalle donne dipenda. Roba d’altri tempi, si dirà, stereotipi mille volte sentiti e superati: e invece no. Alle ragazze le istituzioni della città friulana, a quanto pare coadiuvate nella campagna informativa da alcuni psicologi, vogliono dire che nel 2023 le cose funzionano ancora così: bisogna stare attente, a come si va in giro. Bisogna contenersi, nei comportamenti. Come se il problema (e la soluzione) fosse tutta lì, come se una donna uccisa ogni tre giorni per gelosia e per ossessione e per smania di possesso di un uomo, o una stuprata e picchiata e abusata fosse questione di gioielli e sorrisi. Della vittima, s’intende.

Per fortuna a riportarci ai nostri tempi e alle conquiste di emancipazione che migliaia di donne hanno ottenuto nel corso dei secoli – sebbene non sempre e non ovunque pienamente realizzate – hanno pensato le stesse studentesse e gli studenti destinatari dell’opuscolo, che si sono ribellati e in queste ore portano avanti una protesta sacrosanta: le affermazioni sono state contestate, in particolare, e nei corridoi del Convitto nazionale Paolo Diacono dove sono comparsi numerosi cartelli di dissenso e i giovani si sono riuniti in assemblea.

«Protestiamo perché riteniamo inaccettabili le frasi contenute in questo opuscolo – spiega Beatrice Bertossi, coordinatrice del Movimento studentesco per il futuro –, ma contestiamo anche l’opportunità stessa di un volantino rivolto alle potenziali vittime, quando è noto che la prevenzione delle violenze di genere deve partire innanzitutto dagli aggressori».

I ragazzi si stanno riunendo e stanno parlando anche con i docenti per valutare quali altre iniziative di protesta organizzare per ribadire la corale condanna all’iniziativa di questo tipo: «Siamo convinti che alla violenza ci si oppone con l’educazione – continua Beatrice, con parole che ci si aspetterebbe dagli adulti – non con la colpevolizzazione delle vittime».

La vicenda naturalmente ha sollevato un polverone di reazioni politiche. La prima a intervenire è stata proprio la sindaca di Cividale (che, nota dolente, è una donna), Daniela Bernardi: «Sono contenta che l’opuscolo sia stato finalmente letto dagli studenti delle nostre scuole con spirito critico – ha detto –. Il fatto che considerino i consigli dati “anacronistici” testimonia che sono giovani che vivono situazioni normali e senza particolari disagi. Siamo disponibili a sederci attorno a un tavolo per confrontarci con loro e con le scuole, capire quali siano le loro effettive esigenze e rimodellare i contenuti di un opuscolo che voleva essere un momento di riflessione».

Pioggia di critiche invece dall’opposizione locale (la giunta è leghista), che promette un’interrogazione in Consiglio regionale, e da quella nazionale, con la capogruppo Pd e alla Camera e già governatore del Friuli, Debora Serracchiani, indignata: «Sempre là si ricasca: se ti stuprano vuol dire che te la sei cercata, provocavi».


(Avvenire, 14 gennaio 2023)

di Lorena Fornasir


IMMIGRAZIONE. A Trieste, da tre anni e ogni giorno, un carrello colorato, pieno di bende e pomate, si fa testimone di queste vite offese nel fisico che i confini ci restituiscono a pezzi


Un «non luogo» di frettoloso passaggio verso la stazione dei treni o degli autobus, che sorgono affiancate, è diventato il Luogo della Cura. Sono quasi tre anni di presenza quotidiana per dare corpo a questa pratica: la Cura è incontro di corpi, «un corpo chiama, un corpo risponde». Evento assai raro nelle nostre società, dove non siamo il nostro corpo ma abbiamo un corpo che riceviamo dallo Stato con la carta d’identità, configurato dall’industria della moda, dello sport, dall’apparato sanitario, dal turismo, dalle innumerevoli abitudini che hanno tutte uno sfondo commerciale.

Ogni giorno nella piazza del mondo a Trieste curiamo le persone migranti che giungono dalla terribile rotta balcanica. Incontriamo «corpi di dolore», corpi offesi, denutriti, assetati, affamati, ricoperti di terra, fango, sudore, ferite, vesciche. Chi arriva è un sopravvissuto. Di tanti altri non conosciamo il destino cui sono andati incontro attraversando le ripide montagne della Croazia, della Slovenia, del Carso, i suoi fiumi vorticosi, i boschi selvaggi. Sappiamo che molti sono morti cadendo in una buca di dolina, o annegando in un corso d’acqua mentre cercavano di scappare dalla polizia che li inseguiva, o impallinati come cervi, oppure semplicemente scomparsi senza lasciare traccia se non nel disperato appello di madri, figli, fratelli, sorelle che li cercano invano.

Ogni giorno il carrettino verde della cura, pieno di bende e pomate, si fa testimone di questi corpi offesi che i confini ci restituiscono a pezzi. La Cura è un mandato tacito che raccogliamo da padri o madri, comunità di terre straniere, periferie urbane lontane, sconosciute, che hanno affidato i loro figli, padri, mariti, amici, compaesani, alle mani di persone che hanno a cuore la cura della vita, affinché ne ricevano l’invocazione muta a non abbandonarli. La «cura» è l’arte di esistere formando comunità, ma è anche una pratica di resistenza e di lotta. Queste tre dimensioni vanno insieme: non c’è resistenza senza lotta ma non ci sono resistenza e lotta senza cura, cioè senza costruzione di collettività basata sulla cura reciproca.

Se resistenza e lotta sono i modi necessari della contrapposizione al potere, all’ingiustizia, Cura è il modo della costruzione di relazioni, comunità, società.

C’è sempre stata, almeno in occidente e in particolare nella modernità, separazione fra l’attività di cura, delegata alle donne e gli altri tipi di attività, soprattutto il lavoro salariato, affidato principalmente agli uomini. La nostra pratica di strada ci insegna, oggi, che la cura per l’altro è l’attività essenziale per produrre alternative al modo di vita dominante.

La Cura è anche una sorta di laboratorio simbolico che svolge una funzione di contenimento, trasformazione e riparazione del danno subito lungo il viaggio infernale dai lontani Paesi d’origine. Nella piazza del mondo, attorno al carrettino verde, donne e uomini, giovani e anziani sanno prendersi cura dell’altro, lo straniero, lo sconosciuto, chiunque sia. Si tratta in particolare dei transitanti: quelli che cercano di non lasciare qui le loro impronte per non essere un giorno respinti in base alla legge di Dublino mentre tentano di proseguire verso il mitico Nord Europa.

Appaiono come ombre nella città indifferente, fino a che nell’ombra scompaiono. La pratica della Cura in strada ci insegna che sono il loro corpo, mentre noi abbiamo un corpo. Sono il loro corpo proprio mentre devono nascondersi alle polizie di dozzine di Stati che vogliono impadronirsi del loro corpo per punirlo d’aver osato di essere un corpo al di fuori del loro potere sui corpi.

Il lungo cammino dal Medio Oriente e anche da più lontano, che chiamano game, nel significato di mettere in gioco tutto, dà loro un corpo.

Nell’incontro, restituiscono anche a noi un corpo quando curiamo i loro piedi feriti, quando diamo loro da mangiare dopo giorni di digiuno, quando diamo loro scarpe, vestiti e sacchi a pelo noi riceviamo da loro il nostro corpo. Noi abbiamo cura di loro, ma anche loro hanno cura di noi. La cura è reciproca o non è. Ci portano le loro esistenze dimidiate, le loro speranze di vita ma anche la tragedia delle morti. Se il Mediterraneo è diventato un mare di cadaveri, una grande tomba subacquea, anche nei fiumi lungo il tragitto dei Balcani o nelle fosse di dolina del Carso, o nei dirupi dei monti, i morti non si contano.

Il 5 agosto del 2022, accanto al carrettino verde della cura, è volutamente nato il «Lenzuolo delle madri di frontiera», sulla scia delle madri dei desaparecidos, per dare un nome a chi non è sopravvissuto. Sulla sua bianca trama viene raccontata la storia della migrazione di questi ultimi anni e il filo rosso prende il posto del sangue con cui questi figli si sono ricongiunti con la madre terra.

Nel ricamo di mani che curano la vita, cesellando un nome o riparando una ferita, si concretizza la valenza simbolica del carrettino verde e della sua presenza costante sulla scena della piazza. Lui è storia e memoria, è testimonianza viva, simbolo di resistenza quotidiana; pur nella sua fragilità nutre quella sorgente inesauribile da cui sgorga, inesauribile, la domanda di vita e speranza del migrante. Nella sua semplicità, è lì fedele alla propria origine per essere sempre «dove bisogna stare» cercando di mettere al mondo ciò che ancora non c’è.


(il manifesto, 14 gennaio 2023)

L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta il film Piccolo corpo di Laura Samani (Italia, Francia, Slovenia, 2021,89’).Potente, coraggiosa opera prima di Laura Samani, questo film è un’esperienza immersiva nel dolore radicale e indomito della giovane madre Agata che vuol dare nome alla sua bambina nata morta. Un percorso di conoscenza attraverso luoghi oscuri e minacciosi in cui Agata si inoltra con la forza del desiderio di dare senso all’esistenza della sua creatura. Riti corpi relazioni che attraversano la morte per rigenerare la vita. Introduce Silvana Ferrari.

di Gianluca Di Feo


La legge sulle adozioni va rivista, per tutelare i casi più drammatici di tutti: gli orfani dei femminicidi. Figli che sono due volte vittime e che in caso di adozione sarebbero costretti a interrompere qualsiasi rapporto affettivo con la nonna e gli zii: perderebbero l’unico contatto con quello che resta della loro famiglia, subendo un’ulteriore ferita psicologica. Ma allo stesso tempo hanno bisogno di genitori in grado di aiutarli a crescere: l’unica strada è un’adozione piena, che non tagli i ponti con il passato ma permetta di mantenere la frequentazione con i parenti. Oggi questo è vietato. E la Cassazione si è rivolta alla Consulta, chiedendo di valutare la tenuta costituzionale di questo divieto «in un contesto sociale profondamente mutato, dove la recisione dei legami con i nuclei familiari originari non è sempre criterio adeguato per fornire una tutela sostitutiva ed effettiva alle situazioni generate da forme di violenza familiare».

La prima sezione civile della Suprema Corte, presieduta da Maria Acierno, si è pronunciata su una vicenda terribile: il destino di due bambini rimasti soli perché il padre ha assassinato la madre. L’uomo era pachistano, la donna italiana: Alì all’epoca aveva pochi mesi mentre Bilal, di quasi tre anni, ha assistito al delitto. I nomi ovviamente non sono reali. Il Comune lombardo che è stato nominato tutore dei piccoli, assistito dall’avvocata Maria Grazia Di Nella, assieme ai magistrati e ai servizi sociali ha cercato in tutti i modi di definire un percorso per il loro futuro. I bambini sono affezionati alla nonna materna, che però non è in grado di farsene carico. Sono stati così affidati allo zio del padre, che vive nel Regno Unito, studiando come inserirli in una famiglia allargata assieme al fratello del genitore, che ha altri figli. Ma è emerso che la soluzione non poteva funzionare. «Le criticità principali di zio e prozio – scrivono i giudici – consistono nell’incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause». La rimozione del dramma non gli avrebbe permesso di affrontarlo.

Allora la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che lo strumento più adeguato alla tutela di Alì e Bilal sia l’adozione legittimante. Tuttavia, poiché i bambini «conservano una relazione significativa con la nonna ed è nel loro interesse mantenere in futuro i rapporti con i parenti paterni, che hanno dimostrato affetto e fanno parte della loro storia personale, anche in funzione dell’elaborazione del trauma che richiede non negazione ma rivisitazione in tempi e strumenti» la Corte ha considerato «nel prevalente interesse dei minori conservare tali relazioni, attraverso l’intervento dei servizi sociali che dovranno stabilire tempi e modalità d’incontri nel rispetto della privacy dei genitori adottivi e con la massima protezione dei bambini da interferenze esterne dannose per il loro benessere psico-fisico». Una formula aperta che la legge del 1983 non permette: con l’adozione legittimante il passato dei bambini viene spazzato via. E questo – sostiene la Suprema Corte – va contro la Costituzione per vari motivi, ma soprattutto perché nega la centralità dell’interesse del minore. «Occorre evitare – ha sottolineato il pg della Cassazione – che il trauma derivato dalla perdita di entrambi i genitori diventi ancora più radicato con la definitiva recisione di legami con importanti figure di riferimento peri il loro sviluppo psicologico».

«Questa ordinanza ha scalfito la graniticità della legge sulle adozioni – commenta Maria Grazia Di Nella, difensora dei due piccoli –. Il nostro diritto è vivo e cambia con la trasformazione della società_ la Consulta è chiamata adesso a colmare la lacuna del legislatore. Inoltre la scelta della Cassazione è al passo con i tempi: oggi i bambini hanno accesso alle informazioni, si confrontano con la loro storia e l’avrebbero scoperta senza essere accompagnati né assistiti. Lo dimostra il numero di fallimenti  adottivi, soprattutto in quei ragazzi che hanno peso le origini e sono stati sradicati dal loro ambiente: a dodici anni cominciano a voler sapere. Questo ci fa comprendere le loro esigenze, che non possono più venire negate».


(la Repubblica, 13 gennaio 2023)

di Annamaria Rigoni


Trovare le parole del piacere femminile è una sfida che attrae e spaventa nello stesso tempo, perché richiede di interrogarsi su ciò che per secoli è stato indicibile e che solo negli ultimi decenni ha cominciato ad affiorare, prima nell’ambito del pensiero femminista e poi nella società nel suo insieme.

Sono parole che devono continuamente essere affermate e mostrate perché i tentativi di omologazione al “piacere unico” si ripresentano sempre e si sono rafforzate grazie al proliferare delle immagini erotiche che invadono la vita quotidiana, soprattutto per le nuove generazioni.

È quindi necessario dire e ridire ciò che il piacere è per una donna, che dialoga con altre donne per trovare quella conoscenza “a partire da sé”, che rischia di essere cancellata dai discorsi che hanno un’apparenza di sapere universale.

Il piacere per me è una dimensione insieme fisica e mentale, l’una è connessa intimamente con l’altra, il corpo e la mente godono insieme, non c’è separazione. Quando una finestra della mente si apre in un pensiero nuovo allora è anche il corpo che freme, prova un senso di godimento e letizia.

E il piacere è per me intimamente legato al sentimento di un abbraccio, di un luogo caldo nel quale essere contenuta, avvolta in un cerchio amoroso che mi permette di essere ciò che sono, in una relazione che accoglie e non stritola.

È il piacere dell’origine, della nascita, è l’abbraccio dell’utero materno che autorizza tutti i piaceri che vengono in seguito. L’abbraccio della madre, dentro e fuori di lei è il piacere primo, che viene prima di tutto, anticipa anche il nutrimento, il pianto, la presenza e la mancanza.

Secondo uno psicanalista inglese, Wilfred Bion, allievo riconoscente di Melanie Klein, l’abbraccio della madre va oltre la dimensione del corpo, la madre avvolge e contiene nel proprio pensiero sognante il pensiero sognante della bambina/bambino, e questo sogno nel sogno permette alla piccola/piccolo di crescere e di stare nel mondo in modo pacificato, perché l’abbraccio della mente della madre (la rêverie) riesce a contenere ogni paura e a trasformarla in pensiero.

È all’abbraccio della Grande Madre che le persone si rivolgono per implorare aiuto nei momenti difficili. L’abbraccio di una madre al suo bambino (e io mi immagino anche alla sua bambina) che mostra una relazione di amore, nutrimento e pace è l’immagine più adorata nelle chiese come mostrano le candele stipate solo ai suoi piedi. Abbraccio che si sviluppa anche verso un mondo adulto come si può vedere in Santa Maria delle Grazie a Milano, dove, sopra l’altare, la Madonna apre il mantello per accogliere dentro il suo abbraccio la donna e l’uomo inginocchiati in preghiera a lei.

E dall’origine della relazione materna l’abbraccio poi si espande e si apre ad ogni altra relazione.

Per me anche il piacere erotico si fonda in un abbraccio/contenimento reciproco. È questo abbraccio del corpo e della mente che trasforma l’atto dell’unione di corpi in qualcosa di più profondo, in una relazione appagante.

E l’abbraccio è anche politica delle donne, che si riconoscono e che creano un contenitore ampio in cui il pensiero cresce in una relazione che accoglie e contiene l’altra. Senza un luogo che tenga insieme corpi, pensieri, esperienze, affetti, anche conflitti, il nuovo non può nascere. Questa per me è stata e continua ad essere l’esperienza del femminismo, un luogo che accoglie e nutre il pensiero e la pratica delle donne in una relazione feconda.


(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 13 gennaio 2023)

di Pierluigi Fornari


Ricordiamo il papa Benedetto XVI morto il 31 dicembre 2022 con un’intervista a Luisa Muraro che parla di lui, su Avvenire del 22 aprile 2005

(la redazione del sito Libreria delle donne).


Meno di un anno fa [7 agosto 2004, ndr] una voce autorevole del mondo femminista definì «una novità dirompente» il documento sulla collaborazione tra uomo e donna che portava la firma dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. La femminista era Luisa Muraro, fondatrice della comunità filosofica Diotima, che si caratterizza per il pensiero sulla differenza sessuale. La docente di filosofia, oggi che il cardinale è divenuto Papa, conferma l’apprezzamento che espresse su il Manifesto. «Se il cardinale – immaginava allora la Muraro all’inizio del suo articolo – fosse un mio studente, di molte cose mi piacerebbe ragionare con lui, complimentarmi, interrogarlo, distanziarmi o consentire, a proposito della sua Lettera». «Era un’ipotesi scherzosa», puntualizza.

Perché quella lettera è così importante?

«Prima di essa l’antropologia cristiana non aveva mai messo in evidenza che l’essere umano “sono donne e uomini”. Aveva sempre sottolineato l’unità della persona umana, dando un posto importante, ma secondario, alla differenza sessuale, e cercando poi di spiegare questa differenza con la complementarità tra i sessi. In quella lettera invece si affermava che la differenza sessuale è un tratto costitutivo dell’umanità. Gli esseri umani sono costitutivamente sessuati: donne e uomini».

In che modo?

«L’allora cardinale disegnava la realizzazione degli esseri umani di sesso femminile nei termini di un’umanità non complementare a quella maschile».

Un esempio?

«Sottolineava l’importanza della partecipazione delle donne al governo delle aziende e dei Paesi, in ruoli cioè che la tradizione fino allora, con pieno appoggio del pensiero cristiano e cattolico, aveva assegnato piuttosto alla realizzazione di sé di uomini di sesso maschile».

Lei apprezzò quel n. 14 della lettera, in cui si affermava che la promozione della donna nella società deve essere compresa e voluta come una umanizzazione realizzata attraverso i valori riscoperti grazie alle donne.   
«Si riferiva alle qualità che più storicamente sono state espresse da donne, che si riconducono dunque a una espressione storica, non alla fisiologia, né alla anatomia, né alla maternità. La lettera parlava esplicitamente di una manifestazione di certe qualità storicamente espresse più da donne che da uomini, che possono diventare ricchezza e patrimonio dell’umanità e di cui possono appropriarsi anche gli uomini. Cioè indica il valore universale della differenza femminile. L’umanità infatti nella sua universalità è fatta da donne e fatta da uomini. La quintessenza del pensiero della differenza consiste nel capire che l’umano non viene dal complemento di donne e uomini. L’umano sono le donne e l’umano sono gli uomini. La differenza non va oltrepassata in una superiore unità».

Un altro aspetto che apprezzava nel testo del cardinale era la critica ad una cultura che tende a liberarsi dai limiti biologici.

«A questo proposito citavo Leopardi, che è stato profetico nel prevedere certi cambiamenti della nostra civiltà e sottolineare l’importanza del richiamo alla natura. Che vuol dire tutto ciò? O la natura la vediamo come l’inchiodamento a un destino biologico: la natura come negatrice di libertà. E da questa posizione deriva, naturalmente, la tendenza a oltrepassare i limiti della natura. Oppure la natura, cioè il nostro essere corpo, la nostra comunanza con la realtà naturale, la possiamo leggere umanamente, leggerla nella libertà: accettare questa prossimità che abbiamo con l’umiltà dell’animale, dei bambini, delle persone private dell’intelligenza. Questo è un pensiero che va ripreso. Invece la ricerca della libertà attraverso l’allontanamento dalla natura è una strada molto pericolosa. E lo abbiamo visto».

È un rischio anche cancellare la nostra dipendenza dalla relazione materna?

«Certo, dobbiamo ricordarci che siamo stati messi al mondo da una donna, nel modo in cui la donna partorisce. Quella realtà che sant’Agostino indicava per umiltà con l’espressione “inter feces et urinam” e che noi possiamo designare con la carnalità che ci abita».

Ma c’è una parte del movimento femminista che rifiuta questa carnalità.

«Infatti c’è un conflitto da tempo nel femminismo. Una corrente vuole che non siamo più donne, ma che cogliamo le possibilità indeterminate che le tecnologie e il liberismo ci mettono a disposizione. C’è, invece, un pensiero che si mette in circolo con ciò che è natura, dipendenza, bisogno che abbiamo gli uni degli altri».

Ratzinger si mostrava un alleato prezioso per questa seconda posizione?

«Come la vedo io, sì. Le femministe cattoliche gli hanno fatto delle critiche che io non sto a rinnegare. Ma per me la preoccupazione principale è che la nostra civiltà non vada alla deriva di un artificialismo e di un umanesimo fine a sé stesso».

Quindi il pensiero del nuovo Papa potrà essere d’aiuto?

«È una voce che va ascoltata. Anche la sua critica al relativismo è una cosa che va ascoltata. Nella comunità filosofica Diotima, che ho costituita, abbiamo detto: “su quello siamo d’accordo”. Si può dire tutto e il contrario di tutto? No. La pretesa di poter dire qualcosa di vero deve restare nell’orizzonte delle aspirazioni degli esseri umani. Il bisogno di verità deve rimanere tra le cose che manteniamo. Per me e per le mie compagne filosofe l’obiettivo essenziale non è attaccare la Chiesa cattolica, ma salvare la civiltà umana, in senso globale, non solo quella occidentale, la convivenza, il senso delle nostre vite, della storia umana».

Tutto ciò si può ottenere senza una tensione verso la verità?

«Certo che no».

Con il relativismo ci autodistruggiamo?

«È così».


(Avvenire, 22 aprile 2005)

di Romina Marceca


La verità indigesta è «sapere che mentre parlo chissà quante altre colleghe sono vittime di molestie nei teatri». Chiara Claudi, attrice di teatro, cinema, vocal coach, è tornata in scena dopo cinque anni di blocco. A intralciare la sua carriera sono state le molestie sul palcoscenico da parte di un attore italiano molto noto. L’attrice negli anni ha lavorato con Mario Missiroli, Luca Ronconi, Luca Barbareschi, Massimo Foschi, Andrea Jonasson, Filippo Dini. Al cinema con Francesco Pingitore e Paolo Virzì. «La mia carriera era in ascesa, poi – dice – è arrivato lui».

Cosa è successo?

Quella parte era un’occasione dopo l’Accademia Silvio D’Amico e tante tourneé. Durante una replica, lo shock. La scena prevedeva che appoggiasse una guancia sul mio petto invece lui ha afferrato un seno e gli ha dato come un morso. Ho reagito dandogli un pugno in testa e, subito dopo, una carezza per non destare dubbi nel pubblico. A fine spettacolo successe il putiferio.

La aggredì?

Iniziò a sbraitare con una violenza tale che, dopo, vomitai. La compagnia era in cerchio, lui mi urlò che ero una ragazzina cretina, che dovevo portare rispetto, che lui era un grande professionista. Mi chiese di raggiungerlo il giorno dopo per parlare da soli. Ma l’indomani chiamò la sua assistente chiedendomi di non andare, di scusarlo perché era stanco, di non prendermela per quell’ira. Le ho detto che mi faceva pena. Lei, donna, si stava mettendo dalla parte del genere sbagliato.

I suoi colleghi?

Mi dissero che lui è fatto così. Erano ipnotizzati dal suo potere, non volevano perdere il lavoro.

Non c’erano state avvisaglie?

Aveva sempre avuto un atteggiamento viscido e provocatorio con frasi molto spinte, già quelle inaccettabili. Ma non c’era mai stato un contatto fisico.

Rinunciò alla parte?

No, avevo firmato un contratto. Ma è stato doloroso dover rimanere, avevo il terrore quando andavo in scena. Un anno di paura. Lui riprese a urlarmi e a dirmi che ero l’unica attrice che non la dava. Un giorno mi afferrò la testa dietro le quinte e mi disse cosa avrebbe voluto farmi. Non ce la facevo più.

Ha denunciato?

No, ero sola davanti a un colosso. Era la mia parola contro la sua, ho iniziato a colpevolizzarmi. Adesso me ne andrei via senza alcun problema, agirei in maniera più consapevole e per le vie legali. Purtroppo i termini penali sono scaduti, se adesso volessi denunciarlo. Non faccio il suo nome per questo motivo e non perché voglio nascondermi. Rischieremmo noi vittime e non lui.

Lei ha deciso di fermarsi per cinque anni.

Con i soldi delle tournée ho girato dal nord America alla Francia, Inghilterra, Cile. Ho studiato e promosso conferenze sulla voce come speaker. Dovevo ripulirmi da quella vicenda.

Ha avuto un supporto psicologico?

Assolutamente sì. Dopo l’ennesimo abuso da parte sua non sapevo come conciliare la donna bella con l’attrice. La terapia mi ha aiutata in questo.

Come è stata la rinascita?

Sono tornata in Italia a insegnare alla Paolo Grassi. Stare a contatto con i ragazzi ha fatto rinascere il fuoco dell’arte. Sono di nuovo felicemente in pista e ho anche messo al mondo un meraviglioso bambino.

E come va?

Accade ancora di vivere situazioni al limite però sono diversa, più forte. Rinforzarsi significa anche denunciare le molestie, diffondere la cultura che l’arte è un mestiere e lavorare con il corpo non significa che gli altri possano abusarne. E dirsi come un mantra che non siamo sole perché si sta muovendo un gruppo di donne per le donne.


(la Repubblica, 12 gennaio 2022)

di Luciano Giardini


Susanna Camusso, come mai ha deciso di astenersi?

Il tempo passa e bisognerebbe avere qualche idea in più rispetto alle armi, che di certo non avvicinano alla pace. Ovviamente non mi riferisco solo all’Italia, perché è naturale che da soli non andiamo da nessuna parte e un percorso diplomatico dovrebbe riguardare tutta l’Europa, ma perlomeno dovremmo porci un obiettivo che non sia il limitarsi a reiterare la scelta fatta un anno fa sugli aiuti militari.

Lei avrebbe fin da subito evitato di inviare armi a Kiev?

Voglio chiarire che di fronte al primo decreto sarei stata più in imbarazzo nel decidere, perché comprendo molto bene le ragioni del diritto alla difesa. Ma vorrei che allora quei discorsi fossero validi anche altrove, per altri Paesi del mondo, non soltanto per l’Ucraina. In ogni caso, in quest’anno si è resa evidente la debolezza della via diplomatica.

Perché allora si è astenuta e non ha votato contro il decreto?

L’astensione è una decisione frutto del rispetto che ho per una discussione in cui subentro. C’è una fase precedente a cui non ho partecipato. È chiaro però che nel prendere decisioni del genere il tempo è una variabile importante: adesso ho scelto di segnalare la mia posizione in questo modo, in futuro valuterò.

Aveva informato il Pd del suo dissenso rispetto alla posizione del gruppo?

Certo, infatti non c’è alcun problema tra me e il Pd. Tra l’altro io faccio parte del gruppo, ma sono stata eletta come indipendente. Sono cose normali, le mie opinioni sull’argomento erano note e ho pensato fosse comunque corretto comunicarle prima del voto. Quando ci sono discussioni serie capita che ci siano opinione diverse.

Da Azione e Iv definiscono “incredibile” la sua astensione e ne chiedono conto al Pd.

Non mi meraviglio, perché purtroppo fin dall’inizio, sulla guerra, la discussione è stata progettata per creare amici e nemici invece che basarla sul bisogno di costruire una capacità di pensiero, come sarebbe necessario quando si parla di pace. Azione e Italia viva, poi, sembra non abbiano altro da fare che occuparsi di noi con acrimonia. È un atteggiamento che un po’ mi inquieta.

Teme che le attribuiscano simpatie per Putin?

Ho una storia di difesa della libertà che rende ridicolo chi usa questi argomenti. Altri, semmai, hanno il problema di non avere coerenza: io ce l’ho, anche rispetto a tutte le nuove forme di totalitarismo, comprese quelle nei Paesi arabi.


(Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2023)

di Sarantis Thanopulos


Alla cortese attenzione del Ministro della Salute

Ill.mo Ministro prof. Orazio Schillaci,


L’esecutivo della Società Psicoanalitica Italiana esprime grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale in ragazzi di entrambi i sessi a cui è stata diagnosticata una “disforia di genere”, cioè il non riconoscersi nel proprio sesso biologico. Vanno seriamente considerate le controindicazioni a questo trattamento:

– La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso.

– Solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà.

– Sospendere o prevenire lo sviluppo psicosessuale di un soggetto, in attesa della maturazione di una sua definizione identitaria stabile, è in contraddizione con il fatto che questo sviluppo è un fattore centrale del processo della definizione.

– Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre.

La sperimentazione in atto elude un’attenta valutazione scientifica accompagnata da un’approfondita riflessione sullo sviluppo psichico e suscita forti perplessità.

È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica a cui la Società Psicoanalitica Italiana darà il suo contributo volentieri.


A nome dell’esecutivo della Società Psicoanalitica Italiana

Il presidente

Sarantis Thanopulos


(SpiWeb.it – sito della società Psicoanalitica Italiana, 12 gennaio 2023)

a cura di Bretema e Valentina Pietrosanti


Registrazione video della manifestazione “Guerra in Ucraina. I Disarmati Esigenti organizzano ‘Il digiuno di coerenza’ contro il decreto per l’invio delle armi all’esercito ucraino”, registrato a Roma martedì 10 gennaio 2023 alle 18:00.

L’evento è stato organizzato da Disarmisti Esigenti.

Sono intervenuti: Alfonso Navarra (portavoce di Disarmisti Esigenti), Marco Palombo (attivista della Rete No War), Patrizia Sterpetti (presidente di WILPF Italia), Rocco Marcello Balsano (rappresentante di Rifondazione Comunista).

Tra gli argomenti discussi: Armi, Decreti, Digiuno, Disarmo, Esteri, Governo, Guerra, Italia, Nato, Pace, Parlamento, Partito Radicale Nonviolento, Russia, Ucraina.

La registrazione video di questa manifestazione ha una durata di 32 minuti.

Il contenuto è disponibile anche nella sola versione audio.

https://www.radioradicale.it/scheda/687355/guerra-in-ucraina-i-disarmati-esigenti-organizzano-il-digiuno-di-coerenza-contro-il


(radioradicale.it, 10 gennaio 2023)

di Mario Di Vito


Dopo quarantadue anni, la Regione Marche guidata da Fratelli d’Italia ha deciso di interrompere la convenzione che la legava all’Aied di Ascoli Piceno, presieduta da Tiziana Antonucci, per le interruzioni di gravidanza in ospedale. «Un gesto che conferma la linea del governo, così la legge 194 non è più un diritto, ma una legge a ostacoli», dice Marica Cataldi del Pd, mentre annuncia battaglia in consiglio regionale.

Fatto sta che da febbraio le cose cambieranno e la storica Associazione Italiana per l’Educazione Demografica verrà messa alla porta: un servizio essenziale smetterà di essere erogato, con tante incognite per il futuro. Gli ultimi dati, diffusi la scorsa primavera e relativi al 2020, dicono che nelle Marche sette ginecologi ospedalieri su dieci sono obiettori di coscienza.

Presidente Antonucci, cosa vi hanno detto dalla Regione?

Ci hanno scritto ringraziandoci per la puntualità e la professionalità sin qui offerta e ci hanno congedati. All’improvviso. Senza prima aver preparato alcun tipo di percorso per il futuro. Questo mi lascia sia perplessa sia preoccupata. Non so bene cosa dovrò dire alle donne che ogni giorno si rivolgono all’Aied. Abbiamo queste ultime tre settimane di gennaio e poi arrivederci e grazie.

Quanto incide l’Aied sul totale delle interruzioni di gravidanza nelle Marche?

Nel 2020, con il Covid e gli ospedali chiusi, abbiamo effettuato 238 aborti. Poi 198 nel 2021 e 194 nel 2022. Circa un sesto del totale, che sale a un quarto se parliamo di metodo Karman (l’aspirazione, ndr).

La Regione ha motivato questo addio parlando di tagli alla spesa.

Dicono di avere un buon numero di medici obiettori e che devono utilizzarli: l’azienda ospedaliera ha necessità di risparmiare. Noi da tempo spingiamo per l’aborto farmacologico e siamo fieri del fatto che all’ospedale di Ascoli si possa fare. Soltanto che, adesso, comincio ad avere il timore che la situazione possa peggiorare: la maggioranza delle donne vuole utilizzare il metodo Karman, sul quale come Aied facciamo numeri molto alti, anche perché si può fare in anestesia locale, è più agile ed evita un ricovero che può anche essere lungo. Da febbraio è molto probabile che i tempi per effettuare l’interruzione si dilateranno e che i percorsi diventeranno sempre più complicati. Peraltro non ci sarà più tutto l’iter di assistenza e di consulenza che facciamo abitualmente e che è importantissimo al di là del fatto puramente medico. Bisogna anche ricordare che le Marche non hanno mai recepito la circolare del ministero della Sanità sulla pillola abortiva nei consultori.

Com’è la situazione generale delle interruzioni di gravidanza nelle Marche?

Purtroppo è critica. Sono all’Aied dal 1977 e già allora davamo assistenza alle donne attraverso il Cisa (il Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, ndr), poi con l’entrata in vigore della legge 194 siamo riusciti a stipulare questa convenzione con l’ospedale di Ascoli. Era il 1981. Ai tempi i medici erano tutti obiettori. Adesso qui vengono anche dal resto della regione e dai territori vicini: dall’Abruzzo e anche dal Lazio, soprattutto dalla zona di Amatrice. Siamo diventati un punto di riferimento per molte donne, di fatto. Ci sono ospedali completamente inadempienti sul fronte delle interruzioni di gravidanza, e la Regione, che dovrebbe monitorare l’applicazione della legge, non fa niente. È una cosa molto grave alla quale noi cerchiamo di rimediare facendo la nostra parte. Non in opposizione agli ospedali, sia chiaro, ma per garantire la possibilità di esercitare un diritto.

E ora l’Aied che farà?

Restiamo in attesa di sentire dalla Regione quali saranno i nuovi percorsi. Onestamente non vedo alcun motivo per farci fuori così, dalla sera alla mattina. Potevamo continuare a collaborare tranquillamente come abbiamo sempre fatto. Noi, in ogni caso, non smetteremo di difendere i diritti delle donne: siamo sempre aperti e sempre reperibili, in molte ci dicono che siamo gli unici ad aver risposto alle loro chiamate. Questo è importantissimo, perché noi prendiamo in carico ogni situazione nella sua totalità, dando assistenza di vario genere. Affrontiamo tante situazioni che altrimenti verrebbero dimenticate e il nostro lavoro non è incentivare o disincentivare l’aborto, che è regolato dalla legge, ma lavorare perché ogni donna faccia la scelta che veramente vuole. Se vogliamo ridurre le recidive e il numero degli aborti, cosa che magari alcuni politici auspicherebbero, la prima cosa è dare risposte. Chi è contrario all’aborto deve essere a favore dell’assistenza.


(il manifesto, 8 gennaio 2023)

di Farian Sabahi


«Campagne di diffamazione, insulti sessisti, minacce di stupro e di morte stanno colpendo ricercatrici, giornaliste e attiviste sulla rete», osserva l’attivista femminista Lilia Giugni. Autrice del saggio La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere) per Longanesi (pp. 300, euro 19), insegna Innovazione sociale all’Università di Bristol ed è ricercatrice associata presso l’ateneo di Cambridge.

Di questi tempi giornaliste e accademiche che si occupano di Iran vengono attaccate sui social e accusate di essere agenti della Repubblica islamica, laddove hanno invece sempre lottato per i diritti umani. Come si spiega?

Questo fenomeno è figlio della cultura patriarcale che, sia pure in modi diversi, sopravvive in tutto il pianeta, e porta utenti della rete (principalmente, anche se non esclusivamente, uomini) a tentare di zittire le donne che dicono la loro. A volte ci troviamo di fronte a episodi di violenza politica organizzata, di matrice quasi squadrista. Accade, per esempio, che operatori politici con pochi scrupoli sguinzaglino i propri follower contro una donna, non solo e non tanto per danneggiare lei specificamente, quanto per consolidare e compattare il proprio seguito fornendo loro una nemica, o magari per seminare divisioni all’interno di uno schieramento. In altre parole, le donne vengono sacrificate sull’altare della costruzione o della manipolazione del consenso, che al giorno d’oggi passa soprattutto per il web.

In quali paesi si è verificata una campagna di denigrazione per delegittimare giornaliste e accademiche?

Nel Brasile di Bolsonaro la giornalista Patricia Campos Mello, voce critica dell’ex presidente, ha subito per anni pesantissime minacce sia contro lei stessa sia contro la sua famiglia. In India la reporter Rana Ayyub, autrice di un libro inchiesta che indagava le responsabilità governative nelle violenze contro la popolazione musulmana del Gujarat, è stata ricoverata dopo che la diffusione online di un falso video pornografico le ha scatenato contro un’autentica persecuzione. Nella Russia di Putin, sono note le azioni delle «brigate del web», orde di «bot» (account automatici) con cui vengono prese di mira le oppositrici del Cremlino sia in patria sia all’estero. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia abbondano i casi di donne prese d’assalto sui social quando si occupano di diritti di genere, migrazione, razzismo e cambiamento climatico.

Come mai sono in primis le donne a essere prese di mira?

Entrano in gioco misoginia e pregiudizi sessisti, che si traducono nel tentativo di privare le donne della libertà di prendere spazio sulla scena pubblica. I politici hanno imparato che sobillare gli utenti social contro le donne ha un ritorno. La strategia di monetizzazione delle piattaforme digitali si fonda sull’estrazione dei dati dell’utenza, e quindi sul tentativo di tenerci tutte e tutti il più possibile attaccati alla tastiera. Questo modello di business spinge le piattaforme a favorire, con espedienti, la circolazione di contenuti divisivi, e incoraggia la diffusione di disinformazione e la radicalizzazione dell’utenza. Un cocktail micidiale, che gioca un ruolo chiave nel meccanismo della violenza di genere online.

Come funziona la campagna di legittimazione in termini di retweet?

A dare il là a un attacco social è la pubblicazione di un primo post condiviso da un account con un numero cospicuo di follower, che genera uno tsunami di messaggi contro la donna di turno. Donald Trump, ad esempio, si serviva regolarmente di questo schema contro oppositrici e critiche, prima di essere bannato da Twitter in seguito all’assalto al Campidoglio. Nel caso delle giornaliste, sono le sezioni commenti e le pagine social a diventare teatro di abusi. Per questo, giornali come il britannico The Guardian, hanno scelto di precludere la possibilità di commentare per proteggere le reporter.

Come ci si può difendere?

Tante organizzazioni internazionali, dall’Osce all’International Federation of Journalists, hanno lanciato programmi per sostenere la sicurezza e la libertà di parola delle giornaliste.

Anche le università stanno diventando più consapevoli e pronte a tutelare le ricercatrici. Nel mondo le donne si stanno organizzando in network e reti per proteggersi e per sostenersi. In Italia, pensiamo a “Giulia Giornaliste” [https://giulia.globalist.it/]. A restare vulnerabili sono le croniste freelance, le accademiche precarie, le più giovani e prive di un qualsiasi sostegno istituzionale. In ogni caso, la responsabilità di sconfiggere la violenza di genere non dovrebbe gravare sulle donne, servono interventi politici e giuridici.


(Alias – il manifesto, 7 gennaio 2023)

di Antonella Nappi, Giovanna Cifoletti e Alfonso Navarra


I tre articoli seguenti, apparsi su NoiDonne il 5 gennaio 2023, sono il frutto di uno scambio tra le due autrici e l’autore sul caso commentato il 7 dicembre 2022 da Iole Natoli nell’articolo Quella madre che non è madre è come un padre / Quando il diritto nega la realtàche riguarda una sentenza sull’attribuzione di maternità in una coppia lesbica in cui una ha portato l’embrione dell’altra ed entrambe chiedevano di essere registrate come madri.

Li riportiamo tutti e tre insieme, perché dialogano tra loro e sono comparsi in collegamento tra loro sulla stessa testata.

La redazione


Non prendiamo ad esempio i maschi

di Antonella Nappi


Iole Natoli racconta su Noi Donne il progetto realizzato da due donne di fare un figlio insieme con l’utilizzo dell’uovo di una, fecondato da un uomo estraneo e impiantato nell’utero dell’altra. Lamenta una discriminazione rispetto alla doppia genitorialità che ottengono le coppie di maschi omosessuali da parte delle istituzioni italiane. Non ottengono la doppia maternità, se ho ben compreso (Iole Natoli, 7 dicembre 22, Quella madre che non è madre è come un padre / Quando il diritto nega la realtà. I figli della coppia lesbica di Anghiari unita civilmente e la sentenza del Tribunale di Arezzo / Discriminazione verso le persone LGBT o in primo luogo verso le DONNE?)

Ho riserve sulla utilità di riflettere sulla discriminazione delle donne prendendo a modello le scelte dei maschi omosessuali. Si rischia di avvallare pratiche violente verso i bambini, come progettarne intenzionalmente la perdita della madre, e di promuovere soluzioni inutili da parte delle donne, perché la sostanza dell’amore di coppia e della responsabilità genitoriale non passa per forza attraverso la corporeità.

Ancora oggi si sottraggono bambini a chi si dimostra poco capace di occuparsene, ed è crudele, sarebbe meglio aiutare i genitori nel compito genitoriale. Nel caso di chi volontariamente procura una violenza al figlio, come la perdita di un genitore e specie della madre che lo culla per mesi, si potrebbe almeno paventare la perdita della genitorialità, dovendo qui parlare di giurisprudenza. Non trovo legittimo l’esercizio di una violenza solo perché la tecnica e il denaro la rendono possibile. E sento il peso di questa affermazione ma non vorrei sentirlo. Proibire è divenuto l’unico gesto che desta scandalo, mentre qualsiasi miseria o guerra o discriminazione è sopportabile se avviene di fatto; se avviene senza la nostra personale volontà. Basta essere distratti o disinteressati dal ragionare e il potere ci conduce tutti ad approfittarci di tecnologie che hanno ricadute sulle persone di cui non ci si occupa. Le hanno nella vita collettiva e nella cultura di ciascuno: come il prendere l’abitudine di pensarsi più potenti che limitati. È questo il vivere sopra i propri limiti che sempre più appare come il percorso umano di cui ci dovremmo preoccupare.

Il percorso di assuefarci alle realtà che giudichiamo nocive si accompagna alla nostra impotenza e forse anche alla brevità della nostra vita. Al disinteresse per quella di chi verrà, sentendola una loro responsabilità. Ma c’è un patimento in me nel dovermi continuamente adattare a nuove competenze obbligate, e nell’agire più velocemente le cose che un tempo era sufficiente fare in un tempo più lungo, come non finissi mai di dover lavorare e pensare e affrontare fatti nuovi che tendono a disconfermarmi. Leggo che non succede solo a me e sento l’indicazione prevalente del non farci sopra riflessioni, ma così perdiamo sicurezza in noi stessi. Il lasciar correre invece di affrontare le questioni diviene un’ educazione diversa e contraria a quella che nella storia e nella vita di ciascuna e ciascuno ha dato invece risultati importanti. È come se oggi ci si dovesse sbronzare senza fine.

Il disinteresse civico che ci fa delegare a ciascuno di fare quello che vuole è lo stesso che ci fa accettare ogni scelta purché sia sua, di altri, non nostra. Poi, dal momento che altri lo fanno lo dovremmo fare tutti: proprio questo ci viene detto ormai sempre più in grande: il mondo ci impone di fare ciò che non vorremmo e l’adeguarsi è divenuto un dovere.

Abbiamo delle responsabilità noi donne, per avere aperto una strada che respinge la paternità ma sembra molto più accettabile per via della tradizione che ci ha viste sostenere da sole la procreazione, nel disprezzo maschile della responsabilità generativa. Quasi a farne di necessità un punto di forza e di libertà.

È però facile comprendere come conoscere le proprie origini genetiche da parte dei figli sia fonte di completamento della storia personale e li renda più sicuri; così come il soddisfacimento di ricevere l’attaccamento affettivo proprio da coloro che ti hanno dato il patrimonio genetico incoraggi la loro capacità di relazione affettiva. Inoltre il miglioramento delle relazioni parentali è stato un investimento sociale progressivo; anche se nulla toglie alla capacità di divenire figli e genitori ad altri soggetti che si ingaggino e siano ingaggiati nella relazione da parte di infanti, di giovani e di adulti. Anche questa è la storia dell’umanità: i figli capitavano e metterli nella possibilità di sopravvivere li vedeva spesso crescere con persone occasionali. Ma perché volere dimenticare le cose acquisite ormai rispetto alla responsabilità sociale verso i bambini? E rispetto a quella personale che non vede nel figlio una proprietà, né pensa di esercitare un ruolo di poco conto nella loro formazione psichica?

Anche Il bambino che sia stato progettato senza padre perde una opportunità e una parte della sua storia, mi auguro non sia cosa grave per lui o lei, ma vedo grave la scelta di privarlo volontariamente di una possibile opportunità. Se così è andata la storia generativa di molti, non è per questo il caso di insistere.

Mentre l’ampliarsi delle relazioni affettive della coppia con figli e della relazione genitore e figlio rispetto a parenti, amici, incontri di affinità, è certamente arricchente ogni partecipante. Le responsabilità condivise diventano un esercizio educativo e un arricchimento affettivo socialmente positivo.

La manipolazione embrionale di cui Iole Natoli scrive, l’affetto che si vuole indurre nella gestante e che secondo le intenzioni dovrebbe confortare la coppia, parla di incertezze nell’osare la gravidanza da sola, di incertezza nel veder riconosciuto l’attaccamento per il figlio di un’altra, di incertezza anche negli esiti dell’unione.

È vero, la giurisprudenza potrebbe favorire una maggiore distribuzione di responsabilità tra persone consenzienti, non lo fa ad esempio nelle famiglie allargate che rimangono tali solo in virtù del consenso quotidiano sempre revocabile. E soprattutto lega la sorte di ogni nato strettamente a genitori e nonni senza una partecipazione sufficiente ad autonomizzare le persone da parte della comunità e delle istituzioni.

Adattarsi nella vita alle proprie perdite è fatto possibile, umano e come ogni accadimento, è anche fecondo di altre potenzialità che germinano. O valutiamo il nostro essere potenti nelle relazioni con i contesti o celebriamo l’impotenza che soltanto nella relazione di aiuto tecnico sostitutivo trova conforto. Mi pare un vittimismo esagerato, una dipendenza valorizzata, un cattivo esercizio educativo.

L’alienazione dalla corporeità, dalla radice che ci da vita, mi sembra la cosa più grave che rischia di capitare all’umanità nella costrizione all’esercizio della dipendenza nei confronti del potere. Non solo dobbiamo sopportare una guerra che non vogliamo, nella quale altri ci schierano tra i belligeranti, ma questo è sempre successo; di nuovo succede che l’insinuarsi della tecnologia nei nostri esercizi attivi ci priva sempre più delle nostre capacità di autonomia. Ci dicono di non muoverci, ci relazioniamo sempre meno in presenza, non agiamo ed un meccanismo lo fa per noi dalla nostra sedia, o nella nostra passeggiata: che può perdere però sempre più scopi. Le necessità creano incontri e la presenza dell’altro è al fine l’unica tranquillizzazione. Ci propongono di restare isolati e fermi per muovere le informazioni o altri al nostro posto, rendendo il contesto alfine zero. Ormai interviene l’obbligo istituzionale, questa è la schiavitù che risorge. Senza utilizzare gli strumenti esogeni perdiamo cittadinanza. Dobbiamo perdere attività, autonomia e relazioni perché altri trovino nella nostra schiavitù motivo di guadagno e di risparmio.

Comprendo come la tecnologia che rende più facili le azioni di informazione e ricerca, molto più facili le comunicazioni commerciali, trovi porte aperte in ciascuno e ciascuna, soprattutto conquista la gratuità economica. Più difficile è pensare quali siano le conseguenze, anzi noioso e deludente. Il fatto è però che la tecnologia diviene una natura con la quale si cresce e comunque ci si sviluppa nel pensare se stesse/i e la propria vita, le proprie attività e identità, distaccandoci dal corpo e dalle personali limitate capacità. Inscriverci nei nostri limiti ci rende umani, consapevoli di limiti che ci rassicurano. Evaderli ci lascia soli, senza storia, senza esempi, molto più dipendenti dagli altri di quanto non lo sono state le nostre relazioni nel passato. Le relazioni automatiche ci rispondono e ci comandano. Non siamo noi ad inventare quello che ci serve, assumiamo dal potere economico e politico qualche cosa che ad altri serve e ci facciamo modellare, proprio nel mentre abbiamo desiderato invece di avere più potere personale.

Le donne io penso debbano impegnarsi nello spegnere Prometeo e non abbracciare l’intenzione d’essere onnipotenti, libere dalla natura, dalla costruzione biologica. Il potere si autodistrugge come i giovanissimi amici di Greta ci dicono. Non facilitiamo il potere tecnologico nell’invadere le nostre capacità. Diveniamo responsabili dei nostri limiti, sono le nostre risorse potenziali. Le relazioni con noi stessi e gli altri sono piene di potenza proprio nell’esercizio di fondarsi sui propri limiti.

Fare i conti con la natura – che il patriarcato ha interpretato come una risorsa inesauribile a sua disposizione, invece di accettare il confronto con forze che gli si opponevano e trovare accordi con queste e la loro capacità di ricrearsi in continui nuovi equilibri – è la grande svolta culturale che le donne aiutano a fare. Le donne a cui si è chiusa la bocca per secoli, portano la capacità corporea e relazionale utile ad accogliere i limiti che gli uomini non si sono dati. Il confronto con le donne fa ritrovare alla società una misura.

Oggi specialmente i giovani che sono cresciuti con capacità ricevute dalla tecnologia si considerano legati a questa, un tutt’uno naturale che permette loro di pensarsi quasi onnipotenti, di pensare cose che possono anche realizzare ma senza avere esperienza di che cosa comportino come ricadute su sé o altri. L’esperienza dei vecchi era una guida meno improvvida.


Procreazione e genitorialità

di Giovanna Cifoletti


Non sappiamo per quanto tempo ancora il ricorso alla FIV (fecondazione in vitro, ndr) sarà accessibile al grande pubblico. I costi per gli individui e i costi ecologici ingenti potranno presto rivelare l’aspetto “acrobatico” di queste pratiche per ora considerate di routine. Il fatto è che per questa, come per altre tecnologie come ad esempio la chirurgia estetica, si applicano due criteri che considero fuorvianti:

1) Se una pratica è possibile tecnicamente, allora deve essere considerato legittima e resa disponibile.

2) Se una pratica è disponibile e corrisponde a un mio desiderio (in effetti se una soluzione esiste essa è probabilmente frutto di una ricerca specifica in corrispondenza di quel desiderio), allora devo farne uso.

In questo modo le tecnologie che dovrebbero essere al servizio della libertà dell’individuo lo mettono invece in una situazione di scelta obbligata, di coazione. Si tratta di coazione anche perché accettare una soluzione monetariamente possibile diventa allora un modo per eludere la libertà di inventarsi una nuova soluzione, di crearsi un futuro sulla base di cambiamenti a livello simbolico e di relazione.

Ma torniamo ai criteri che inducono all’uso acritico delle tecnologie e torniamo anche alla procreazione assistita. Il primo criterio viene mitigato dalle legislazioni. Per esempio, è possibile tecnicamente determinare il sesso del nascituro se ci si sottopone a una FIV. Ma in Europa non è ammesso. Così si possono trovare facilmente in web soluzioni alternative in altri paesi. Mi permetto di aggiungere un aneddoto a questo proposito: io stessa da giovane ho avuto occasione di parlare alla psicologa del mio desiderio di avere una figlia piuttosto che un figlio. Mi ha allora incitato ad averlo mediante FIV, per poterne determinare il sesso. Già allora mi era sembrato che il gioco non valesse la candela: per esempio, se poi dopo tanti sforzi fosse nato comunque un maschio, mi sarei trovata in una situazione peggiore di quella di partenza, dovendo accettarla malgrado i tentativi per evitarla.

Analogamente la gravidanza per altri è esclusa dalle leggi europee. Ambedue queste limitazioni possono apparire restrizioni all’autodeterminazione. Personalmente le vedo invece come correttivi di un mercato medico che applica il taylorismo alla procreazione e quindi alla sua versione umana, la genitorialità; come dei necessari interventi dovuti a un legittimo controllo umano sull’uso indiscriminato delle tecnologie.

Il secondo criterio riguarda il consumatore della tecnologia. Nel caso di desideri che toccano una sfera intima e irrazionale della persona quale è quella della riproduzione, della sessualità e dell’amore, il consumatore è ancor più fragile e legittimato a dirsi: se posso, o posso permettermelo a costo di qualche accettabile sacrificio, allora devo soddisfare il mio desiderio. A maggior ragione una coppia sarà analogamente incitata o costretta moralmente a cercare nella tecnologia una soluzione esterna alla procreazione e alla genitorialità.

È probabile che il pianeta ci renda presto improponibili queste acrobazie su vasta scala; che ci costringa a prendere atto dei limiti naturali, o quel che ne resta, non tanto come ostacoli ma come occasione dell’uso dell’ingegno. Forse si potrebbe dire che all’uso delle tecnologie in un contesto di ingegno maschile si potrà sostituire un uso di esse secondo un ingegno femminile di adattamento.

Il caso emblematico della coppia di donne che attua una teoricamente perfetta divisione del lavoro di madre biologica in madre genetica e madre gestante solleva due tipi di questione, giuridica e di critica al patriarcato. Sul piano giuridico, certo non è automatico dire che ambedue sono le madri, perché finora nelle FIV eterologhe si riconosceva la maternità alla madre di gravidanza e la paternità a suo marito. Che questo non sia certo egalitario appare chiaro, tanto più che valeva anche nel caso il gamete maschile non fosse suo, e quindi la paternità puramente formale, mentre qui il gamete femminile è proprio della madre genetica. Ma la procreazione e la genitorialità non sono fatti per esser egalitari e neppure sono fatti per essere parcellizzati. Forse questo è un limite di cui bisogna prendere atto.

Per il momento le donne, e anche le coppie lesbiche, hanno il privilegio di poter avere un figlio con un intervento maschile ridotto al minimo. Ma è sempre stato così, e il desiderio della donna, o almeno il suo “perché no?” è da sempre una causa determinante della perpetuazione del genere umano.

Diverso è il caso delle coppie maschili, per le quali il ricorso a pratiche esterne o a schiavitù esterne sembra l’unica soluzione.

Rispetto a questo, voglio ancora ricordare che i due criteri precisati sopra sono eminentemente sociali, determinati da questo mondo, con le sue regole di mercato.

La genetica è in fondo una scienza recente. Il DNA è diventato la base del sistema giuridico della procreazione. In questo l’impianto del diritto romano si è modificato. Il diritto romano era certo patriarcale, ma di fronte all’incertezza genetica introduceva una soluzione umana, l’adozione. Cerchiamo di non fare passi indietro, anche in senso patriarcale.

Voglio soprattutto ricordare che la genetica, può rassicurare i figli e i genitori, ma non è l’unico modo per farlo, per costituire un’origine definita. La scelta personale, il “riconoscimento” individuale e sociale allo stato puro, come è l’adozione, è anch’essa una forte rassicurazione sull’essere al mondo desiderati, voluti, cercati.

Fermo restando che ogni caso è a sé e non intendo minimamente criticare la coppia in questione, vorrei sottolineare che le due donne hanno preso a prestito un modello maschile di procreazione, del solo gamete. Proprio perché donne potrebbero sapere che questa è fatta di tanti aspetti fisici non istantanei, come l’ingresso del gamete nella nuova cellula embrionale. Va sottolineato che è questa prima cellula a costituire il patrimonio genetico, innovativo, mentre i due gameti non possono trasmettere tutto. Il senso genealogico della genetica è prettamente sociale. Già dal 2016 in Italia è possibile adottare il figlio del proprio partner; non vedo la necessità di introdurre una parcellizzazione che impedisce ad ambedue le madri di essere madri biologiche (l’una dà solo un gamete in un processo medicalizzato, l’altra porta un embrione estraneo) volendo dare ad ambedue questo titolo giuridico.

Va anche detta una cosa molto concreta: non ha senso che, in Italia, le coppie maschili abbiano problemi a realizzare i loro desideri di paternità: barche e barche di minori africani e orientali approdano alle coste italiane. Senza taylorismo misogino, senza schiavismo, adottandoli risolverebbero un vasto problema sociale.


E la Natura?

di Alfonso Navarra


Tutti i ragionamenti fin qui svolti da Antonella Nappi e Giovanna Cifoletti, a mio parere, andrebbero associati ad una riflessione più profonda, ruotante sulla domanda: e la Natura?

Possiamo pensare ad una tecnologia che, invece di correggere, dal punto di vista dei desideri umani, qualche “stortura” della nostra formazione biologica, si proponga di stravolgerne ogni limite e logica?

Qual è la destinazione ultima di certe ricerche, non è il caso di chiederselo? Vogliamo arrivare a fabbricare figlie e figli del tutto artificiali, con la semplice manipolazione del DNA in laboratorio?

E se invece mettessimo dei “paletti” subito, partendo dalla presa d’atto che la nostra condizione umana è frutto di 3,5 miliardi di anni di evoluzione di un unico ecosistema vivente? La dovremmo ignorare per le fantasie niente affatto innocenti e neutrali di tecnocrati più o meno illuminati?

Sappiamo che le scienze mediche e biologiche già oggi stanno lavorando a progetti di “soldati perfetti”, per le capacità di integrarsi con i contesti informatici, quindi dalle reazioni subitanee impossibili per l’essere umano “naturale”.

(Per approfondire consiglio un capitolo in proposito del libro del generale Fabio Mini, intitolato “Che guerra sarà”, Il Mulino, 2017).

Ci mancherebbe che avallassimo la possibilità di costruire in laboratorio eserciti di questi soldati, senza né madri né padri, magari cyborg che integrano parti organiche con parti meccaniche.

Non si tratterà di fantascienza (la guerra in Ucraina è forse fantasia?), se non ci impegneremo socialmente a dare il disco rosso, proprio sulla base di una considerazione di controllo democratico sulla scienza e sulla tecnologia, che riprendo dall’intervento di Giovanna Cifoletti:

«È probabile che il Pianeta ci renda presto improponibili queste acrobazie su vasta scala; che ci costringa a prendere atto dei limiti naturali, non tanto come ostacoli, ma come occasione dell’uso dell’ingegno. Forse si potrebbe dire che all’uso delle tecnologie in un contesto di ingegno maschile (orientato al sistema della potenza, del profitto illimitato, della guerra, aggiungerei io), si potrà sostituire un ingegno femminile di adattamento».


(ND NoiDonne, 5 gennaio 2023, https://www.noidonne.org/focus-attualita/index.php)

di Federico Nastasi


Sono le donne che hanno permesso a Luis Inácio Lula da Silva di diventare il 39esimo presidente del Brasile. Indipendentemente dalla classe sociale, la maggioranza delle donne brasiliane ha votato per lui, consentendogli una vittoria di misura sul presidente uscente, Jair Bolsonaro, secondo i dati di Datafolha.

Nel terzo governo Lula c’è la delegazione di ministre più grande di sempre. Tra le undici ministre, ce ne sono alcune ad alto valore simbolico. Come Anielle Franco all’uguaglianza razziale, sorella di Marielle, consigliera comunale di Rio de Janeiro, uccisa nel marzo 2018 dalle milizie per ragioni politiche. Ieri la famiglia Franco ha annunciato che accetta l’avvio di un’inchiesta guidata dalla polizia federale, che fa tremare la famiglia Bolsonaro, collegata a uno dei miliziani killer.

Tre donne alla difesa dell’Amazzonia: Sonia Guajajara, ministra dei popoli indigeni; Joênia Wapixana, presidente della Fondazione nazionale dell’Indio, e Marina Silva, ministra all’ambiente.

Martedì scorso, le nuove titolari dei dicasteri brasiliani si sono ritrovate alla cerimonia di insediamento della ministra delle donne, Cida Gonçalves. Sul palco le ministre, in platea i movimenti femministi, «attento machista, l’America latina è tutta femminista», hanno cantato tutte insieme.

Il dicastero di Gonçalves è «delle donne. Di tutte le donne che compongono la nostra società: nere, bianche, indigene, Lgbt+, delle città, della campagna», ha detto la neonominata. Gonçalves, 61 anni, detta Cidinha, attivista femminista e dirigente di lungo corso del Partito dei Lavoratori (Pt), di Mato Grosso do Sul, assume un ministero creato ex-novo. E sostituisce l’ex ministra bolsonarista, Damares Alves, «quadro molto capace, guidata dal più estremo fondamentalismo evangelico con sfumature naziste. Efficiente nello smantellamento dei diritti umani, nella militanza fanatica anti-aborto, e in un’azione capillare contro la protezione dell’indio» ha scritto la professoressa Teresa Isenburg.

L’interruzione volontaria di gravidanza è terreno sensibile nella religiosissima società brasiliana. Lula in passato ha provato ad aprire un dibattito, ma ha sempre dovuto fare marcia indietro. Gonçalves intende affrontare quello che «è un tema di salute pubblica, ma dobbiamo stare attente ad aprire una discussione parlamentare, rischiamo di perdere più che guadagnare», ha detto riferendosi alle sabbie mobili del Congresso dove Lula è in minoranza e i gruppi evangelici sono molto influenti.

E poi ci sono donne in ministeri di primo piano: la cantante Menezes alla cultura; Nísia Trindade incaricata di ridare prestigio al Sistema di salute universale; la centrista Simone Tebet alla pianificazione economica.

Due donne presiederanno le banche statali Caixa Econômica Federal e Banco do Brasil. Figura chiave della politica brasiliana è la presidente del Pt, Glesi Hoffman. Nel 2016 ha guidato la difesa parlamentare contro l’impeachment all’ex presidente Dilma Rousseff, si è affermata come dirigente politica determinata e ha accompagnato Lula nella composizione del governo.

Ciononostante, il Brasile non è un posto per donne. Nel congresso ci sono meno di due deputate ogni dieci congressisti, il 18% alla Camera, il 17% al Senato. Il numero più alto di sempre. Dei ventisette Stati federali, solo Rio Grande do Norte è governato da una donna, Fátima Bezerra del Pt.

Nel settore pubblico le donne occupano il 40% della forza lavoro, nei livelli di direzione appena il 26%. Guadagnano salari più bassi a parità di lavoro e il tasso di disoccupazione femminile è il doppio di quello maschile.

La violenza sulle donne, soprattutto tra le mura domestiche, ha numeri vertiginosi: nei primi sei mesi del 2022, 700 casi di femminicidio; nel 2021, 66.000 donne sono state vittime di stupro e 230.000 vittime di aggressioni fisiche in casa, secondo i dati del Anuário Brasileiro de Segurança Pública. E le donne nere sono le vittime più frequenti: il 67% delle vittime di femminicidio e l’89% di violenza sessuale.

La strada per l’uguaglianza di genere è in salita, soprattutto dopo i quattro anni di governo di Bolsonaro, ma oggi ci sono sempre più donne e attiviste femministe impegnate in ruoli di responsabilità.

Piccoli segnali: durante la cerimonia di insediamento dei ministri del governo Lula, tutti, anche i più conservatori, hanno utilizzato un linguaggio inclusivo e fatto frequenti riferimenti all’agenda femminista. Lo stesso Lula, negli ultimi anni, ha cambiato il suo discorso e oggi insiste sull’«importanza che gli uomini partecipino ai lavori domestici e di cura».


(il manifesto, 5 gennaio 2023)

di Cristina Comencini


Nel 2023 forse possiamo decidere di muoverci tutte e tutti per sostenere in massa la rivoluzione delle donne in Iran, per farle sentire meno sole, per uscire di nuovo dalle case insieme forti del loro coraggio. E per far sapere alle ragazze afghane che sono parte della nostra libertà e che senza la loro la nostra non è completa.

Dobbiamo farlo. La nostra assenza dalle strade è durata anche troppo a lungo. Forse pensiamo che non c’è niente da fare, che il regime iraniano non smetterà di ammazzare ragazze, ragazzi, bambini anche se in Europa ci si muove per loro o forse che lo faranno ancora di più per questo, e che i talebani continueranno ad avere il potere e a chiuderle in casa. Non è vero.

Altre volte ci hanno detto che siamo impotenti e per fortuna non ci abbiamo creduto. Le donne italiane, europee tutte, con gli uomini, dovrebbero scendere in piazza non per compiangere le donne limitate nella loro libertà o uccise per averla rivendicata. Noi dobbiamo scendere in piazza per esaltare la loro forza che è la nostra e quella delle donne che nel passato anche qui si sono battute per noi e hanno conquistato i pensieri e la nostra vita di oggi. Queste eroine della nostra Storia ci hanno dato la possibilità di abitare Paesi che non ci comprendevano e in cui di conseguenza la democrazia non era completa.

La lotta delle donne è una catena che passa da un Paese all’altro, e segna l’inizio di un’altra Storia per tutti, uomini e donne. È questo a cui dobbiamo credere fino in fondo: non c’è ritorno indietro possibile.

In Iran sembrava inaudito che delle ragazze si togliessero il velo e scatenassero la rivoluzione in tutto il Paese. In Afghanistan un professore ha strappato il suo diploma di laurea perché la sorella non può studiare. Il mondo con la libertà delle donne è partito e non può più fermarsi, anche se uomini armati gli sparano contro con la finta motivazione che è quello occidentale.

Le ragazze iraniane vogliono vivere da iraniane e essere libere. La libertà delle donne non appartiene solo all’Occidente, non è sinonimo dei valori di questa parte del mondo ma come abbiamo visto è una conquista planetaria e prenderà le forme e le tradizioni di ogni Paese. Gli uomini del potere iraniano, i talebani, non difendono come dicono i loro Paesi dai mali dell’Occidente, difendono la loro supremazia sulle donne, il loro potere sulle forme libere della femminilità, vogliono il mondo fermo al medioevo. Sono destinati nel tempo a perdere.

Questo tempo dipende anche da noi, da quanto sapremo tenere viva qui e lì la certezza inarrestabile della nostra forza e del mondo nuovo che vogliamo. Se non ora quando?


(la Repubblica, 2 gennaio 2023)

di Robin Morgan 


La maestosa Morgan Library di New York ospita fino al 16 febbraio 2023 una mostra unica, intitolata Colei che scriveva: Enheduanna e le donne della Mesopotamia, dal 3400 al 2000 a.C. circa. Se vi trovate dalle parti di Manhattan, programmate assolutamente di vederla. Quella degli antichi sumeri è la prima letteratura umana che si conosca, la lingua sumera è la più antica lingua scritta ed Enheduanna è la prima scrittrice sumera di cui ci è giunto il nome, quindi la prima scrittrice conosciuta della storia dell’umanità. Leggeva e scriveva anche l’accadico. Definita dagli studiosi successivi “la Shakespeare del suo tempo”, i suoi salmi, le sue preghiere e le sue epopee hanno influenzato i salmi della Bibbia ebraica, il Cantico di Salomone, i poemi di Omero, il Magnificat e gli inni cristiani.

Enheduanna è rimasta sconosciuta all’epoca moderna fino al 1927, quando l’archeologo Leonard Woolley ritrovò oggetti che portano il suo nome e la sua immagine. Oggi sappiamo che il suo nome in sumerico significa “ornamento del cielo” e che era definita l’alta sacerdotessa, anzi (non scriveremo qui il diminutivo “sacerdotessa”) alta sacerdote della divinità lunare Nannasuen. La sua esistenza come personaggio storico è certa; non è una figura mitica, come non lo è suo padre, Sargon il Grande. I documenti storici indicano che sua madre era una sumera della Mesopotamia meridionale e che suo padre era presumibilmente figlio di una sacerdote. Compose 42 Inni del Tempio e tre poemi a sé stanti, paragonabili all’Epopea di Gilgamesh, che non è attribuita a un autore ma che gli studiosi considerano un’altra parte importante dell’eredità letteraria della Mesopotamia. È stata la prima scrittrice a usare la prima persona, un fatto di per sé sorprendente. Enheduanna esercitò anche un notevole potere politico: come figlia di Sargon, in cui la maggior parte degli storici riconosce il fondatore del primo impero del mondo, svolse un ruolo essenziale nel legare la regione mesopotamica settentrionale di Akkad, dove suo padre salì al potere, e le città-stato sumere del sud che egli conquistò. Lo fece fondendo le credenze e i rituali associati alla dea sumera Inanna con quelli della dea accadica Ishtar, enfatizzando questi legami nei suoi inni e poemi letterari e religiosi e creando così un sistema comune di credenze in tutto l’impero.

Ciascuno degli inni che Enheduanna scrisse per 42 templi nella metà meridionale della Mesopotamia metteva in evidenza il carattere unico della dea patrona per i fedeli di quelle città – in altre parole, rendeva le preghiere rilevanti per i fedeli locali. Gli inni furono poi copiati dagli scribi dei templi per secoli dopo la sua morte. I suoi scritti ci sono giunti su tavolette di argilla incise nella scrittura nota come cuneiforme.

In questo estratto del suo poema L’esaltazione di Inanna descrive il processo creativo: «Ho dato vita, o esaltata dea, a questo canto per te. Quello che ti ho recitato a mezzanotte, possa il cantore ripeterlo a mezzogiorno», rendendo omaggio alla magia della scrittura in sé, che rende possibile a un testo di durare nel tempo senza bisogno di essere memorizzato. La scrittrice rivendica inoltre con orgoglio la sua autorialità alla conclusione degli inni del tempio: «La compilatrice della tavoletta è Enheduanna e ciò che è stato creato qui nessuno lo ha mai creato prima!». Il che è vero.

La sua padronanza della matematica, tra l’altro, è forse meno sorprendente se ricordiamo che gli storici fanno risalire le origini della matematica alla Mesopotamia, in contemporanea allo sviluppo del cuneiforme e di altri sistemi di scrittura; lettere scritte e numeri si sono probabilmente sviluppati per necessità nell’attiva economia agricola e tessile della regione, dove agricoltori e mercanti contavano e registravano ciò che veniva prodotto, venduto e scambiato. Le donne si appropriarono di vari ruoli (o forse li avevano da sempre) in un’ampia varietà di mestieri, tra cui la ceramica, la tessitura, la panificazione, l’allevamento, la produzione di birra e il lavoro artigianale.

Enheduanna visse, compose e insegnò circa 2000 anni prima di Aristotele e 1700 anni prima di Saffo, e racconta la sua storia di esilio e di ritorno al potere per intervento di Inanna in un inno che entrò a far parte dei miti culturali della Sumeria e fu una componente di quella civiltà per migliaia di anni. Il componimento descrive il tentativo di colpo di stato contro la sua autorità da parte di un ribelle di nome Lugal-Ane, la sua cacciata e la sua preghiera alla dea. Spiega di essere stata bandita dal tempio della città di Oruk e denuncia Lugal-Ane, che ha distrutto il tempio, uno dei più grandi del mondo antico, e non solo: nel primo caso registrato di molestie sessuali, ha fatto avance sessuali alla somma sacerdote, la sua stessa cognata. 
Questo è il discorso che Enheduanna gli rivolge nel Lamento allo spirito della guerra:

«Tu abbatti tutto ciò che vedi, ti alzi su ali spaventose e ti precipiti a distruggere la nostra terra, infuriando come i temporali, ululando come gli uragani, urlando come le tempeste, la vegetazione crolla davanti a te! Il sangue sgorga dai fianchi delle montagne, spirito di odio, avidità e vendetta! Il tuo fuoco feroce consuma la nostra terra!»

Si rivolge anche a Inanna, in modo intimo e personale, erotico e caldo:

«Ho disposto le tue margherite, ho acceso i carboni, ho condotto i riti, ho preparato la tua camera nuziale! Ora il tuo cuore mi abbracci! Queste sono le mie creazioni, regina onnipotente, che ho fatto per te, ciò che ho composto per te nel buio della notte il cantore lo canterà di giorno.»

Sembra che Inanna l’abbia ascoltata, perché le fu restituita la sua carica e scrisse che «il giorno le fu favorevole, vestita di bellezza, raggiante di gioia, avanzava come l’elegante luce della luna, oh sia lode a Inanna!».

Enheduanna sembra essere stata la prima donna a ricoprire questa carica a Ur, e il suo comportamento come somma sacerdote sarebbe servito da modello per coloro che l’hanno seguita. La raffinatezza e la bellezza delle sue opere non ebbero un impatto solo sulla teologia mesopotamica ma anche sulla politica, avvicinando gli dèi alla gente del paese, rendendoli personaggi più profondi e simpatici, divinità per tutto il popolo e non solo per i sumeri o gli accadi. In definitiva, il fascino dell’opera di Enheduanna sta nell’aperta sensualità e nell’ardente devozione. In un Magnificat precristiano a Inanna, La Signora dal cuore grande, scrive: «Tu sei magnifica. Il tuo nome è lodato, tu sola sei magnificata! Mia signora, io sono tua. E così sempre sarà, che tu possa ascoltarmi ed essere ben disposta verso di me. La tua divinità risplende nella terra! Il mio corpo ne ha fatto esperienza!».


(Erbacce.org, 1° gennaio 2023, traduzione di Margherita Giacobino. L’articolo è apparso il 19 dicembre 2022 sul blog di Robin Morgan)