di Giovanni Savino


Perché i russi non protestano? Spesso questa domanda riecheggia sui social e sui media, e diventa oggetto di riflessioni che talvolta sfociano nella condanna collettiva. Quando si fa notare come in realtà esistano proteste e atti di ogni genere, dalla disobbedienza civile al sabotaggio, all’interno della Russia, il focus si sposta nella critica verso chi è fuggito dal paese e adesso si trova in Asia Centrale, nel Caucaso e in Europa. A fine ottobre, durante le proteste iraniane, circolava un meme dove vi erano due fotografie del Tiergarten a Berlino: una che vedeva la grande manifestazione di solidarietà organizzata dalla comunità iraniana in Germania, e un’altra dove il viale berlinese era deserto, e la didascalia di quest’ultima recitava “le proteste dei russi a Berlino”. Ad accompagnare queste considerazioni, in alcuni casi, vi sono riflessioni e dichiarazioni su come il popolo russo sia alieno alla democrazia, incapace a causa di una storia ritenuta una sequela di massacri e orrori di poter costruire un ordine basato sulla giustizia e la libertà, parole che sfociano anche in cliché orientalisti. Colpisce come queste considerazioni coincidano, anche se declinate nel senso opposto, con l’idea promossa a tambur battente dal Cremlino dell’alterità dell’identità russa, della missione di Mosca in difesa dei valori tradizionali, in nome di uno scontro di civiltà ormai inevitabile.

Nel corso del 2022 si sono rifugiati all’estero circa un milione e mezzo di russi, una stima approssimativa per la mancanza di dati definitivi e basata sulle rilevazioni condotte dai posti di frontiera dei paesi confinanti con la Federazione Russa. Migliaia di russi, in prevalenza giovani ma non solo, vivono ora in Georgia, in Kazakistan, in Armenia, in Turchia e in altri paesi europei, provando a ricostruire la propria vita spezzata dall’aggressione militare di Putin. Le ragioni della fuga sono diverse: c’è chi si è sottratto alla pervasiva repressione scatenatasi con le leggi sul vilipendio alle forze armate; chi ha deciso di non poter continuare a lavorare in scuole e università sempre più chiamate all’obbedienza cieca e chi è scappato dalla mobilitazione iniziata il 21 settembre e ancora in corso. Motivazioni diverse, estrazioni sociali variegate, e anche orientamenti politici differenti, spesso addirittura inesistenti, ma a unire gli uomini e le donne in fuga è il rifiuto della guerra d’aggressione. Garry Kasparov, lo scacchista di fama mondiale da un decennio in esilio per le sue posizioni antiputiniane, in un’intervista alla redazione russa della Deutsche Welle ha dichiarato che «in Russia non esiste la protesta contro la guerra», perché gli attivisti sarebbero o emigrati o semplicemente ritiratisi a vita privata. Parole che non sono passate inosservate, anche perché accompagnate a una critica a Navalny e ai suoi sostenitori, ritenuti colpevoli di aver “accettato” l’annessione della Crimea e di averci “ripensato” ora. A Kasparov ha risposto Oleg Pshenichnyi, giornalista di The Insider, media online inserito nel registro degli agenti stranieri nel luglio del 2021 e noto per le inchieste e i reportage dedicati al potere russo e al suo sistema. Pshenichnyi chiede, non senza una nota provocatoria, «Se “la protesta è soffocata”, chi sono queste ventunomila persone che nel 2022 sono state arrestate durante le azioni di protesta? Chi ha creato duecentomila pagine internet bloccate? Perché vi sono 370 fasciсoli penali solo per dichiarazioni contro la guerra? E quante persone ancora non sono state identificate e prese?». Anche l’idea dell’impossibilità, secondo Kasparov, di fare politica e difendere i diritti umani in Russia oggi, viene messa in discussione, citando i casi di Alexey Navalny e Ilya Yashin, che anche dal carcere non cessano di contestare il regime, e l’attività di Memorial e del giornale Novaya Gazeta, entrambi insigniti del premio Nobel e presenti, nonostante le persecuzioni e i divieti imposti dal Cremlino.

La macchina della repressione, giorno dopo giorno, continua a mietere vittime: Olesya Krivtsova, una studentessa di Arcangelo, nel profondo nord della Russia, è stata arrestata per delle stories su Instagram e per aver difeso la propria posizione contro la guerra nella chat dei suoi compagni di studi, da cui è stata denunciata alle autorità. Arrestata due volte tra fine dicembre e inizio gennaio, durante la perquisizione in casa la diciannovenne Krivtsova è stata minacciata da un agente con una mazzola, riferimento alle esecuzioni sommarie del gruppo Wagner, per poi essere inserita nell’elenco dei terroristi e degli estremisti. In attesa di giudizio, la studentessa rischia fino a 10 anni di prigione. Di casi simili ve ne sono centinaia: secondo il rapporto di OVD Info, nel 2022 vi sono stati 25 giorni senza arresti per motivi politici, i restanti 340 hanno visto una repressione incessante contro chi si oppone alle scelte del Cremlino. L’azione della polizia, dell’Fsb, del Centro E (struttura del Ministero degli Interni per il contrasto all’estremismo), della Rosgvardija e di altre unità delle forze dell’ordine è incessante e prova a essere capillare fino ad assumere, in alcuni casi, connotati paradossali. Negli scorsi giorni, dopo l’attacco missilistico a Dnipro che al momento ha causato 45 morti, attorno al monumento alla scrittrice ucraina Lesja Ukrainka a Mosca si sono radunati cittadini a rendere omaggio alla memoria delle vittime, lasciando dei fiori e delle foto della città attaccata. Martedì 17 gennaio il monumento è stato circondato dalla polizia e vi sono stati quattro arresti. A Krasnodar e a San Pietroburgo fiori, biglietti e fotografie di Dnipro sono apparsi ai piedi delle statue di Taras Shevchenko, padre nobile della letteratura ucraina.

Nelle forze armate, ingrossate dall’afflusso dei mobilitati dello scorso autunno, si registrano casi di diserzione, di proteste e di scontri. Le ragioni sono diverse, e vanno dal rifiuto di prendere parte ai combattimenti a contrasti per ragioni di disciplina e di equipaggiamento. Iniziano a esserci i primi processi per insubordinazione, come avvenuto per Aleksandr Leshkov, condannato a 5 anni e 6 mesi per aver colpito un sottufficiale durante una discussione a proposito dell’addestramento e delle forniture, considerate insufficienti; Marsel Kandarov, ventiquattrenne sergente maggiore, ha ricevuto una pena di cinque anni per aver rifiutato l’invio al fronte. Periodicamente, soprattutto nei media locali, vi sono denunce e notizie sulla detenzione in prigioni improvvisate nel Donbass di soldati che rifiutano di combattere: nove mobilitati, provenienti da Volgograd, sarebbero rinchiusi in una cantina a Amvrosievka e, secondo i dati raccolti dalla redazione del canale Telegram “Astra”, i luoghi di detenzione per disertori e obiettori nei territori occupati ammonterebbero a quattordici. Pavel Chikov, avvocato specializzato nei diritti dei militari, il 28 novembre scorso ha denunciato la detenzione di almeno 300 soldati nelle prigioni per i disertori in Donbas, e nonostante le smentite di Putin, che ha liquidato le notizie come “fake”, continuano a esserci appelli dei familiari per la liberazione dei detenuti senza processo. Non vi sono dati certi sulle diserzioni, anche se storie di soldati riusciti a scappare all’estero non rappresentano una rarità, e il fenomeno coinvolge tutte le forze presenti al fronte. Anche dalla Wagner si diserta. Andrey Medvedev, già comandante di una unità della compagnia di Prigozhin, è riuscito a passare il confine con la Norvegia dopo essersi nascosto per mesi perché i suoi uomini si erano rifiutati di combattere: uno di essi, Evgeny Nuzhin, è stato ucciso a colpi di mazzola dopo esser stato riconsegnato alla Wagner in uno scambio di prigionieri. Medvedev nella sua fuga è stato aiutato da Gulagu.net, progetto di denuncia delle torture ai detenuti in Russia, attivo anche nel far circolare informazioni sul reclutamento nei penitenziari russi. Gli omicidi al fronte non sono casi isolati, perché vi sarebbero state, secondo i dati forniti da Olga Romanova, coordinatrice dell’associazione per i diritti dei detenuti “Rus sidyashchaya”, almeno 40 esecuzioni sommarie da parte del servizio di sicurezza di Prigozhin, e la stessa Wagner rivendica questi episodi: video di fucilazioni e impiccagioni di disertori vengono mostrati ai condannati che accettano di essere inviati in guerra, e il capo della compagnia mercenaria più volte ha pubblicamente elogiato gli assassinii. Alcuni disertori vengono arrestati perché spontaneamente consegnano le armi alla polizia, come è accaduto a otto mobilitati della regione di Kaliningrad, fuggiti da Lugansk e presentatisi in un commissariato di Podolsk, nella regione di Mosca, per disfarsi dei fucili e delle munizioni.

E vi è ancora chi, dopo aver passato la frontiera nelle prime settimane della mobilitazione, si trova a dover far i conti con gli ostacoli delle burocrazie nell’ottenimento dell’asilo. All’aeroporto di Incheon a Seul vi sono cinque cittadini russi, arrivati tra ottobre e novembre, a cui è stato rifiutato l’asilo perché le autorità sudcoreane non ritengono il rifiuto della chiamata alle armi un motivo valido per restare in Corea.

Il timore di una stretta sulla permanenza anima le comunità dei russi sfuggiti alla guerra in Asia centrale, spaventati dalle pressioni di Mosca. Alcune restrizioni sono state già introdotte in Kazakistan, paese che vede sul proprio suolo circa 298.000 cittadini russi, di cui 30.000 con contratto di lavoro. Dal 17 gennaio la permanenza senza visto (per i cittadini dei paesi dell’Unione economica eurasiatica è possibile visitare il paese con i documenti nazionali d’identità) sarà possibile solo per 90 giorni su un periodo di 180, con una distanza di sei mesi tra una visita e l’altra: in questo modo il provvedimento esclude la possibilità di allungare la presenza senza limiti, con ripercussioni dirette per quei russi che si trovano in Kazakistan perché non hanno un passaporto per l’estero.

Le difficoltà nell’inserimento della vita quotidiana si riflettono parzialmente anche nell’organizzazione di manifestazioni e appuntamenti contro la guerra da parte dei russi andati via dal paese. Alcuni aspetti importanti delle cause di questa assenza sono stati messi in evidenza dal ricercatore Dmitrij Dubrovskij in un op-ed del 31 ottobre per Kholod: la spoliticizzazione e la disillusione sulle mobilitazioni di piazza come strumento efficace di parte della nuova emigrazione russa; il senso di disagio e di vergogna provocato dalle azioni del Cremlino; l’aggressività di quei cittadini russi, da tempo residenti all’estero, che invece sostengono la guerra; e, infine, la paura di reazioni all’insegna della “colpa collettiva”. Dubrovskij nota come «arriviamo a una conclusione paradossale: è in primo luogo la pressione della locale società civile a influenzare le attività di protesta dei russi, ma è proprio questa società che pretende la partecipazione di massa dei russi alle iniziative contro la guerra. Al tempo stesso, i cittadini russofoni di quei paesi stranieri possono reagire in modo aggressivo alle proteste pubbliche, vedendo in esse il “tradimento della patria”».

All’interno della Russia, intanto, si discute di nuove misure repressive. Da qualche giorno, dopo le dichiarazioni del presidente della Duma Vyacheslav Volodin, i parlamentari preparano un disegno di legge per l’espropriazione delle proprietà degli emigrati. «C’è chi ha tradito il proprio paese, c’è gente che è andata via dal paese, ci sono organizzazioni sul territorio russo che sono di proprietà di cittadini dei paesi “non amichevoli”. Forse sarebbe il caso di cercare le risorse per gli alloggi per gli orfani in questa direzione?» – parole di Anna Kuznetsova, vicepresidente del parlamento di Mosca, durante una visita a Kemerovo per un incontro dedicato all’emergenza casa per le fasce disagiate. Il rischio di una tenaglia per chi si oppone alla guerra di Putin, fuori e dentro la Russia, non è mai stato così grande e una attenta e attiva solidarietà appare necessaria ora più che mai.


(Valigia Blu, 28 gennaio 2023, https://www.valigiablu.it/repressione-dissenso-interno-russia/)

María-Milagros Rivera Garretas, Barbara Verzini, Toccate dal male,Edizione indipendente, 2022. Cosa succede quando nella storia il male non viene dal lupo ma da un’altra donna? E quando la maestra fa ombra a tua madre? A partire dai loro vissuti e cercando di non perdere l’orientamento del Bene, María-Milagros Rivera Garretas e Barbara Verzini smuovono l’immaginazione con una narrazione colta ed emozionante, aiutandoci a riconoscere il Male e a non confonderlo con altro. Marina Santinie Luciana Tavernini dialogano con María-Milagros Rivera Garretas.

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L’Associazione 99% ha lanciato una petizione indirizzata alla Presidente del Consiglio, al Ministro degli Affari Esteri, al presidente della Commissione di vigilanza RAI, al Presidente della RAI, per manifestare l’inopportunità di ospitare il presidente Zelens’kyj al festival di Sanremo. Nel testo si esprime pieno appoggio al popolo ucraino, vittima di invasione, ma si sottolinea che l’appoggio a Volodimir Zelens’kij farebbe perdere credibilità all’Italia come interlocutrice di un percorso di pace che comporta necessariamente la disponibilità ad ascoltare tutte le parti in conflitto, a cominciare dalle popolazioni delle regioni contese. Nel testo della petizione si sostiene dunque che ospitare il presidente Zelens’kyj a Sanremo, equivarrebbe “…a consentirgli un comizio senza alcun filtro di fronte a tutti gli italiani. Far parlare all’interno del programma più seguito della televisione italiana il capo di uno Stato straniero in guerra, equivarrebbe a sposarne completamente tutte le politiche; a diventare alleati senza alcun distinguo della propaganda di guerra espressa dall’Ucraina. E la propaganda di guerra non è mai descrizione obiettiva dei fatti”.

Condividiamo lo spirito e i contenuti della petizione e auspichiamo un serio e tempestivo ripensamento da parte dei vertici della Rai e dei massimi responsabili del mondo politico italiano.


La redazione del sito

(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

di Antonella Nappi


L’articolo Cambiare le adozioni per tutelare gli orfani di femminicidio (Gianluca Di Feo, La Repubblica 13 gennaio 2023), così chiaro nella dichiarazione dei giudici – “Le criticità principali di zio e prozio,” a cui sono stati affidati i bambini piccoli che hanno perso i genitori perché il padre ha ucciso la madre, “consistono nella incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause” –mi ha spalancata una questione personale.

La rimozione del dramma non avrebbe permesso ai bambini di affrontarlo e superarlo negli anni, è stata la questione principale della mia esistenza; ho rivisitato biograficamente il tema dell’articolo e ho compreso mia madre, me e mio padre nel nostro pervicace silenzio tutta la vita. Il silenzio di chi non può elaborare i traumi, né aiutare altri a farlo. La donna del mare di Ibsen racconta di questo silenzio tra lui, la nuova moglie e le figlie. E alfine riescono a rompere l’isolamento tra loro.

Nonostante i molti anni di analisi e la soluzione di molti problemi non avevo compreso il complessivo contesto nel quale ero vissuta non solo da bambina ma tutta la vita. Una cosa veniva superata e un’altra, ma il cammino continuava a essere nelle tenebre anche dopo le terapie, non avevo mai focalizzato il perché di tante sofferenze anche dopo le prime, e le successive, il continuare a muovermi in un mare tempestoso, la grande difficoltà di individuarmi.

E qualcuna teorizza che dall’io ci si debba allontanare! Sì, se l’hai ben saldo. L’impossibilità di elaborare i traumi, proviene da chi ti sta vicino se te lo impedisce in mille modi perché egli stesso è incosciente di che cosa lo frena e lo manipola, di che cosa lo obbliga a manipolare gli altri. In pratica a fuggire dal mettersi in discussione.

Per l’infanzia e anche per la politica è un fatto centrale aprirsi al dolore, mettersi in discussione, dipende da questa paura.

Sappiamo quanto è vero e quanto ne abbiamo parlato, anche a sproposito: perché il fastidio verso chi si lamenta, un po’ teorizzato tra alcune femministe (in Libreria), ha tutte le giustificazioni di chi non può essere terapeuta con quella o l’altra a ogni riunione ma sfugge una problematica centrale della politica. Le persone possono imparare da te tanto, ma se non sono loro stesse a maturare una questione, saranno sempre poco capaci di difendere le tue stesse posizioni. Devono creare le loro posizioni. Se come molte persone hanno subito traumi devono parlarne.

Ho vissuto il conflitto dei miei genitori non potendo fare da intermediaria perché è iniziato prima che io nascessi. Lei lo sposò per uscire di casa, aveva diciotto anni. Lui la mise a fare i conti della spesa con grande pignoleria, indi a correggere le bozze che scriveva per il suo libro. Ma soprattutto, anche durante il giorno, voleva approfittare dell’avere una moglie e per pochi minuti ripeteva i rapporti sessuali che continuarono durante tutta la gravidanza. Era scritto in un pezzetto della biografia che mia madre strappò prima di morire e ne lessi postuma quel che rimase. Alla Liberazione, io avevo appena compiuto due anni, mia madre se ne andò di casa assieme a me.

Mia madre non raccontava. Non voleva farmi i suoi racconti di odio per mio padre. Ma l’odio e la disperazione per tutto quanto successe dopo quella fuga, straboccavano incontenibili dai suoi pianti; negli anni successivi bastava un piccolo accenno alla sua storia. Così non ho saputo mai nulla che potesse essere discusso e ragionato. Ho saputo tutto come uno stato incombente e terrorizzante, una aspettativa di morte celata dalla presenza di una parete di nebbia impenetrabile. In quella parete era nascosto il mio mondo. Sognai da adulta una bambina truce, assassina o assassinata che mi fece molta paura. Questo muro lo vedevo bene nella mia vita con mia madre, era in casa ma bisognava far finta di niente. Non domandare, non parlare, sbottava a piangere e la colpa era mia, non dovevo tormentarla, mi diceva.

Da mio padre il muro era esterno alla casa. Fuori non sapevo che cosa ci fosse, se mia madre esistesse, se avesse fame, che noi mangiavamo tanto. Se soffrisse. No, che soffrisse lo sapevo, forse perché avevo sofferto io nell’essere stata rapita a lei poco dopo il nostro allontanamento dalla casa di mio padre. Lo sapevo anche perché l’avevo vista piangere e scappare quando eravamo nello studio del nonno, quando c’era il giudice amico di lui, quando mi fecero entrare nella stanza come fossi io a rompere la norma – prima dei sei anni i bambini non possono essere ascoltati dal giudice – come fossi capitata dentro spinta dalla voglia di dire che volevo stare con mio padre. Mi avevano tirata fuori a forza da sotto il letto della nonna che viveva a fianco dello studio, mi avevano ripetuto che dovevo farlo anche se non volevo, altrimenti sarei stata mandata in collegio, in un posto dove non avrei più potuto vivere con papà. Neppure la mamma avrei visto, che già non vedevo da diverso tempo.

La vidi quell’attimo che mi buttarono dentro, la vidi che era il mio sogno, la femmina a cui mi sarei abbarbicata. Finalmente la vedevo: una mamma nella bellezza dei suoi ventitré anni, con il viso rapito e felice nell’individuarmi. L’attimo me lo avevano preavvertito e proibito. Non dovevo guardare a sinistra ma guardare a destra e da quella parte correre. Dovevo andare da mio padre, seduto vicino al giudice e dire quello che dovevo dire.

La mia vita continuò solitaria accompagnata dall’attesa. Fuori non c’era la mamma in nessun luogo. Non all’asilo dove mi rifiutai di stare dopo un’ora passata contro il muro, in un angolo del gabinetto. Non alla scuola elementare dove a volte mi addormentavo cullata dalla voce della maestra. Altre volte vedevo le torture inflitte a quella bambina che aveva rubato, o l’interrogatorio all’altra piena di lividi per farle confessare chi l’avesse picchiata – era stato il padre portinaio. La lezione di canto è un ricordo quasi bello; la fatica di partecipare e di essere a scuola mi aveva portato un regalo: brava, sei intonata!

Fuori della scuola il papà con la macchina guidava svelto, il braccio teso a tenermi perché abbiamo sbattuto contro il tram, un grande spavento. Ma soprattutto il papà a casa che torna dall’ufficio, un quarto d’ora assieme, lui mangia sul carrello a fronte del mio letto. Io sempre malata, a volte finta malata, io a casa perché insonne, vomito appena alzata e riesco a non uscire. Fuori c’è solo pericolo, solitudine e le sgridate, i due con due segni di meno dei compiti.

La seconda volta che faccio la quinta elementare sono in un’altra scuola, anche la mamma qualche volta è venuta a prendermi. In ritardo perché molto indaffarata. Non ci vado molto a scuola e l’anno successivo vado alle medie dalle suore, vicino alla casa di mio padre. Ci vado di più, faccio anche la capoclasse a volte se la maestra deve assentarsi. I libriccini d’avorio con i disegni a cornice della messa sono una gioia, si gioca anche a palla e si fa il quadro svedese. Purtroppo vado ancora troppo poco e la maestra di economia domestica non accetta la mia dichiarazione che il cappellino del bambolotto, a maglia, sia fatto da me, è fatto a macchina e io mi oppongo, non ammetto la bugia e così il rapporto si rompe. Ma da lei ho imparato molto, a togliere le macchie di inchiostro, a mettere la mano davanti alla bocca se starnutisci, ho visto i filmati del fascismo – verranno usati per molti anni dopo la caduta – sono bellissimi e chiari, insegnano l’igiene in casa e fuori. Con il raffreddore non si abbracciano gli altri; non si mettono le mani in bocca mai, lavarle è importante e quando si è malati si rimane in casa, non possono entrare in camera i bambini e a volte con la bocca e naso coperti ti possono fare un salutino dalla porta.

Le malattie furono tante e la solitudine tanta. Lo sconforto che mi aggrediva per qualsiasi rimprovero, per ogni non approvazione dalle bambine del palazzo o dagli adulti, mi facevano rinunciare agli incontri, anche al gioco. Stavo sul letto al buio, piangevo infinitamente, invocando la mamma tra me e me. Non potevo che invocarla piano perché non c’era e neppure chiamarla al telefono: eppure c’era già il duplex. Era lei a chiamare qualche volta, non c’era da aspettare una telefonata. La mamma non c’era e il papà rincasava alle otto meno un quarto che io spesso mi ero addormentata per passare le ultime ore del pomeriggio. (Continunerà…)


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

di Rosa Serra


Poco tempo fa, in un reportage sulle violenze in Iran si è vista una anziana donna iraniana togliersi il velo e mostrare, come fosse una sua intimità, la sua testa bianca alla telecamera in segno di rifiuto di obbedienza a leggi maschili ingiuste e di adesione alla lotta e al sacrificio di donne, di uomini e bambini del suo paese.

È stato un gesto per lei enorme, che mi ha preso il cuore, come tutte le notizie che, terribili, ci giungono quotidianamente dall’Iran.

Questa donna il velo lo ha indossato per almeno 50 anni o forse più e forse, per sua scelta o abitudine, lo teneva anche ai tempi di Reza Pahlavi.

Può anche essere che fosse diventata la sua seconda pelle, che non le pesasse ormai più, come non pesava fino a non troppo tempo fa, l’immancabile fazzoletto a triangolo, sulla testa delle nostre donne più anziane, soprattutto nei piccoli paesi.

Come può un governo odiare così ferocemente il proprio popolo.

Come possono questi uomini odiare così le donne e pensarle solo funzionali esclusivamente ai propri bisogni sessuali, riproduttivi e facendolo in maniera così totalizzante e stupido da impedire loro perfino il canto in loro presenza.

Non è questa mia, una domanda, ma un grido doloroso e di rabbia.

Sono sempre più numerosi gli uomini che appoggiano la protesta nata dalle donne e ne stanno anche morendo.

Sicuramente ci sono in ballo altre rivendicazioni che hanno preso l’avvio da quella delle donne, ma il gesto di imitare, con le dita a forbici, il taglio dei capelli fatto dal calciatore della squadra di calcio iraniana in Quatar in un contesto internazionale, ha anch’esso la sua forza e richiesta di libertà. Ma è anche evidente che quel gesto sia stato attraversato dal desiderio e dalla forte azione che le donne iraniane (e non solo lì) stanno esprimendo con determinazione, ben consapevoli della forza brutale della repressione che continua ad abbattersi su di loro.


Ancora una volta, la vera libertà passa attraverso la libertà femminile.

DONNA VITA LIBERTÀ 

Rosa Serra è parte attiva dell’associazione La Merlettaia di Foggia


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

di Roberta De Monticelli


Che rapporto c’è fra memoria e rimozione? Questa è senza dubbio una delle questioni più profonde di tutta la ricerca sulle cose umane, interdisciplinarmente parlando: una questione filosofica, psicologica, neurobiologica, sociologica, storica, e riguarda nei suoi risvolti anche le discipline normative: etica, diritto, teoria politica.

Quale migliore occasione di risollevarla che l’affermazione amara di Liliana Segre, ricorrente in tutte le interviste da lei concesse in occasione del Giorno della Memoria, a proposito della “noia” che susciterebbe ormai fra i più la rievocazione della Shoah: «Presto non ne resterà che una riga sui libri di storia per le scuole». Ci aiuterà in questo La stella polare della Costituzione (Einaudi), un libro a cura di Daniela Padoan, con introduzione di Alessia Rastelli, che contiene il famoso discorso tenuto dalla senatrice a vita a Palazzo Madama il 13 ottobre 2022, per l’inaugurazione di questa legislatura.

Come funziona la memoria

L’oblio, il velo di indifferenza che il tempo distende sugli eventi più dolorosi man mano che sprofondano nel passato, è certamente un modo della rimozione. Potremmo chiamarlo “rimozione secondaria”: ed è un meccanismo insito nello stesso modo di funzionare della memoria, quello di rimodularsi, come la nostra memoria fa, giorno dopo giorno, riscrivendosi quasi: come il computer riscrive i nostri file a ogni modifica.

Un fenomenologo l’ha chiamato “il problema della rilevanza” (Alfred Schütz 1971): in base a ciò che più “conta” oggi noi ristrutturiamo quotidianamente quella parte delle nostre credenze che è “viva”, cioè non solo abituale ma attuale, carica oggi e qui di peso motivazionale. Insomma, quella parte che orienta la nostra attenzione e ci permette di mettere prontamente a fuoco le sfide presenti: di stare, come si suol dire, “sul pezzo”, ma anche di rielaborare costantemente il progetto di futuro, in relazione al modo in cui il passato ha cambiato il mondo, le sue minacce, le sue opportunità. Nel piccolissimo orizzonte quotidiano di ciascuno, o nel largo orizzonte di tutti, dove il passato è storia.

Il pessimismo di Liliana Segre

Ma anche Liliana Segre lo dice, in fondo: il suo pessimismo ha una radice “naturale”, anche se questa non è una scusa per abbandonare la buona causa di farsi “noioso” assillo nei confronti delle istituzioni e del dibattito pubblico, come il tafano di Socrate. Solo i santi, e a volte i poeti, sfuggono a questo meccanismo della rimozione secondaria, parallelo nel tempo a quello che in termini “spaziali” è l’enorme divario nella rilevanza percepita di un dolore a seconda che sia “vicino” come il mio dito mignolo o “lontano” come un terremoto con migliaia di vittime in Cina.

Un’altra fenomenologa ha chiamato “il realismo dei santi” questa capacità di sentire secondo giustezza e proporzione di gravità, indipendentemente dalla contingenza dell’io che sente, del vicino e del lontano (Edith Stein, 1942). Ma io ricordo più vividamente ancora un verso di Antonio Machado: «Che immensa lacerazione/essere tutto intero/in ogni cosa». Perché è un grido di impotenza e di dolore, che l’uomo lancia alla “sovrumana” coscienza del poeta (quello vero). La ragione, che è universale, ci vorrebbe tutt’interi presenti ad ogni male al mondo, in proporzione alla sua gravità: e questo squarcerebbe la fragile trama delle nostre vite particolari.

Eppure, per quanto riguarda l’oblio della shoah, il discorso non finisce certo qui: semmai, da qui comincia. Torniamo al libro su Liliana Segre e il suo intervento al Senato. Aveva molto colpito il passaggio sulla “vertigine” di quella sovrapposizione, a distanza di una vita, fra il suo banco di scuola, che la piccola Liliana si trovò costretta ad abbandonare a otto anni in quanto ebrea, «per la sola colpa di essere nata», e «il banco più prestigioso del senato», su cui la grande Liliana si trovò quel giorno dello stesso mese di ottobre, 84 anni dopo. La vertigine, appunto, è il titolo del bel saggio di Daniela Padoan a commento di quel discorso: davvero un ausilio straordinario per la memoria degli insegnanti e dei loro studenti, per la ricchezza di citazioni dai discorsi e dai testi dei protagonisti della nostra storia. Da Mussolini a Matteotti, Calamandrei, Salvemini, Bobbio, Primo Levi…

“Voltarsi dall’altra parte”

Ma la cosa che più mi ha colpita è la ricorrenza che Padoan registra, nelle dichiarazioni di Liliana Segre, del dolore inflitto alla vittima dal silenzio dei contemporanei, dei presenti: dal loro «voltare la faccia dall’altra parte». Dall’indifferenza, dall’omertà. O addirittura dalla latitanza dei giusti. Lo scrisse anche Einstein: «Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare».

Perché questa latitanza è il vero nome della rimozione – la rimozione primaria, quella che neutralizza gli eventi carichi di male, mentre accadono sotto i propri occhi. Ed è proprio da qui che dovrebbe ricominciare il discorso sulla memoria della shoah, e del suo oblio. Perché a questo oblio c’è un rimedio infallibile: il presente. Qual è infatti lo scandalo immenso che dobbiamo impedire che venga mai dimenticato o banalizzato? Che ci siano esseri umani che «per il solo fatto di essere nati», dice Liliana Segre, si vedono negare dignità e libertà, o addirittura la vita. Ecco: se chi questo scandalo non l’ha vissuto lo vivesse oggi, o attraverso il grido delle vittime o dei testimoni oculari lo percepisse in atto adesso e non in un passato storico, se venisse a sapere che tocca a persone che gli sono vicine o potrebbero esserlo, si potrebbe mai dare che il racconto di questo scandalo «gli venisse a noia»? Evidentemente no: se pure rifiutasse o evitasse di ascoltare o guardare, non è certo di noia che parleremmo. Sarebbe rimozione “primaria”, non “secondaria”. La differenza di impatto emotivo salta agli occhi: tant’è vero che più una rievocazione è vivida, offerta ai sensi e al cuore, più avrà effetto. È del resto per non lasciarmi sconvolgere che mi volto dall’altra parte.

E allora? Voglio forse dire che far memoria della shoah sarebbe più efficace se chi la fa ricordasse anche tutte le persone che oggi, anche molto vicino a noi, si vedono negare dignità, libertà o addirittura la vita per il solo accidente della sua nascita – per dove o quando o da che sangue o di che sesso sono nate? No. Vera o falsa che sia, questa tesi suonerebbe come una banalizzazione: non terrebbe conto di una cosa che sta molto a cuore a chi vuol tener viva la memoria della shoah: la sua unicità.

Come dobbiamo intendere l’unicità della shoah?

Ma come dobbiamo intenderla, questa unicità? Io credo, come un divieto di relativizzare questo male che viene detto “assoluto”. Cioè di usarlo – Dio non voglia, verrebbe proprio da dire – come un’arma di parte, come una “narrazione” che sia lecito opporre ad altre “narrazioni”, quindi come un punto di vista che non presenta affatto una verità assoluta, ma solo una verità relativa a una “parte” – come si fa in guerra. Dio non voglia davvero. Lo sterminio degli ebrei (e limitiamoci pure a loro per il momento e per amor di discussione, sappiamo che non fu solo lo sterminio degli ebrei ma questo ora non è rilevante) è uno scandalo per l’umanità tutta, proprio in quanto tale, proprio in quanto nega agli ebrei la loro umanità.

Ma se è così, allora chi rinnova pubblicamente la memoria di questo scandalo è per definizione un giusto. È in quanto giusto che ne rinnova la memoria: lo fa come si obbedisce a un imperativo categorico, lo fa perché uno scandalo davanti all’umanità esige di non essere rimosso né obliato. Sarebbe devastante infatti se si scoprisse che chi ricorda la shoah lo fa, come diceva Kant, non “per” dovere, ma solo “in conformità” a un dovere: come dire, è un dovere, certo, ma mi serve anche ad altri scopi, ad esempio scopi di propaganda politica, o bellica. La stessa causa etica e umana che la memoria difende ne verrebbe relativizzata. L’assolutezza di quel male ne sarebbe distrutta.

Einstein non sprecava le parole. Non si è riflettuto abbastanza sulla profondità di quell’espressione: “l’inerzia dei giusti”. Non l’inerzia di chicchessia. Se un giusto, uno che sappiamo tale, tace o latita di fronte a una causa che ci pare giusta, cominciamo a dubitare della sua giustezza. Per questo Gaetano Salvemini provava un senso di colpa infinito quando Matteotti viene ucciso. «Me ne stavo fra i miei libri…». Salvemini lo scrive alla vedova di Matteotti, e il fatto ce lo racconta Daniela Padoan nel libro su Liliana Segre.

Il ricatto dell’antisemitismo

E allora? Cosa voglio dire? È molto semplice. La memoria della shoah è una barriera contro l’antisemitismo, e opporsi all’antisemitismo è sacrosanto, se è assolutamente giusta la causa dell’umanità che nel corpo degli ebrei fu negata, e se l’averla così negata è un male assoluto.

Ma tutti questi assoluti sono relativizzati se l’accusa di antisemitismo diventa un’arma di parte, un ricatto pendente sulla testa di chi denuncia la dignità, la libertà, il possesso della propria casa e della propria terra, e troppo spesso la vita stessa, negate ai palestinesi che vivono da più di mezzo secolo  sotto occupazione militare nel poco che resta della Palestina storica (o anche del pezzo loro “assegnato” nel ’48 per far posto allo stato di Israele). In spregio di tutte le risoluzioni dell’Onu e dei suoi disperanti resoconti, ultimo e recentissimo quello della relatrice speciale Francesca Albanese, che è stata da molti accusata di antisemitismo.

Ecco: equiparare questo tipo di denuncia all’antisemitismo è quello che ha ufficialmente fatto l’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), identificando all’antisemitismo la critica del sionismo. E purtroppo è un ricatto internazionalmente sempre più diffuso. The Guardian l’ha denunciato già il 29 novembre 2020, pubblicando una lettera firmata da 122 accademici e intellettuali arabi contro questa equazione, che relativizza tutto quello che è assoluto: e davvero, allora, svuota anche la memoria della shoah della sua unicità e della sua spina, lo riduce – Dio non voglia – a retorica di parte. Senatrice Segre, spezzi questa immorale in-differenza. Basterebbe una sua parola a rompere il silenzio dei giusti.


(Domani, 26 gennaio 2023)

di Liliana Rampello


Con Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Storia di un’amicizia Sara De Simone ha scritto un libro necessario e bello (Neri Pozza, pp. 428, euro 22). Necessario perché sfida opinioni polverose, da tempo depositate nel nostro immaginario, e bello per come è scritto, a cavallo di due registri, quello saggistico e quello narrativo, senza mai stonati salti stilistici. La documentazione alla base della narrazione è molto ampia e salda: lettere, diari, romanzi, racconti dell’una e dell’altra vengono riletti e avvicinati con estrema accuratezza, lasciandoci rassicurate sulla solidità dello studio, senza che il piacere della lettura ne risenta. Dati e fatti vengono assorbiti da una scrittura agile, fresca, seduttiva, che non inventa, ma vede e fa vedere un intero mondo, quello dei primi anni del Novecento.

Un’epoca, più ambienti sociali, una comunità di intellettuali, la particolare atmosfera ante e post Prima guerra mondiale, luoghi diversi (dalla singola stanza alle case, dalle cliniche alle pensioni, dai giardini ai salotti…) tutto sembra affiorare con una leggerezza che sa illuminare ogni singolo dettaglio senza mai perdere il filo che tiene al centro il ritratto di due scrittrici, Katherine Mansfield e Virginia Woolf, molto diverse ma entrambe magnifiche nella loro unicità. Quello che viene narrato è un rapporto complesso, contraddittorio, carsico ma tenace, che corre tra detti e non detti, fra le righe e gli incontri, tanti e intensi, un rapporto che dopo questo libro non potrà più essere banalizzato straparlando impietosamente solo di invidia, gelosia, competizione, perché è stato (ed è) molto di più, come scrive l’autrice: «La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che sono in una stanza, e parlano dei propri libri, e di quelli degli altri, e ridono, e sono d’accordo, e non sono d’accordo, e si guardano negli occhi, e si temono, e ammirano. E sono amiche». Parole che indicano che questo è un libro politico, in cui la ricerca e lo studio portano a un risultato che non riguarda solo la storia e la critica letteraria, ma rilanciano liberamente la capacità femminista di reinterpretare il già pensato con pensieri impensati, di restituire la vita e l’esperienza delle donne al nucleo incandescente della loro origine.

Ma cominciamo con ordine, a partire dalle due frecce temporali che troviamo nell’indice: 1917 – 1923 e 1923-1941; nella prima sono raccontati gli anni che vanno dal loro primo incontro alla morte di Mansfield, anni sgranati uno dopo l’altro, seguiti con passo di formica, rintracciati e ritracciati come i bianchi sassolini di Pollicino, fino a costruire un affresco da cui sbalza il ritratto di entrambe; nella seconda corrono i diciotto anni che legano la morte di Katherine Mansfield a quella di Virginia Woolf, anni raccorciati a dire tutto il resto, tutto quel che resta tra le sue mani (e le nostre) a partire da una mancanza patita e da una presenza incontestabile dell’assenza, nell’assenza.

Il disegno di questa donna «insolita», Katherine, una scrittrice arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda, non ancora trentenne, con una vita decisamente turbolenta alle spalle, è offerto in una lettera all’amica Virginia da Lytton Strachey, letterato profondo e insieme meraviglioso pettegolo, che sa bene come far scoccare la scintilla della curiosità: «Tra gli altri ospiti c’era ‘Katherine Mansfield’ – sempre che questo sia il suo vero nome – non potrei giurarci. Ne hai mai sentito parlare? O hai letto qualcosa dei suoi scritti? È una creatura decisamente interessante, molto divertente e alquanto misteriosa. Ha parlato con grande entusiasmo de La crociera, e ha detto che desiderava conoscere te più di chiunque altro. Posso aggiungere che ha per faccia una brutta maschera impassibile, intagliata nel legno, capelli castani e occhi marroni molto distanti l’uno dall’altro; e dietro la maschera un intelletto acuto e fantasioso in una maniera un po’ volgare».

Bastava molto meno per far drizzare le antenne di Woolf, eccitare il suo autoironico snobismo, la pelle sottile della sua vanità, e comincia così l’avventura di un’amicizia, la scoperta dell’Altra, l’altra con cui, da subito, condividere l’urgenza della scrittura, dell’arte come vocazione della vita, perché è «la vita della vita» che va raccontata. L’altra come specchio. La «sensazione di un’eco» la chiama Sara De Simone, perché, al di là di esistenze molto diverse, quando ciò che unisce è la passione del «fare lo stesso lavoro», del «parlare la stessa lingua», allora questa affinità supera ogni ostacolo, benché si cammini su un terreno impervio e misterioso: «Sapere di essere in due era emozionante, eccitante, ma anche spaventoso. Talvolta irritante. Significava essere esposte una all’altra, condividere con un’altra – che capiva, che vedeva – il nucleo pulsante, e più segreto, della propria esistenza». 
De Simone lavora con vere e proprie sonde emozionali per guidarci alla comprensione di quel ribaltamento del nostro sguardo che mette in asse l’intero libro, con un’analisi spietata di tutti i passaggi, a volte esili, quasi impercettibili, di un percorso davvero accidentato.

Perché Mansfield e Woolf sono realmente molto differenti, nel rapporto con il corpo, la sensualità, la sessualità con uomini e donne, mariti o amanti; nella loro forza e nella fragilità. Del resto, queste due donne, coraggiose e consapevoli, stanno affrontando da sole, nel romanzo e nel racconto, la sfida della modernità in letteratura, la stessa rivoluzionaria sfida, sulla soglia del Novecento, di Joyce, Proust, Kafka, Musil, Stein… e dunque come potevano salvarsi dall’invidia, dalla gelosia, dall’inevitabile umana competizione? 
«Soffrire d’invidia è terribile. Penso che l’unica cosa da fare sia confessare di provarla», scrive Virginia Woolf all’amico Roger Fry nel 1920, e giustamente Sara De Simone sottolinea l’onestà intellettuale di questo sfogo, in grado di depotenziare, «proprio perché confessata, perché non rimossa», la «passione triste, livida» cui è meglio non consegnarsi. Sono passati pochi anni dal primo incontro, e dalla pubblicazione, per la Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, di Preludio, di Katherine Mansfield; ci sono stati fraintendimenti e incomprensioni, la malattia le tiene spesso lontane, ma restano ancora tre anni per inanellare le parole necessarie a capire quanto la ricerca, la sperimentazione per «trovare nuove espressioni e nuove forme», le stringa in un patto che farà finalmente posto al riconoscimento reciproco di valore. All’ammirazione.

La morte di Katherine porterà in dono a Virginia piena e matura consapevolezza di quanto «impagabili» fossero le ore trascorse con lei, nessuna «l’aveva resa tanto gelosa», nessuna come lei «l’aveva fatta sentire meno sola». Una volta aperto, nulla può interrompere il dialogo tra due donne: «Sapere di essere in due significava rinunciare all’idea di essere l’’unica’, ma dava in cambio molto altro. Non era un guadagno costante, continuo, senza ombre e senza ambiguità, ma c’erano momenti in cui toccare con mano quella verità aveva un valore inestimabile». Questo guadagno sarà confermato dalla pratica di relazione fra donne nei nostri anni Settanta, ma già all’inizio del secolo due meravigliose antenate hanno indicato la strada che De Simone mette a fuoco con lucida intelligenza. C’è molto altro in questo libro, basta leggerlo.


(il manifesto, 25 gennaio 2023)

di Claudia de Lillo


Camicie da notte aperte davanti, reggiseni per allattamento, coppette assorbilatte, mutande di rete monouso, assorbenti igienici post parto. Forse non tutti sanno che a volte gli ospedali consegnano alla gestante, in procinto di diventare puerpera, un elenco di articoli da portare con sé in una fantomatica ma indispensabile valigetta. La preparazione di tale bagaglio e del suo alieno contenuto è un rito obbligato, celebrato con trepidazione, inquietudine e, se si tratta della prima volta, totale incoscienza.

Esiste un’estetica della maternità, una pericolosa mistificazione che racconta il miracolo della nascita, la sublimazione della madre, creatura eroica e potentissima, incurante della sofferenza e della fatica, estatica e appagata al cospetto del proprio frutto acerbo. Tale narrazione sorvola, con signorilità e ipocrisia, sull’atroce dolore fisico, sullo sfinimento, sullo sconquasso emotivo, sulla paura, sulle lacrime, sui crampi, sulle perdite, sulla montata lattea, su un corpo lacerato e svuotato, sulla bruttezza delle mutande di rete monouso. Ci sono passate in tante ma dopo rimuovono o, per pudore, evitano di rivangare quel tunnel. Il personale ospedaliero conosce tutta questa storia alla perfezione ma sottostà a protocolli che, affinché la macchina possa funzionare, seguono linee dritte e illuminate, refrattarie ai buchi neri.

La notte tra il 7 e l’8 gennaio, nel reparto di Ginecologia dell’ospedale Pertini di Roma, una madre si è addormentata mentre allattava il suo neonato di tre giorni. Quando si è svegliata il bambino non c’era più. Era morto soffocato. Il padre ha riferito che la moglie era sfinita da un travaglio lunghissimo e aveva chiesto di poter riposare, affidando il piccolo al nido. Il personale glielo avrebbe negato. La magistratura sta indagando e l’autopsia farà chiarezza sulle cause del decesso. 

Non vogliamo addentrarci nella tragedia privata di una famiglia né tantomeno nell’iter giudiziario che ne seguirà. Tuttavia chiunque abbia partorito in ospedale ha conosciuto per un minuto, per un’ora o per un giorno, il senso di abbandono e inadeguatezza. Può succedere durante il parto, costrette in posizioni innaturali («Signora, spinga e basta»), nella fatica di allattare («Il bambino deve potersi attaccare al seno sempre, ogni volta che vuole»), nel desiderio di delegare («Eh no! Il pannolino lo deve cambiare la mamma!»), nel senso di colpa indotto («Ma come? Perché non vuole avere il bambino in camera con sé?»), nella proibizione di avere accanto l’altro genitore, come se non servisse.

Il parto è una delle esperienze più straordinarie e sconvolgenti che, come pochissime altre, coniuga meraviglia e terrore. I giorni immediatamente successivi sono i più difficili. Perché l’improvvisa responsabilità di una nuova vita è spaventosa, perché una neo madre, nonostante il mito crudele dell’istinto innato, è incompetente e impreparata, perché un figlio è per sempre e quell’avverbio è una minaccia, perché il corpo di una puerpera è fragile e sconosciuto anche a lei stessa, perché la depressione è un’onda nera che può ghermire di soppiatto, perché la fatica fisica e mentale è estenuante.

Una neo madre non andrebbe mai lasciata sola. Andrebbe seguita, rassicurata, accudita in modo che, a sua volta, possa imparare a fare lo stesso, piano piano, con il suo bambino. Prima dei fiori, dei fiocchi ricamati e della valigetta, la maternità richiede condivisione.

Perché solo la condivisione ci può salvare dall’abisso.


(la Repubblica, 24 gennaio 2023)

di Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti


«Purtroppo l’aborto è una libertà delle donne» sentenziava la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, qualche giorno fa in diretta televisiva. Tuttavia gli antiabortisti non albergano solo nelle stanze dei ministeri. Ancor più grave è che stazionino nelle corsie d’ospedale. E così può accadere che in Calabria, in uno dei nosocomi più grandi del Mezzogiorno, abortire sia praticamente impossibile. All’ospedale civile Annunziata di Cosenza sono tutti obiettori i 13 ginecologi assunti stabilmente in reparto, così come quasi tutte le ostetriche, ovvero 24 su 26.

C’è soltanto un medico, le cui prestazioni sono fornite «a gettone» (e quindi ben remunerate), che pratica l’interruzione volontaria di gravidanza su un territorio da 700mila abitanti. Una situazione grottesca e illegale su cui a breve dovrà rispondere il ministro della Sanità Orazio Schillaci.

Quello cosentino non è un caso isolato. Da una mappa dell’Associazione Luca Coscioni del 2022 emerge che in Italia sono una dozzina gli ospedali con il 100% di ginecologi obiettori. La parlamentare cosentina Anna Laura Orrico, il 18 gennaio, ha depositato un’interrogazione a risposta scritta alla Camera, per sapere quali iniziative intenda avviare il ministro della Salute «per verificare se all’ospedale civile di Cosenza venga adeguatamente fatta rispettare la legge n. 194 del 1978 e se il servizio fornito per l’interruzione volontaria di gravidanza possa essere al momento considerato efficace e continuativo, se al contempo venga in questo modo garantito il diritto al salute delle donne costituzionalmente contemplato per tutti i cittadini all’articolo 32».

È vero che la legge 194 all’art.9 garantisce l’obiezione ma la vincola ad alcune condizioni che la rendono per questo anche revocabile. In effetti, lo status di obiettore non esonera dall’assistenza antecedente e conseguente alla procedura vera e propria di interruzione e non può essere invocato quando il proprio intervento «è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo». La normativa inoltre prescrive che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate siano tenute «in ogni caso ad assicurare» che l’IVG si possa svolgere. Sono poi le singole regioni a dover controllare e garantire l’attuazione del diritto all’aborto «anche attraverso la mobilità del personale».

Dal 2020, quando il ministero ha aggiornato le linee guida per la somministrazione della pillola abortiva RU 486, il metodo farmacologico può essere svolto anche all’interno dei consultori. Quindi si potrebbero decongestionare gli ospedali. Le linee guida, però, non sono mai state recepite dalla regione Calabria. In Piemonte la pillola è in uso dal 2009, negli ospedali calabresi dal 2019. Nell’emergenza sanitaria permanente, i consultori comunque non possono somministrarla, perché mancano gli ecografi indispensabili per definire il periodo di gestazione. Da anni il collettivo Fem.In. lotta per il diritto all’interruzione di gravidanza.

A Cosenza l’ultimo sit-in di protesta risale al dicembre scorso. Dalla direzione amministrativa le femministe hanno ottenuto la promessa di assumere due medici per evitare che salti il servizio quando uno è assente. Si è definita una convenzione con l’Asp per impiegare un altro medico «a gettone», ma sinora ciò non è avvenuto. «L’obiezione – spiega la portavoce Vittoria Morrone – è problematica già sul piano normativo, perché è interpretata da chi non vuole permettere alle donne di abortire. Il problema è che la questione è trattata ancora in modo politico. Sappiamo infatti che molti obiettori di coscienza sono tali per equilibri interni ai reparti. Se i medici non si dichiarano obiettori, devono svolgere più turni di lavoro.

Ed è difficile per loro fare carriera. A riprova di ciò, accade che tutte le volte che è assunto nuovo personale sanitario, medico e non, dopo pochissimi giorni si dichiarano tutti obiettori. È chiaro – conclude la militante di Fem.In. – che noi continueremo a esercitare pressioni sulla direzione sanitaria e sul nuovo commissario regionale alla Salute». E se il presidente di regione Roberto Occhiuto sul punto finora tace, ora si attende la risposta di Schillaci. Intanto, per esercitare un proprio diritto le donne calabresi devono sconfinare in Puglia o emigrare al nord.


(il manifesto, 24 gennaio 2023)


Ricordiamo che ci sono ospedali che hanno indetto concorsi per assumere medici pronti ad applicare la legge, il primo è stato il San Camillo di Roma, nel 2016. Vedi l’articolo https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/aborto-troppi-obiettori-e-a-roma-un-ospedale-assume-solo-chi-applica-la-194/ (La redazione del sito)

di Marina Terragni


A partire dalla dolorosissima vicenda del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma – probabilmente per soffocamento accidentale, la magistratura accerterà le cause: potrebbe anche trattarsi di “morte in culla” o di altro – molte e molti concludono che il rooming-in [tenere la creatura in camera con la madre, ndr] è una pratica pericolosa e sbagliata e che i bambini dovrebbero stare nelle nursery.

Ricordo però che in passato le donne hanno molto lottato per ottenere il rooming-in e per ragioni più che evidenti: non separarsi dal neonato dopo la lunga convivenza dei nove mesi, non ostacolare lo sviluppo dell’attaccamento e la possibilità di allattare da subito come capitava quando le donne partorivano in casa e il neonato restava accanto a loro con l’assistenza di nonne, sorelle e amiche. Io non ho avuto il rooming-in quando ho partorito, e sono ancora furiosa per il distacco.

Anche l’allattamento a letto che viene ritenuta una pratica pericolosa, per le partorienti in casa – che non venivano “alzate” subito e restavano immobili per giorni – era la normalità. Quello che non sarebbe stato normale, e tuttora non lo è, è lasciare soli e senza adeguata assistenza la mamma e il bambino: quando nacque mio fratello io stessa che ero ancora molto piccola fui incaricata di garantire il minimo supporto.

È la solitudine delle madri il grave errore, non il rooming-in. Una donna che ha appena partorito ha bisogno di assistenza, di vicinanza e di affetto, anche se tutto è andato liscio e sta benissimo. Il bambino le va tolto dalle braccia quando ha bisogno di riposare e di pensare ad altro. Quello che serve allora non sono le nursery, ma una persona che stia loro accanto – il padre del bambino, la nonna, la zia, l’amica – specialmente in una situazione drammatica di carenza di personale medico e paramedico come quella che oggi si vive non solo nei reparti di ostetricia ma in qualunque reparto, a cominciare dai pronto soccorso.

In Lombardia per esempio è stato recentemente approvata una disposizione che consente ai parenti dei ricoverati nelle astanterie dei pronto soccorso – dove purtroppo spesso si permane a lungo – di stare accanto alla persona cara in particolare se anziana o fragile. La direzione in cui muoversi è questa: ottenere la possibilità che un congiunto/a possa stare in reparto accanto alla neomamma e fornirle tutta l’assistenza necessaria. La questione del Covid non può ostacolare più a lungo: con tampone e mascherina vi sono tutte le condizioni di sicurezza necessarie.

Poi c’è il tema – enorme e generale – della violenza ostetrica, oggi aggravato dalla carenza di organici. Ma qui limitiamoci a questo aspetto.


(FeministPost, 24 gennaio 2023)

Online il numero di VD3 di ottobre 2022, Sulla maternità, in formato PDF scaricabile.


Alla redazione di questo numero hanno collaborato Vita Cosentino, Clara Jourdan, Traudel Sattler, Marina Santini, Laura Colombo, Laura Giordano, Silvia Baratella, Marta Equi, Giorgia Basch, Daniela Santoro, Emma Ciciulla, Ilaria Sirito.

Design: Giorgia Basch (Bilderatlas)

Immagine di copertina (su gentile concessione dell’artista): Lina Scheynius, Birth, 2018


Buona lettura!

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di Flavia Perina


Nel giugno del 2021 in Piazza Montecitorio, sotto il Parlamento, si tenne una staffetta oratoria che non dimenticherò. Al microfono si susseguivano madri e avvocate, ognuna con una storia di separazione coatta dai figli incredibile e qualche volta raccapricciante. A un certo punto gli altoparlanti diffusero la registrazione delle urla di un bambino prelevato a forza dalla casa materna, a Pisa. Non sembrava reale. Gli stessi racconti andavano contro ogni senso comune, avevano un tocco di follia. «Sembrano tutte un po’ fuori di testa», dissi all’amica che mi aveva accompagnato. Lo saresti anche tu, mi rispose, se da due, cinque, dieci anni vivessi con l’incubo che i tuoi figli siano prelevati e portati in una casa famiglia perché sei giudicata malevola, alienante, simbiotica, adesiva, da un padre che magari hai denunciato per violenza o che non paga gli alimenti. Aveva ragione. Glielo dissi allora, lo confermo oggi dopo aver letto il saggio a più mani Senza madre. Storie di figli sottratti dallo Stato, in libreria per Edizioni scientifiche Magi e frutto del lavoro di dieci tra giornaliste e attiviste. Un libro coraggioso per molti motivi, ma soprattutto per il suo obbiettivo: sfatare il mito della bi-genitorialità, cioè il concetto all’origine del corto circuito giudiziario per cui il figlio che ha difficoltà nei rapporti con un genitore (solitamente il padre) deve essere “resettato”, anche con la violenza e con l’obbligo aggressivo di stare insieme all’uomo di cui ha paura.

Senza madre è un collage di storie estreme e di testimonianze dirette di un sistema che rende centinaia di bambini “orfani per sentenza”, sottraendoli alle mamme sulla base di Consulenze Tecniche d’Ufficio che ribaltano il principio di non colpevolezza: per il solo diniego del bambino a frequentare l’altro genitore, le madri si ritrovano sotto accusa, costrette a dimostrare di non essere cattive genitrici e di non manipolare i sentimenti dei figli. Il punto che più colpisce è l’eclissi di un principio che credevamo assodato nella giurisprudenza, cioè la prevalenza del benessere psico-fisico dei minori su ogni altro dato. Quasi mai i bambini vengono ascoltati dal magistrato, anche se la legge lo imporrebbe. Quasi sempre il “verdetto” è affidato agli psicologi delle CTU. E spessissimo, come osserva Flavia Landolfi nel saggio, quelle consulenze si riducono a una «rincorsa forsennata di un mondo perfetto», con la pretesa che ciò che non funzionava durante il matrimonio o la convivenza, dopo la separazione si metta in marcia come un orologio svizzero. Così la bigenitorialità nella pratica quotidiana dei tribunali è letta come interesse supremo del minore e «diventa un mostro che tutto divora, anche i diritti fondamentali e inalienabili, come quello alla vita, alla sopravvivenza e alla libertà». Le autrici di Senza madre sono Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Flavia Landolfi, Silvia Mari, Assuntina Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente e Livia Zancaner. Vengono tutte da una formazione femminista o cattolica ma propongono un lavoro non-ideologico, scientifico, disvelando una verità che è storia quotidiana nei tribunali minorili ma che la grande opinione pubblica non conosce. La loro lucida ricostruzione è il miglior sostegno a quelle madri “folli” che combattono per la vita e l’equilibrio dei loro figli e anche alle moltissime che si rassegnano a relazioni tossiche o violente per paura di perdere i loro bambini. Ma è anche una poderosa inchiesta che si impone all’attenzione della politica, rivelando pratiche inconciliabili con uno Stato di diritto e con lo stesso principio di umanità.


(La Stampa – Specchio, 22 gennaio 2023)

di Elisabetta Rasy


Elisabetta Rasy ha scritto il libro Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza (HarperCollins, pagg. 160, € 18) e, in questo articolo, ne spiega la genesi. Il Diario dell’autrice uccisa ad Auschwitz nel 1943 entra nella vita di Elisabetta Rasy quando è giovane e le fa sentire che la ragazza olandese voleva spiegarle qualcosa. Così, quelle pagine, quasi un romanzo di formazione, diventano una presenza amica e Rasy decide di scrivere una sorta di diario di lettura del libro, soprattutto per la speciale fisionomia di Etty, donna tra fragilità e forza che difende la giovinezza, con tutte le sue passioni e anche con i suoi tormenti.


«Bisognerebbe leggere, credo, soltanto quei libri che mordono e pungono», scriveva nel novembre del 1903 Franz Kafka a un amico. Non sono d’accordo con questa frase e sento più congeniale l’affermazione che fa Marcel Proust, nel suo piccolo, veemente saggio sul leggere, quando definisce la lettura «un’amicizia pura e tranquilla» perché, poi spiega, «tra il pensiero dello scrittore e il nostro non si interpongono gli elementi irriducibili, refrattari al pensiero, dei nostri differenti egoismi». Ma a entrambi mi sentirei di fare una stessa obiezione: la lettura non è sempre uguale perché i libri sono differenti l’uno dall’altro, non solo come qualità, ovviamente, o potenza, o invenzione, ma per una loro stessa profonda diversa natura, varia come la natura umana. Per dirla in breve, ci sono dei libri, perfetti nella loro leggerezza, che ci accompagnano serenamente al sonno e altri, meravigliosi per profondità, che ci tengono svegli. Ma dalle loro diverse posizioni lo scrittore della Recherche e l’autore del Processo si trovano poi a dire una cosa simile. Kafka: «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi». Proust: «Finché la lettura resta per noi l’iniziatrice le cui chiavi magiche ci aprono, nel profondo di noi, la porta delle dimore in cui non avremmo saputo penetrare da soli, la sua funzione nella nostra vita resta salutare».

E forse più che salutare: la prima volta che ho letto il Diario di Etty Hillesum, alla metà degli anni 80, mi è sembrato che le sue pagine fossero un messaggio diretto a me personalmente, soltanto a me, così che certi pensieri che non riuscivo a formulare, quei pensieri che si acquattano, ombrosamente nel fondo della mente, potessero trovare forma e venire alla luce, e che la ragazza olandese volesse spiegarmi qualcosa della mia giovinezza che stentavo a decifrare. Aveva 27 e 28 anni quando, tra il 1941 e il 1942, riempì i suoi quaderni di note quotidiane. Non ne avrebbe mai avuti più di 29: era nata nella provincia olandese nel gennaio del 1914, sarebbe morta ad Auschwitz nel novembre del 1943. Il Diario mi forniva sicuramente delle chiavi magiche, e senza crudeltà si apriva un varco nel ghiaccio del cuore, che poi altro non è che una sbadata inconsapevolezza, ma soprattutto incominciò a far parte del mio paesaggio interiore come una presenza amica. Per questo, credo, molti scrittori hanno scritto di altri scrittori: per un attaccamento che nasce da un rapporto strettamente personale, da una imprevista intimità cui si vuole dare un seguito. Ci sono dei libri che sono degli incontri che non finiscono.

Il Diario di Etty, scritto nello stesso momento storico e nella stessa martoriata Amsterdam in cui Anna Frank scriveva il suo, meno conosciuto ma non meno importante di quello della adolescente di 15 anni più giovane, è molte cose insieme. È un indimenticabile documento della ferocia dell’occupazione nazista e del crescendo della persecuzione contro gli ebrei; al contrario di Anna, Etty andava in giro per la città che di giorno in giorno diventava più ostile – dalle panchine ai parchi, dai negozi di frutta agli autobus: tutto vietato agli ebrei. Un documento tanto più preciso di cosa è la persecuzione di una dittatura nella quotidianità perché redatto quasi con distacco, qualche volta persino con ironia. Ed è sicuramente la straordinaria testimonianza della sua forza spirituale e della sua originale resistenza a quelli che chiama «i tempi scatenati»: Etty Hillesum è certo una maestra della non violenza nel suo rifiuto dell’odio contro l’odio, nello sforzo di abbracciare sotto uno stesso sguardo l’inferno e il paradiso che ritiene essere dentro ogni essere umano. Infine, le sue pagine contengono la voce di una credente speciale, che di fronte all’orrore non si rivolta contro Dio, sostenendo che siano gli uomini a doverlo aiutare e non il contrario.

Ma quello che mi ha portato a scrivere una sorta di diario di lettura del Diario è stata soprattutto la speciale fisionomia di donna contro la tempesta, tra fragilità e forza, tra timore e coraggio, che Etty incarna nel difendere la sua giovinezza, con tutte le sue passioni e anche con i suoi tormenti. Non una mistica, come qualcuno l’ha definita: insofferente ed estranea ai giochi di ruolo tradizionali, sempre all’ascolto intelligente e irriverente di sé stessa, in cerca di verità nell’amore, nel sesso, nel rapporto con la famiglia e in quello con la religione, questa ragazza olandese proprio dal cuore più tenebroso del secolo lascia in eredità al futuro un modello di libertà femminile e non solo femminile. Una libertà fondata sulla responsabilità, in una sintonia da lontano con un’altra giovane donna ebrea, Simone Weil, che affermava la presenza dei doveri accanto ai diritti. Anche Simone muore nel ’42, travolta nell’esilio dalla consunzione e dalla disperazione: come Etty è una figura di quella distruzione della intelligenza ebraica perseguita dai nazisti, che priva l’Europa, per via di morte o per via di emigrazione, di un prezioso patrimonio di pensiero – basti pensare, esempi tra i moltissimi, ad Hannah Arendt che fugge in America, o a Walter Benjamin che si toglie la vita perché sa di non potersi mettere in salvo.

Il Diario mi è dunque apparso come uno straordinario romanzo di formazione al femminile. Per questo nel mio libro, dialogando con le pagine di Etty, ho convocato altre figure, che mi sono sembrate appartenere a una medesima costellazione di inquietudine, intensità spirituale e libertà: scrittrici come Marguerite Duras o Katherine Mansfield, ma anche personaggi letterari, la Micol del Giardino dei Finzi-Contini di Bassani, o la Tatiana dell’Eugenio Onegin di Puškin, o scrittori e poeti, Rainer Maria Rilke o Joseph Conrad. Nelle prime pagine del Diario, Etty definiva il suo cuore «un gomitolo aggrovigliato»: scrivere a partire dalle sue pagine ha voluto dire riprendere i diversi fili del gomitolo, afferrare l’eredità che contengono e riportarla nel qui e ora del mio presente. Così funzionano i classici, sempre contemporanei, spesso un passo avanti a noi.


(IlSole24Ore-Domenica, 22 gennaio 2023)

di Chiara Giorgi


Rosa Luxemburg è stata più volte ricordata come una delle più importanti figure del socialismo internazionale, come donna straordinaria assassinata brutalmente, come una Cassandra moderna. Ma al di là di questo atto di memoria, è possibile oggi rileggere con nuovo sguardo la sua figura nell’interezza e complessità che la caratterizzarono? Questo è l’intento del convegno promosso dalla Scuola Normale Superiore e dall’Università di Pisa. Tornare a ragionare su tutti gli aspetti che ne distinsero il rilievo umano, politico e teorico è una sfida di grande interesse, non solo da un punto di vista scientifico, ma soprattutto politico, tanto più alla luce delle trasformazioni del capitalismo globale e di una guerra, come quella in Ucraina, che ci rimette di fronte alle logiche della militarizzazione.

Agli inizi degli anni Settanta, a rilanciare l’attualità del pensiero di Luxemburg era stato Lelio Basso – figura eretica del socialismo italiano, antifascista, dirigente del Psiup, interprete raffinato di Marx, ideatore del principio di uguaglianza sostanziale nella Costituzione. Il progetto era quello di affrontare lo studio dell’opera luxemburghiana, la cui importanza, scriveva, non era di certo sfuggita ai suoi contemporanei, ma la cui messa al bando nel corso del Novecento ne rendeva necessario un approfondimento teorico. L’intento era quello di riportare alla luce gli elementi più vitali del «marxismo rivoluzionario» di Luxemburg. Basso fu nel panorama della sinistra italiana del secondo dopoguerra uno dei primi e pochi intellettuali ispirati da Luxemburg, la cui figura riemerse rapidamente nella nuova stagione dei conflitti del Sessantotto.

A campeggiare nella biografia di entrambi furono i processi di costituzione del soggetto di classe, l’acquisizione di consapevolezza del ruolo storico della classe operaia, in conflitto con quella dominante, capace di agire sui processi materiali ai fini di una radicale trasformazione. La loro interpretazione dialettica e materialistica del processo storico nella sua totalità fondava una pratica politica in grado di individuare le forze in movimento, le tendenze a venire, la stessa «necessità storica obiettiva del socialismo». Nella lettura di Basso, quello di Luxemburg era il punto di vista della totalità concreta, ovvero dell’insieme dei rapporti che costituiscono la società capitalistica, il quale le aveva consentito di contrastare le posizioni moderate della socialdemocrazia tedesca, di confutare le illusioni di Eduard Bernstein – conservare i «lati buoni» del capitalismo, correggendone quelli cattivi –, di recuperare la rivoluzione come fine del socialismo. Contro ogni riformismo e revisionismo, Luxemburg aveva inteso quest’ultima come un fatto che si collocava all’interno dello sviluppo capitalistico stesso, nelle tensioni da esso generate. Si trattava del crescente conflitto fra la logica socializzante dello sviluppo delle forze produttive e la logica del profitto, lo sfruttamento della classe operaia, il carattere privatistico dei rapporti di produzione; dell’antagonismo tra tendenze e controtendenze di socializzazione.

L’accento batteva allora sulla necessità di tenere insieme le condizioni obiettive della rivoluzione, lo sviluppo delle contraddizioni in seno al modo di produzione capitalistico e l’organizzazione del movimento operaio. La lotta di classe e la politica organizzata svolgevano qui una funzione decisiva, compreso il ruolo da lei assegnato ai consigli, istituzioni unitarie di autogoverno della classe, forme di democrazia permanente, aspetto essenziale del rapporto tra il partito e l’esperienza delle lotte. 
Non si trattava di determinismo, né di spontaneismo, ma di rintracciare il nesso tra il momento oggettivo e quello soggettivo, nesso che conteneva, scriveva Luxemburg, due elementi essenziali: quello «dell’analisi e della critica» e quello «della volontà attiva della classe operaia come fattore rivoluzionario». In principio era l’azione amava ripetere Luxemburg, contro tutti i fatalismi di una vittoria sicura del socialismo. Ma al contempo, era l’analisi del capitalismo, delle sue antinomie, a fondare il presupposto di un suo rovesciamento, possibile soltanto tramite le battaglie del proletariato internazionale, cosciente dei propri scopi.

La sua condanna contro la svolta prima revisionista e poi nazionalista della Spd di fronte alla prima guerra mondiale fu nettissima. Mentre il capitalismo si avviava infatti alla guerra imperialista, la socialdemocrazia perdeva la visione complessiva dei rapporti sociali, diventando subalterna al capitalismo. Come scrisse in La crisi della socialdemocrazia (1915): la nostra necessità del socialismo «entra in gioco con pieno diritto nel momento in cui il predominio borghese di classe cessa di essere portatore del progresso storico per divenire un pericolo per lo sviluppo ulteriore della società. Questo ha rivelato l’odierna guerra mondiale». 
Fondamentali le sue analisi sull’imperialismo e, con esso, sull’avvento della guerra. L’accumulazione del capitale – aveva scritto nella sua opera più importante apparsa nel 1913 – presa nel suo insieme come processo storico ha due lati diversi. Il primo si compie nei luoghi di produzione del plusvalore e sul mercato, l’altro ha per arena la scena mondiale. Dominano qui come metodi la politica coloniale, il sistema dei prestiti internazionali, la politica delle sfere di interesse, le guerre. Luxemburg era così giunta ad afferrare il legame tra le due dinamiche dell’accumulazione, tra il processo di sviluppo capitalistico nei paesi industrializzati e l’aggressione ad «ambienti» non capitalistici, il mondo coloniale e l’economia contadina, cogliendo sia il dinamismo del capitalismo, sia le cause dell’immane tragedia della Grande guerra.

Ci furono errori di interpretazione sul crollo del capitalismo (e su alcuni passaggi del Capitale), ma gli studi di Rosa Luxemburg sull’imperialismo rappresentarono uno spartiacque per comprendere la fisionomia di un capitalismo in espansione, che allargava i propri confini fino a comprendere il militarismo come «campo di accumulazione». Centrale, nel riferimento al concetto di totalità, il nesso che doveva unire la lotta quotidiana allo scopo finale. Le singole azioni, gli obiettivi parziali, le riforme sociali avevano senso solo se non erano disgiunti dalla visione più generale della lotta medesima, dalla prospettiva rivoluzionaria. Luxemburg aveva riformulato questo rapporto in polemica con le proposte di integrazione del movimento operaio nella società borghese, con la strategia riformista che aveva abbandonato l’obiettivo dell’«abolizione del sistema salariale».

La dimensione dell’umano, del libero sviluppo delle potenzialità umane fu un tratto saliente di Rosa Luxemburg. La sua esperienza è quella di una militanza profondamente «umana», di una donna che non smise mai di essere in sintonia con l’universo, in tutte le sue manifestazioni vitali, di una donna in cui si diedero dolore e speranza, intelligenza e sentimenti, io e mondo ricomposti, come ha osservato Rossana Rossanda nella prefazione alla biografia di Paul Frölich e a proposito del celebre film del 1986 di Margarethe von Trotta (riproiettato all’apertura del convegno). 
Il suo fu un afflato per la vita dai tratti speciali di una rivoluzionaria assai lontana dal modello del militante tradizionale, mossa da un sentimento di reciprocità, relazione e condivisione accompagnato da passione e ragione trasformatrici. È in questa direzione che il pensiero e l’attività di Luxemburg possono continuare a parlarci, se restiamo capaci di cogliere le possibilità alternative nel divenire della storia, di puntare a quell’obiettivo che per lei, come per Basso, ebbe un significato concreto: la liberazione, la realizzazione delle istanze di uguaglianza e libertà.


(il manifesto, 21 gennaio 2023)

Laure Surville De Balzac, La fata delle nuvole o la Regina MAB, Alpes Italia 2022. “Mi chiedo perché non posso vivere come mi piace e realizzare i miei progetti”. Laure (1800-1871) passa la vita ad aiutare con le sue ricerche – e non solo – il fratello Honoré. Ma è anche consapevole del proprio talento, oltre che della vasta cultura acquisita. E così dà vita a una fata con cui superare i traumi familiari e insieme sperimentare avventure e conoscenze da mettere a disposizione delle giovani donne. Giancarla Dapporto, scrittrice, dialoga con Rosa Romano Toscani, traduttrice e psicoterapeuta e Valeria Sperti docente di letteratura francese. Introduce Mirella Maifreda.

Per acquistare online La fata delle nuvole o la Regina MAB: https://www.bookdealer.it/goto/9788865318010/607

di Sebastiano Canetta


La presidente della Bce, Christine Lagarde, ribadisce che l’Eurotower di Francoforte non mollerà i cordoni dei tassi finché l’inflazione non tornerà al 2%; il premier ucraino Volodymyr Zelensky si ricollega al summit per la seconda volta per ricordare agli alleati che l’«unico obiettivo» è la riconquista totale di tutte le regioni perdute, a partire dalla Crimea; e il primo ministro olandese, Mark Rutte, fa sapere a Italia e Francia che per contrastare l’“Inflation Reduction Act” che mette fuori mercato il made in Europe, appena varato dall’amministrazione Biden, basta e avanza «il sacco di soldi degli attuali finanziamenti Ue».

I programmi vari degli autorevoli ospiti, il terzo giorno del Forum di Davos, stridono non poco con l’emergenza climatica che i potenti della terra giurano di aver messo al primo posto dell’agenda politica.

Almeno a sentire le dichiarazioni ufficiali della «gente che dovremmo smettere di ascoltare», come l’ha battezzata ieri Greta Thunberg, vera protagonista del “World Economic Forum 2023” insieme alle ambientaliste Vanessa Nakate, Helena Gualinga e Luisa Neubauer, leader tedesca del Fridays For Future.

Per niente sedata dal doppio arresto della Polizei al presidio contro l’espansione della miniera di Lützerath, l’attivista svedese ha demolito così il palcoscenico del Wef nel corso dell’atteso incontro con il direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’Energia, Fatih Birol: «La gente che dovremmo ascoltare non si trova qui. A Davos c’è la gente che alimenta la distruzione del pianeta, quella che sta al cuore del problema della crisi climatica, che continua a investire sulle fonti fossili, e che in qualche modo riesce ancora ad apparire come la gente su cui contare per risolvere il problema».

Dopo di lei l’attivista ecuadoregna Helena Gualinga, portavoce dei diritti degli indio dell’Amazzonia ha inchiodato le buone intenzioni di Birol alla richiesta di promesse scritte nero su bianco su carta legale.

«L’Agenzia internazionale dell’Energia, l’Ipcc e il segretario generale Onu hanno caldeggiato i decision-maker del mondo a dire No ai combustibili fossili. Bene, è esattamente ciò che abbiamo chiesto inutilmente in tutti questi anni. Adesso, forse, possiamo smetterla con i permessi all’esplorazione delle fonti energetiche devastanti?» domanda ironicamente Gualinga, spinta dall’appello-ultimatum in favore dell’uscita immediata da gas, carbone e petrolio che ieri sera sul web aveva superato 921.000 firme.

«Fermate subito qualunque nuova trivellazione. Smettete di bloccare la transizione all’energia pulita che è necessaria al pianeta. Per anni avete imbrogliato la scienza climatica sui veri rischi dell’utilizzo dei combustibili fossili ingannando il dibattito politico con la disinformazione mirata a sollevare dubbi sull’urgenza della svolta ambientale. Dovete finirla con atti in aperta violazione del diritto umano alla salute. Se non farete nulla, vi terremo legalmente responsabili» è il testo molto poco diplomatico dell’ambasciata consegnata ieri al Wef di Davos dalle quattro leader del movimento ambientalista.

Formalmente, sono state loro a chiedere il faccia a faccia con Birol, come conferma lo stesso direttore ammettendo di «avere accettato volentieri l’invito delle giovani donne» e anche di essere pronto a collaborare. «Purtroppo, loro («They») non hanno questa urgenza. La loro priorità è invece l’ingordigia dei profitti a breve termine sulla testa delle persone e a danno del pianeta. Stiamo ascoltando loro piuttosto che le persone effettivamente colpite dalla crisi climatica, che vivono sulla prima linea.

Basterebbe ciò a definire l’assurdità della situazione. Invece siamo bombardati dalle dichiarazioni su presunte soluzioni da parte di chi alimenta la crisi» tuona ancora Greta consapevole di dover ripetere il concetto all’infinito. Perché, come spiega bene Rutte, «il guaio è che dobbiamo fare più cose allo stesso tempo: ridurre il debito pubblico ancora troppo alto in Italia, Francia e altri grandi Paesi, che appesantisce la nostra crescita, e poi secondo servono le riforme strutturali, in particolare sulle pensioni. Roma e Parigi spendono dal 10 al 15% del Pil togliendo risorse per la lotta all’inflazione». Altro che ambiente, è il “clima” di Davos.


(il manifesto, 20 gennaio 2023)

di Marina Terragni


La discussione si apre anche in Italia. Finalmente. E con il botto: una lettera aperta indirizzata a Giorgia Meloni, al ministro della Salute e all’Aifa in cui il presidente della Società psicoanalitica italiana, Sarantis Thanopulos, rappresenta la preoccupazione per “l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale in ragazzi di entrambi i sessi a cui è stata diagnosticata una ‘disforia di genere’”. E si invita a considerare seriamente “le controindicazioni a questo trattamento” che il femminismo radicale ha definito senza mezzi termini “nuova lobotomia”. Controindicazioni già considerate in paesi pionieri del cosiddetto “approccio affermativo”: in Gran Bretagna dove ha chiuso la Tavistock Clinic, principale centro per la somministrazione di questi farmaci e il servizio sanitario ha emesso nuove linee guida: dati gli effetti sconosciuti e il danno potenziale, i blocker saranno somministrati solo in contesti di protocollo di ricerca. In Svezia, dove il Karolinska Institute ha ammesso che i minori sono stati esposti al rischio di “gravi lesioni” e di “trattamenti errati” e che gli studi non sono sufficienti. In Norvegia e in Finlandia, dove nuove linee guida rilevano rischi come la demineralizzazione ossea e possibili effetti sul sistema nervoso centrale e sulla fertilità. Si frena perfino in Olanda, dove è nato il protocollo, e in Australia, mentre negli Usa migliaia di pediatri hanno fatto causa all’amministrazione Biden che li obbliga a prescrivere questi farmaci, denunciando una “medicina sperimentale che mette a rischio i pazienti”. In Italia la Società italiana di pediatria parla invece di “dimostrata completa reversibilità dei sospensori puberali” (Repubblica ieri ha titolato “lite sui ragazzi che cambiano sesso”, seppure si tratti di un dibattito in corso e non di lite, ndr), fatto smentito da vari studi come quello pubblicato dal British Medical Journal secondo il quale i bambini trattati sperimentano “una crescita ridotta dell’altezza e della forza ossea”. In Italia l’uso off-label di triptorelina come bloccante della pubertà ha ottenuto nel 2018 l’ok del Comitato per la bioetica del governo (un solo voto contro, quello di Assuntina Morresi). Non è noto il numero di minori in trattamento “affermativo”, ma alcuni dati dall’estero possono dare l’idea: in Catalogna il numero di bambine diagnosticate disforiche è cresciuto del 5.700 per cento tra 2015 e 2021, in linea con il Regno Unito dove nel 2018 la ministra dell’Uguaglianza Penny Mordaunt segnalava una crescita del 4.000 per cento in un decennio.

Nella sua lettera anche Thanopulos definisce “sperimentazione” questi trattamenti. “Le diagnosi” spiega al Foglio “spesso non vengono fatte da psicoterapeuti e sono affidate a ciò che raccontano i ragazzi o i loro genitori. I dati a disposizione non consentono un’attenta valutazione dei risultati, né è chiaro l’obiettivo da raggiungere. Per questo il trattamento con i blocker è sperimentale, non validato come metodo di cura e poco calcolato nelle sue conseguenze. E spera di risolvere il problema dell’incongruenza di genere portandolo da una posizione di ‘disforia’ incerta a una stabile. Nei fatti impedisce una vera scelta, è un ‘proviamo a vedere che succede’”.

Un argomento dei sostenitori è l’elevato rischio suicidio per questi bambini. “Non esistono dati rigorosi, raccolti attentamente e controllati indipendentemente. Né studi sulla differenza in termini di suicidio tra ragazzi supposti transgender che prendono il farmaco e quelli che non lo prendono. Inoltre non c’è un’interpretazione adeguata della causa del possibile suicidio: è connessa alla ‘disforia’, a depressione o al malessere di vedere il proprio corpo ‘altro da sé’ manifestarsi pienamente? Non si capisce del resto come arrestando la pubertà per un periodo sarà poi meglio vissuta successivamente. Né come si possa raggiungere un’identità di ‘transgender’ o abbandonarla se si inibisce un fondamentale fattore della propria definizione sessuale: l’esplosione sessuale della pubertà. Il trattamento farmacologico non elimina l’incongruenza, l’esito non è un corpo altro da quello con cui si è nati. E con il proprio corpo è meglio imparare a convivere”.

Spesso vi è compresenza di disforia e di disturbi psichici come depressione, disturbi dell’alimentazione o dello spettro autistico. “Per questo c’è bisogno di una diagnosi differenziale, ma pochi se ne occupano. Inoltre il non accordarsi con il proprio corpo non è cosa da niente. Il corpo è importante, non si può sbarazzarsene senza pagare un prezzo, la depressione è sempre in agguato”.

Lei è contrario all’uso di blocker in tutti i casi? “È necessario un dialogo sul piano scientifico. Stiamo parlando del destino di bambini prima che loro siano in grado di definirlo da soli. C’è un problema etico. Spero che l’Aifa e il governo promuovano un dibattito serio”.

Scrivete che “solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione dopo la pubertà”. “Prima della pubertà la maggior parte dei ragazzi non ha un’identità definita. Come si fa a stabilire se un minore è transgender se si inibisce la pubertà? Per la Spi tacere sarebbe un tradimento nei confronti dei suoi principi etici e scientifici e dei cittadini. Anche molti pediatri sono sensibili al problema, ma non hanno strumenti per affrontarlo e le loro associazioni scontano un problema dell’intera medicina: l’allontanamento dalla filosofia e dalla psicologia medica”.

Nella Società psicoanalitica c’è stata molta discussione riguardo a questa lettera? “Si è discusso sul modo di comunicare, adottando termini che non facessero intendere il nostro comunicato come repressivo. Chiediamo che si apra un dibattito in cui ognuno possa avere la possibilità di esprimere in modo paritario la sua posizione”.

Cosa che finora non è stata possibile? “Purtroppo da parte di alcuni medici e di psicologi non formati in psicoterapia e appiattiti sui modelli interventisti c’è una forte spinta al trattamento ormonale e spesso chirurgico. Non escludo che anche alcuni psicoterapeuti si schierino ideologicamente. È un peccato, perché se non modifichi chimicamente o chirurgicamente il corpo, questo corpo ha molte più possibilità di soddisfazione di un corpo manipolato che resterà sempre artificiale”.

Forse questi psicologi temono di essere ostracizzati se non assecondano il mainstream transgender. “C’è una parte del mondo Lgbtq che affronta la questione delle differenze sessuali e di genere in modo politico, tenendo al centro il problema della discriminazione. Il problema nasce se la sacrosanta difesa del diritto a non essere discriminati diventa spinta all’omologazione, alla costruzione di definizioni nominali che si pretende di proporre come legalmente equivalenti. Sul piano dei diritti e delle possibilità siamo pari, ma non equivalenti. Una donna nel corpo di un uomo e una donna nel corpo di una donna sono cose differenti. Nel campo dell’amore e dell’erotismo ci deve essere libertà, non è un territorio giuridico”.

La sensazione è che l’ideologia transgender sia spinta fortissimamente: da chi e perché? “Non dai transgender, credo, che vorrebbero solo essere riconosciuti e non disprezzati. Piuttosto, in un mondo in cui i giovani si sentono molto precari c’è una tendenza contagiosa a rappresentarsi come trans anche in segno di ribellione. Il problema è che la tendenza trans fa mercato economico, politico, culturale. E il rischio è che questo accada anche con la reazione anti-trans”.

Per i giovani la fluidità sessuale è un dato acquisito, lo dimostra la lotta per la “carriera alias” nelle scuole. “In ognuno di noi ci sono la donna e l’uomo, l’eterosessuale e l’omosessuale. La definizione in un senso o in un altro consente di evitare la dispersione degli investimenti erotici. Non c’è coppia di amanti senza un terzo potenziale che la potrebbe mettere in crisi. La libertà non sta nelle formule – binario, non binario – ma nella complessità delle nostre relazioni. La fluidità ha due aspetti: la bisessualità, che è sempre esistita, e l’indecisione tra sentirsi donna o uomo che in gran parte deriva dalla difficoltà di definirsi in un coinvolgimento erotico profondo. Nelle esperienze d’incontro in superficie ci sentiamo più al sicuro. La fluidità è la riserva nei confronti di un impegno nel rapporto con l’altro, sentito come foriero di delusione e di dolore. È un disimpegno, una forma di immobilità”.

Un consiglio per i genitori di bambine/i che non si riconoscono nel sesso di nascita. “Non contrastare né assecondare. Ascoltare il disagio, ma anche le fantasie e i pensieri. Non trattare i figli come mostri né come eroi. Non prendere una strada ideologica e dare ai figli il tempo di maturare una scelta. Può essere utile il dialogo con uno psicoterapeuta che non miri a una ‘guarigione’ ma all’elaborazione di un modo di stare nella vita che può prendere una strada piuttosto che un’altra”.


(Il Foglio Quotidiano, 20 gennaio 2023)

di Teresa Numerico


È impossibile ignorare il rumoroso dibattito sull’intelligenza artificiale causato dal lancio di ChatGPT, uno strumento che OpenAI ha reso pubblico lo scorso novembre.

Si può interagire con un bot [*] che risponde a domande scritte, instaurando una conversazione plausibile su temi anche complessi, eseguendo ordini per realizzare testi scritti, componimenti, poesie, sceneggiature o piccoli saggi, con bibliografia inventata inclusa.

Il bot commette errori stupidi, mentre fornisce repliche a questioni scientificamente difficili in modo semplice e pertinente, mischiando risposte giuste e sbagliate. È un sistema sintattico, non sa ciò di cui parla, ma è convincente nel simulare interazioni testuali.

Siamo costretti a svolgere lo scomodo ruolo di correttori della macchina che si presume intelligente, ma è inaffidabile. Nonostante le imprecisioni, la chat ha conquistato l’interesse di Microsoft che vorrebbe integrarla nel suo motore di ricerca Bing, e per questo investirà nel progetto altri 10 miliardi di dollari, portando la valutazione di OpenAI a 29 miliardi.

I modelli di linguaggio generativi a cui appartiene ChatGPT, sono “pappagalli stocastici” [**], o nuove versioni della ninfa Eco, capace di replicare ogni discorso ascoltato, senza associare alle parole significato o comprensione.

Molte delle nostre attività intellettuali passano per la scrittura di testi e il sistema può simulare una capacità linguistica associata a livelli cognitivi medio-bassi o in formazione. La questione dei compiti a casa, infatti, è una delle maggiori preoccupazioni.

Come sarà possibile accertare che i compiti assegnati come temi o risposte a domande scientifiche siano davvero il frutto del lavoro cognitivo degli studenti? Il dato è tratto: bisognerà conviverci anche a scuola, immaginando strategie, selezionando attività e progettando metodi per lo sviluppo della creatività degli studenti.

Il problema non è tanto la capacità reale dei bot, ma la tendenza a delegare loro funzioni umane, compresa quella artistica.

I modelli generativi per la riproduzione del linguaggio, oltre che delle immagini (Dall-E, Midjourney, Stable Diffusion e altri), sono complessi sistemi sociotecnici che hanno al loro interno diversi strati di attività svolti direttamente dall’intelligenza umana.

Ad alto livello troviamo i programmatori che definiscono regole e vincoli per analizzare enormi quantità di dati, disponibili nei corpora testuali delle pagine web realizzate da persone, o nelle immagini usate per l’addestramento.

Ci sono anche altri interventi umani, come segnala un articolo [***] di Billy Perrigo del 18 gennaio scorso su “The Time”: lavoratori kenioti pagati meno di 1.50 dollari all’ora, impegnati, per conto di OpenAI, a etichettare discorso di odio, espressioni di violenza sessuale e altro materiale esplicito per insegnare alla macchina a non riprodurre certe frasi. L’educazione sentimentale della macchina, potremmo dire. Lavoratori sfruttati, parte integrante del complesso sistema industriale che ha contribuito ad automatizzare il servizio.

Altri soggetti umani intervengono per i controlli di qualità, compresi noi che interroghiamo il Chatbot e restituiamo il nostro feedback, a sua volta analizzato da personale specializzato. Non si tratta, quindi, di un apparato autonomo e indipendente, ma della cattura di un processo di intelligenza collettiva, standardizzata, e intrappolata in un sistema che la restituisce nella forma di una mimesis prefabbricata e ripetitiva.

Il meccanismo calcola la probabilità statistica che a una certa parola o insieme di parole (token) ne segua un altro. Per questo predilige affermazioni convenzionali, banali, normali.

ChatGPT ci potrebbe aiutare a distinguere tra differenza e ripetizione nel linguaggio. Le formule retoriche inutili, contro le parole che non abbiamo mai pensato, imprevedibili. Potremmo confinare alla macchina i convenevoli noiosi. Ma per farlo dovremo governare la politica del processo di automazione.

Viviamo tempi di interregno, come suggerisce Benedetto Vecchi, nel suo libro postumo Tecnoutopie (DeriveApprodi, 2022), citando Gramsci: il vecchio non è ancora morto e il nuovo stenta a nascere.

Non ci sono esiti deterministici nell’adozione delle tecnologie. Occorre, però, gestire i processi e non esserne gestiti, pena il percorso a ritroso dalla liberazione che la scienza moderna ci ha offerto, con il rientro nella minorità dalla quale i Lumi ci avevano faticosamente estolto.

Che ne sarebbe della scrittura se il sistema dovesse addestrarsi solo su testi che ha autoprodotto, e le persone non sapessero più leggere o scrivere?

Potremmo entrare, forse, in un’era in cui creazione e trasmissione della conoscenza non dipenderebbero solo da una agency umana, né dovrebbero per forza avvenire in forma testuale. Potremmo sperare in una eterogenesi dei fini delle macchine, che le sottrarrebbe al loro destino normativo e prevedibile, ma è improbabile.

La scrittura è una tecnologia inventata poco più di cinquemila anni fa, e potrebbe finire come metodo per esternalizzare la memoria umana. Il futuro sarà il risultato di decisioni che prenderemo insieme.


Note della redazione:

*Un “bot”, abbreviazione di robot, è un programma software che esegue attività automatizzate, ripetitive e predefinite. I bot in genere imitano o sostituiscono il comportamento di utenti umani. Poiché sono automatizzati, operano molto più velocemente delle persone reali. Svolgono funzioni utili come il servizio clienti o l’indicizzazione dei motori di ricerca, ma possono anche presentarsi sotto forma di malware per ottenere il controllo totale di un computer.

** I “pappagalli stocastici” in inglese “stochastic parrots”, sono modelli statistici del linguaggio che si basano sull’apprendimento da grandi database di testi, presi prevalentemente da internet. Con questa espressione le autrici vogliono sottolineare che questi sistemi non hanno alcuna comprensione del significato delle parole o delle espressioni che generano, perché non sono costruiti per averlo, ma piuttosto individuano degli schemi verbali ricorrenti nei dati e li “ripetono”.


*** https://time.com/6247678/openai-chatgpt-kenya-workers/


(il manifesto, 20 gennaio 2023)

di Luisa Muraro


Lunedì sette maggio, verso le sette del pomeriggio, sono entrata in un bar e ho ascoltato, dalla televisione accesa, la notizia di una donna uccisa dal marito in seguito a un “banale litigio”, a Napoli. Un’altra, un’altra e un’altra ancora. Nel bar è corso un brusio. Da dove nasce l’odio maschile per le donne? Che cosa nasconde?

Si tratta di un odio abnorme, che tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità.

In passato, le nostre madri e antenate hanno speso tesori di pazienza e d’intelligenza per corrispondere alle esigenze maschili senza diventare sceme o pazze. Non tutte ci sono riuscite.

Oggi molte, la grande maggioranza, non ci stanno più. Si sentono libere e intendono comportarsi di conseguenza. Risultato: un crescendo di violenza maschile.

Fulvia Bandoli dice la cosa giusta quando, nell’appello agli uomini del suo partito, mette sotto accusa il loro atteggiamento d’ignoranza e disattenzione verso la novità storica della libertà femminile. L’ostacolo maggiore in questo momento storico è, infatti, l’arretratezza mentale e morale di uomini che hanno usato la propria posizione privilegiata per non cambiare. Ne cito uno soltanto, il più illustre della vasta schiera: Dominique Strauss-Kahn. Che si è messo fuori gioco con i suoi stessi eccessi. I mediocri, invece, resistono incollati ai loro posti.

Quel maschio fragile che non accetta limiti s’intitola il contributo dello psicanalista Massimo Recalcati per fare luce sul tema. La psicanalisi comincia dunque a registrare che gli uomini arrivano impreparati all’appuntamento con la libertà femminile. Si tratta, suppongo, di un contributo iniziale. Per considerarlo un inizio promettente, e non la testimonianza d’obbligo in questo momento di mobilitazione anche maschile, mancano secondo me due spunti.

Primo, Recalcati non parla a partire da sé, uomo di sesso maschile. E tace ogni possibile legame tra la violenza sessista e la sessualità maschile con le sue ordinarie caratteristiche. I violenti vengono da lui compresi dentro un quadro patologico. Ma non è così. O così non risulta all’esperienza di donne che hanno conosciuto la violenza maschile. Ci sbagliamo noi o l’analista sta esorcizzando la sua propria violenza?

Secondo, Recalcati ignora l’incidenza della realtà storica. Parla, per esempio della “legge della parola” che unisce gli esseri umani, ma viene calpestata dai comportamenti violenti. Non so l’origine di questa formula “legge della parola”; se l’espressione ha un senso, non può non far pensare che le donne sono state escluse per legge dalla presa di parola in pubblico, dalla scrittura e dalla lettura, dal parlamento… Con innumerevoli conseguenze ancora vive e attuali nei rapporti fra i sessi. Contro cui, temo, l’ideale legge della parola enunciata da Recalcati non ha voce.

Ancor più pesa sullo stato dei rapporti fra i sessi il fatto che il cosiddetto contratto sociale, fatto per tutelare i cittadini dalle violenze dei prepotenti, non ha mai tutelato le donne dalla violenza privata maschile. Mai, in nessun paese del nostro civile Occidente.

Come si possa leggere insieme, ma senza fare confusione, la realtà storica e quella soggettiva, io non so, ma che si debba tentare, non ho dubbi, perché l’una e l’altra in me sono scritte insieme, sulla stessa pagina.


(www.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2012)

di Maria Cafagna


C’è qualcosa che non torna nella morte di Martina Scialdone, avvocata di 35 anni, ennesima vittima di femminicidio. Impossibile tenere il conto delle donne uccise dall’inizio di quest’anno, un numero in continuo aggiornamento che probabilmente mentre leggete questa mail, sarà aumentato di una cifra, di due, di tre. Ogni femminicidio lascia dietro di sé una scia di dolore che vede coinvolte le persone che conoscevano la vittima, la famiglia, in molti casi anche i figli e chiunque provi il rimpianto di non aver fatto abbastanza. La morte di Scialdone non fa eccezione.

Martina e le altre potevano essere salvate? Si poteva fare di più? E a chi spetta davvero il compito di proteggerle, di metterle in guardia, di tenerle lontane dal pericolo?

Sono questi gli interrogativi che stanno circolando dal giorno del femminicidio della giovane avvocata, avvenuto a Roma la notte di sabato 14 gennaio poco prima delle 23:30. La donna era a cena con Costantino Bonaiuti, 61 anni, ingegnere e sindacalista dell’Enav. Una testimone interpellata da Repubblica racconta: «Martina l’ho vista nascere, della sua relazione erano tutti scontenti, ma anche lei aveva capito che non andava bene e non voleva riallacciare. Lei era andata anche dallo psicologo e voleva rompere».

Scialdone, che era specializzata in diritto di famiglia, nel corso della sua professione di avvocata si era occupata anche di donne maltrattate, aveva dunque tutti gli strumenti per riconoscere una relazione potenzialmente pericolosa e, una volta accortasi di essere in grave pericolo, aveva troncato la relazione con Bonaiuti, un uomo apparentemente molto instabile, tanto che alcune persone interpellate sostengono che avesse finto di aver un cancro (interpellato sull’argomento, l’avvocato di Bonaiuti ha smentito questa voce); il quotidiano La Stampa ha raccolto le testimonianze di un suo collega dell’Enav: «Ci raccontava della malattia oncologica e delle lunghe sedute di chemioterapia a cui si sottoponeva» e ancora «L’ingegnere era separato dalla moglie, ma viveva ancora con lei in un alloggio a Fidene. Appassionato di armi, era campione regionale di tiro e si esercitava nello stesso poligono dove sparava il killer della strage di Fidene, Claudio Campiti. I vicini di casa di Bonaiuti lo definiscono come “un uomo molto irascibile e violento”. Uno addirittura ricorda: “Sfrecciava con la sua Mercedes nera come un pazzo e quando gli ho chiesto di andare più piano mi ha risposto ‘Non mi scocciare, altrimenti ti sparo’”».

Lui e Martina Scialdone si erano rivisti forse per un ultimo incontro chiarificatore. Dopo aver cenato nel dehors del locale, tra i due era iniziata una discussione dai toni accesi. Da qui in poi, ci sono due versioni: alcuni testimoni raccontano che Martina si sarebbe chiusa in bagno e che i proprietari l’avrebbero invitata a uscire e a lasciare il locale insieme a Bonaiuti; versione circolata molto in rete e che ha scatenato l’indignazione generale. La seconda versione è proprio quella dei proprietari del locale«In merito alle informazioni false e diffamatorie che stanno girando sul web, ci teniamo a sottolineare che non fanno altro che aggiungere dolore a questa triste storia e che non sono frutto di una ricostruzione dei fatti rilasciata da chi non era neanche presente all’interno del locale durante l’accaduto» si legge sulle loro pagine social «Facciamo presente altresì che ci siamo resi totalmente disponibili a collaborare con le forze dell’ordine che stanno ancora svolgendo le necessarie indagini in merito all’accaduto».

Quel che è certo è che, una volta uscita dal locale, Martina Scialdone è stata raggiunta da Bonaiuti che le ha sparato al petto; la donna è poi corsa indietro per cercare aiuto e uno degli avventori del locale con competenze mediche ha cercato di rianimarla, ma era ormai troppo tardi. Martina è morta tra le braccia del fratello, che aveva chiamato in aiuto.

Sulle dinamiche sono in corso le indagini per accertare le responsabilità della morte di Scialdone mentre il web e i social sembrano aver già emesso la sentenza di condanna individuando nei ristoratori i colpevoli di quanto accaduto: la colpa del femminicidio era di chi non è intervenuto o di chi non ha capito subito la gravità della situazione, ovvero i proprietari del locale, il personale, i e le clienti.

In rete si leggono reazioni durissime, c’è chi augura loro la chiusura, chi invita le persone a boicottare il posto, chi li augura di fallire, chi altre cose irripetibili. A loro difesa è intervenuto Marco Pucciotti, noto ristoratore romano: «Quello che sta accadendo in queste ore è agghiacciante. L’ennesimo episodio di femminicidio che invece di essere condannato e analizzato, viene trasformato in un circo mediatico» scrive sul suo profilo Facebook «E così il popolino di internet […] fa partire una shitstorm verso chi di questa storia è tristemente vittima. Vicino alla famiglia di Martina, ai ragazzi di Brado, ai suoi clienti e ai suoi dipendenti che vivranno quegli attimi da incubo per il resto della loro vita». Il post si conclude con l’invito a lasciare recensioni positive al locale in segno di solidarietà.

Costantino Bonaiuti era arrivato all’appuntamento armato, quindi è molto probabile che avesse già deciso di uccidere l’ex compagna che forse, messo alle strette, avrebbe potuto compiere una strage. La verità è che contro un uomo malintenzionato spesso c’è poco da fare. Martina aveva adottato tutte le precauzioni necessarie allontanandosi da lui e scegliendo un luogo affollato vicino alla sua abitazione per il loro incontro. Come sottolinea la giornalista Giulia Siviero su Twitter, anche in questo caso si è cercato di trovare qualcosa che non andava nel comportamento della vittima, ma bisogna sempre ricordare che in molti casi si asseconda l’uomo violento proprio per paura di incorrere in reazioni incontrollate.

Lo dico con la morte nel cuore perché mi sono ritrovata in situazioni simili a quella in cui si è trovata Martina. Molte volte mi sono ritrovata a discutere con il mio ex violento in un locale, molte volte la gente mi ha visto terrorizzata, ho incrociato lo sguardo di chi mi chiedeva se avessi bisogno di aiuto e io ho fatto segno di no con la testa per paura. Ho anche chiesto aiuto e non sono stata ascoltata, ma non ho trovato comunque la forza di uscirne per paura delle reazioni di lui.

Sono giorni che penso a Martina, sono giorni che penso a quelle serate terrificanti passate a pensare «adesso mi ammazza», sono giorni che penso a tutte le volte che immaginavo come avrebbe reagito mia madre alla notizia della mia morte, a cosa avrebbero pensato le mie amiche, a cosa avrebbero detto i miei colleghi. Sono giorni che l’immagine del mio ex mi torna in mente, che ripenso a tutte le volte che la mia storia non è risultata credibile perché lui era una brava persona e tutte le volte che ci penso mi dico che l’unico modo per fermare questa strage è smetterla di fare raccomandazioni alle donne e di iniziare a lavorare sugli uomini. Dobbiamo iniziare questo benedetto lavoro di smantellamento del patriarcato, della violenza, della paura del rifiuto come onta massima.

Ma come facciamo se ogni volta che ne parliamo si tira fuori lo spauracchio del gender? Come facciamo se per ogni femminicidio la colpa è sì dell’assassino ma anche un po’ di lei, della famiglia, dei passanti, dello Stato, della Chiesa, dei social, della crisi? A uccidere le donne sono gli uomini che premono il grilletto, che usano il coltello, che scagliano i colpi di martello. Prima lo accettiamo prima inizieremo a fermare una volta per tutte questa strage.


(Newsletter Wired – Roba da femmine, 19 gennaio 2023)