di Viviana Mazza


«Passiamo semplicemente il tempo». Jameson Butler, capelli castani con ciocche tinte di biondo, è seduta con i suoi amici diciassettenni sui gradini della Central Library di Brooklyn, a Grand Army Plaza, in una ventosa domenica newyorchese. Qualcuno ha con sé un libro, nessuno ha lo smartphone. «D’estate, portiamo pure le amache», ci dice la sua amica Logan Lane. Le legano agli alberi di Prospect Park, il grande parco davanti alla biblioteca. Logan, Jameson, Odille Zexter-Kaiser e l’unico maschio, Max Frackman, hanno rinunciato agli smartphone scegliendo di usare telefonini «a conchiglia» popolari vent’anni fa e che oggi sembrano reperti archeologici.

Sono i ragazzi del Luddite Club, il club dei luddisti, un gruppo di adolescenti nato alla Murrow High School. Anche col freddo, la pioggia, la neve, si incontrano qui ogni domenica e, dopo aver cercato inutilmente una loro presenza online, li abbiamo trovati imbattendoci in loro, come si faceva una volta. «Stiamo aspettando un paio di altri amici». Quando i ritardatari arrivano, si addentrano nel parco, per sedersi in cerchio, a disegnare, leggere, suonare la chitarra.

Secondo il New York Times, il nome Luddite Club l’ha inventato la mamma di Logan: deriva da Ned Ludd, l’operaio che nel 1799 in Gran Bretagna distrusse un telaio, dando vita a un movimento che reagì con violenza all’introduzione delle macchine nell’industria. Adesso il termine indica chi rifiuta la tecnologia. Per questi ragazzi è una questione di salute mentale. Il loro anti-social network ha una portata rivoluzionaria per una generazione che non ha mai vissuto senza social media.

Logan ha avuto il suo primo cellulare a 10 anni, il primo smartphone a 11: subito ha creato un profilo Instagram. Si addormentava alla luce del cellulare, ammirava le ragazzine carine, le prime ad avere i fidanzati, vestite bene. Si sentiva strana in confronto a loro. Da una parte voleva emularle, dall’altra rifiutava di dover essere «popolare». In seconda media ha iniziato a pubblicare un mucchio di foto strane nelle sue stories (un esempio: i suoi piedi nella vasca da bagno). Si chiama «casual Instagram»: fai finta di postare «la qualunque», come se non ti importasse, mentre quello era il periodo in cui «le importava più». Perdere il cellulare si è rivelata una liberazione: da allora ha cercato di disintossicarsi da Instagram, chiedendo alla migliore amica di cambiarle la password per sfuggire alla dipendenza… Aveva 14 anni quand’è iniziata la pandemia e il suo uso dei social è decollato. Si è resa conto di non riuscire più a distinguere le cose che faceva perché le piacevano da quelle che faceva solo sapendo che ne avrebbe postato le foto.

Nella vita le sembrava di recitare per essere all’altezza della sua persona social. Allora ha cancellato tutti i profili e annunciato al papà (che lavora nel campo delle tecnologie) che abbandonava lo smartphone. Durante la pandemia, il tempo che gli adolescenti passavano tra videogiochi, messaggini, social, videochat, film e tv in streaming, è raddoppiato, arrivando a circa 8 ore quotidiane (senza contare le lezioni scolastiche virtuali) secondo uno studio condotto su 5.400 ragazzi dalla rivista medica americana Jama Pediatrics, che sostiene che le abitudini potrebbero essere cambiate in modo permanente anche dopo il Covid. Un rapporto dell’agenzia federale Centers for Disease Control and Prevention, su 17 mila ragazzi delle superiori, mostra che le femmine sono affette dal disagio molto più dei maschi. Le stesse ricerche interne di Facebook hanno rivelato i danni che il confronto sociale continuo online provoca nell’immagine del proprio valore, della propria bellezza, del proprio successo tra le ragazze.

Prima i genitori di Logan non credevano che sarebbe durato. Poi sono stati loro a insistere che tenesse almeno un vecchio telefonino. All’inizio Logan non sapeva cosa fare col suo tempo. Poi ha sentito cambiare «la chimica del cervello». Ha preso in biblioteca «Collages» di Anaïs Nin. Ha iniziato a cucirsi i pantaloni da sola. Si sentiva più creativa e produttiva, però anche più sola. Non avere lo smartphone era «la morte sociale» (benché fosse raggiungibile via sms e email).

Finché una sera a un concerto punk a Prospect Park le hanno presentato Jameson: anche lei aveva un cellulare a conchiglia. Non si sono scambiate il numero, ma due settimane dopo si sono incontrate per caso in biblioteca. Armate di sidro e ciambelle, sono andate a chiacchierare nel parco: è stato il primo incontro del Luddite Club. Certo, per chiamare un Uber devono telefonare ai genitori. Ma Logan non prova più l’ansia sociale di prima. Le sembra di aver trovato una parte di sé che perderebbe se mai tornasse online.


Luddismo

Il luddismo è stato un movimento di protesta operaia, sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari come il telaio meccanico erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati, perché causa di bassi stipendi e disoccupazione. Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane, forse mai esistito realmente, che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta.


(Corriere della Sera, 22 febbraio 2023)

di Barbara Stefanelli e Mara Gregolet


Pubblichiamo l’intervista del 22 febbraio 2023 a Vera Politkóvskaja, figlia della giornalista russa uccisa nel 2006, in occasione della presentazione del suo libro Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkóvskaja, Rizzoli, 2023, alla Fondazione Feltrinelli di Milano.

Molto interessante e particolarmente toccante il ricordo della figlia Vera e il racconto di come ha raccolto l’eredità politica della madre.


Intervengono Barbara Stefanelli e Mara Gergolet del Corriere della sera.

https://fb.watch/j1KqHRFf_X/


(dal profilo facebook della Fondazione Feltrinelli, 22 febbraio 2023)

di Alberto Leiss


La premier neozelandese Jacinda Ardner si è dimessa dal proprio potere. Anche la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon. Non hanno perso battaglie politiche o commesso illeciti. Non sono state sfiduciate dai parlamenti. Hanno dichiarato di voler cambiare vita, stare di più con le persone che amano, e anche con sé stesse, dopo tanti anni dedicati alla politica, al servizio della comunità.

Noi uomini, noi maschi, dovremmo dimetterci dal più negativo dei poteri, e anche dei desideri: quello di combattere, di mettere in gioco vita e morte nostra e altrui. Smettere di fare la guerra e di pensarla come cosa «naturale» e persino «giusta». Ci riguarda perché da secoli e secoli siamo noi a farla. Di questo non si parla molto. Generalmente è rimosso. Persino tanti pacifisti sembrano non esserne consapevoli. È come la lettera rubata di Poe: nessuno la vede perché è proprio davanti ai nostri occhi. Anni fa – era il 2006 – con alcuni amici di Maschile plurale scrivemmo un testo che ebbe una sorprendente adesione, affermando una cosa altrettanto evidente: siamo noi uomini che facciamo violenza alle donne, il problema ci riguarda e dobbiamo farcene carico fino in fondo. Qualcosa si è mosso su questo “fronte”, ma non basta… Sono convinto che vale anche per la guerra. Oggi anche alcune donne, più libere, desiderano non essere escluse dal «gioco» bellico. È la parità. A maggior ragione facciamo una scelta diversa: affermiamo la possibilità, partendo dalle nostre vite, di un mondo capace di liberarsi – se non dalla violenza: si dovrà sempre agire per contenerla e trasformarla in conflitti non mortiferi – dall’idea che la violenza possa essere normale, anzi necessaria e giusta. Antonio Polito ha citato su Sette del Corriere della sera un libro di due giovani donne (Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin, Il costo della virilità, Il Pensiero Scientifico Editore, 2023). I maschi “eccellono” con percentuali tra l’80 e il 90, in tutte le attività violente e delittuose – dagli omicidi e femminicidi, alle truffe e gli incidenti stradali – è un costo per la spesa pubblica pari al 5 per cento del Pil. Polito non parla della guerra, ma lo fanno le autrici ricordando che la passione bellica è tipica della virilità e che l’economia di paesi come Afghanistan, Siria e Repubblica Centrafricana è stata distrutta dalla guerra. Difficile poi quantificare il costo delle stragi, degli stupri, delle ferite, del dramma di milioni di profughi. Di questo si è discusso sabato 11 febbraio alla Libreria delle donne di Milano: ha introdotto Clara Jourdan e con me erano invitati a parlarne Marco Deriu e Alfonso Navarra (registrazione su Youtube).

Riporto solo qualche frase detta da uomini: «Volevo essere il più forte del gruppo, ero intollerante… ma più che prevaricare gli altri volevo difendere me stesso». «È vero, ci si arma per paura di essere colpiti… è tipico di noi maschi rimuovere la nostra vulnerabilità». «Sento anche in me l’attrazione della logica del duello. Ma la competitività che porta alla violenza non è un fatto biologico. È una trappola culturale, potrebbe non esserci…».

Qualcuno ha invitato alla «mobilitazione»: sabato 18 c’è stata a Milano una manifestazione in Piazza della Scala contro l’invio di armi all’Ucraina. Con espressioni artistiche e interventi diversi (vedi il sito “Odissea”). Io condivido soprattutto l’essere vicini agli uomini (e alle donne) che disertano, in Russia, ma anche in Ucraina, e in tutto il mondo. A un anno dall’invasione di Putin, pensiamo e agiamo su questo?


(il manifesto, 21 febbraio 2023)

di Redazione Africa rivista


Raccontare l’Africa con la forza comunicativa della graphic novel: questo il primo intento della scrittrice ivoriana Marguerite Abouet, quando ha creato la fortunata serie “Aya de Yopougon”, oggi al settimo volumeIllustrata dall’artista francese Clément Oubrerie, è stata tradotta in 15 lingue e adattata per la televisione e il cinema. I suoi personaggi Aya e Akissi spopolano tra i più giovani, che riescono a rispecchiarsi in loro. Attraverso le loro avventure l’autrice vuole lanciare un messaggio soprattutto alle bambine, per accompagnarle nel diventare donne libere e indipendenti.

«Ho creato i miei personaggi per dare ai giovani un’altra immagine dell’Africa che non vedono spesso», racconta a Rfi la scrittrice ivoriana Marguerite Abouet, cinquantadue anni, nata ad Abidjan e trasferitasi poi a Parigi a dodici anni. Conosciuta in Costa d’Avorio, Senegal e Francia, la fama di Abouet è in ascesa e tantissimi appassionati sono venuti al festival internazionale del fumetto di Angoulême che si è svolto a gennaio solo per incontrarla. Le sue opere sono diventate una serie, Aya de Yopougon, che ha riscosso un grande successo di pubblico tra i più giovani. I motivi risiedono probabilmente nel motore che ha portato la scrittrice a realizzare la serie. Ricorda infatti a Rfi del suo arrivo in Francia e di come nessuno avesse un’idea chiara di come fosse l’Africa, quando invece lei ce l’aveva fin da piccola del mondo occidentale grazie alle serie tv. I suoi libri nascono per raccontare la sua infanzia e permettere ai piccoli lettori di oggi di ritrovare sé stessi tra le sue immagini e parole.

Questa sua prima missione di voler raccontare l’Africa è diventata più specifica negli anni, rivolgendosi in particolare alle bambine, cercando di lanciare loro un messaggio. La scrittrice, cresciuta con modelli di donne forti come la cantante sudafricana Miriam Makeba, ci tiene a trasmettere loro un messaggio simile e lo fa attraverso i suoi personaggi. «Educare le ragazze è la mia causa perché, come tutti sappiamo, non è facile essere una ragazza oggi in Africa, o in qualsiasi altro posto», ribadisce a Rfi.

Non solo graphic novel

L’impegno attivista e educativo di Abouet si traduce anche nella sua organizzazione senza scopo di lucro “Des Livres pour Tous” (Libri per tutti). Con l’associazione ha fondato cinque biblioteche in Costa d’Avorio per condividere l’amore per la lettura con i bambini che non hanno facile accesso ai libri, dove quest’ultimi possono fare anche altre attività educative legate all’arte e all’ambiente.


(africarivista.it, 16 febbraio 2023)

di Guido Caldiron


Non è solo un omaggio alla memoria degli affetti, al dolore di una perdita che si rinnova ogni giorno. Una madre, il bel libro di Vera Politkóvskaja, con Sara Giudice, da oggi in libreria per Rizzoli (pp. 204, euro 19, traduzione di Marco Clementi), è anche un documento che indica come la lotta per la libertà, e la verità, della giornalista uccisa a Mosca il 7 ottobre del 2006 non si sia, malgrado tutto, mai del tutto arrestata.

In questo senso, il fatto che l’uscita del volume coincida con l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, è tutt’altro che un caso. «I primi due anni dopo la morte di mia madre sono stati difficilissimi sia per me sia per tutta la famiglia. Ma l’ultimo anno è stato probabilmente uno dei più difficili della mia vita, perché per la seconda volta la storia della nostra famiglia si è divisa a partire dal 24 febbraio 2022», ha spiegato ieri Vera Politkóvskaja in occasione della presentazione a Roma del libro. L’autrice, che aveva 26 anni al momento dell’assassinio della madre e che dopo gli inizi come musicista classica ne ha seguito le orme nel campo dell’informazione, è stata costretta a lasciare la Russia subito dopo l’inizio della guerra e ha completato la stesura di Una madre «al di fuori dei confini della Federazione Russa, cosa che mi ha dato la possibilità di sentirmi più libera nel ricordare la nostra vita».

Vera Politkóvskaja racconta infatti, accanto alla relazione intensa ma a volte burrascosa tra due donne dal carattere deciso, la vita, la passione e le battaglie per la libertà di stampa condotte da sua madre che indagò i crimini di guerra perpetrati dai russi in Cecenia come la corruzione del potere putiniano. Proprio nel ripercorrere la determinazione e la volontà di non arrendersi di fronte ad alcun ostacolo della giornalista della Novaja Gazeta, è però evidente come lo sguardo finisca per abbracciare anche il presente. La «nuova» guerra del Cremlino di cui Vera Politkóvskaja è oggi testimone evoca quelle sulle quali sua madre cercò di fare luce: indagini scomode che ha pagato con la vita. Analogamente, oggi, chi a Mosca voglia cercare di raccontare la campagna bellica inaugurata un anno fa da Putin, trova davanti a sé solo porte sbarrate. E minacce.

«I primi giorni, le prime settimane, la sensazione generale era che non fosse successo nulla – spiega Vera Politkóvskaja -, la vita continuava nello stesso modo. Poi è accaduto che hanno cominciato a chiudere progressivamente i mezzi di informazione liberi, che non erano tantissimi, però c’erano. Anche cercare informazioni alternative era difficile perché i siti internet sono stati bloccati. In questo preciso momento si può dire che il giornalismo libero in Russia non esiste più».


(il manifesto, 21 febbraio 2023)

di Arianna Di Genova


Sono brutti, sporchi e cattivissimi gli Sporcelli, coniugi disgustosi e per niente edificanti, sbarcati nel mondo letterario con Roald Dahl. Sono adulti che si insultano tutto il giorno, maltrattano gli animali, sono capaci solo di azioni malvagie, sottolineate lombrosianamente da un aspetto orribile, oltre che sudicio.

Secondo le nuove regole dei sensitivity reader (figura professionale di editor che va a caccia, nei romanzi e nelle trame, di parole e immagini potenzialmente offensive), quei due sozzoni dovrebbero scomparire dalla faccia della terra. Per ora resistono – anche se la signora Sporcella non è più racchia ma solo bestiale –, facendo ridere a crepapelle bambine e bambini in tutto il pianeta, deliziati da quel capolavoro dello scrittore britannico (era nato nel 1916 nel Galles da genitori norvegesi, morì nel 1990), ma alcuni loro cugini letterari non se la stanno passando proprio bene.

Le streghe di Dahl, per esempio, sono finite sotto accusa e frullate in un processo di riscrittura e modifica dell’originale da parte della casa editrice Puffin Books – una divisione del colosso Penguin Random House – nel presunto rispetto di un linguaggio «più inclusivo» (un tema che ossessiona il mondo anglosassone, spesso e non a caso le élites) e con il beneplacito degli eredi della Roald Dahl Story Company, società che detiene i diritti dell’autore acquisita da Netflix nel 2021. Via allora aggettivi poco lusinghieri in odore di body shaming come brutto (ugly) e grasso (fat), o mestieri come la cassiera (è lì che a volte si incontrano le streghe dello scrittore sotto mentite spoglie): meglio scienziata, è meno sessista, in base a non si sa quale pregiudiziale classificazione dei lavori.

Le cancellature e revisioni sono centinaia nel «catalogo Dahl» (il Telegraph ne ha pubblicate molte) e neanche la mitica Matilde, bambina scintillante per intelligenza, ne esce indenne. Non può più leggere Kipling, come faceva nel testo originale (troppo colonialista), ma è costretta a cambiare gusti e optare per Jane Austen. Tutto sommato, non le è andata male ma dovrà dimenticare il suo primo amore letterario per essere «moderna» e «politicamente corretta». Non era certo un angelo Roald Dahl (carattere indocile e non era alieno da antisemitismo, sebbene avesse combattuto come pilota della Raf contro i nazisti, il racconto è nel libro In solitario. Diario di volo), ha tuonato Salman Rushdie in un Twitter: chi è alla testa di questa operazione si dovrebbe vergognare. «Tutti i cambiamenti sono stati attentamente valutati», ha assicurato un portavoce della Roald Dahl Story Company, che ha iniziato il processo di revisione nel 2020 collaborando con Inclusive Minds, organizzazione per l’accessibilità della letteratura per ragazzi. In realtà, il procedimento è «esclusivo» poiché sbatte fuori la porta e tradisce lo stile e il pensiero di un autore che voleva essere scorretto e tagliente, per nulla interessato a indorare la pillola ai bambini né alla società (come, d’altronde, il suo illustratore Quentin Blake). Soprattutto a una società che a tutto pensa tranne che allo sbandierato benessere dei più piccoli.

Addirittura il premier britannico Rishi Sunak si è indignato, difendendo le scelte e l’urticante Roald Dahl le cui parole, ha detto, andrebbero preservate e non annacquate. «Una pericolosa arma»: così ha definito l’editing sull’onda della cancel culture Suzanne Nossel dell’associazione Pen America, che riunisce più di settemila autori e autrici per la libertà di espressione.

Ne sa qualcosa anche Pippi Calzelunghe, bacchettata sempre perché diseducativa, mentre al Piccolo principe sarebbe il caso forse di affiancare una comprensiva figura genitoriale: non si gira infatti da soli per i cieli. E che dire delle fiabe dei Grimm, dove la deformità è spesso associata a crudeltà e perfidia? Le polemiche contro la fantasia sono longeve, eppure «le fiabe non servono ad allevare esecutori diligenti e limitati», scriveva Rodari, ma ad aprire immaginari. In Italia, l’autore della Fabbrica di cioccolato è pubblicato da Salani. La casa editrice preferisce non rilasciare dichiarazioni, ma lo scrittore Pierdomenico Baccalario, noto anche all’estero, ha lanciato una petizione su Change.org: Save Roald Dahl from Puffin New Edit. Intanto, per non farsi cogliere impreparati in un prossimo futuro, un consiglio. Tenersi strette le copie «antiche» e cominciare un book crossing di resistenza ostinata. Il resto è becero marketing.


(il manifesto, 21 febbraio 2023)

di MC Editrice


La guerra è la fiera campionaria delle multinazionali

(Ilaria Alpi)


Ucraina, Siria, Yemen, Libia, Iraq, Palestina, Etiopia, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Kurdistan, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Burkina Faso, Sahel, Mali, Costa d’Avorio, Niger, Nigeria, Mozambico, Sahara Occidentale, Afghanistan, Colombia… Come ripete Papa Francesco, come ricordano gli organizzatori della Marcia Perugia-Assisi, la guerra è dappertutto e la facciamo anche contro i poveri, il clima, le donne, i rifugiati…

Non è vero che non possiamo fare niente di diverso da quello che stiamo facendo.

Non è vero che non ci sono alternative alla guerra.

Non è vero che non c’è spazio per il negoziato politico.

Innanzitutto, ci dice Tenzin Palmo, una delle più importanti insegnanti buddhiste occidentali, in una recente intervista, occorre avere chiaro che «i politici, i militari, i produttori di armi e le altre aziende implicate guadagnano immense fortune ogni volta che scoppia una guerra; si arricchiscono enormemente grazie alla morte e alla devastazione causate da ciò che commerciano. Ma a loro non importa: più morti ci sono, più si conferma l’efficacia delle loro armi e più ne venderanno. Distorcono la verità a loro beneficio, fanno circolare menzogne, come sempre succede. Non dobbiamo credere alla propaganda, anzi, teniamo il cuore aperto!»

E allora chiediamoci, con gli organizzatori della Perugia-Assisi: quali altre armi siamo disponibili a inviare? Per quanto tempo ancora? Quale strategia politica e militare sta guidando i nostri invii di armi? Le armi che inviamo, infatti, non bastano mai. Siamo arrivati ai carri armati, ma gli ucraini già chiedono i cacciabombardieri, i missili a lungo raggio…

Dal 1990 c’è una legge in Italia, la n. 185, che vieta l’esportazione di armi verso i Paesi in stato di conflitto armato, richiamando l’art. 11 della nostra Costituzione che afferma che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Ma questo non basta.

I limiti della legge che vieta l’export di armi

La legge 185 è un testo normativo importante, che pone principi e obiettivi in linea con il dettato costituzionale e chi aspira alla pace si trova in sintonia con alcuni punti fermi previsti, tra questi il divieto di esportazione di armi verso paesi in guerra.

Come si concilia con questo divieto l’invio di armamenti, in particolare, ai Paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi (armi usate contro lo Yemen), e poi all’Ucraina? Il governo Draghi prima e il governo Meloni, poi, hanno deliberato generosi invii. Come è stato possibile? Chi decide sulla questione?

Chi aspira alla pace si trova in sintonia con i punti fermi della legge:

– esportazione, importazione e transito degli armamenti devono essere in linea con la politica estera e di difesa dell’Italia (articolo 1) e, comunque, in sintonia con il principio enunciato dall’art.11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»;

– tutte le operazioni che riguardano gli armamenti, compreso anche il semplice transito sul territorio nazionale o la cessione delle licenze di produzione, sono soggette ad autorizzazione e a controlli da parte dello Stato (articolo 1.2);

– il governo deve assumere «misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa» (articolo 1.3);

– sono inderogabilmente vietate la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione e il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia (articolo 1.7).

La legge pone anche altri importanti limiti al traffico di armi. In particolare l’articolo 1.6 a) vieta l’esportazione e il transito di materiali di armamento «verso i paesi in stato di conflitto armato».

Sulla conversione a fini civili ricordiamo, però, che nei primi anni ’90 e nonostante la l. 185 fosse già in vigore, in Italia la produzione di mine antiuomo, che uccidevano o mutilavano le persone, fu fermata non dal governo ma dalle stesse operaie impiegate nella Valsella Meccanotecnica di Castenedolo (Bs): dopo aver ascoltato i racconti di Gino Strada sui terribili effetti causati dagli ordigni, le trecento operaie addette si rifiutarono di proseguire nella produzione. La vicenda è riassunta in un articolo del Manifesto, firmato da Dino Greco e pubblicato il 15 agosto 2021 (https://ilmanifesto.it/un-pugno-di-operaie-di-un-piccolo-paese-fermo-le-mine).

Anche grazie a questa coraggiosa mobilitazione, una legge ha finalmente formalizzato il divieto di fabbricazione di mine antiuomo in Italia.

La storia delle perverse tecnologie militari ci ricorda che oltre 35.000 persone in Cambogia sono morte o hanno subito gravi mutilazioni a causa delle mine antiuomo e che la strage si è protratta per molti anni dopo la fine della Seconda Guerra d’Indocina (combattuta negli anni dal 1946 al 1954 fra l’esercito coloniale francese e il movimento Viet Minh, guidato da Ho Chi Minh). Molte altre vittime, in numero imprecisato, ma sempre per gli stessi ordigni, sono state causate anche in Mozambico, Afghanistan, Angola, Cecenia, Kurdistan iracheno ed ex-Iugoslavia.

Quanto al divieto assoluto di ogni traffico e transito di armi nucleari (oltre a quelle biologiche e chimiche) ricordiamo tristemente che il nostro territorio nazionale “ospita” ordigni di tal genere nelle basi militari degli Stati Uniti: oltre a trasformare i luoghi in obiettivi militari designati, la presenza di armi nucleari è in palese e inammissibile contrasto con il divieto che l’Italia ha legislativamente posto: evidentemente siamo un paese in parte “suddito”.

Altro punto spinoso è quello dell’esportazione di armi verso paesi in guerra.

Anche qui la legge 185 ha posto un divieto, assolutamente conforme al dettato costituzionale dell’articolo 11: se l’Italia ripudia la guerra come metodo di risoluzione di controversie internazionali non può certo alimentare la guerra sia pure tra Stati terzi. Ma come sappiamo il governo Draghi senza esitazione ha approvato l’invio di armi a sostegno dell’Ucraina e il governo Meloni si è posto in perfetta continuità. 

In effetti, la legge 185, pur vietando di rifornire di armi i paesi belligeranti (senza distinzione tra aggressori e aggrediti) prevede, però, deroghe sia in caso di «obblighi internazionali dell’Italia» (come nel caso di interventi, autorizzati dall’ONU, a fini di interposizione fra belligeranti), sia in caso di «diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere». È quest’ultimo il caso relativo alla guerra russo-ucraina.

Certo la legge prevede la deroga al divieto, ma pone una condizione di pubblicità e trasparenza, richiedendo il parere preventivo del Parlamento con il conseguente dibattito pubblico. Come sappiamo entrambe le Camere si sono espresse a larga maggioranza in favore del sostegno armato a favore di uno dei belligeranti e i due governi successivi (Draghi e Meloni) hanno ricevuto il via libera.

Dal punto di vista strettamente giuridico appare tutto regolare. Rimane, però, insuperato il nodo del contrasto netto fra l’opinione pubblica italiana, in misura preponderante contraria all’invio di armi, e i suoi rappresentanti in Parlamento.

Nei rapporti con altri Stati e in altre occasioni i nostri governi, salvo lodevoli eccezioni mossi disinvoltamente rispetto ad altri divieti posti dalla legge 185. In particolare, rispetto alle esportazioni verso paesi i cui governi erano e sono responsabili di accertate violazioni dei diritti umani (articolo 1.6 d) e rispetto all’ulteriore divieto di esportazione, che scatta «quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali». Il secondo governo Conte aveva disposto in proposito il blocco delle esportazioni verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti delle bombe prodotte a Domusnovas, nel Sud Sardegna, dalla RWM (controllata dalla tedesca Rheinmetall), ma nel luglio 2021, con il sostanziale beneplacito del governo Draghi, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (UAMA) ha rimosso la clausola che condizionava l’esportazione verso i due paesi del Golfo alla presenza di un end-user certificate, cioè della garanzia di un impegno di tali paesi a non usare gli ordigni acquistati dall’Italia nel conflitto in Yemen. Infatti, negli anni precedenti, parti di bombe esplose in territorio yemenita avevano rivelato inequivocabilmente la provenienza e la fabbricazione da parte della RWM. Inutile ricordare le violazioni dei diritti umani ascrivibili ai due paesi in questione e i bombardamenti compiuti in danno dei civili dello Yemen nella lunga guerra, ricordata solo da Papa Francesco e da pochi altri e che insanguina quel paese dal 2015: il rapporto dell’Onu, pubblicato nel novembre 2021, indicava in 377mila le vittime, per il 60 per cento dovute agli effetti indiretti del conflitto (scarsità di acqua e cibo), e in circa 150mila gli yemeniti morti negli scontri armati e nei bombardamenti aerei. L’Undp, l’Agenzia per lo sviluppo dell’Onu, ha denunciato che nel 2021 ogni 9 minuti è morto un bambino di meno di 5 anni.

 Impedire l’irreparabile

«Centinaia di migliaia di persone innocenti muoiono, e perché?», continua Tenzin Palmo, «A causa di un ordine dei politici e della motivazione economica che li spinge. È tutto qui, non ha niente a che fare con “chi ha ragione” o “chi ha torto”, è solo una questione di potere e di denaro» (vedi intervista pubblicata in Otto dialoghi per il tempo presente).

E le motivazioni economiche, anche nel caso dell’Ucraina, sono evidenti. Oltre alle grandi ricchezze del sottosuolo, questa regione possiede una enorme quantità di terra coltivabile (si parla del 7% del totale mondiale) che è stata privatizzata dal governo Zelensky e svenduta alle multinazionali, soprattutto statunitensi. Il settore agricolo del Paese, infatti, è ormai quasi interamente nelle mani di multinazionali americane e occidentali – quali Monsanto, Cargill e Du Pont – (vedi documento The corporate takeover of ukraine agriculture, redatto dall’Oakland Institute). Nel gennaio scorso a Davos, Zelensky ha firmato un accordo per la ricostruzione postbellica con Black Rock, la più grande società di investimenti del mondo: il piano prevede che in cambio dei prestiti, Kiev provveda tra l’altro alla privatizzazione di buona parte del sistema industriale pubblico del Paese. Il popolo ucraino è così doppiamente vittima, massacrato dalla guerra e, sempre a causa della guerra, derubato dei suoi beni comuni oltre che dei suoi diritti civili e sindacali.

La guerra è la condizione per l’arricchimento dei potenti e la conseguente rovina di tutti gli altri e del pianeta. Non possiamo far finta di non saperlo. Come non ricordare quel lungimirante film di Alberto Sordi del 1974, “Finché c’è guerra c’è speranza”? Riprendiamo l’appello del fisico Marco Revelli: «Che mille voci diverse, insieme, facciano sentire il loro no alla logica del “noi” contro “loro”, alla demonizzazione di ogni nemico, alla propaganda di guerra in cui siano immersi. Siamo in guerra con la Russia, stiamo andando alla guerra con la Cina, perché la leadership dell’Occidente pretende di dominare il mondo. Fermiamo questa follia».


(Movimenti e Cambiamenti Editrice, 20 febbraio 2023

http://www.mceditrice.it/it/articoli/47-articoli/382-finche-ce-guerra-la-legge-sullexport-delle-armi)

di Viviana Mazza


Si è dimessa Susan Wojcicki, dopo 25 anni a Google e nove come amministratrice delegata di YouTube. È l’ennesima recente uscita di scena di una donna ai vertici, che contribuisce ad allargare il gender gap della Silicon Valley.

Fu nel garage di Wojcicki che Larry Page e Sergey Brin idearono il loro motore di ricerca. Ha aiutato a concepire e sviluppare il mercato della pubblicità, ora dominante, di Google. Sotto la sua guida i ricavi di YouTube hanno raggiunto i 29 miliardi di dollari e gli utenti sono arrivati a 2 miliardi e mezzo. Il suo nome era stato ventilato come possibile futura ad di Google: ora è improbabile. A 54 anni, ha annunciato che lascerà il posto per motivi personali, parlando di «un nuovo capitolo», con al centro la famiglia (ha cinque figli), la sua salute e progetti che la appassionano. Una sua ex dipendente scrive su LinkedIn che, appena tornata dalla maternità tra solitudine e sensi di colpa, le chiese consiglio e la risposta di Wojcicki la aiutò: «Non devi essere grande in tutto, solo brava quanto basta»»

La notizia ha provocato sui social un’ondata di commenti, sia di elogio per una pioniera che di preoccupazione da parte delle donne che lavorano nel settore. Wojcicki è l’ennesima donna a lasciare i vertici di Big Tech negli ultimi tempi. L’anno scorso a 52 anni Sheryl Sandberg si è dimessa da capo delle operazioni di Meta, dichiarando: «Quando ho iniziato questo lavoro speravo di restarci per cinque anni. Quattordici anni dopo, è tempo di scrivere un nuovo capitolo». Meg Whitman, 61 anni, se n’è andata da Hewlett-Packard nel 2018, dopo sette anni come ad, per assumere la guida di Quibi, piattaforma di streaming presto fallita; ora è ambasciatrice Usa in Kenya. Nel 2020 Ginni Rometty, 62 anni, ha lasciato Ibm dopo quattro decenni nell’azienda e una guida di 8 anni caratterizzata da ricavi in calo e un crollo del prezzo delle azioni. Nel 2012 c’erano grandi speranze che la 37enne Marissa Mayer potesse risollevare le sorti di Yahoo come ad, ma non ci riuscì e si dimise nel 2017 con l’acquisto di Verizon e rivelazioni su falle nella sicurezza tenute nascoste.

Ogni donna e ogni azienda ha la sua storia, ma una cosa che accomuna quelle sopracitate sono le critiche feroci per la loro performance, a volte sentite come attacchi personali, e il fatto che i successori sono uomini. Secondo Bloomberg News, nove anni come ad a Silicon Valley non sono pochi. Ma le donne ai vertici oggi stanno cambiando lavoro in numeri record, dice uno studio di McKinsey e di Lean In, l’organizzazione no-profit fondata da Sheryl Sandberg. «Il problema non è che le donne lasciano, è che ce ne sono troppo poche – dichiara Sandberg – Nessuno scrive articoli sugli uomini che lasciano i posti di rilievo, eppure succede in continuazione. Ma siccome ci sono così poche donne leader è più straordinario quando accade a noi. Dobbiamo rendere lo straordinario ordinario».

Molte donne hanno lasciato il lavoro a causa della pandemia. Nell’ondata di licenziamenti degli ultimi mesi dei giganti della tecnologia, le donne sono particolarmente colpite perché spesso di più recente assunzione e in ruoli sentiti come meno prioritari. Rischiano così di diventare ancor più minoranza, ed essere minoranza è un ulteriore peso che porti sulle spalle.

Non è che non ci siano ancora donne potenti nel mondo di Big Tech. Ma è interessante che tendano a mantenere un profilo pubblico più basso. Safra Catz, ad di Oracle, raramente dà interviste. Susan Li, promossa direttrice finanziaria di Meta a novembre, non ne ha fatta ancora nessuna. Lisa Jackson è una delle cinque donne nella leadership di Apple (gli uomini sono 13). Lisa Su, ad di Advanced Micro Devices, è l’eccezione: parla spesso con i media.


Le (ex) regine della Silicon Valley

Facebook: L’anno scorso a 52 anni Sheryl Sandberg si è dimessa da capo delle operazioni di Meta, la società che controlla Facebook e Instagram.

Hewlett-Packard: Meg Whitman lasciò la multinazionale dell’informatica nel 2018, dopo 7 anni.

Ora è l’ambasciatrice americana in Kenya.

Yahoo: Su Marissa Mayer, nel 2012, c’erano grandi speranze di risollevare il provider di servizi web. Andò male e lei dovette dimettersi cinque anni dopo.


(Corriere della Sera, La ventisettesima ora, 19 febbraio 2023

di Crocefisso Dentello


Aperte lettere, in libreria per Nottetempo, raccoglie con la curatela di Francesco de Cristofaro una selezione di saggi critici di Rossana Rossanda, scomparsa all’età di 96 anni nel 2020. Un’occasione per ripercorrere la parabola intellettuale della storica dirigente del Partito comunista e fondatrice del manifesto, nonché giornalista e scrittrice.

Il volume restituisce una passione divorante per la letteratura. Rossanda scrive – ora elogiativa ora idiosincratica – su opere come L’inganno di Thomas Mann, Le tre ghinee di Virginia Woolf, Antigone di Sofocle, La Storia di Elsa Morante. Tra gli autori studiati a fondo figurano Dostoevskij, Emily Dickinson, Pessoa, Franco Fortini, Garcia Marquez. Una fedeltà a se stessa che si traduce in un “leggere fuori tempo”. Un rimuginare instancabile e sempre lontano da ogni gusto corrente anche per il grande schermo. Ne Il film del secolo – dialogo a tre voci con Ciotta e Silvestri (Bompiani, 2013) – si abbandona a un liberatorio: «Il cinema di Godard non mi cambia niente». In Quando si pensava in grande (Einaudi, 2013), nel raccontare la sua duratura amicizia con Jean-Paul Sartre, si lascia sfuggire una frase rivelatrice: «Era più interessato alle idee che alle persone, e quindi il rapporto con lui fu facile e costante».

Le idee – prima di metabolizzare la rivolta ungherese del 1956 – sono state anche uno schermo contro la realtà. Quando aiuta Anna Maria Ortese a realizzare un viaggio in Unione Sovietica e la scrittrice racconta il Paese come povero e malandato, Rossanda reagisce con veemenza. Quando il Pci tenta di impedire la pubblicazione de Il dottor Živago di Pasternak, è sempre lei a rimbeccare Giangiacomo Feltrinelli sul pericolo di una propaganda anticomunista. A bilancio della sua esistenza ha dichiarato: «Ho cercato di cambiare qualcosa nella società in cui vivevo. Non ci sono riuscita. E sento molto pesantemente la sconfitta. Sono comunista e lo resto. Non formalmente, lo sono davvero: sono persuasa delle ragioni per esserlo». Ragioni che sono messe nero su bianco ne La ragazza del secolo scorso, edito da Einaudi nel 2005 (l’anno successivo sfiora il premio Strega, che finisce per pochi voti in più nelle mani di Sandro Veronesi). Un romanzo autobiografico che – tra i due estremi della sua nascita a Pola nel 1924 e la sua radiazione dal Pci nell’autunno 1969 – ripercorre l’utopia rossa dei seminterrati e delle sezioni di strada, il partito di «quelli che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro, a raccogliere i bollini del tesseramento». Legge i testi sacri di Lenin e di Marx e compie la sua scelta definitiva dopo avere incontrato sul tram tre operai «sfiniti di fatica e di vino, malmessi». Si laurea in filosofia alla Statale di Milano, allieva di Antonio Banfi. Col nome di battaglia “Miranda” partecipa alla Resistenza.

Nel dopoguerra, in virtù della sua erudizione e della sua rete di amici intellettuali, conquista un ruolo di primo piano nel Partito comunista. Prima dirige la Casa della Cultura di Milano e poi, su invito di Togliatti, diventa responsabile a Roma della sezione culturale di Botteghe Oscure. Nel 1963 è eletta deputata. L’anno della rottura è il 1969, che coincide con i postumi delle mobilitazioni studentesche e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Critica contro il socialismo reale, fonda insieme ai compagni Pintor, Natali e Magri la rivista e poi quotidiano il manifesto. Fatale per la radiazione dal Pci l’editoriale “Praga è sola”. Un coraggio da “comunista eretica” che si riverbera anche nel 1978 quando firma forse l’articolo più celebre e controverso della sua lunga carriera di giornalista. In pieno sequestro Moro, nel tentativo di comprendere la logica terrorista, con l’espressione “album di famiglia” riconosce una contiguità con alcune istanze storiche dei comunisti.

Nel Novecento italiano – lei che ha infine riconosciuto il valore del femminismo come cultura antagonista – spicca come una delle donne meno al rimorchio del potere e pertanto mai sotto il plagio maschile nella politica come nella speculazione. In Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri, 2018) il segreto di una libertà irriducibile: «Ho corso sempre, continuo a correre per capire un mucchio di cose… in ogni modo è un bel vivere, non mi sono annoiata mai».


(Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2023)

Romanzo Virtuale: progetto di Francesca Pasini. L’idea nasce dai dialoghi videoregistrati a Quarta Vetrina, il programma d’arte contemporanea della Libreria delle donne di Milano. Terzo capitolo Vite Complete su Margherita Morgantin e Italo Zuffi.Il video, girato nel 2021 durante la chiusura del Covid, è stato ripreso nella loro abitazione e nello studio di Margherita, dove si è trasferita “Quarta Vetrina”. Regia di Cristina Rossi e Chiara Mori. Riprese e montaggio di Gabriele Genchi. Introduce Francesca Pasini.

di Redazione Erbacce


Nell’ambito della mobilitazione “Europe for Peace”, a un anno dall’invasione dell’Ucraina, il Movimento Nonviolento ospita in Italia tre esponenti dei movimenti per la pace e la nonviolenza dei paesi coinvolti nel conflitto:

Kateryna Lanko (Ukrainian Pacifist Movement – Ucraina)

Darya Berg (Go by the forest – Russia)

Olga Karach (Our House – Bielorussia)

Sono tre donne pacifiste che rappresentano i movimenti nonviolenti e degli obiettori di coscienza dei rispettivi paesi (i maschi non possono uscire dai confini a causa del reclutamento militare).

Anche in Ucraina, in Russia, in Bielorussia c’è chi crede nella nonviolenza come possibilità di resistenza civile, chi rifiuta la guerra, chi pratica l’obiezione di coscienza, chi diserta e vuole già oggi costruire la pace. Ci vuole ancora più forza per difendersi senza armi in mano, per amare la propria patria senza odiare quella altrui. Le tre dirigenti pacifiste, che già lavorano insieme da tempo, si incontrano per la prima volta in Italia, non potendolo fare nei loro paesi.

Con la mobilitazione Europe for Peace diciamo che un anno di guerra è troppo, chiediamo il cessate il fuoco, il dialogo e i negoziati di pace per costruire un’Europa sicura e pacifica per tutti. Con le Carovane di pace Stop The War Now abbiamo portato aiuti umanitari alle vittime e incontrato le associazioni della società civile che lavorano per la pace e il rispetto dei diritti umani. Con la Campagna internazionale Object War Campaign! sosteniamo gli obiettori e i disertori e chiediamo che siano aperte le frontiere per garantire loro protezione e asilo.

Le date del Tour:

Fiumicino, lunedì 20 febbraio

Roma, martedì 21 febbraio

Roma, mercoledì 22 febbraio

Modena, giovedì 23 febbraio

Ferrara, giovedì 23 febbraio

Verona, venerdì 24 febbraio

Milano, sabato 25 febbraio

Brescia, domenica 26 febbraio

La nostra vicinanza a chi, pur dentro il conflitto, ha scelto la nonviolenza, si manifesta concretamente con il sostegno legale che offriamo agli obiettori di coscienza sotto processo. I nonviolenti russi e ucraini sono le uniche voci delle due parti che stanno dialogando tra di loro, che creano un ponte su cui può transitare la pace, che lavorano per la crescita della nonviolenza organizzata.

Il Movimento Nonviolento ha come programma l’opposizione integrale alla guerra e alla sua preparazione. Lavoriamo per la diffusione del pensiero e della pratica della nonviolenza; a livello internazionale siamo parte attiva delle reti EBCO-BEOC (Ufficio Europeo per l’Obiezione di Coscienza) e WRI (Internazionale dei Resistenti alla Guerra) con le quali stiamo tenendo i contatti con gli attivisti per la pace in Ucraina, Russia e Bielorussia.

Campagna di Obiezione alla guerra in Russia, Bielorussia, Ucraina

Sostieni le iniziative di pace in Italia, Russia, Ucraina con la Campagna “Obiezione alla guerra con un versamento all’IBAN IT35 U 07601 11700 0000 18745455, intestato al Movimento Nonviolento, causale “Obiezione alla guerra”

Kateryna Lanko vive a Kyiv, è impegnata nel lavoro di formazione alla nonviolenza e sostegno agli obiettori di coscienza. È stata la voce del pacifismo ucraino trasmessa in video alla manifestazione nazionale Europe for Peace dei 100 mila di piazza San Giovanni a Roma il 5 novembre 2022. Il Movimento Pacifista Ucraino (UPM) sostiene i diritti umani alla pace e all’obiezione di coscienza al servizio militare, per lavorare, ricercare, educare alla gestione pacifica dei conflitti, al disarmo, alla cultura della pace, per rafforzare lo stile di vita nonviolento e il controllo civile democratico contro il militarismo. https://ebco-beoc.org/sites/ebco-beoc.org/files/Presentation_Ukrainian%20Pacifist%20Movement.pdf

Darya Berg è una giovane attivista russa dell’organizzazione “Go By the Forest” che ha lo scopo di aiutare il maggior numero possibile di persone ad evitare di essere coinvolte nella sanguinosa guerra della Russia in Ucraina. Fin dai primi giorni della mobilitazione per l’invasione russa dell’Ucraina, ha svolto lavoro di informazione e propaganda per aiutare le persone a sottrarsi al servizio di leva, a lasciare il Paese legalmente o illegalmente, a trovare asilo all’estero. Nel marzo 2022 è stata costretta a lasciare la Russia a causa della sua posizione contraria alla guerra ma il suo attivismo nonviolento continua dall’esilio in Georgia. https://iditelesom.org/en/

Olga Karach è un’attivista, giornalista e politica bielorussa. Direttrice di Our House che ha fondato nel dicembre 2002 come giornale autoprodotto a Vitebsk. Licenziata per attivismo politico, nel 2014, Our House è stata registrata in Lituania come organizzazione con il nome di Centro internazionale per le iniziative civili. Dopo la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, continua a monitorare le violazioni dei diritti umani in collaborazione con altre organizzazioni. Tra queste violazioni assume un peso sempre maggiore quella del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, aggravata da programmi di militarizzazione di ragazzi e giovani minorenni. https://news.house/

La Campagna di “Obiezione alla guerra” è stata lanciata dal Movimento Nonviolento subito dopo il 24 febbraio, all’indomani dell’attacco russo all’Ucraina: una dichiarazione di sostegno concreto agli obiettori di coscienza delle due parti.

«Sono concretamente solidale con gli obiettori di coscienza, renitenti alla leva, disertori russi e ucraini; chiedo che vengano lasciati espatriare, riconoscendo loro lo status internazionale di rifugiati».

La Campagna “Obiezione alla guerra” chiede anche ai giovani del nostro paese di assumersi una responsabilità personale, dichiarandosi preventivamente obiettori verso possibili future avventure militari italiane: «Considerando che la leva obbligatoria nel nostro Paese è solo sospesa e che tale sospensione resta a discrezione del potere esecutivo di governo, dichiaro fin da questo momento la mia obiezione di coscienza. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».

I fondi raccolti con la Campagna sono utilizzati per sostenere concretamente le azioni dei movimenti pacifisti russi e ucraini, per diffondere gli strumenti comunicativi, per assicurare la difesa legale ai perseguitati, per aiutare i condannati o gli esuli, per organizzare le campagne di pressione politica, per rafforzare la rete internazionale della nonviolenza organizzata.


(Erbacce, 16 febbraio 2023)

Nello Stato di diritto la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

di Ida Dominijanni


Lo Stato di diritto è Stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?

Nello Stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti – l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

Così almeno dovrebbe essere in uno Stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali.

Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali – Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga – aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili, entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra.

La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra – lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An – l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in Parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne – per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier – che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo.

Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne, segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale.

Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato frutti, mentre a destra Giorgia Meloni – che all’epoca votò in Parlamento che sì, Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” – ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima.

Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo.


(CRS – centroriformastato.it, 16/2/2023)

Radio Popolare – trasmissione Prisma – Lorenza Ghidini


Ida Dominijanni intervistata da Lorenza Ghidini sull’assoluzione di Berlusconi. Estratto della trasmissione Prisma di Radio popolare del 16/2/2023.


Nel 2014, all’indomani della prima assoluzione di Berlusconi nel processo Ruby-Gate, Dominijanni aveva publicato per edizioni Futura il libro “Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi”.

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di Redazione Tutta la città ne parla, RAI Radio 3


Laura Boella, prendendo spunto dalle telefonate ricevute durante la rassegna stampa di stamane in Prima pagina intorno alla decisione di Nicola Sturgeon, la premier scozzese che ha annunciato le sue dimissioni ieri, a noi interessa un punto particolare: Sturgeon ha affermato che «la politica è brutale»; e non è troppa la distanza dalla scelta della ex-premier neozelandese Jacinda Ardern che aveva annunciato le sue dimissioni dicendo «So cosa richiede questo lavoro e so che non ho abbastanza energie per rendergli giustizia». Ci sembrava interessante prendere anche questo spunto per mettere a confronto un modello classico di potere maschile rappresentato da quanto esce dal processo a Berlusconi con quello di Sturgeon che ne rappresenta un altro, un potere femminile, che però lascia.

Penso che questa vicenda sia interessante anche perché, sebbene non sia la prima volta, ci spinge a combattere contro gli stereotipi che purtroppo si addensano sempre sul capo delle donne. Quali stereotipi? Primo, l’eccellenza femminile, le donne sono capaci di fare di tutto, a condizione che si alzino alle cinque del mattino, facciano due ore di ginnastica, poi si vestano in maniera elegante, siano in perfetta forma, non mangino perché altrimenti ingrassano eccetera. Dall’altra parte, le donne salveranno il mondo e questo ha avuto un grande peso e l’ha tutt’ora in politica, visto che i politici uomini che non ce la fanno proprio, stanno attaccati al potere combinando molti guai. Allora ci rivolgiamo a queste creature meravigliose che sono le donne che rappresentano un’ultima spiaggia. Sinceramente questi stereotipi dobbiamo continuare combatterli; e ricordo anche che qualche anno fa si è discusso il fatto che alcune donne manager statunitensi hanno quasi raggiunto il top della carriera ma hanno deciso di tornare a curare i propri genitori anziani, i propri figli. Qual è stata la spiegazione di questa decisone? Si è detto che l’orologio biologico suona per tutte: cioè il richiamo della maternità, la cura, la pazienza le hanno riportate a una soddisfacente vita quotidiana. In particolare parliamo dell’espressione usata dalla premier scozzese che è la stessa di quella usata dalla premier neozelandese: «Io sono un essere umano». Anche una grandissima soprano, Maria Callas, ha combattuto con questa espressione pettegolezzi, odi, l’alto prezzo che si chiede a una donna di genio ma anche a una donna politica. Oggi ho sentito anche qualche commento sul fatto che le donne non accettano più di pagare questo prezzo, il prezzo della competizione. Credo che ci siano due punti da affrontare per uscire un po’ dalle trappole degli stereotipi e soprattutto per trarre qualche insegnamento non semplicemente patetico, a partire dalle decisioni prese dalle due premier, come quelli basati sulla stanchezza delle donne o solo sull’estraneità alle logiche maschili. Il primo insegnamento è che queste due donne ci dicono, con un ammonimento che dovrebbe arrivare anche agli uomini, che non si può essere donne e uomini come se si fosse un’unica cosa (in questo caso una politica). In fondo la politica oggi è rapace proprio perché chiede questo totale, radicale coinvolgimento, che va tanto bene agli uomini ma che va molto meno bene alle donne, che da anni lottano per diversi tempi della politica. Quindi non si può essere una donna di un’unica cosa, l’ha detto chiaramente Sturgeon: «Io sono stata per anni solo la politica».

Tra l’altro stamattina, un’altra telefonata di una donna si chiedeva come le donne potessero tutelarsi dall’accusa di essere rinunciatarie. Sturgeon ha incarnato una politica forte, ma oggi viene riconosciuta come una che ammette o denuncia una fragilità. Queste scelte vanno viste solo così, come delle fragilità, affidandosi a quegli stereotipi che lei ci stava indicando?

Qui, infatti, si inserisce il secondo punto che volevo affrontare, la seconda lezione che ci viene dalle scelte di queste due donne. Perché diciamo che si rinuncia alla politica e allora si torna a casa? Si ritorna alla cura e a tutte queste sbandierate virtù femminili, che sono comunque importantissime dal lato politico e sociale. Sono convinta e mi piacerebbe che le due ex-premier continuassero a fare politica. Perché si può fare politica anche fuori della politica politicante, quella delle aule parlamentari dove si organizzano riunioni a mezzanotte come se nella giornata non si avesse altro d’importante da fare. C’è un modo di far politica al di fuori di quella brutta, incompetente o dilettantesca che purtroppo occupa le prime pagine dei giornali. E mi auguro proprio questo: che loro diano un segnale non soltanto di quanto sia importante la vita quotidiana, il pensare e curare anche se stesse, la propria intimità e ai propri affetti. Che diano anche un segnale anche verso una politica diversa: la politica delle relazioni.


L’audio dell’intervista (da 44’42” al termine) si può ascoltare qui: https://www.raiplaysound.it/audio/2023/02/Tutta-la-citta-ne-parla-del-16022023-14572281-a7bc-4c9b-a040-b7828cf81d42.html


(RAI Radio 3 – Tutta la città ne parla, 16 febbraio 2023)

di Clara Jourdan


Introduzione all’incontro in Libreria delle donne, Milano 11 febbraio 2023: La guerra incombe più di ieri. Che cosa si può fare oggi? A quasi un anno dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina continua ad aumentare il coinvolgimento armato di altri paesi tra cui l’Italia, nonostante sempre più donne e uomini stiano dicendo basta a questa e alle altre guerre che insanguinano il pianeta. Ci troviamo in una situazione molto difficile e pericolosa. Vogliamo parlarne a partire dalla consapevolezza che ogni guerra è scatenata da uomini e colpisce tutte e tutti, cioè che la guerra fa parte della questione maschile, dei gravi problemi causati alla convivenza civile dal sesso maschile come si esprime nella storia, e che ormai è necessario un cambiamento, prima che sia troppo tardi. Ne discutiamo con Marco Deriu, Alberto Leiss, Alfonso Navarra: uomini impegnati nella riflessione e nell’azione contro la guerra. Introduce Clara Jourdan.


La guerra iniziata con l’invasione dell’esercito russo in Ucraina il 24 febbraio 2022 ha riportato all’attenzione di tutte e tutti la realtà della guerra, sempre presente nel mondo ma che tendiamo a mettere da parte, per non esserne schiacciate. A quasi un anno di distanza dall’invasione, la guerra incombe più di ieri, e non sappiamo cosa possiamo fare. Qui vogliamo cercare di ragionare a partire da una considerazione che alcune donne fanno da tempo ma che non è presente nei discorsi pubblici: la guerra è una manifestazione della questione maschile,[1] cioè dell’insieme di problemi che il sesso maschile come si esprime storicamente causa alle donne, alle creature, alla natura, alla convivenza civile, agli uomini stessi. Dei femminicidi e le altre violenze contro le donne si parla ormai spesso. È necessario prendere coscienza che anche la guerra ne è una manifestazione, e terribile, per la devastazione che provoca in morti, vite sconvolte, città distrutte.

Prima di entrare nel merito della guerra come questione maschile, voglio precisare che non intendo escludere le donne dalle responsabilità nel far continuare le guerre, a volte prendendo le armi ma specialmente nutrendo, curando e sostenendo i combattenti e i loro ideali, come sappiamo dalla storia e come vediamo ancora. Eppure molte femministe pensavamo come Letizia Battaglia, la fotografa impegnata morta nel 2022, che nella sua autobiografia scriveva: «Sono sicura che le donne al governo non permetterebbero la guerra».[2] Invece la permettono. Anche per il poco che è in loro potere, come le leader di Finlandia e Svezia che di fronte all’aggressione russa all’Ucraina hanno chiesto l’ingresso dei loro paesi nella Nato, mentre forse potevano ribadirne la storica neutralità, ce lo saremmo aspettate da alcune dichiarazioni “femministe”. Kaja Kallas, presidente dell’Estonia dal gennaio 2021, in una intervista del 29 aprile 2022 si dice «convinta che se ci fosse stata una donna a capo del Cremlino, questa guerra non sarebbe mai scoppiata», perché «se hai dato vita a un essere umano, è così crudele ammazzare il figlio di un’altra donna»[3], ma lei sceglie di stare «dalla parte giusta della cortina di ferro, che è quella della Nato». Cioè al momento di rispondere alla guerra ha prevalso la logica delle alleanze militari. Laura Colombo commenta: «Se le donne arrivano al potere, devono radicarsi ancora più profondamente nella loro differenza per non perderla, e non perdere così la possibilità che davvero la guerra sia messa fuori dalla storia».[4] Purtroppo oggi che “le donne sono ovunque”[5] accade spesso che quando una donna si trova in un posto di potere tenda a stare «all’interno della logica dei rapporti di forza e di potere»[6]. Su questo abbiamo riflettuto in un incontro qui in Libreria il 12 giugno 2022.[7] Stasera chiedo di concentrarci, grazie alla presenza di uomini impegnati contro la guerra – Marco Deriu e Alberto Leiss ne hanno anche discusso recentemente in un incontro dell’associazione Maschile Plurale di cui fanno parte – sulla questione maschile che pone la guerra, prima che sia troppo tardi.[8]

A differenza dei millenni passati, oggi la guerra deve essere giustificata come difesa, difesa di territori, di popolazioni, di valori. Specialmente come resistenza. Questo è effetto della fine del patriarcato, nella cui civiltà era presente la guerra di conquista. Può essere considerato un passo avanti, un cambiamento culturale importante, così come l’aumento delle proteste popolari: quella mondiale del 15 febbraio 2003 non è riuscita a impedire l’attacco degli Usa all’Iraq ma ha mostrato inequivocabilmente che la guerra esterna non è più accettabile. Tuttavia ritenere che una guerra debba essere giusta fa sì che le guerre continuino, e vengano sostenute e alimentate da paesi “amici”.[9] Invece occorre sapere, dice il papa Francesco, che «la guerra non è mai giustificata».[10]

Come scrisse tanti anni fa Gertrude Stein (che guidava ambulanze in Francia nella prima guerra mondiale), «una guerra è sempre perduta, sempre perduta». Da allora la situazione è via via andata peggiorando, muore molto di più la popolazione che i combattenti, e a causa del progresso tecnologico e dell’economia capitalistica la pericolosità è aumentata enormemente. Nel 1945 l’atomica l’avevano solo gli Stati Uniti e l’hanno usata. Adesso che ce l’hanno tutti, come possiamo credere che un Putin o un altro uomo al comando sia più responsabile del presidente Truman che ha fatto sganciare la bomba su Hiroshima e dopo averne visto l’effetto un’altra su Nagasaki?

Una guerra è sempre perduta non solo per la morte e distruzione che ha provocato ma per le sue conseguenze nelle relazioni tra stati. Una cosa che eternizza la pericolosità delle guerre rilanciandole quando sono finite è la “voglia di stravincere”[11] dei vincitori. Tutti sanno che la seconda guerra mondiale è stata il seguito della prima, i cui vincitori con il Trattato di Versailles (1919) hanno voluto umiliare la Germania sconfitta. E non è forse la voglia di stravincere degli Stati Uniti e della Nato che ha portato alla guerra di oggi della Russia all’Ucraina? La fine della Guerra fredda in Europa, con lo scioglimento del Patto di Varsavia (1991) e quindi la vittoria degli Stati Uniti non ha portato, come sarebbe stato sensato volendo davvero la pace, allo scioglimento della alleanza militare Nato (istituita nel 1949), il cui allargamento alla Repubblica Federale Tedesca nel 1954 aveva spinto l’Unione Sovietica a fondare nel 1955 il Patto di Varsavia. Ma nel 1991 almeno c’è stato l’accordo di Bush con Gorbacev che la Nato non si sarebbe allargata verso est. Un impegno di pace a cui molti e molte hanno creduto perché alla base del diritto internazionale per evitare le guerre c’è il principio che i patti vanno rispettati (Pacta sunt servanda). Invece la voglia di stravincere ha dominato i decenni successivi: la Nato si è ampliata più volte dal 1999, l’ultima nel 2020; ben 14 paesi sono entrati, di cui 10 dell’ex Patto di Varsavia, e l’Ucraina è in trattativa. Seguendo Freud, Franco Fornari nel libro La psicoanalisi della guerra, pubblicato nel 1966 in piena guerra fredda e minaccia atomica, aveva definito la guerra come una “elaborazione paranoica del lutto”.[12] Bisognava dunque saperlo che si sarebbe arrivati al punto in cui ci troviamo.

I soggetti che gli psicanalisti avevano in mente erano gli uomini di sesso maschile, ovvio, ma non lo dissero, però oggi possiamo e dobbiamo dirlo. Tornando alla voglia di stravincere, esiste anche nei conflitti interpersonali, anche nelle donne, alla fine dei loro rapporti con uomini, come ha spiegato Lia Cigarini, ma è negli uomini di stato che impedisce la pace al termine delle guerre. C’è una differenza sessuale anche nella voglia di stravincere. La voglia maschile di stravincere credo si agganci a un elemento simbolico che è alla base del perpetuarsi della guerra, il valore virile del guerriero, il suo onore, e su questo potranno dire qualcosa di più preciso gli uomini qui presenti, in particolare Marco Deriu che ha analizzato la differenza sessuale nel suo fondamentale Dizionario critico delle nuove guerre.[13]

Comunque, il cambiamento che riscontriamo in alcuni (o molti?) uomini nelle relazioni con le donne sembra venir meno quando si tratta della guerra, che resta una attività onorevole per gli uomini. Dai “caduti per la patria” della prima guerra mondiale (in realtà milioni di giovani uomini massacrati per spostare i confini degli stati) a tutt’oggi, un secolo dopo, la fine del patriarcato non ha intaccato l’immaginario e il sentimento di reverenza e gratitudine per il soldato. Lo possiamo vedere chiaramente per esempio nelle serie televisive americane progressiste, il grande onore che viene tributato ai militari caduti all’estero non ha l’eguale per nessuna attività maschile. Io sono sempre colpita di fronte a queste espressioni, che sembrano autentiche, sentite, e mi viene in mente per contrasto l’indifferenza per i caduti sul lavoro, che pure sono morti per il “paese”.

Forse è questo il punto chiave della questione maschile riguardo alla guerra, che resta un’attività onorevole per gli uomini. Ottant’anni fa Virginia Woolf aveva capito che è su questo che bisogna agire, creare attività più onorevoli per gli uomini onesti.[14] Gran parte degli uomini in realtà non vuole la guerra, ci vanno solo se obbligati, ma sono ben pochi quelli che trasgrediscono disertando oppure opponendosi al patriottismo ancora dominante nella cultura. Poco prima della pandemia mi è capitato di assistere a un concerto di una banda di paese, nel mio paese di nascita: quando hanno suonato l’inno nazionale italiano e io non mi sono alzata in piedi, il mio vicino di sedia si è indignato e con grande agitazione mi ha chiesto da dove diavolo venivo.

Guerra e patria sono strettamente legati, negli uomini, lo spiega bene Marco Deriu nella voce “Differenza sessuale” del libro citato, un libro che «nasce da una precisa consapevolezza: la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario. Si afferma, in primo luogo, come una possibilità che si installa nel nostro orizzonte di pensiero, nella nostra visione delle cose». Fino a rendere la guerra un «fatto sociale totale» nella normalità delle nostre vite, a cominciare dal linguaggio.[15] Da qui comprendo come mai il “diritto alla resistenza” sia sempre invocato e indiscusso. Un diritto che in realtà suona come un obbligo, se pensiamo all’Ucraina che appena invasa avrebbe potuto arrendersi ma il suo governo ha deciso di resistere. Milioni di profughi, centinaia di migliaia di morti, città completamente distrutte… un’enorme catastrofe di cui non si scorge la fine. Non si poteva cercare di evitarla valutando con buon senso cosa fosse opportuno fare? invece di ubbidire all’ineluttabilità di un diritto maschile, e all’orgoglio degli uomini al comando. Tante donne, come me, pensano che dovremmo arrenderci se la nostra città, Milano, venisse assediata, piuttosto che morire o dover scappare in massa e lasciarla distruggere. Non siamo più ai tempi delle guerre di indipendenza (guerre ricordate dalla toponomastica in questa zona di Milano: l’insurrezione del 1848 in piazza Cinque Giornate, corso XXII Marzo …). Oggi occorre prendere atto che il principio ottocentesco dell’autodeterminazione dei popoli – “popoli” al plurale, cioè distinti su base etnica, linguistica, storica, religiosa… – è diventato pericolosissimo, quanto sedimentato nel nostro immaginario; nel Novecento abbiamo assistito alla distruzione della convivenza di intere popolazioni (penso alla ex Iugoslavia) per creare nuovi stati per ciascun “popolo”, e sarà sempre peggio dato che con la globalizzazione i cosiddetti popoli si mescolano ovunque.


(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2023)


[1] Laura Colombo ha dedicato alla questione maschile la sua lezione all’ultimo Grande seminario di Diotima, in dialogo con Marco Deriu (Verona, 21 ottobre 2022): https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-questione-maschile-3/

[2] Letizia Battaglia e Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia, Feltrinelli 2020, p. 115.

[3] Intervista di The Times UK, https://www.thetimes.co.uk/article/if-a-woman-was-running-russia-thered-be-no-war-in-ukraine-h9w99b087

[4] Commento di Laura Colombo all’intervista a Kaja Kallas, Se le donne arrivano al potere, 29 aprile 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/se-le-donne-arrivano-al-potere/

[5] Le donne sono ovunque è il titolo di “Via Dogana” 111/2014, l’ultimo numero cartaceo della rivista di pratica politica della Libreria delle donne di Milano.

[6] La forza delle donne. Introduzione di Laura Colombo all’incontro del 12 giugno 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-forza-delle-donne-introduzione/

[7] Vedi Lia Cigarini, Le contraddizioni spingono avanti il pensiero, #VD3, 19 luglio 2022, https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/le-contraddizioni-spingono-avanti-il-pensiero/

[8] «Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, – ha scritto il papa Francesco – che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale» (Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza, Piemme 2022, p. 60; gran parte del capitolo “In nome di Dio chiedo che si arresti la follia della guerra”: https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/papa-francesco-in-nome-di-dio-fermate-la-guerra/. Sulla disumanizzazione di questa guerra vedi Domenico Quirico su La Stampa, 4 Febbraio 2023.

[9] «Mi piace la strada su cui ci troviamo: con armi e denaro dall’America, l’Ucraina combatterà la Russia fino all’ultimo uomo». A parlare è stato il senatore repubblicano Usa Linsdey Graham, il quale ha poi ha precisato che la vittoria ucraina sulla Russia è «un reset dell’ordine mondiale che va nel senso giusto» (Francesco Strazzari, Il commento della settimana, il manifesto, Lunedì rosso del 9 gennaio 2023).

[10] Vi chiedo in nome di Dio, cit., p. 60.

[11] Prendo questa espressione dal titolo di un articolo di Lia Cigarini, che anni fa scriveva: «quando come avvocata mi trovo a difendere le donne nelle cause di separazione, le vedo agire un forte senso di rivincita nei confronti dell’uomo con cui hanno vissuto» (Voglia di stravincere, Via Dogana n. 68, 2004). Sia chiaro che la voglia di stravincere femminile può essere un problema, ma certo non ha a che vedere con le guerre tra stati.

[12] S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915; Franco Fornari, La psicoanalisi della guerra, 1966 (ultima ed. 2023). Citati da Massimo Recalcati nell’articolo L’allucinazione della guerra, Doppiozero, 4 aprile 2022.

[13] Editrice Missionaria Italiana, 2005, pp. 136-144.

[14] Thoughts on Peace in an Air Raid, 1940; trad. it. Pensieri di pace durante un’incursione aerea, in Per le strade di Londra, Il Saggiatore, 1963.

[15] Dizionario critico, cit., Introduzione, p. 11 ss.

di Alberto Leiss


[…] Oggi le donne reagiscono alla violenza. Denunciano. Si rivolgono ai centri femminili e femministi. Ma molto spesso devono fare i conti con altra violenza che subiscono dalle istituzioni da cui si aspettavano sostegno. 
Una delle più odiose riguarda i figli che vengono strappati alle madri e relegati nelle “case-famiglia”, costretti a frequentare padri violenti di cui hanno paura. 
Ne parla un libro-inchiesta di cui si è discusso a Roma nella sede del Senato, per iniziativa della senatrice Valeria Valente, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Con lei la viceministra per il lavoro e le politiche sociali Maria Teresa Bellucci. E le autrici del volume Senza Madre. Storie di figli sottratti dallo Stato (Edizioni scientifiche Ma.Gi. 2022): Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Flavia Landolfi, Silvia Mari, Assunta Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente, Livia Zancaner, interrogate da Flavia Fratello. 
Sotto accusa l’uso distorto della legge sugli affidi condivisi e del concetto di “bi-genitorialità”: è la cultura sbagliata di troppi addetti/e alle consulenze (molto costose!) di cui si servono magistrati che si adeguano volentieri a giudizi supposti scientifici. 
C’è stata molta polemica contro la PAS, la cosiddetta “sindrome di alienazione parentale” importata dagli Usa: non viene più citata nelle sentenze, ma ne resta la logica. Sarebbe colpa della mamma nevrotica e possessiva se i figli hanno paura del padre violento. Il quale, malgrado maltratti la moglie o compagna, sarebbe capace di essere un “buon padre”. Succede in tantissimi, troppi casi. Ci sono mamme che si vedono strappare i figli che non rivedono per anni. Era presente in sala Laura Massaro, che ha combattuto per un decennio prima di avere giustizia dalla sentenza della Cassazione che l’anno scorso ha anche ribadito la non scientificità dalla PAS. 
Il libro, aperto dalla magistrata Francesca Ceroni e chiuso da un commento di Monica Lanfranco, documenta anche il fatto che l’opinione dei minori viene per lo più ignorata. «Sono 23.122 – scrive Alley-oop, blog del Sole 24 ore – i bambini e i ragazzi ospiti delle 3.605 comunità per minorenni in Italia: nel 78% dei casi il collocamento in struttura è stato disposto dall’autorità giudiziaria». Solo nel 12% dei casi è stato disposto con il consenso dei genitori. Il 10% sono «allontanamenti d’urgenza» – cioè con la forza – ex articolo 403 del Codice civile, «ma si tratta di un dato parziale…».


(Il manifesto, 14 febbraio 2023, con il titolo “Amadeus? è un po’ di destra”)

di Chiara Valerio


«Tu nel momento stesso in cui non sei altro che un’impressione un’insistenza nel m/io corpo… i/o ti chiedo di lasciarti vedere, di domando di lasciarti toccare».

È probabile che Monique Wittig – scrittrice e teorica francese, lesbica, scomparsa vent’anni orsono il 23 gennaio 2003 a Tucson, dove insegnava letteratura francese e studi di genere – abbia scritto ciò che ha scritto troppo presto. Il suo primo romanzo L’opoponax – pubblicato per la prima volta nel 1966 (Einaudi, trad. C. Lusignoli), uscirà presto in una nuova traduzione di Laura Piperno per Luiss University Press – vince il Prix Médicis e racconta la storia d’amore tra due adolescenti. È il 1964 e, del romanzo, Marguerite Duras dirà che è un capolavoro, il New Yorker, quando il libro uscirà in America, ne sottolineerà le prodezze linguistiche e la New York Times Review of Books strillerà che la migliore definizione è «uno smagliante rientro nell’infanzia». Quando, insomma, Monique Wittig, nata nel 1935 in una famiglia modesta e conservatrice a Dannemarie, paesino dell’Alto Reno, irrompe sulla scena letteraria, se ne accorgono tutti. Nathalie Sarraute dirà: «probabilmente non sarò qui a testimoniarlo, ma vedrete tra venti o trent’anni che scrittrice abbiamo premiato oggi». Monique Wittig voleva essere chiamata “scrittore”.

Amore, prodezze linguistiche, infanzia, dunque trasformazione, rimarranno caratteristiche fondanti e motrici di tutta l’opera di Wittig – sia letteraria che teorica, teorica perché letteraria – talmente presenti che quando nel 1973 esce Il corpo lesbico, non tutti – e, in questo tutto, la comunità lesbica – capiscono che per Wittig il lesbismo non è solo un orientamento sessuale ma una pratica politica. Wittig lavora sui pronomi, cerca la scomparsa dei generi, scrive all’impersonale, smantella i generi grammaticali per tentare di intaccare le gabbie di genere nella società. Forse è troppo presto, oggi aggettivi come fluido o queer sono componenti di una riflessione che non riguarda solo le comunità omosessuali e gli studiosi e le studiose di genere. Corpi che mutano in nuove forme. Lavorare sui pronomi, in parole forse troppo povere, significa rifiutarsi che il maschile faccia funzione di neutro, si appropri dell’universale.

Il 26 agosto 1970 Wittig è nello sparuto drappello di militanti che depone una corona di fiori alla memoria della moglie del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe a Parigi. Il gesto, la performance diremmo oggi, segna la nascita del movimento femminista francese.

Sei anni più tardi, Wittig lascia la Francia per gli Stati Uniti, in rotta con le compagne del movimento, o si mette in discussione l’eterosessualità come modello sociale, o non si va da nessuna parte, ribadisce che lesbismo è pratica politica e non solo orientamento sessuale.

La prima traduzione italiana de Il corpo lesbico esce nel 1976 per le Edizioni delle donne tradotto da Elisabetta Rasy e Christine Bazzin e fino a oggi era l’unica disponibile (e introvabile). Deborah Ardilli, autrice della nuova, smagliante traduzione per VandA edizioni, chiede per essa «una carità ermeneutica» perché oggi abbiamo un vantaggio prospettico e sappiamo cose che nel 1976 era impossibile sapere o accettare. «In un mondo dove noi non esistiamo se non ridotte al silenzio, dobbiamo, in senso proprio nella realtà sociale e in senso figurato nei libri, che ci piaccia o no, costruire noi stesse… in un’epoca in cui gli eroi sono passati di moda, diventare eroiche nella realtà, epiche nei libri».

Questa frase di Wittig è in esergo alla precisa e appassionata introduzione di Ardilli – traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi – che introduce il romanzo, lo colloca fuori del solco dell’«enfatica messa in scena dell’amore tra donne» ponendo l’accento sul valore politico del testo.

Tuttavia, l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne è il motivo per cui io, a metà degli anni Novanta, prendo in mano Il corpo lesbico. Ero al liceo e speravo il libro dicesse qualcosa di me. Che è il motivo per cui si leggono i libri ed è la ragione per cui i libri servono in mezzo alle persone e non sulle isole deserte. Il testo mi aveva straniata – spatriata diremmo oggi grazie a Mario Desiati – per la struttura a pannelli, e per certe parole stampate enormi che rompevano la monotonia delle righe. La prima osservazione è che il corpo lesbico è un corpo, di tendini, organi, ossa. E già questo, per chi pensa di essere strano e diverso, è tranquillizzante. La seconda osservazione è che il corpo lesbico è un corpo che muta, mitologico per come siamo abituati a pensare le mitologie, cioè possibilità e metamorfosi. La terza è che le metamorfosi coprono tutti i regni e tutti i mondi, sono animali e inorganiche, nell’ambito dell’inorganico si va da ciò che esiste a ciò che l’essere umano ha fatto, dalle pietre insomma, alle statue. È un cantico dei cantici moderno e nel quale scorre il sangue anche se non si è feriti. La quarta osservazione è che gli eroi sono e possono essere declinati al femminile. La quinta è una prassi: «I/o ti cerco m/ia radiosa in mezzo all’assemblea». Chi leggerà il libro oggi troverà un testo diverso da quello che ho letto io, un libro trionfante, che mischia i generi e rompe la grammatica, righe di rivoluzione ed ebbrezza.

Thomas Simonnet, direttore delle Éditions de Minuit, editore francese di Wittig, in un’intervista a Nathalie Crom per Télérama del 3 gennaio scorso ha dichiarato: «Le vendite dei suoi libri sono aumentate a partire dal 2018. Limitandosi ai primi due, sono aumentate di dieci volte: L’opoponax è passato dalle 100-150 copie all’anno alle 1500-2000, quelle de Les Guérrillères da 250-300 copie a 2500-3000». Dunque, bentornata anche in Italia Monique Wittig.


(la Repubblica Cultura, 14 febbraio 2023)

di Viviana D’Aloiso


La prima volta che vede un campo da calcio, Nazira, ha 12 anni. È un giorno di sole a Bamiyan – la provincia rurale dell’Afghanistan famosa per il sito archeologico in cui i taleban nel 2001 hanno distrutto le statue del Buddha – e mamma e papà sono fuori. Suo fratello ha il compito di tenerla con sé, durante la partita. E di là dalla rete, lontano dal gioco, c’è una bambina come lei che tira il pallone contro il muro. «Non ci ho pensato un attimo – racconta con gli occhi ancora pieni di quella prima passione – sono scesa e mi sono messa a giocare con lei». Nazira, però, il pallone ce l’ha scritto nelle gambe e nel destino. E l’allenatore del fratello se ne accorge subito: «Perché non vieni ad allenarti con noi qualche volta?» le chiede a fine partita. Il giorno dopo eccola lì. Quello dopo ancora. «Andavo a dormire e pensavo al campo, mi svegliavo per andare a scuola e volevo solo andare a giocare a pallone». Nazira, che è già una portiera promettente, chiede ai suoi genitori di poter entrare ufficialmente nella squadra, ma la risposta è no: «Come facciamo piccola mia?» le ripete il padre. La famiglia è di etnia hazara, i pashtun li vedono di cattivo occhio, una femmina in pantaloncini sul campo da calcio è una provocazione che potrebbe costare caro a tutti in città. Nazira piange un giorno e una notte, poi si alza e decide che a calcio vuol giocare lo stesso. Di nascosto.

La sua storia di coraggio e di lotta per la libertà comincia così. Senza diritti da rivendicare, se non quello di poter giocare al pallone. Nazira la racconta dalla sede della cooperativa sociale Il Melograno di Milano, che l’accoglie in un progetto di autonomia da settembre scorso, coi lunghi capelli ondulati sciolti sulle spalle e la tuta del Milan da cui non si stacca mai. Perché tra quella bambina di Bamiyan e la portiera della primavera rossonera che è diventata oggi ci sono sei anni di incredibile odissea. In cui Nazira è diventata una campionessa nel suo Paese – tanto da entrare nella nazionale e trasferirsi a vivere a Kabul – e poi una fuorilegge, una ricercata, una profuga, infine una miracolata. «I primi tempi mi coprivo il volto con un foulard per andare a giocare – racconta mentre mostra le sue foto in mezzo ai ragazzi di Bamiyan –. Nessuno mi notava. Saltavo le ore di matematica, la matematica non mi è mai piaciuta. E andavo al campo». Tutto fila liscio finché la squadra vince un torneo e Nazira viene intervistata da un’emittente locale. Sull’onda dell’entusiasmo la ragazza tira giù il foulard, parla liberamente. E i suoi genitori scoprono tutto. Nel quartiere si comincia a parlar male di lei, ma nel frattempo libera di poter giocare Nazira inizia a praticare anche altri sport: corre le maratone (vincendole tutte), scia perfino (arrivando prima alle gare nazionali).

Il suo talento è cristallino e da Kabul presto arriva una telefonata: la nazionale di calcio femminile Juniores vuole farle un provino. Qualche mese dopo Nazira è nella capitale, dove inizia una nuova vita: abita negli appartamenti all’interno dell’università con altre ragazze come lei, si allena tutti i giorni, affronta le altre nazionali, diventa famosa. I taleban intanto, però, si stanno riprendendo il Paese e una sera d’agosto (siamo nel 2021) l’allenatore le chiama: «Dobbiamo nasconderci, i guerriglieri sono alle porte della città». Le atlete prendono in fretta e furia le poche cose che entrano nel borsone della squadra: saranno i primi bersagli dei taleban, simbolo di quella libertà che hanno già in mente di cancellare. Nazira, insieme a due compagne, si nasconde proprio a casa dell’allenatore e da lì cominciano i drammatici tentativi di raggiungere l’aeroporto che abbiamo visto in televisione: provano a raggiungerlo una, due, tre volte. Al quarto viaggio pagano un taleban, che promette loro di farli entrare nello scalo ma poi li tradisce, consegnandoli a un manipolo di uomini armati. Che iniziano a sparare. «Io non avevo mai visto fucili in vita mia, non avevo mai visto morire nessuno». Le ragazze con lei scappano fuori dall’auto, Nazira (che non le vedrà più) sviene, l’allenatore fa marcia indietro rocambolescamente e corre via portandola in salvo. Una settimana dopo, l’uomo e Nazira riescono a tornare all’aeroporto: lei ha un bandana rosso al polso, le dicono che se riuscirà a farlo vedere a un soldato italiano di là dalla rete avrà speranze d’essere portata dentro. E così va a finire: eccola entrare, eccola passare sotto la tutela delle nostre autorità e imbarcarsi su un volo per l’Italia.

È la salvezza del corpo, ma il cuore di Nazira è spezzato: la sua famiglia intanto è dovuta scappare da Bamiyan, perché i taleban hanno anche loro sulla lista nera, soprattutto ora che Nazira è ufficialmente in fuga. Il fratello e la sorella maggiore sono riusciti a rifugiarsi in Pakistan, ma i genitori sono nascosti nelle campagne afghane. La giovane calciatrice, diciassette anni appena compiuti, finisce in un centro di accoglienza per minori a Piacenza. Poi viene trasferita a Ferrara. Sono mesi bui: Nazira non parla l’italiano, non ha amici o parenti con lei, non ha mai desiderato lasciare il suo Paese.

È sola, disperata, incompresa. Finché il calcio, di nuovo, le salva la vita. Un giorno dalla finestra della struttura in cui vive sente urla e fischi: si affaccia e vede un gruppo di ragazzi giocare a pallone. Da una parte c’è la squadra degli “stranieri”, gli ospiti del centro dove vive anche lei. Dall’altra gli italiani, quelli che vivono nel quartiere. Nazira scende le scale di corsa e arriva sul campo: «Posso giocare?». Nel gruppo dei minori soli ci sono alcuni afghani: la guardano male, le dicono che no, non può giocare, che non si addice a una donna. Al gruppo degli italiani, invece, manca proprio un portiere e uno di loro si fa avanti: «Vieni con noi». A Nazira si riempie il cuore, come non le succedeva da mesi ormai. E la partita finisce senza reti, per gli italiani. Nelle settimane successive la giovane scende al campo tutti i giorni: le squadre adesso se la litigano. Finché il passaparola arriva agli adulti e i responsabili del centro capiscono che attraverso il calcio, Nazira, potrebbe trovare la sua strada e il suo futuro fuori dal circuito della prima accoglienza.

«Il resto lo ha fatto il Melograno, con i suoi operatori e mediatori che per me sono diventati una famiglia – racconta Nazira –. E poi il primo provino al Milan, che mi ha permesso di allenarmi con le ragazze della primavera». Nazira, che ora ha compiuto diciott’anni, è entrata in un progetto di autonomia e vive da sola in un piccolo appartamento alle porte di Milano. Studia italiano e si allena tutti i giorni: «Sogno di entrare in prima squadra naturalmente – ammette – e di diventare famosa, di vivere col calcio. Ma più di tutto sogno di riuscire a riabbracciare la mia famiglia, per cui ho chiesto ufficialmente il ricongiungimento». Una missione quasi impossibile, visto che mamma e papà sono riusciti a lasciare il Paese nel frattempo, ma vivono da clandestini in Iran. Lei non smette di sperare: «Non l’ho mai fatto in questi anni». E alle donne, «tutte le donne, non solo quelle afghane, voglio dare un messaggio che magari può sembrare stupido: non rinunciate a fare sport, mai, nemmeno quando qualcuno vi dice che è una cosa da uomini perché gli uomini riescono meglio. Io sono qui, oggi, per il calcio. La mia passione». Nazira, che adesso è libera di giocare a calcio.


(Avvenire.it, 13 febbraio 2023)

di Franca Fortunato


Quello di Rosa Parks non è stato un gesto isolato: c’era una pratica politica relazionale che ha permesso di fare questa battaglia.

La redazione


In una piccola cittadina dell’Alabama il 14 febbraio di 110 anni fa nasceva Rosa Parks, la donna che con un semplice grande gesto ha cambiato la storia della lotta degli afroamericani per i diritti civili. Un gesto politico, il suo, di coraggio, di dignità e forza che ha segnato la società americana fino ai nostri giorni. Tutto accadde la sera del 1° dicembre 1955. Rosa aveva trascorso la giornata lavorando come sarta in un grande magazzino di Montgomery, dove viveva con la madre insegnante e il padre carpentiere, entrambi attivisti del movimento per i diritti civili dei neri. Attivista lo divenne anche lei come il marito, un barbiere, Raymond Parks. Aspettava, come ogni sera, l’autobus per tornare a casa. Faceva molto freddo. Salita sull’autobus, i posti in fondo riservati ai neri, anzi ai “negri”, erano tutti occupati, e così andò a sedersi in uno di quelli riservati a neri e a bianchi, sapendo che, se fosse salito un bianco, avrebbe dovuto alzarsi e cederglielo. L’uomo bianco arrivò e reclamò il suo posto, ne aveva diritto per legge. Ma, lei non si mosse. Il conduttore fermò l’autobus e le ordinò di alzarsi e spostarsi. Lei tranquilla, ma con fermezza, rispose di No. «Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era di subire.» Subire la segregazione razziale, conosciuta sin da bambina quando doveva andare a scuola a piedi, mentre per le bambine e i bambini bianchi c’erano gli scuolabus. La sua maestra, una bianca, le insegnò però che bianchi e neri erano uguali, i suoi genitori, il nonno e la nonna ex schiavi le insegnarono l’orgoglio e la dignità di essere nera. Al No deciso di Rosa, l’autista chiamò gli agenti di polizia che l’arrestarono per “condotta impropria”. «Non ricordo di aver provato un grande sentimento di paura. Ricordo invece di aver avvertito un moto di orgoglio nel momento dell’arresto.» La sera stessa fu liberata grazie a una cauzione pagata da un avvocato bianco antirazzista e amico dei neri. La notizia dell’arresto si sparse in tutta la comunità afroamericana e per il giorno del processo, fissato per il 5 dicembre, una donna, anche lei nera, Jo Ann Robison, presidente di un’associazione femminile, propose un’azione di protesta non violenta. Nella notte fece stampare migliaia di volantini in cui si invitava la popolazione nera a boicottare tutti i mezzi pubblici. Insieme ad altre donne e attiviste li distribuì nelle chiese, nei negozi, nelle scuole, nei bar, ovunque. Il giorno del processo iniziò il boicottaggio, che trovò il sostegno anche di donne e uomini bianchi. Il No di Rosa divenne il grido di tutti gli afroamericani e ovunque dilagarono le proteste. Il boicottaggio durò 381 giorni e la rete di trasporti pubblici, usati soprattutto da neri, venne messa in ginocchio. Un anno dopo la Corte Suprema dichiarò anticostituzionale la segregazione dei neri sugli autobus in Alabama. Rosa aveva vinto, le donne avevano vinto per sé e per tutta la comunità nera, rendendo migliore la società americana. Una vera rivoluzione iniziata col quel No con cui Rosa aprì la strada alla lotta non violenta che continuò a percorrere a fianco di Martin Luther King. Tutte le leggi di segregazione razziale vennero abolite nel 1964, ma non il razzismo che ancora oggi si ripresenta nelle tante uccisioni di neri da parte della polizia. Rosa è morta il 24 ottobre 2005 a Detroit e a noi resta il suo desiderio di voler «essere ricordata come una persona che voleva essere libera […], così anche altre persone potranno essere libere».


(Il Quotidiano del Sud, 11 febbraio 2023)

di Lorenzo Rosoli


Caritas Ambrosiana: cala la presenza in strada ma crescono i rischi di rapine e violenze, clienti più aggressivi. Somaschi: aumenta in alloggi privati e centri massaggi. E uscirne è più difficile


«La prostituzione sulla strada resiste ma è in calo, già da prima della pandemia. Sono invece in aumento, nel post-pandemia, i rischi di violenza sulle persone prostituite: dalle rapine ai maltrattamenti e alle violenze da parte dei clienti, che si fanno sempre più aggressivi. Intanto: si sono abbassati i prezzi delle prestazioni. E questo costringe a farne di più per accontentare gli sfruttatori. Mentre la pandemia ha esasperato le condizioni di povertà, marginalità e fragilità delle persone prostituite, rendendole ancora più deboli e ricattabili da parte degli sfruttatori come dei clienti, che sempre più spesso pretendono rapporti non protetti, ai quali diventa più difficile dire di no».

Parola di Nadia Folli, dell’Area Tratta di Caritas Ambrosiana, impegnata dal 2002 nell’unità di strada “Avenida”, che dal 1994 esce due volte alla settimana sulle strade di Milano per incontrare donne, uomini e transessuali e aiutarli a rompere le catene dello sfruttamento.

A non calare è invece la prostituzione indoor «che a Milano significa appartamenti privati e centri massaggi», incalza Isabella Escalante, responsabile del Servizio emersione vittime di tratta e sfruttamento di Fondazione Somaschi. «Durante il Covid, mentre i centri chiudevano, gli annunci online di chi si prostituisce in casa non si sono mai interrotti. E dopo il Covid si sono moltiplicati: chi si prostituiva in strada ha iniziato a farlo anche, o solo, indoor, dove sono arrivati molti clienti prima sulla strada – riprende Escalante, che lavora con Fondazione Somaschi dal 2004 –. La pandemia ha aggravato il loro isolamento, ha reso queste persone ancora più invisibili e in balia degli sfruttatori, rendendo più ardui i già difficili percorsi di emersione dallo sfruttamento».

Folli ed Escalante sono due dei relatori al convegno Invisibili. Donne vittime di tratta organizzato da Caritas Ambrosiana e Pime con Ucsi Lombardia, svoltosi mercoledì scorso a Milano nella Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta. A loro Avvenire ha chiesto di comporre il mosaico di una realtà che è “invisibile” anzitutto a causa della nostra indifferenza. Chi si prostituisce sulle strade è sotto i nostri occhi. Appartamenti e centri massaggi stanno in condomini dove non mancano vicini di casa. «E proprio da loro, come dai clienti, vengono a volte segnalazioni di situazioni da contattare», sottolinea Escalante.

«In loro vediamo non solo la vittima, ma la persona in grado di emanciparsi»

«Nel 2018, sulle strade di Milano, abbiamo incontrato 250 persone, l’80% donne, più della metà dell’Est Europa, con 800 contatti, cioè singoli incontri sulla strada – riprende Folli. –. Nel 2019 le persone incontrate sono state 170 e 700 i contatti. Nel 2022, come nel 2021, abbiamo incontrato 120 persone. Le donne sono sempre l’80%, il 60% rumene e il 15% albanesi. È cresciuta la presenza di persone transessuali provenienti dal Sudamerica, in particolare dal Perù. È quasi scomparsa invece la prostituzione nigeriana, e stiamo cercando di capire dove queste donne siano finite.

In queste persone si intrecciano problemi e fragilità molteplici: molte sono giovani madri, che a volte hanno i bambini qui con sé; a volte, in particolare fra le persone transessuali, coesistono problemi di alcol e di droga. Il turnover è altissimo e rende più difficile incontrarle e costruire relazioni di dialogo e fiducia, indispensabili per aiutarle a riappropriarsi della loro vita e dei loro diritti. In loro vediamo non solo la vittima o la persona con problemi, ma la persona che ha mille risorse per uscire dallo sfruttamento e ricostruirsi una vita». In Lombardia sono due i progetti anti-tratta sostenuti dalla Regione: “Derive e Approdi”, al quale partecipa Avenida, e “Mettiamo le Ali”. «Fra luglio 2021 e settembre 2022 le unità di strada impegnate nei due progetti – ricorda Folli – hanno fatto 796 uscite per un totale di 1.569 persone incontrate».

«Indoor, condizione durissima: così spazio di vita e di sfruttamento coincidono»

Fondazione Somaschi – che ha unità ad hoc sui fronti della prostituzione di strada, dello sfruttamento lavorativo e dell’accattonaggio forzoso – ha un’équipe dedicata al contatto e all’emersione delle vittime di tratta e sfruttamento nella prostituzione indoor a Milano. «Negli appartamenti privati ci sono donne rumene, cinesi, sudamericane, e transessuali peruviane e brasiliane, che contattiamo usando i numeri di telefono pubblicati nei siti di annunci e in quelli di recensioni dei clienti – spiega Escalante –. Chiamiamo e spieghiamo come possiamo offrire loro informazioni di tipo sanitario e legale, aiuto nei documenti o nell’accesso alle cure. Lasciamo il nostro numero per essere ricontattati. Ma perché possa nascere un percorso di uscita dallo sfruttamento serve passare dal contatto telefonico all’incontro di persona, nei loro alloggi o altrove.

La loro condizione è durissima: spazio di vita e luogo dello sfruttamento coincidono, non stacchi mai, l’impatto sul corpo e la psiche fortissimo. Avere la fiducia di persone costrette a vivere nella paura e nell’inganno è molto difficile, e il turnover ancora più alto che sulla strada rende arduo costruire rapporti. Nei centri massaggi, dove il primo contatto è una visita di persona, il 90% sono cinesi e il 10% thailandesi. Ci muoviamo sempre con la presenza di un mediatore linguistico e culturale. Nell’arco di un anno, a Milano, riusciamo a fare 400 contatti, un altro centinaio fra Crema, Lecco e Lodi. Nell’indoor solo l’1% dei contatti riesce a diventare percorso di uscita dallo sfruttamento, col 40% riusciamo almeno a fare attività come accompagnamenti sanitari, visite domiciliari, colloqui. A entrare nei programmi di protezione, sono pochissime. Ma non ci arrendiamo».


(Avvenire.it, sabato 11 febbraio 2023)