di Antonietta Lelario


Questo 8 marzo a Foggia si è realizzata un’affollatissima riunione al salone della CGIL. Una giornata per parlare di pratiche di pace in cui, nella locandina che annuncia la giornata, appare una bambina che scrive War con una bomboletta su un cartello di Stop. Un evento scontato in tempi di guerra?

Una iniziativa che non occorre commentare se non per compiacerci della sua riuscita o per sottolineare con benevolenza la bravura dell’una o dell’altra?

Il fatto interessante su cui invece è necessario tornare è che in quella giornata si è interrotta la grigia normalità e sono riapparsi i segni di quanto in questa città riescono a fare le donne quando fanno cordata. Si era già visto nell’iniziativa su Donne, Vita, Libertà come nella manifestazione contro la guerra in difesa de La bellezza della vita.

Si è visto nella partecipazione appassionata di alcune di noi alle iniziative del Coordinamento Capitanata per la pace, dove abbiamo portato, con forza coinvolgente nei confronti di tutti, il nostro modo di ritrovarci, capirci, organizzarci e una lettura femminile della guerra e delle risposte possibili. “Fare un passo indietro” si chiamava il flash mob realizzato durante la grande manifestazione cittadina, «come ogni madre, ogni maestra insegna ai bambini» ha detto in un’intervista l’artista che lo aveva proposto, Katia Berlantini.

In questo 8 marzo donne di esperienze diverse decidono di nuovo di fare cordata, scegliendo di dare valore politico alle pratiche femminili di pace e trovando una lingua comune per farle vedere. Non enunciazioni di tesi e argomentazioni, come nei dibattiti televisivi, non galleria di opinioni, che lasciano il tempo che trovano, ma racconti di storie femminili e arte per mobilitare la sensibilità che è il primo gradino della politica: quello più vero perché nasce e vive nella nostra quotidianità. La stessa valorizzazione della parola “pratiche” scelta rispetto ad altre, come “costruttrici”, “tessitrici”, la dice lunga su ciò che sta crescendo nella società femminile: il rifiuto di retoriche di ogni genere e di parole diventate insensate perché separate dalle conseguenze e la consapevolezza di non essere più imbrigliate in quelle parole. Abbiamo altra acqua da portare al mulino comune e lo stiamo facendo.

Un altro elemento di discontinuità è stata la folta presenza di uomini. Si è svegliata una curiosità che sembrava addormentata. È caduto il vecchio alibi del “Sono cose di donne”? Si è svelato anche ai loro occhi l’insufficienza dell’attenzione data finora al movimento delle donne? Si aprirà una riflessione degli uomini sulla propria cultura per separare il grano dal loglio, come chiediamo da tempo?

Quello delle donne è un movimento che parla in tanti modi, soprattutto attraverso le pratiche: pratiche artistiche, pratiche di vita, pratiche di intimità col mondo, pratiche in prima persona, pratiche attraverso il corpo, pratiche relazionali, pratiche narrative.

Così ognuna di noi che ha parlato, lo ha fatto attraverso storie di altre donne.

Si sono susseguite la forza simbolica delle barchette e degli aerei di carta di Shamsia Hassani, come il gomitolo di lana di cui ci parla Luisa Muraro, l’orgoglio di essere donna, l’amore per lo sport e il coraggio nell’atleta Elzan Recabi, la pietas politica di Lorena Fornasir, che dalla piazza di Trieste ci ricorda che contro i fili spinati possiamo «fare un ponte di corpi». Una scuola che vuole ancora essere luogo di relazione fra generazioni è apparsa nella lettera agli studenti vittime di un’aggressione fascista della dirigente scolastica Annalisa Savino. A Firenze come a Foggia dove è stata fatta e lì raccontata l’esperienza del Laboratorio Immaginare l’azione contro gli stereotipi, tenuto da Donne in Rete con l’aiuto dell’artista Viola Gesmundo. È una politica fatta seguendo le orme l’una dell’altra come nella poesia Pollicina di Rosa Serra, o interrogata a partire dalle lotte femminili nella nostra terra in anni non lontani. Né lontana appare, agli occhi dell’artista Anna Fiore la lotta di Donne, Vita Libertà che ha fatto rivivere nel suo contributo artistico alla serata.

Attraverso ciò che alcune donne significano per noi, attraverso quello che rappresentano ai nostri occhi è apparsa agli occhi di tutti la varietà di forza femminile che abbiamo a disposizione e la forma che quella forza vuole dare al mondo.

In comune tutte avevamo il desiderio che ci spinge ma anche la consapevolezza che perché cambino le cose il desiderio è parola chiave. Occorre mobilitare quello degli altri, delle altre e mettere in gioco il desiderio di mondo che parla attraverso di noi. Su questo continueremo a discutere nell’incontro del 23 marzo sempre al Salone della CGIL nell’incontro con Lia Cigarini. Lia Cigarini è femminista storica, attiva nella libreria delle donne di Milano, luogo di ispirazione per molte di noi. Di lei recentemente è stato ripubblicata la raccolta dei suoi scritti col titolo appunto de La Politica del desiderio.


Antonietta Lelario fa parte del Circolo La Merlettaia di Foggia


(L’Attacco, 18 marzo 2023)

di Franca Fortunato


Vera Politkovskaja con la giornalista Sara Giudice nel suo libro Una madre edito Rizzoli, da poco in libreria, onora sua madre Anna, la giornalista assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Guarda con i suoi occhi di figlia la madre e racconta di lei affinché il mondo non dimentichi il suo nome, come è avvenuto nel suo Paese, dove era diventata “la pazza di Mosca”. Racconta per ricordare la lezione lasciata a lei e al fratello, «siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi». In un andirivieni tra passato e presente, tra madre e figlia, Vera ci racconta la sua Russia e quella della madre, la sua vita in quella della madre, legate dal filo della guerra. Ieri la seconda guerra in Cecenia (1999-2009) di cui la madre divenne con i suoi reportage testimone della verità, dei crimini e degli orrori, oggi la guerra in Ucraina che ha portato Vera a lasciare il suo Paese, con la figlia Anna: «La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato a essere oggetto di minacce, ancor di morte, questa volta verso mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna».

Una madre, una nonna, una giornalista «testimone viva di quella mattanza in Cecenia», dove partiva per testimoniare, per ascoltare le vittime, per dare parola al dolore. «Io sono come un poeta. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Odiata dal potere, era sola, profondamente sola. «La maggior parte dei colleghi non la capiva o non voleva capirla. Reagiva con sconcerto ai suoi reportage, che spesso venivano apertamente criticati. Per paura o per invidia». Non meraviglia che a distanza di anni «tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta», il suo nome è avvolto dal silenzio, mentre in Occidente sopravvive ancora il ricordo di lei e del suo coraggio. Vera testimonia ciò che è accaduto in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ricorda le proteste contro la guerra, le manifestazioni con «una significativa presenza femminile». «Quasi 22 mila russi sono stati fermati per aver manifestato pacificamente». Ricorda il movimento delle madri dei soldati, nato durante la seconda guerra cecena quando le madri andarono a prendersi i figli vivi o morti e oggi sono scese in piazza per impedire la partenza o il ritorno dei figli in guerra. Pagine commoventi sono dedicate alle ultime ore passate con la madre, alle ultime parole che si sono dette per telefono, allo sconcerto e al dolore alla notizia del suo assassinio. Un dolore che non passa, fatto di amarezza perché, a distanza di anni, se sono stati processati e condannati gli esecutori restano impuniti i mandanti politici: «Non è cambiato nulla. Gli uomini che mia madre ha combattuto con le parole sono ancora lì». L’immagine con cui si chiude il libro ha un grande significato simbolico. Il 6 maggio 2022 la dacia, luogo della memoria familiare, va a fuoco ma dall’incendio si salva solo il giardino dove in estate fioriscono gli iris e le peonie della madre. Un enorme salice, che aveva piantato lei, si ricopre di foglie. Il prato è di nuovo un manto verde, come il ricordo di Anna Politkovskaja rinverdito dalla figlia. Un libro che è un atto d’amore di una figlia verso una madre che ha fatto della verità la sua passione e la sua ragione di vita.


(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2023)

Relazioni come rivoluzione quotidiana

L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta il film Settembre di Giulia Steigerwalt (Italia, 2022, 110’). Le storie di sei personaggi si intrecciano con delicata fluidità in una commedia corale, debutto alla regia di Giulia Steigerwalt, attrice e sceneggiatrice. Non grandi eventi, ma la quotidianità delle relazioni registrata nei suoi scambi, sentimenti e azioni. Un racconto di movimenti dell’animo da cui si diramano desideri, scelte, cambiamenti. Introduce Silvana Ferrari.

di Riccardo Michelucci 


Nata a Zagabria, contestò il nazionalismo che avrebbero portato alla guerra civile e per questo dal 1993 visse in esilio. Appena tradotta la sua opera principale, “Il museo della resa incondizionata”.


Dubravka Ugrešić, una delle più importanti scrittrici croate contemporanee, è morta oggi a 73 anni ad Amsterdam, costretta all’esilio nel 1993 non dalla guerra dei Balcani ma dalla deriva nazionalista che aveva travolto il suo Paese. Per la sua strenua opposizione al nazionalismo fu a lungo ostracizzata e messa all’indice anche da molti suoi colleghi dell’Università di Zagabria. In esilio avrebbe però prodotto una delle sue opere principali, Il museo della resa incondizionata, che torna adesso anche in traduzione italiana con La nave di Teseo (traduzione di Lara Cerruti; pagine 368, euro 20,00), in cui ammette: «Sì, scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita».

Nata vicino a Zagabria nel 1949 da padre croato e madre bulgara, Dubravka Ugrešić è stata tradotta in oltre venti lingue e si è aggiudicata alcuni dei più prestigiosi premi letterari internazionali proprio mentre nel suo Paese veniva insultata e disprezzata. Non riconoscendosi in quello che è diventato il suo Paese dopo la guerra, ha vissuto per trent’anni tra l’Olanda e gli Stati Uniti ma si sentiva ancora intimamente jugoslava. Più che una cronaca del suo esilio, Il museo della resa incondizionata è un viaggio nella memoria, un contenitore di ricordi, di oggetti e di personaggi che l’autrice ha incontrato dopo aver abbandonato la sua terra d’origine. Un libro che è popolato anche da figure del suo passato, come la madre e le amiche, le cui parabole esistenziali ci restituiscono un campionario delle differenti reazioni alla violenta e improvvisa disgregazione di quel mondo. Per molti cittadini della ex Jugoslavia come lei, la memoria individuale è diventata l’unica forma di memoria collettiva possibile. Gli elementi sparsi e apparentemente senza relazione tra loro che Ugrešić ci racconta sono simili a quelli che compongono l’elenco postmoderno riportato all’inizio del suo libro: sono i reperti in mostra in una vetrina dello zoo di Berlino, recuperati dallo stomaco di un elefante marino morto nel 1961. È un ammasso di oggetti inghiottiti dall’animale durante la sua esistenza, ai quali il visitatore è chiamato a dare un senso, a ricercare legami e possibili coordinate significative.

Partendo da una serie di immagini ritrovate in una borsa di pelle in fondo a un armadio, la scrittrice croata ricostruisce la storia di sua madre raccontando parallelamente anche il suo presente e il suo passato in un libro che è a metà strada tra il diario, il romanzo e il memoir, reso con uno stile aforistico e una narrazione che non segue mai un andamento lineare o cronologico. Quel che è indubbio, però, è che al centro di esso ci sono la memoria e il modo in cui essa viene conservata. «La vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quel che nell’album manca, non è nemmeno mai accaduto». Non a caso Ugrešić riteneva che gli esiliati siano divisi in due gruppi, quelli che possiedono fotografie – e quindi un legame con il passato – e coloro che invece non le hanno. Chi è costretto alla fuga e alla precarietà dell’esilio sa bene che i ricordi possono diventare il bene più prezioso. Lo sapeva anche il criminale di guerra serbo-bosniaco Ratko Mladić, che un giorno telefonò a un suo conoscente di Sarajevo e gli disse di portar via i suoi album di fotografie, sapendo che la sua casa stava per essere bombardata.


(Avvenire, 17 marzo 2023)

di Jessica Chia


Sono sempre state lì e per molto tempo quasi nessuno le ha ricordate. Sono scrittrici – conclamate e non – dimenticate, ma per i loro contemporanei sono state, in base all’epoca, solo delle cortigiane, delle «isteriche» o delle degenerate. Ora molte di queste voci popolano il nuovo saggio della traduttrice e autrice Margherita Giacobino (Torino, 1952), Quello che ho da dire lo dico da sola (Somara!Edizioni) e danno vita a un’antologia di nomi fuori dal canone, un prato in cui si incontrano fiori meravigliosi, erbe urticanti e piante selvatiche: nessuna di loro può lasciare indifferenti. E in ognuna c’è quello che diventerà la sostanza del nostro presente; ci sono pagine di vita, sangue e carne. Pagine di libertà e del suo prezzo: l’esclusione, l’esistenza ai margini, l’eccesso.

Dall’alto a sinistra, in senso orario: Jean Rhys, Carla Lonzi, Patricia Highsmith, Leslie Feinberg, Annemarie Schwarzenbach, Audre Lorde

Giacobino ripercorre un arco temporale che va da Saffo fino al secolo scorso, raccontando vite e opere di donne unite da un indomito bisogno di scrittura. Quasi tutte riscoperte in seguito, e non sempre alle prese con una carriera editoriale, queste donne hanno scritto prima di tutto per sé stesse e per la loro sopravvivenza: «Scrivere un romanzo è un’esperienza terribile, durante la quale spesso cadono i capelli e si cariano i denti. Mi irritano sempre molto quelli che dicono che scrivere fiction è evadere dalla realtà. È tuffarsi nella realtà, ed è un grosso shock per il sistema», scriveva Flannery O’Connor nel 1969 in Mistery and Manners. Occasional Prose.

«Scomode, sessualmente trasgressive, fuorilegge, outsider. Irritanti, sconvenienti, disadattate, pazze, affascinanti, terribili. Eccessive, indigeste, non riducibili in pillole, rivoltose, insofferenti a ogni modello. Tenacemente, meravigliosamente sé stesse. Così sono le autrici di cui parlo». Le pagine iniziali ci accompagnano in un viaggio storico attraverso la nascita della figura delle scrittrici, a cui per secoli «è stato insegnato a ritenersi marginali e parziali, incapaci di comprendere l’astratto, il grande, l’assoluto, l’universale». Portando l’esempio della letteratura inglese, Giacobino cita autrici che hanno scritto 150 anni prima di Jane Austen – la prima scrittrice riconosciuta dalla critica ufficiale – che sembrano essere sparite nel nulla. Come Margaret Cavendish (1623-1673), «una delle più famose – e vilipese – letterate del Seicento inglese», condotta all’isolamento dai suoi contemporanei perché osava scrivere. Oppure Aphra Behn (1640-1689), considerata una cortigiana perché si manteneva col suo lavoro di scrittura.

Dopo l’introduzione storica, Giacobino passa poi a raccontare le «sue donne» dimenticate – che mai come oggi vivono nel presente – raggruppate per temi che le rendono più affini tra loro, come «le guerriere». Di queste fa parte l’americana Audre Lorde (1934-1992), che si autodefiniva «nera, lesbica, guerriera, femminista, madre, poeta»; un’outsider, provocatrice. La sua scrittura si mette in lotta contro razzismo, sessismo, omofobia, classismo e tutte le «distorsioni» della nostra epoca. Ma questo è anche il capitolo della regina dei banditi, l’indiana Phoolan Devi (1963-2001) e della sua incredibile storia – fatta di ingiustizie, violenza, stupri, lotte di classe, povertà, abuso di potere – che fece narrare ad altre mani per via del suo analfabetismo.

Poi ci sono le «svergognate»: è il capitolo, per esempio, dove compare la francese Violette Leduc (1907-1972) che, senza pietà, «scrive proclama, lamenta, grida sé stessa», il suo piacere sessuale e l’eros tra donne – tormentato, come la sua esistenza – e si innamora di Simone de Beauvoir, sua madrina letteraria. Mentre nel capitolo «sui confini dell’identità di genere» trova posto anche Anne Lister (1791-1840), personaggio che sembra appartenere alla nostra epoca, e a cui siamo debitrici per aver introdotto nella narrativa dell’Ottocento (attraverso i suoi diari segreti) il corpo e la sessualità femminile, e per averci lasciato le descrizioni delle sue amanti e del piacere lesbico con una sorprendente modernità.

Poi ci sono le autrici protagoniste di «travestitismo e transgenderismo letterario» (come Patricia Highsmith e Carson McCullers); «le vampire», «le peccatrici punite» (tra cui i personaggi femminili raccontati da autori maschi, cioè le «grandi adultere» dell’Ottocento, un caso per tutti: Madame Bovary), e infine «le figlie delle rivolte» (Valerie Solanas, la donna che nel 1968, a New York, sparò tre colpi di pistola ad Andy Warhol e poi scrisse il Manifesto Scum Carla Lonzi, dal quale secondo Manifesto di rivolta femminile è tratto il titolo di questa raccolta) e «le strade solitarie» (Annemarie Schwarzenbach e Flannery O’Connor).

Non possono bastare poche righe per rendere gli universi di queste autrici, descritti con profonda conoscenza da Giacobino. Ognuna di loro è stata considerata «pazza» per aver scritto, o per averlo fatto in contrasto col suo tempo; ognuna di loro ha avuto qualcosa da dire, e l’ha detto «da sola». Ora lasciamole entrare dalle nostre porte, lasciamole sedere sui banchi delle nostre classi, facciamoci svegliare dai loro sussurri notturni. Per troppo tempo sono state taciute, è ora di lasciarle urlare.


(https://27esimaora.corriere.it/23_marzo_17/scandalose-fuori-canone-anne-lister-carla-lonzi-ecco-scrittrici-dimenticate-margherita-giacobino-600846b2-c17a-11ed-839f-35544f562c09.shtml, 17 marzo 2023)

di Pinella Leocata


Una mostra, un’istallazione e vari interventi per celebrare l’8 marzo e “L’onda luminosa del femminismo”. Questo il nome che le donne de La Ragna-Tela e de La Città felice hanno voluto dare alle loro iniziative volte a fare conoscere e a promuovere le conquiste delle donne e delle femministe nel corso degli ultimi decenni. Il femminismo, dicono, «è un’onda luminosa che irrompe e non si arresta, che s’impenna e dilaga, che ridà senso e gioia alla vita e al mondo». Un approccio diverso da quello vittimista e meramente rivendicativo. «Rivendicare i diritti è importante, a partire dalla parità salariale – dice Mirella Clausi alle studentesse e agli studenti presenti in piazza Università – ma è importante immettere la nostra visione del mondo. Noi donne abbiamo un modo diverso di sentire degli uomini e dobbiamo riuscire a fare mondo con il nostro pensiero e il nostro sapere».

Pensieri che si moltiplicano nei vari interventi dedicati alla lotta delle donne in Iran, Afghanistan e Kurdistan e volti a sollecitare e a pretendere un “addio alle armi”, in Ucraina come in altre parti del mondo. A fare la guerra – denunciano le promotrici – «non è più il patriarcato che hanno conosciuto le nostre nonne e le nostre madri e che non esiste più grazie alle donne. Gli è subentrata la “fratria”, fatta di confraternite maschili, che possono includere anche le sorelle. La fratria fa la guerra e non ascolta la lingua-ragione». E ancora interventi contro chi «vuole cancellare tutte le differenze e rendere il mondo un deserto asessuato di surrogati e robot che sostituiscano la ricchezza delle relazioni di corpi sessuati». «Noi che amiamo la vita – concludono – diciamo no alla mercificazione dei corpi con le più sofisticate tecnologie». E questo significa porre «fine alla pulsione mortifera dell’ultraliberismo».

Intanto sull’istallazione che riproduce un’onda azzurra, opera di Cettina Rovere e Carmina Daniele, “galleggiano” libri, riviste e quotidiani delle origini del femminismo. E di questa lunga storia parla – come spiega Anna Di Salvo – anche la mostra “Storia, documenti e immagini del femminismo in Italia dal 1965 al 2005” che racconta, con cartelli e immagini, le tante conquiste delle donne: la legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la legge per la realizzazione degli asili nido indispensabili perché le donne possano dedicarsi anche al lavoro, la legge sull’interruzione della gravidanza, e quella contro la violenza sessuale. E poi le tante manifestazioni per la pace e contro la guerra e le conquiste realizzate da artiste, scienziate, letterate, ambientaliste, filosofe, economiste, pacifiste. E ancora notizie su testi cult del movimento femminista, a partire da “Noi e il nostro corpo” scritto da autrici americane, e “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti. E ancora “La passione secondo G.H.” di Clarice Lispector, “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro, “La politica del desiderio” di Lia Cigarini, “Speculum” di Luce Irigaray. E poi le riviste “Mezzo cielo”, “Noi donne”, “Differenze”, “Diotima”. Tutte tappe di un percorso rivoluzionario, di un’onda lunga e “luminosa”.

La mostra sarà esposta nelle scuole che ne faranno richiesta e nelle sedi delle associazioni che hanno promosso le iniziative di questo 8 marzo insieme a La Ragna-Tela e a La città, e cioè Coordinamento donne Cgil, Udi, Centro donna, e Fare stormo di Misterbianco.


(La Sicilia, 9 marzo 2023)

di Greta Privitera


Marjane Satrapi dice parolacce a raffica. Le dice quando ride, ma anche quando si infervora contro il regime. Le piace soprattutto «Fuck them», che di solito fa seguire ai nomi di chi governa il suo Paese, l’Iran, dal quale manca da ventitré anni. La scrittrice, fumettista e regista, si definisce una «old fart», tradotto gentilmente una «vecchia bacucca». 
Dal suo appartamento parigino fuma sigarette e guarda con ammirazione la nuova generazione di iraniane e iraniani che fanno la rivoluzione. Sei mesi fa veniva uccisa Mahsa Amini, la ventiduenne curda ammazzata di botte per una ciocca di capelli che sfuggiva dal velo, diventata il simbolo di chi lotta per la libertà. Ma 181 giorni dopo quel 16 settembre, il bilancio è drammatico: oltre 20mila gli arresti, quasi 600 le persone uccise, quattro impiccati. Le Guardie della rivoluzione hanno sparato, represso e terrorizzato, e le strade, a poco a poco, si sono svuotate. 
Le proteste continuano soprattutto sui social e sui muri delle città mentre all’estero ci si chiede se Khamenei e i suoi non abbiano già vinto. Nelle ultime ore, però, i profili Instagram degli attivisti e di Satrapi sono invasi da video di manifestazioni per il capodanno persiano, che contano già morti e feriti. L’autrice del capolavoro Persepolis scrive in francese: «Dedicato a tutti quelli che credono che la rivoluzione iraniana sia finita». La rivoluzione, spiega, è uno tsunami. 
Cioè? 
«Prima c’è il terremoto, poi le piccole onde. Sembra che tutto si fermi ma all’improvviso arriva quella di sei metri che spazza via tutto. È fisiologico che dopo essere stati colpiti agli occhi, violentati, messi in prigione, torturati, i giovani siano quasi spariti dalle strade. Ma la paura non basta più, i veli sono abbassati, è la fine del bullo». 
Che cosa intende? 
«Una volta che smetti di temere il bullo, lui perde la sua forza. Se gli tiri un pugno magari ti rompe un dente, ma tu colpirai ancora perché ti sei liberato: stiamo per ricolpire». 
Perché questa rivoluzione è diversa dalle altre? 
«È caduta la cultura patriarcale e misogina. Nel 1979 solo il 40% degli iraniani sapeva leggere e scrivere, oggi più dell’80%, soprattutto donne. Il regime ha creato moltissime scuole per indottrinarci, ma ha fatto male i conti: una volta che sai leggere, leggi quello che vuoi e sei libero». 
La sua generazione sapeva già leggere. 
«Sì, ma avevamo ancora paura. Tutte le generazioni precedenti a questa hanno subito un trauma: lo scià, la rivoluzione del ’79, la guerra contro l’Iraq. La Generazione Z non conosce guerre, né uccisioni di massa. E, soprattutto, ha Internet, la chiave di tutto. Noi conoscevamo il mondo tramite il mercato nero. Questi giovani sono come i coetanei di New York e Parigi. Sfidano il regime ballando su TikTok mentre l’ayatollah è fermo al medioevo e non li capisce. La Repubblica islamica è già finita». 
Personaggi della diaspora, come il principe Reza Ciro Pahalavi e l’attivista Masih Alinejad si dicono disponibili a traghettare l’Iran verso un referendum. Che cosa ne pensa? 
«Aiutare la transizione può essere una buona cosa. Ma i leader futuri non sono fuori, sono nelle prigioni, come Evin. Noi possiamo portare la loro voce all’estero, chiedere di mettere i pasdaran nella lista dei terroristi, dire ai governi occidentali di non fare affari con Khamenei. Ma ricordiamoci che noi abbiamo lasciato il Paese, loro no. Mentre parlo da Parigi, in Iran si prendono pallottole in faccia. Chiunque abbia mire personali faccia un passo indietro». 
C’è qualcosa che ci sfugge da qui? 
«Non mi piace che venga chiamata la rivoluzione delle donne. È sicuramente partita da loro, ma è forte perché è di tutti, è così femminista che non c’entra il genere. Ci sono donne, uomini, operai, studenti, minoranze, ricchi, poveri. In Iran sono stata fermata quasi sempre da guardie femmine». 
Quando? 
«Moltissime volte. Un giorno mi dissero: con le tue calze rosse metti in pericolo l’Islam». 
Ha nuovi progetti? 
«Ho in programma un film, ma non sulla rivoluzione, non voglio sfruttare il momento: è ancora tutto troppo caldo. Quando ho scritto le prime cinquanta pagine di Persepolis le ho rilette e rivisto la stessa rabbia delle guardie della rivoluzione. Mi sono fermata per prendermi la giusta distanza». 
Di questi sei mesi, c’è un’immagine che ha nel cuore? 
«In un video ho visto un vecchio signore di un villaggio curdo che diceva: “Se vuoi essere un vero uomo, sii una donna”».


(Corriere della Sera, 15 marzo 2023, apparso con il titolo «Iran, sei mesi di proteste. Marjane Satrapi: “I leader futuri sono in prigione, a Evin”»)

di Disarmisti Esigenti


UE: MELONI ALLA CAMERA IL 22 MARZO PER COMUNICAZIONI SU CONSIGLIO EUROPEO ED UCRAINA. 

Il PD della Schlein incalzato e stanato sull’atlantismo.

LA SOCIETÀ CIVILE FACCIA INVECE PRESSIONE – VERSO TUTTA LA POLITICA – SULLA SVOLTA PER UN PACIFISMO ESIGENTE E COERENTE


Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il prossimo mercoledì 22 marzo alle 9:30 terrà le comunicazioni alla Camera sul Consiglio europeo in programma a Bruxelles il 23 e il 24. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio.

Da parte dei commentatori politici l’appuntamento è stato inquadrato come un momento discriminante relativamente alla natura e all’assetto degli equilibri politici vigenti.

Sulla guerra in Ucraina il governo guidato dalla Meloni chiederà chiarezza filo-Kiev e filo-NATO, in particolare al Pd, ora capeggiato dalla nuova segretaria Elly Schlein; ma, a ben vedere, anche agli stessi alleati di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega. 

Da parte di Disarmisti esigenti & partners, e si spera da parte del pacifismo esigente, la pressione dovrà essere in direzione contraria: portare quanto più PD possibile, auspicabilmente tutto, e quanti più deputati in ogni partito, ad abbracciare una posizione che lavori per la pace per il tramite della pace (Questa contraddizione, a lavorarci bene, potrebbe essere approfondita nello stesso schieramento governativo di centro-destra attraversato dal “pacifismo utilitaristico”). 

Per quanto ci riguarda, Disarmisti esigenti & partners, abbiamo tenuto fede all’impegno proclamato nello striscione portato in piazza al corteo di Roma dei 100.000 il 5 novembre: «Riconvochiamoci, quando si vota in Parlamento, per protestare contro l’invio di nuove armi all’esercito ucraino».

Abbiamo infatti organizzato, dedicandoli ad Antonia Sani, e in collaborazione con altre forze nonviolente, presidi e digiuni di coerenza pacifista a Roma il 13 dicembre 2022 e, nel 2023, il 13 gennaio, il 24 gennaio e il 24 febbraio. Ora saremmo alla quinta mobilitazione che porteremo avanti con lo spirito determinato di sempre.

Organizziamo quindi, DE & partners, una conferenza stampa dei digiunatori e dei loro sostenitori – “portavoci del popolo” perché espressioni del sentimento pacifista della maggioranza degli italiani – in Piazza dell’Esquilino dalle ore 11:00 alle 12:00 nel contesto di un presidio che dovrebbe protrarsi dalle ore 8:00 fino alle ore 18:30.  


(Disarmisti Esigenti, 16 marzo 2023)

di Alessandra Sarchi


Sara De Simone è traduttrice e studiosa di Virginia Woolf ma ha deciso di dedicare il suo primo libro al rapporto che Woolf intrattenne nell’arco di cinque anni (1917-1923) con Katherine Mansfield. Quando ci incontriamo a Bologna, in una Salaborsa gremita per la presentazione, le chiedo: cosa l’ha spinta a voler indagare quella che ci era stata trasmessa perlopiù come una rivalità? «La prima idea del libro è nata mentre traducevo, con Nadia Fusini, il carteggio d’amore tra Woolf e Sackville-West. Qualche anno dopo la morte di Mansfield, in una lettera a Vita, Virginia osserva: “Che strane amiche ho avuto, tu e lei”. Una frase tanto breve quanto enigmatica. Mi sono chiesta cosa potessero mai avere in comune Katherine Mansfield e Vita Sackville-West, donne e scrittrici diversissime. Vita è – di fatto, assieme alla sorella Vanessa – la donna più importante nella vita di Virginia, mentre Katherine ci è stata spesso raccontata come una meteora nell’esistenza di Woolf, una collega più invidiata che amata».

«Ma allora perché Virginia mette assieme “l’adorata creatura” e la rivale, accomunandole sotto la definizione di “strane amiche”? Era una frase di nemmeno dieci parole, ma mi sembrò la chiave di un mondo. Quello di una relazione strana, singolare, vivissima, e – come purtroppo accade spesso per le storie di donne – ridotta da molti a un rapporto di mera competizione».

Nessuna come lei si legge come un romanzo ma ha la precisione e la puntualità di una scrittura frutto dello studio accurato dei diari, delle lettere e delle opere, tanto di Mansfield e di Woolf quanto della cerchia di intellettuali e artisti da loro frequentati in quel magico momento che furono gli anni venti del Novecento. Cosa ci rivela la quotidianità di queste due grandissime scrittrici? 
«La mole delle fonti è immensa. Da subito ho capito che non aveva senso scrivere un’altra biografia centrata sulle singole scrittrici. Ce ne sono diverse, e molto valide. Quello che mi interessava era la biografia di una relazione. Dovevo occuparmi di un arco cronologico breve, e certo molto intenso, ma proprio per questo potevo prendermi il lusso di indugiare nei dettagli, di seguire giorno per giorno Katherine e Virginia, non nei grandi eventi, ma in quelli minimi, andando a verificare di pari passo i pensieri e i movimenti dell’una e dell’altra. Ho costruito delle cronologie incrociate: oggi, lunedì, Virginia fa questo, Katherine fa quest’altro. È incredibile quanto, anche nei momenti in cui non si vedevano, le loro vite fossero intrecciate da pensieri e sentimenti comuni. Un giorno leggono lo stesso libro, e ne hanno la stessa opinione. Un altro sono ammalate entrambe, a letto, e fanno considerazioni simili, senza dirselo. Mi ha sempre affascinato il concetto di “amicizia stellare”. Due persone legate da un’amicizia profonda continuano a esserlo anche da lontano. Si rispondono e corrispondono ovunque siano. Woolf sopravviverà a Mansfield di quasi vent’anni, eppure il filo che le aveva unite, fino alla fine, non si spezzerà».

Katherine Mansfield muore a 34 anni di tisi. Eccentrica, esotica, bollata di sentimentalismo spesso dalla stessa Woolf, si potrebbe pensare a lei come a una meteora. Come si colloca invece Mansfield in relazione a Woolf e alla letteratura del ’900? 
«Mansfield è una pioniera del modernismo. Woolf impara molto da lei. Quando s’incontrano, nel 1917, Katherine è più avanti di lei nell’elaborazione di uno stile sperimentale. Certo, anche Virginia sta seguendo quella pista, ma la vicinanza e il confronto con Mansfield la influenzano e ispirano in maniera decisiva. Anche quando Katherine recensisce negativamente il secondo romanzo di Virginia, Notte e giorno, ritenendolo troppo tradizionale, dopo l’iniziale ferita, Woolf non può che riconoscere l’importanza di quel giudizio sincero. È una lezione di amicizia anche questa: Mansfield soffre moltissimo a scrivere quella recensione, ci rimette mano cento volte, eppure alla fine non può che dire la verità. Una verità che farà bene a Woolf e la aiuterà a scrivere il suo primo romanzo sperimentale, La stanza di Jacob».

Parliamo della gelosia o invidia che colpisce soprattutto Virginia nei confronti di Katherine. Si può essere amiche e in competizione? 
«Certo. Non si capisce perché tra uomini tutto questo sia lecito, mentre tra donne le possibilità siano solo due: o sorellanza idilliaca, senza pieghe e senza ambiguità, o velenosa competizione. I rapporti veri sono spesso attraversati da sentimenti contrastanti. Il punto, semmai, è che tenere le donne divise fa comodo a molti. Spesso anche alle donne stesse, che cadono in questo equivoco. Mansfield e Woolf non hanno paura di confrontarsi a viso aperto, e se ce l’hanno la superano, perché l’urgenza di aderire alla vita, per loro, è più forte».

Leggendo il suo libro si ha l’impressione che Woolf abbia messo a fuoco molte delle riflessioni sulla condizione femminile anche grazie al rapporto con Mansfield. Cosa rappresentavano l’una per l’altra
«Erano indubbiamente due donne molto diverse. Per certi aspetti complementari. Katherine è audace, libera, anticonformista. Si fa buttare fuori da un bus perché difende pubblicamente le suffragette, pur non facendo parte del movimento. Si sposa e pianta in asso il marito la sera stessa. Ama follemente una principessa maori. Impavida va al fronte, durante la prima guerra mondiale, per raggiungere un amante scrittore. Vive le passioni dell’anima e del corpo con estremo coraggio. Virginia è più timida, titubante, spaventata. Ma, in fondo, è animata dalla stessa audacia, dalla stessa libertà. Per questo è attratta da Katherine. Katherine è quello che lei non è, ma è anche quello che lei è, in una maniera più evidente, talora eccessiva. Il nodo è qui: Katherine è un’appassionata della verità e la pratica in ogni campo, dall’amore alla scrittura, alla spiritualità, senza riserve. Virginia a volte ne è turbata. Riconosce in lei un movimento quasi feroce, eppure sempre, profondamente, autentico. Non è un caso che, proprio quando Katherine muore, Virginia sia finalmente pronta a immergersi più pienamente nella vita: con i suoi romanzi sperimentali, e con l’amore per una donna».

Entrambe avevano dimestichezza con la malattia che fu vissuta non solo come prigione ma anche come momento di conoscenza. Le considera creature del buio o della luce? 
«Pur nelle loro differenze, sia Woolf che Mansfield sono state spesso raccontate come figure tragiche. Avevo voglia di parlare soprattutto della loro luce: sono donne di un’ironia travolgente, sempre capaci di cogliere l’aspetto comico della vita, sempre pronte a godere del ridicolo (in specie quando riguarda loro stesse). Insieme officiano vere e proprie “riunioni religiose in lode di Shakespeare”, insieme se la ridono di Joyce, leggendo ad alta voce il suo monumentale Ulisse , che tutti additano come un capolavoro, e di cui loro sanno rintracciare pregi e difetti, senza deferenza verso il genio maschile, ma anche senza alcun risentimento».


(Corriere della Sera, 16 marzo 2023)

di Francesca Mannocchi


Cinquantasette delle settantanove vittime del naufragio di Cutro arrivavano dall’Afghanistan. Avevano lasciato il Paese con le loro famiglie. Erano uomini, donne e bambini che continuano a essere offese e oltraggiate anche da morte. Salme che dovrebbero essere riportate in un Afghanistan che però non ha relazioni diplomatiche dirette con l’Italia né con altri Paesi occidentali.

È solo l’ultima, dolorosa evidenza della distanza che c’è tra gli slogan, le frasi a favore di telecamera e i dati di realtà, cioè i numeri.

Il primo: l’Afghanistan è uno dei cinque Paesi che genera più rifugiati al mondo. Sette rifugiati su dieci, nel 2022, provenivano da Siria, Venezuela, Ucraina, Sud Sudan e, appunto, Afghanistan.

Il secondo: le Nazioni Unite stimano che due terzi della popolazione, ovvero 28 milioni di persone, avranno bisogno di assistenza nel 2023, quattro milioni in più rispetto allo scorso anno. Di questi 28 milioni, 19 milioni soffrono di insicurezza alimentare, sei sono a rischio di carestia.

Il terzo: con 4,6 miliardi di dollari, l’appello umanitario delle Nazioni Unite per l’Afghanistan del 2023 è il più alto al mondo. Fondi necessari ma che non arrivano, perché sanzionati e isolati dal resto del mondo, i talebani hanno allontanato i donatori che hanno smesso di fornire prima gli aiuti allo sviluppo e oggi anche quelli d’emergenza. L’appello dello scorso anno per 4,4 miliardi di dollari è stato finanziato solo al 58%, poco più della metà.

Per le famiglie afghane significa non avere da mangiare, scegliere quale figlio sfamare. Per chi può, e ha ancora i mezzi, le possibilità sono due: aspettare aiuti che non arrivano o scegliere la fuga, sperando di arrivare in un luogo che possa garantire loro l’asilo, la protezione internazionale. Un diritto che hanno, o meglio che avrebbero se riuscissero a raggiungere in sicurezza un altro Paese. Cioè quello che provano a fare illegalmente, in assenza di canali legali.

Le punizioni esemplari, gli omicidi mirati

Una delle vittime del naufragio di Cutro era Torpekai Amrkhel. Aveva 42 anni, era una giornalista e stava provando a raggiungere l’Europa con il marito e i figli, prima di morire annegata. I corpi di due dei loro bambini sono stati recuperati, mentre uno dei figli, di sette anni, risulta ancora disperso. Torpekai Amrkhel era stata una voce della radio nazionale afghana, un lavoro con cui aveva cercato di prestare ascolto alle donne del suo Paese e raccontarle, nei loro desideri, nelle loro frustrazioni, nelle contraddizioni che animavano il Paese. Provava a dare visibilità, la stessa che era al centro del suo ultimo progetto prima della fuga, un viaggio fotografico nei mondi femminili afghani. Pensava di riuscire a portarlo a termine, nonostante i talebani. Ma non ce l’ha fatta. Per quelle come lei, che avevano lavorato con le istituzioni occidentali, vivere significava essere ogni giorno esposti al rischio di una punizione esemplare. E Torpekai Amrkhel aveva lavorato per l’Unama, la Missione delle Nazioni Unite per l’Afghanistan. Particolare che rende ancor più tragica la sua morte nelle acque europee. La fuga di Torpekai Amrkhel e della sua famiglia era una fuga dalla paura, dalla povertà ma anche dalle esecuzioni mirate che i talebani hanno messo in atto da quando hanno preso il potere.

Punizioni contro chi ha fatto parte delle forze di sicurezza afghane, chi è stato membro del precedente governo. Colpiscono chi manifesta il dissenso, chi mette in discussione la loro gestione del potere. Persino chi, come Mursal Nabizada, era stata severa e lucida anche nel criticare la gestione del potere di Ashraf Ghani e del parlamento di cui aveva fatto parte.

Mursal Nabizada, originaria di Nangharar, aveva solo 26 anni quando vinse le elezioni. Aveva prestato giuramento in Parlamento nel 2019, era lo specchio di un pezzo di società afgana che si sentiva proiettato a un futuro di costruzione dei diritti, era cresciuta in una stagione in cui – nonostante la guerra, le vittime, gli attentati quotidiani – una generazione tentava di stabilire una cultura dell’emancipazione da opporre a quella dell’oscurantismo. Aveva visto tornare migliaia di ragazzine sui banchi di scuola. C’era tanta strada da fare, ancora. Lo sapeva bene. Ma essere una delle 69 donne in un Parlamento di 250 seggi le dava speranza che passo dopo passo i diritti si sarebbero fatti strada anche in una società così tradizionalista come quella afghana.

Dopo la presa del potere da parte dei talebani era una delle poche donne parlamentari rimaste nel Paese, mentre tutti gli altri cercavano di scappare temendo per la loro incolumità, Nabizada, pur rispettando e comprendendo le scelte delle sue colleghe, aveva scelto di restare. Sia perché abbandonare Kabul senza poter garantire anche ai suoi parenti di andare via le sembrava intollerabile, sia perché era determinata nel trovare una strada per continuare ad aiutare la sua gente.

Nabizada era giovane e piena di speranze, ma non cieca. Conosceva il Paese in cui viveva, sapeva che Kabul non è l’Afghanistan, conosceva le ragioni del consenso dei talebani nelle aree rurali e in parte condivideva le critiche e le insofferenze dei suoi concittadini verso l’inefficienza dei governi precedenti. Le condivideva al punto che, dopo il crollo del governo di Ashraf Ghani, Mursal Nabizada era stata netta. Parlando alla televisione nazionale aveva detto: «Nel precedente governo tutti amavano la propria posizione di potere, nessuno voleva perdere posizione e stipendio e tutti usavano i propri poteri e la propria autorità per favorire sé stessi e non per aiutare la povera gente».

Erano state la corruzione e le lotte intestine a favorire l’ascesa talebana. Non solo ne era consapevole, ma aveva avuto il coraggio di denunciarlo.

Con lo stesso coraggio era rimasta a vivere nell’Afghanistan dei talebani lavorando per un ente di beneficienza. Con lo stesso coraggio ha sfidato l’amministrazione talebana dicendo che anche la loro gestione del potere subiva l’influenza di Paesi esterni, osteggiando la chiusura delle scuole femminili: «Ora le donne sono imprigionate, vivono come sepolte vive in una tomba». Un rimprovero pubblico che non le è stato perdonato.

A metà gennaio è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco davanti casa, insieme alla sua guardia del corpo.

Il ritiro del 2021, le sanzioni e il collasso

La sopravvivenza degli afghani ha a che fare con l’oscurantismo dell’Emirato Islamico ma ha anche a che fare con gli effetti devastanti delle sanzioni economiche che hanno seguito la presa del potere da parte talebana. In più, per negare loro l’accesso ai fondi, l’amministrazione Biden ha poi congelato più di 7 miliardi di dollari di riserve del governo afghano detenute nella Federal Reserve Bank di New York.

Prima dell’agosto del 2021, l’economia afghana dipendeva per il 75% dall’assistenza straniera. Significa che con i fondi internazionali venivano pagati non solo progetti di sviluppo ma anche gli stipendi dei dipendenti. Nei primi mesi di dominio talebano le sanzioni occidentali e le restrizioni bancarie hanno portato rapidamente l’Afghanistan all’isolamento economico. La Banca Centrale Afghana non può più interagire con il sistema bancario internazionale e le istituzioni finanziarie internazionali. I governi donatori, guidati dagli Stati Uniti, hanno incaricato la Banca mondiale di tagliare circa 2 miliardi di dollari di assistenza internazionale esterna che la banca gestiva attraverso l’Afghanistan Reconstructive Trust Fund (ARTF) per pagare gli stipendi di milioni di insegnanti, operatori sanitari e altri lavoratori essenziali, e attraverso progetti finanziati dall’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA). Anche il Fondo monetario internazionale, USAID, e la Banca asiatica di sviluppo (ADB) hanno tagliato i finanziamenti, con la conseguenza che milioni di famiglie dalla sera alla mattina sono state private delle fonti primarie di reddito che avevano garantito loro la sopravvivenza per anni. Nei dodici mesi successivi al ritorno al potere dei talebani, secondo i dati del Programma Alimentare Mondiale, quasi nessuna famiglia, in Afghanistan ha riportato forme di reddito. Milioni di persone senza entrate. Ecco perché la contraddizione della povertà del Paese è tutta nell’immagine dei suoi mercati e delle sue botteghe. Piene di cibo che nessuno può comprare. Spinti dal rapido peggioramento delle condizioni di vita nel Paese, a dicembre 2021 e febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno rilasciato alcune «licenze» che consentono alle organizzazioni internazionali di fornire cibo e prodotti agricoli, sostenere gli ospedali pubblici e pagare gli stipendi di insegnanti e operatori sanitari. Autorizzano inoltre le banche a elaborare transazioni relative a queste attività senza essere punite.

Ma la Banca Centrale afghana resta tagliata fuori dal sistema bancario internazionale, non può accedere alle sue attività in conti esteri, perché le banche centrali degli Stati Uniti e di altri Paesi, e la Banca Mondiale, ancora non riconoscono le credenziali di nessun attuale funzionario bancario. E, secondo i funzionari delle Ong, molti gruppi umanitari, organizzazioni umanitarie e istituti bancari rimangono cauti nel violare le sanzioni statunitensi.

L’effetto è una crisi permanente, un tentativo continuo di tamponare un’emergenza che non diminuisce e non lascia spazio alla ripresa economica del Paese, cioè l’unica possibilità per gli afgani di fuggire dalla povertà che minaccia le loro vite e le destina all’attesa di aiuti esterni che sono sempre di natura emergenziale.

Tradizionalmente, infatti, gli aiuti sono classificati come umanitari o per lo sviluppo. I primi si concentrano sulla risposta alle crisi e sugli sforzi salvavita, mentre i secondi sono progetti a lungo termine e dovrebbero essere orientati a sviluppare l’economia di un Paese per prevenire crisi future.

All’Afghanistan, oggi, sono indirizzati solo aiuti salvavita che oltre a essere largamente insufficienti, servono solo a tamponare una crisi che peggiora di giorno in giorno e non prevedono alcun progetto che possa ripristinare un settore pubblico funzionante, emancipare milioni di persone da una vita condizionata dall’aiuto umanitario.

Sono un palliativo. Necessario, ma pur sempre un palliativo.

L’eredità occidentale

Il mese scorso un’inchiesta del Wall Street Journal ha svelato che più di 7 miliardi di dollari in attrezzature militari fornite dagli Stati Uniti e dagli alleati sarebbero oggi in mano talebana.

Secondo il rapporto, il ritiro improvviso e non coordinato dall’Afghanistan, i problemi di pianificazione e la mancata supervisione dell’assistenza militare hanno non solo contribuito al crollo del governo sostenuto dall’Occidente, ma hanno lasciato nelle mani dei talebani un arsenale che include aerei, missili, dispositivi di comunicazione e dispositivi biometrici. È un pezzo della rovinosa ritirata occidentale.

Oggi i talebani sono un fatto. È un fatto la loro amministrazione. È un fatto il mancato rispetto dei diritti umani. Così come è un fatto che i corridoi umanitari, su cui pure il nostro Paese è impegnato, non siano sufficienti a salvare la vita dei tanti che non resistono più sotto l’Emirato Islamico. I tanti che, sfiniti dalla povertà e dall’oscurantismo, preferiscono rischiare la vita dei loro figli in viaggi lunghi e pericolosi che farli morire di fame in Afghanistan.

La crisi umanitaria afghana riguarda tutto l’Occidente che per vent’anni ha investito miliardi in spese militari e che oggi assiste alle morti in mare di chi non è riuscito a salvare.

I morti in mare di Cutro ci impongono non solo uno sguardo lucido su cosa accada lì, ma soprattutto ci impongono un dilemma. Inghiottire la pillola di collaborare con l’amministrazione talebana per assicurare i servizi minimi a milioni di persone o perseguire la politica delle sanzioni che hanno dimostrato di non piegare la rigidità talebana e, forse, non piegare il consenso di un pezzo di Paese che l’Occidente non ha mai voluto conoscere.


(La Stampa, 15 marzo 2023)

di Alberto Leiss


È proprio vero che la politica (partiti e istituzioni della democrazia rappresentativa) è in una «crisi irreversibile»? Il giudizio senza appello era nell’invito a un incontro della Libreria delle donne di Milano su «Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche». Si diceva, per la verità: «La politica come è stata pensata dagli uomini».
Ma è stata Lia Cigarini – relatrice con Laura Giordano e Daniela Santoro – a prendere le distanze da quella sentenza. La politica è in crisi, certo, ma soprattutto «cambia». E i politici «di professione» fanno fatica a vederlo in tutti quei movimenti associativi che già annunciano nuove «pratiche politiche».

Ci può essere un nesso tra questa vitalità direttamente politica e le istituzioni democratiche?
Per opposizione lo ha indicato Letizia Paolozzi: quel corteo silenzioso a Cutro, con i fiori, una croce fatta di relitti, un linguaggio «vicino al senso della vita», di fronte al rito tardivo e stonato del consiglio dei ministri trincerato poco distante. Oppure gli uomini e le donne che si ritraggono, esodano, disertano dalla guerra di Putin in Russia e anche nell’Ucraina aggredita. Qualcosa a cui saper dare voce, sguardo, attenzione, con l’apertura al mondo che è significata da quell’essere «aperta sulla strada da 45 anni» della Libreria femminista milanese.

Di una vitalità specificamente italiana della «società civile» si è parlato ieri anche alla presentazione, organizzata da Stampa romana, di un libro di due giornaliste del Sole 24 ore, Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto: Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere (Edizioni de Il Sole 24 ore). Una raccolta di storie toccanti e un ricco «manuale» sul «che fare» per la liberazione delle vittime e per sradicare la cultura patriarcale origine della violenza. Un testo rivolto alle donne, che – si è detto – dovrebbero leggere soprattutto gli uomini.

Ed eccomi al titolo: «Diamoci una mossa!».
Sulla scena pubblica si vedono di più gli uomini che reagiscono negativamente al cambiamento aperto dalle donne. Sono coloro che agiscono violenza. Ne parla la cronaca nera.
Ma è nera anche la cronaca dei politici, un po’ in tutto il mondo, che pretendono una rivalsa, attaccano la libertà delle donne, i loro corpi, invocano la restaurazione dell’«ordine» patriarcale. E fanno la guerra.

La reazione positiva è ancora confusa, timida, ambigua. Eppure qualcosa cambia anche nell’universo maschile. La frase – “diamoci una mossa” – la rubo a un altro libro che consiglio a uomini, e a donne. Il titolo è Maschilità smascherata, l’esperienza del gruppo GNAM (Prospero editore).
Lo ha curato Marco Forlani ma è scritto a molte mani maschili. È la storia lunga alcuni decenni di un incontrarsi tra uomini per riflettere, cambiare, liberarsi. GNAM sta per Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile, e se la parola «autocoscienza» è molto impegnativa, l’acronimo allude ironicamente all’abitudine di incontrarsi cucinando e mangiando. Tutto nasce nelle pratiche politiche «tra femminismo e pacifismo» e dalla provocatoria nuova libertà delle «ragazze della nostra generazione». Una cosa che mette in crisi il maschilista inconsapevole. Ma se questa crisi fosse invece «un’occasione anche per noi»?

Di gruppi simili ne esistono ormai decine in Italia. Proviamo a vederci e a discutere su come fare di più e di meglio sabato 18 e domenica 19 marzo, a Roma. Sono incontri aperti: chi fosse curioso/a/* può scrivere a: info@maschileplurale.it.

Oppure venire direttamente sabato dalle 14 alla Casa della partecipazione, Municipio Roma II, Via dei Sabelli 88/A, e domenica dalle 9,30 alla Casa del Volontariato di Roma Galilei, Via Galilei, 53.


(il manifesto, 14 marzo 2023)

di Daniela Santoro


Sono da più giorni seduta davanti a questo schermo, con la difficoltà di trovare le parole giuste, che un periodo convulso come questo – tra novità lavorative e relazionali – porta con sé, cercando di ritagliarmi un po’ di tempo per sedermi in silenzio e riflettere. Penso spesso all’ultima redazione aperta di Via Dogana del 4 dicembre, sono passati più di tre mesi. Penso come questo tavolo, questo spazio, questi incontri siano in sé l’essenza del piacere femminile. Un piacere che mai nella mia vita avevo incontrato prima di questo fecondo ciclo di incontri del 2022, in questa sorprendente collaborazione tra noi Compromesse e la Redazione di via Dogana. Ogni incontro è stato per me un tassello nella scalata verso la riscoperta dell’essenza dell’essere donna, sorretta – in questo spigoloso cammino – dalle parole di tutte le donne che mi hanno circondato in questo anno. Annie Marino, proprio il 4 dicembre, parlò del piacere come «toccarsi con la parola» e questo sintagma mi frulla nella testa da giorni, in un momento in cui parole ne trovo molto poche.

Un avviso: quanto state per ascoltare sarà un piccolo momento di auto-analisi pubblica, forse un po’ autoreferenziale e me ne scuso, ma penso che il modo migliore per epigrafare i miei pensieri sia partire tirando le somme dell’anno passato, il 2022. Anzi, inizierei da qualche attimo prima (non vogliatemene): il 2017, più precisamente settembre 2017.

A diciotto anni lascio il nido materno, fuggo, scappo lontana da sicurezze e insicurezze, abbandono l’aria salmastra di una cittadina sull’orlo del declino affacciata sul Mar Ionio. Sulle mie spalle un peso più grande di quanto mai sia riuscita a sopportare; ciononostante si tira avanti, si cercano nuove amicizie, nuove compagnie, è difficile reinventarsi all’improvviso, soprattutto per me: ho sempre fatto fatica a vivere le persone. Passano i mesi, in qualche modo riesco a ritagliarmi i miei spazi tra casa nuova, aule nuove, vita nuova. Spesso sono sola, mi va bene così: accetto e accolgo il silenzio. Gli esami vanno bene, tutti tranne uno. Non ho mai accettato di sbagliare, eppure succede. Capisco di essere umana per la prima volta nella mia vita, annaspo tra la delusione e la tristezza, a testa bassa tiro avanti, in silenzio.

Sto male, sempre peggio, all’università non ci vado manco più. Rispolvero qualche arma del passato da adolescente turbolenta, poi decido di andare in terapia. In terapia però parlo di altro, come ho già detto faccio fatica con le persone: non importa che questa sia pagata per ascoltarmi o meno. Passano gli anni, piano piano le cose migliorano, riprendo in mano gli esami, studio tanto, tantissimo, trovo degli amici sinceri: siamo sempre insieme – lezioni, studio, balotte – compiamo atti di sano vandalismo, Bologna finalmente mi fa sentire a casa. Sono passati quasi tre anni, è gennaio del 2020.

Quello che non ho detto è che accanto a me si muove una figura circospetta e silenziosa, l’onnipresente del terzo millennio: la depressione.

Improvvisamente compio ventun anni. È il 21 febbraio 2020, sono a Sofia, sull’autobus verso la galleria nazionale leggo un messaggio: è arrivato coluichenondeveesserenominato. Al rientro dalla mini-vacanza, il 24 febbraio, do una piccola festa con quegli amici sinceri di cui sopra: sarà l’ultima volta in cui saremo tutti insieme.

La città si svuota, resto sola, di nuovo. Sopporto, con difficoltà, e provo ad andare avanti. Mi vesto delle migliori intenzioni, ma c’è chi ha piani diversi per me. Ritornano i vecchi vizi e le vecchie abitudini, va sempre peggio. Bologna la mal sopporto, i suoi colori caldi e l’umidità del Reno che la attraversa mi raffreddano le ossa, raffreddano ogni cosa intorno a me. Fronteggio nuovamente la mia essenza di essere umano, lo specchio mi urta, non mi ci rifletto più, mi taglio i capelli da sola, formatto il computer. Non esisto più, va bene così. Un’ombra si aggira per casa mia e mette in disordine ogni cosa, svuota le dispense, svuota le bottiglie, imbratta il bagno, taglia il mondo fuori: scoprirò con il senno di poi quell’ombra essere me. Quando l’ombra non c’è, riesco a dare qualche esame: me ne restano due. Chiudo baracca e burattini, è aprile 2021: mi trasferisco a Milano. Resta l’umidità, via le case dai colori caldi: piano piano qualcosa si riaccende, nella metropoli accetto la mia umanità. Ricordo me stessa bambina con mia sorella che mi tiene la mano in piazza Duomo, quanto mi piaceva venirla a trovare. Adesso ci sono io accanto a quella bambina e le stringo forte la mano, mentre un sorriso spezzato mi si dipinge in volto: scusami. Mi rendo conto che in fondo le devo finalmente un po’ di serenità.

Inizio a guardarmi intorno e mi accorgo di tutte le porte che ho chiuso in faccia a chi cercava di tendermi la mano: sono ancora lì ad aspettarmi, decido di farmi tirare fuori dal baratro una volta per tutte.

Vorrei dire che la serenità che adesso mi pervade è solo in qualche modo dipesa da me, ma sarebbe disonesto. Il punto è che ho passato una gran parte della mia vita a isolarmi, nella convinzione di essere circondata da persone. La mia esistenza reale cozzava con l’esistenza virtuale, dove i miei problemi, i miei pensieri non esistevano. Anche per questo forse ho iniziato a sentirmi parte di qualcosa solo quando sono arrivata qui a Milano e mi sono ricongiunta con pezzi di me, con le briciole che Pollicino aveva sparso per ritrovare la strada. Così io ho ritrovato la mia famiglia, le amiche di sempre e le sorelle che in quei mesi precedenti mi avevano aperto il loro cuore virtuale: Le Compromesse, da ennesima mia identità virtuale, erano qualcosa di realmente esistente, in carne e ossa, erano corporee e umane tanto quanto me. Quanto mi ha sollevata questo pensiero. Non solo, quanto mi ha stimolata questo pensiero. Sentire il loro calore accanto al mio, sedute a Parco Sempione, mi ha fatto capire che avevamo in mano qualcosa di speciale, che io ero parte di quella cosa speciale e soprattutto che niente e nessuno – nemmeno le mie tendenze autosabotatrici – avrebbe mai potuto ostacolare i nostri progetti. Finalmente ero parte di qualcosa di importante, ma soprattutto avevo preso coscienza di quanto quella “cosa importante” fosse reale: loro erano lì con me, non solo dietro una webcam come nei mesi precedenti in cui la nebbia perenne obnubilava la mia ragione.

Quello che era nato per gioco, in cui io mi ero trovata un po’ per caso in un momento in cui passavo più tempo ad annullarmi in un sorriso dietro uno schermo colorato che a fronteggiare la grigia realtà che mi rendeva vuota, era reale. Niente più scherzi, niente più silenzi. Come una sferzata di aria compressa, la corporeità del nostro progetto mi ha violentemente colpito in faccia. È stata una doccia fredda realizzare che oltre lo schermo vi erano delle persone, delle donne, con le loro sofferenze tanto quanto me. Tutto ha cambiato colore, l’arcobaleno si è aperto davanti ai miei occhi fino a quel momento daltonici. Ed è subito estate.

E poi, tra le luci fioche dell’inverno, si apre uno sprazzo di primavera. Finiscono gli esami, sparisce quel senso di incompiuto. Entrano nella mia vita altre donne. Alcune sono sedute accanto a me a questo tavolo, altre qui davanti ai miei occhi, altre accanto a me con il pensiero. Quel progetto che era nato per gioco diventa ancora più importante, altre porte si sono aperte, altre mani tese e per la prima volta non ho avuto paura di stringerle. La prima volta che mi sono seduta a questo tavolo era il 6 marzo dello scorso anno: una nuova speranza.

Tra le redazioni ristrette e aperte ho imparato altre donne, reali, corporee come me: la solitudine è una zavorra del passato che ha soppresso la mia voce e i miei pensieri a lungo. E ora sono felice, felice delle mie tristezze e di quei mali che a volte ancora mi stringono lo stomaco, perché mi rendono reale, felice di aver imparato a dare luce alle persone, alle cose che contano, perché se non l’avessi fatto non sarei qui, non sarei ora.

Oggi sono io, e lo sono anche per loro e per tutte voi.Sono io grazie a quelle voci di donne, quegli abbracci di donne, quei respiri di donne e soprattutto parole di donne che si sono avvicendati intorno a me nell’ultimo anno. Voci, abbracci, respiri, parole che mi hanno insegnato la comunione, che mi hanno strappata dalla solitudine, che mi hanno insegnato a essere viva tanto quanto loro erano vive.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2023)

di Daniela Santoro


Annaspare, risalire, respirare: cronache dagli anni in cui ho imparato davvero a nuotare


Sono da più giorni seduta davanti a questo schermo, con la difficoltà di trovare le parole giuste, che un periodo convulso come questo – tra novità lavorative e relazionali – porta con sé, cercando di ritagliarmi un po’ di tempo per sedermi in silenzio e riflettere. Penso spesso all’ultima redazione aperta di Via Dogana del 4 dicembre, sono passati più di tre mesi. Penso come questo tavolo, questo spazio, questi incontri siano in sé l’essenza del piacere femminile. Un piacere che mai nella mia vita avevo incontrato prima di questo fecondo ciclo di incontri del 2022, in questa sorprendente collaborazione tra noi Compromesse e la Redazione di via Dogana. Ogni incontro è stato per me un tassello nella scalata verso la riscoperta dell’esperienza dell’essere donna, sorretta – in questo spigoloso cammino – dalle parole di tutte le donne che mi hanno circondato in questo anno. Annie Marino, proprio il 4 dicembre, parlò del piacere come «toccarsi con la parola» e questo sintagma mi frulla nella testa da giorni, in un momento in cui parole ne trovo molto poche.

Un avviso: quanto state per ascoltare sarà un piccolo momento di auto-analisi pubblica, forse un po’ autoreferenziale e me ne scuso, ma penso che il modo migliore per epigrafare i miei pensieri sia partire tirando le somme dell’anno passato, il 2022. Anzi, inizierei da qualche attimo prima (non vogliatemene): il 2017, più precisamente settembre 2017.

A diciotto anni lascio il nido materno, fuggo, scappo lontana da sicurezze e insicurezze, abbandono l’aria salmastra di una cittadina sull’orlo del declino affacciata sul Mar Ionio. Sulle mie spalle un peso più grande di quanto mai sia riuscita a sopportare; ciononostante si tira avanti, si cercano nuove amicizie, nuove compagnie, è difficile reinventarsi all’improvviso, soprattutto per me: ho sempre fatto fatica a vivere le persone. Passano i mesi, in qualche modo riesco a ritagliarmi i miei spazi tra casa nuova, aule nuove, vita nuova. Spesso sono sola, mi va bene così: accetto e accolgo il silenzio. Gli esami vanno bene, tutti tranne uno. Non ho mai accettato di sbagliare, eppure succede. Capisco di essere umana per la prima volta nella mia vita, annaspo tra la delusione e la tristezza, a testa bassa tiro avanti, in silenzio.

Sto male, sempre peggio, all’università non ci vado manco più. Rispolvero qualche arma del passato da adolescente turbolenta, poi decido di andare in terapia. In terapia però parlo di altro, come ho già detto faccio fatica con le persone: non importa che questa sia pagata per ascoltarmi o meno. Passano gli anni, piano piano le cose migliorano, riprendo in mano gli esami, studio tanto, tantissimo, trovo degli amici sinceri: siamo sempre insieme – lezioni, studio, balotte – compiamo atti di sano vandalismo, Bologna finalmente mi fa sentire a casa. Sono passati quasi tre anni, è gennaio del 2020.

Quello che non ho detto è che accanto a me si muove una figura circospetta e silenziosa, l’onnipresente del terzo millennio: la depressione.

Improvvisamente compio ventun anni. È il 21 febbraio 2020, sono a Sofia, sull’autobus verso la galleria nazionale leggo un messaggio: è arrivato coluichenondeveesserenominato. Al rientro dalla mini-vacanza, il 24 febbraio, do una piccola festa con quegli amici sinceri di cui sopra: sarà l’ultima volta in cui saremo tutti insieme.

La città si svuota, resto sola, di nuovo. Sopporto, con difficoltà, e provo ad andare avanti. Mi vesto delle migliori intenzioni, ma c’è chi ha piani diversi per me. Ritornano i vecchi vizi e le vecchie abitudini, va sempre peggio. Bologna la mal sopporto, i suoi colori caldi e l’umidità del Reno che la attraversa mi raffreddano le ossa, raffreddano ogni cosa intorno a me. Fronteggio nuovamente la mia essenza di essere umano, lo specchio mi urta, non mi ci rifletto più, mi taglio i capelli da sola, formatto il computer. Non esisto più, va bene così. Un’ombra si aggira per casa mia e mette in disordine ogni cosa, svuota le dispense, svuota le bottiglie, imbratta il bagno, taglia il mondo fuori: scoprirò con il senno di poi quell’ombra essere me. Quando l’ombra non c’è, riesco a dare qualche esame: me ne restano due. Chiudo baracca e burattini, è aprile 2021: mi trasferisco a Milano. Resta l’umidità, via le case dai colori caldi: piano piano qualcosa si riaccende, nella metropoli accetto la mia umanità. Ricordo me stessa bambina con mia sorella che mi tiene la mano in piazza Duomo, quanto mi piaceva venirla a trovare. Adesso ci sono io accanto a quella bambina e le stringo forte la mano, mentre un sorriso spezzato mi si dipinge in volto: scusami. Mi rendo conto che in fondo le devo finalmente un po’ di serenità.

Inizio a guardarmi intorno e mi accorgo di tutte le porte che ho chiuso in faccia a chi cercava di tendermi la mano: sono ancora lì ad aspettarmi, decido di farmi tirare fuori dal baratro una volta per tutte.

Vorrei dire che la serenità che adesso mi pervade è solo in qualche modo dipesa da me, ma sarebbe disonesto. Il punto è che ho passato una gran parte della mia vita a isolarmi, nella convinzione di essere circondata da persone. La mia esistenza reale cozzava con l’esistenza virtuale, dove i miei problemi, i miei pensieri non esistevano. Anche per questo forse ho iniziato a sentirmi parte di qualcosa solo quando sono arrivata qui a Milano e mi sono ricongiunta con pezzi di me, con le briciole che Pollicino aveva sparso per ritrovare la strada. Così io ho ritrovato la mia famiglia, le amiche di sempre e le sorelle che in quei mesi precedenti mi avevano aperto il loro cuore virtuale: Le Compromesse, da ennesima mia identità virtuale, erano qualcosa di realmente esistente, in carne e ossa, erano corporee e umane tanto quanto me. Quanto mi ha sollevata questo pensiero. Non solo, quanto mi ha stimolata questo pensiero. Sentire il loro calore accanto al mio, sedute a Parco Sempione, mi ha fatto capire che avevamo in mano qualcosa di speciale, che io ero parte di quella cosa speciale e soprattutto che niente e nessuno – nemmeno le mie tendenze autosabotatrici – avrebbe mai potuto ostacolare i nostri progetti. Finalmente ero parte di qualcosa di importante, ma soprattutto avevo preso coscienza di quanto quella “cosa importante” fosse reale: loro erano lì con me, non solo dietro una webcam come nei mesi precedenti in cui la nebbia perenne obnubilava la mia ragione.

Quello che era nato per gioco, in cui io mi ero trovata un po’ per caso in un momento in cui passavo più tempo ad annullarmi in un sorriso dietro uno schermo colorato che a fronteggiare la grigia realtà che mi rendeva vuota, era reale. Niente più scherzi, niente più silenzi. Come una sferzata di aria compressa, la corporeità del nostro progetto mi ha violentemente colpito in faccia. È stata una doccia fredda realizzare che oltre lo schermo vi erano delle persone, delle donne, con le loro sofferenze tanto quanto me. Tutto ha cambiato colore, l’arcobaleno si è aperto davanti ai miei occhi fino a quel momento daltonici. Ed è subito estate.

E poi, tra le luci fioche dell’inverno, si apre uno sprazzo di primavera. Finiscono gli esami, sparisce quel senso di incompiuto. Entrano nella mia vita altre donne. Alcune sono sedute accanto a me a questo tavolo, altre qui davanti ai miei occhi, altre accanto a me con il pensiero. Quel progetto che era nato per gioco diventa ancora più importante, altre porte si sono aperte, altre mani tese e per la prima volta non ho avuto paura di stringerle. La prima volta che mi sono seduta a questo tavolo era il 6 marzo dello scorso anno: una nuova speranza.

Tra le redazioni ristrette e aperte ho imparato altre donne, reali, corporee come me: la solitudine è una zavorra del passato che ha soppresso la mia voce e i miei pensieri a lungo. E ora sono felice, felice delle mie tristezze e di quei mali che a volte ancora mi stringono lo stomaco, perché mi rendono reale, felice di aver imparato a dare luce alle persone, alle cose che contano, perché se non l’avessi fatto non sarei qui, non sarei ora.

Oggi sono io, e lo sono anche per loro e per tutte voi.Sono io grazie a quelle voci di donne, quegli abbracci di donne, quei respiri di donne e soprattutto parole di donne che si sono avvicendati intorno a me nell’ultimo anno. Voci, abbracci, respiri, parole che mi hanno insegnato la comunione, che mi hanno strappata dalla solitudine, che mi hanno insegnato a essere viva tanto quanto loro erano vive.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2023)


Domenica 12 marzo 2023, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano


Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche

La politica così com’è stata pensata dagli uomini è in una crisi irreversibile, anche nelle sue forme migliori come la democrazia rappresentativa. L’ultimo impressionante segnale è l’astensionismo alle recenti elezioni regionali. La richiesta di sempre nuovi diritti e di leggi sempre più macchinose non è la risposta.

Noi proponiamo di ricominciare dal senso della politica e dalle pratiche, rilanciando la scommessa sulla potenza trasformativa dell’autorizzarsi ad agire in prima persona con altre e altri. 

Oggi ci sono difficoltà nuove che appannano o spengono le passioni: le condizioni totalizzanti imposte dal mondo del lavoro e dalle pressanti necessità economiche; l’abitudine all’isolamento contratta durante i lockdown e l’abbaglio che la tecnologia basti a superarlo; la fatica di affrontare le relazioni, messe in scena sui social in versioni illusorie.

E però. Il desiderio di dimensione collettiva e di relazione sopravvive. Per coltivarlo, noi crediamo sia irrinunciabile mettere al centro le relazioni e le pratiche, quelle che ci vengono da decenni di femminismo, quelle che a volte già usiamo nella nostra quotidianità e che vanno nominate, e quelle ancora da inventare.


Ne parliamo con Lia Cigarini e Daniela Santoro. Introduce Laura Giordano.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Si consiglia la mascherina.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.



Appuntamento: domenica 12 marzo 2023 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.

  Rigenerazione di Marco Deriu, Castelvecchi 2022. L’astensionismo crescente e la compressione degli spazi di discussione sono sotto gli occhi di tutti. Che ne è della democrazia? Le istituzioni possono reinventarsi per far fronte alla crisi climatica e ambientale? Limite, relazioni, cura, senso dell’autorità: sono i cardini per un possibile cambiamento, parole prossime al pensiero e alle pratiche delle donne. Un libro prezioso per le analisi approfondite, le domande stringenti e la manifesta passione politica. Laura Colombo ne parla con l’autore, Marco Deriu.

Per acquistare online Rigenerazione: https://www.bookdealer.it/goto/9788832904123/607

di Beatrice Campodonico


Ricordiamo Antonietta Berretta, morta il 24 febbraio 2023, con le parole della musicista Beatrice Campodonico alla cerimonia funebre. Di Antonietta Berretta possiamo leggere sul nostro sito l’introduzione all’incontro dell’11 dicembre 2012 Desiderare la musica d’altre.Viaggio tra le compositrici. Alcuni suoi libri si trovano in Libreria delle donne.


Ho conosciuto Antonietta a un concerto dedicato alle compositrici e poi l’anno successivo nel dicembre 1999 siamo diventate colleghe presso il Conservatorio di Novara. Da quel momento è nata una grande amicizia e un lungo percorso artistico insieme in favore della musica delle donne. In uno dei nostri frequenti incontri e conversazioni, Antonietta mi confessò che con la ricerca a favore delle compositrici a cui si stava dedicando, aveva raggiunto uno dei suoi sogni più grandi ovvero coniugare l’impegno civile per la difesa dei diritti delle donne con la musica, altra sua grande passione. In questo modo ha armonizzato le sue più grandi vocazioni.

Antonietta ha dedicato gran parte della sua vita alla riscoperta ma anche scoperta delle compositrici; ha dato loro dignità e voce spendendosi con tutta se stessa organizzando concerti, mostre, incontri, seminari e tutto ciò fosse possibile fare per creare occasioni di ascolto e conoscenza dei loro repertori e della loro musica. Ma il traguardo più grande raggiunto – a mio parere – è l’essere riuscita con una rivoluzione culturale fatta di persuasione, pazienza, tenacia, costanza e ferma convinzione ad appassionare e coinvolgere tutta un’istituzione, il Conservatorio Cantelli di Novara, ovvero, studenti, docenti, personale Ata, la biblioteca. Tantissime sono le cose fatte, ne menzionerò solo alcune: innanzitutto In-audita musica, un progetto multidisciplinare ancora oggi esistente, in cui le musiche delle compositrici vengono incluse nei piani di studio, studiate ed eseguite in varie occasioni; una sezione della biblioteca del conservatorio di Novara (archivio In- audita musica) in cui sono presenti tantissime musiche di compositrici di ogni epoca (credo che sia il più grande e vario archivio di musiche di compositrici esistente in Italia). Ha pubblicato insieme ad altri colleghi, tra cui Pier Giuseppe Gilio e Patrizia Florio, due cataloghi collegati ad altrettante mostre di compositrici del ’600 e ’700. (*) Nel 2009 il progetto In-audita musica ha ricevuto l’importante riconoscimento di “Buona Pratica” dal MIUR.

In tutto questo rimane però singolare la grande umiltà e quasi ritrosia di Antonietta che vedeva nel suo operato una sorta di missione, anteponendo la ricerca a se stessa.

Ma a parte questi aspetti voglio sottolineare come per Antonietta l’aspetto umano anche in questa ricerca fosse alla base di tutto; ciò che ha sempre messo in evidenza è il vissuto di queste musiciste che la storia ha per lo più rinnegato o condannato all’oblio come è accaduto a molte artiste.

Mi sento molto privilegiata per aver incontrato e conosciuto Antonietta, mi ha dato molto e mi ha insegnato ad avere uno sguardo diverso; una ricchezza immensa che mi porterò sempre dentro e che cercherò di trasmettere a mia volta.


Grazie Antonietta !!!


* In-audita musica. Compositrici del ’600 in Europa (Edizioni Et, 2000), e In-audita musica. Compositrici del Settecento in Europa (Torino, Seb 27, 2004).


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2023)

di Antonella Mariani 


La filosofa Valentina Pazé si interroga: lo sfruttamento dei corpi è frutto della logica capitalistica, che fa passare per “altruistico” ciò che invece è al servizio del mercato


Vendere il proprio corpo può essere una scelta di libertà, come il mito della “prostituta felice” suggerisce? E affittare il proprio utero, magari con l’idea di “aiutare” una coppia sterile? O, al contrario, sono espressioni di false libertà, quelle di chi si mette, anche inconsapevolmente, al servizio dello sfruttamento capitalistico dei corpi? A porsi queste domande è una filosofa della politica, che le risposte le ha scritte in un libro uscito nei giorni scorsi da Bollati Boringhieri, Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (192 pagine, 16 euro). Senza tema di fare spoiler, possiamo anticipare le conclusioni, con una frase che Valentina Pazé, docente all’Università di Torino, ha consegnato ad Avvenire al termine di una lunga intervista: «La forma specificamente capitalista di sfruttamento si basa sulla libertà di chi ha poche alternative». Marx dixit quello che la sinistra, oggi, spesso non dice più.

Professoressa Pazé, che una filosofa si occupi di libertà è normale, che prenda in esame la presunta libertà di prostituirsi o di affittare il proprio utero è più originale. Da cosa è nato il suo interesse?

Dalla curiosità che hanno suscitato in me alcuni racconti, letti su vari giornali, di alcune madri surrogate che descrivevano in modo positivo la propria esperienza. All’inizio ho pensato che questi racconti fossero poco credibili. Poi il mio giudizio è cambiato. Ho riflettuto su ciò che già osservava Alain Caillé: la grande capacità del capitalismo di mobilitare il “non utilitario”, come la dedizione, la generosità e l’altruismo, al servizio dell’utilitario. E, per altri versi, il bisogno, da parte di chi è coinvolto in simili transazioni, di raccontare a sé e agli altri una verità diversa da quella dello scambio commerciale.

Insomma, le madri surrogate che dicono di farlo per altruismo sarebbero in realtà manipolate dal capitalismo?

I racconti di chi ha vissuto un’esperienza in prima persona vanno sempre ascoltati con attenzione e con rispetto. Ma senza essere ingenui, cioè considerando il giro di soldi che c’è dietro. Anche nei Paesi in cui è ammessa solo la gravidanza per altri (Gpa) altruistica, come in Gran Bretagna, esistono le cliniche, le agenzie di intermediazione, i consulenti legali: un mondo che non è mosso da altruismo. E le madri surrogate ricevono cospicui rimborsi spese, in realtà veri e propri compensi. Mi pare insomma che dietro il concetto di Gpa solidale si annidi una certa ipocrisia.

Chi fa pressioni per introdurre nel nostro ordinamento almeno la Gpa solidale sostiene che si tratti di un dono. Non è così?

L’articolo 3 della Carta di Nizza (la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 nella città francese, ndr) vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro. Con la “Gpa solidale” si vuole aggirare l’ostacolo. Ma il dono è una cosa seria, gli antropologi che lo hanno studiato ci spiegano che è un modo per costruire relazioni. Qui c’è un dono al servizio del mercato.

Professoressa, è consapevole di nuotare controcorrente rispetto al pensiero mainstream, in particolare a sinistra?

A sinistra – ma non solo – si incorre spesso nell’abbaglio di non vedere il mercato dietro fenomeni di questo tipo. Mi sconcerta il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento, mascherate e giustificate nel nome della libertà. E mi colpisce l’incapacità di vedere l’esistenza di rapporti di subordinazione, di sfruttamento o vero e proprio dominio, quando siano mediati dalla forma giuridica del contratto. Ma esistono anche voci critiche: posso citare grandi pensatori laici e di sinistra come Stefano Rodotà, che denunciava il pericolo della “cannibalizzazione” del corpo da parte del mercato, oppure Luigi Ferrajoli, grande giurista allievo di Norberto Bobbio, per il quale la stella polare della sinistra è l’uguaglianza. Nella gravidanza per altri sono evidenti i rapporti asimmetrici; non a caso la madre surrogata è sempre di ceto sociale inferiore alle coppie paganti. C’è una certa cecità di fronte a questi fenomeni; oggi mi sembra interessante che sia il Papa a spendersi contro la mercificazione universale.

Nel suo saggio argomenta anche contro la presunta libertà di prostituirsi. Un tema molto controverso: sempre più spesso sentiamo testimonianze di “escort felici”…

Anche in questo caso, è giusto ascoltare tutte le testimonianze, con rispetto ma non con ingenuità, confrontandole con tutto quello che sappiamo sul mondo della prostituzione. Ad esempio il numero di donne che vengono uccise o che sviluppano patologie psichiatriche o si suicidano… Se l’invito a mettersi in vendita, veicolato da un certo modello culturale, è stato accolto da donne che interpretano la libertà sessuale in questo modo, le leggi devono però proteggere i soggetti più deboli. Chi finisce a esercitare quell’attività nella stragrande maggioranza dei casi non ha avuto altre possibilità.

E se una donna vende il suo corpo volontariamente?

Questo ha a che fare con l’egemonia del modello neoliberale, che dice che siamo tutti imprenditori di noi stessi e dobbiamo mettere a valore tutto ciò che abbiamo e che siamo. A questo modello si può opporre ciò che diceva Marx, e cioè che gli operai devono lottare per ottenere una legge che limiti la loro libertà di diventare volontariamente schiavi del capitale. Quello che Marx sapeva è che le forme moderne di sfruttamento si basano sulla libertà di chi ha poche alternative. Una disponibilità a farsi sfruttare che si manifesta nella forma estrema della “prostituzione volontaria”, ma non solo; pensiamo ai giovani invitati a lavorare gratis per arricchire il curriculum o alle condizioni di braccianti e rider…


(Avvenire, 9 marzo 2023)

di Monica Ricci Sargentini


In Italia gli uomini sono responsabili della maggior parte dei comportamenti antisociali. I dati, forniti dall’Istat per il 2018, fanno impressione. La popolazione maschile rappresenta «l’85,1% dei condannati, il 92% degli imputati per omicidio, il 98,7% degli autori di stupri, l’83% dei responsabili di incidenti stradali mortali, l’87% dei colpevoli di abusi su minori e il 93,6% degli imputati per pornografia minorile». E ancora: «il 95,5% della popolazione mafiosa, l’87,5% degli imputati per rissa e il 76,1% per furto»; «il 91,7% degli evasori fiscali, l’89,5% degli usurai, il 93,4% degli spacciatori, il 95,7% della popolazione carceraria». Sono cifre incredibili, considerando che le donne rappresentano il 51,3% della popolazione, che hanno un costo spropositato per le casse dello Stato, dalle spese per le forze dell’ordine ai servizi penitenziari, da quelle per i processi a quelle per le cure mediche. Ma al di là dell’aspetto puramente finanziario vanno calcolate anche le centinaia di migliaia di vite perse, oltre alle sofferenze fisiche e psicologiche delle vittime. 
Il costo della virilità è il titolo di un libro scritto da Ginevra Bersani Franceschetti, giovane economista con studi a Parigi, insieme con Lucile Peytavin, una storica dell’economia che ha pubblicato un analogo volume in Francia, per Il Pensiero Scientifico Editore . Lo scopo non è solo quello di denunciare l’indiscutibile propensione maschile alla violenza, ma di provare anche a fare una stima del prezzo che paga la collettività, e cioè «quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne» come recita il sommario del libro. 
Le cifra

Le autrici, con formule matematiche rigorose, sono riuscite a calcolare la differenza tra l’importo speso per i comportamenti anti-sociali messi in atto da un sesso e dall’altro. Il risultato è sorprendente: mettendo insieme la spesa pubblica per le forze dell’ordine e il sistema giudiziario, l’amministrazione penitenziaria, le emergenze e i ricoveri ospedalieri, più i costi umani e sociali della «catena della violenza» maschile, si arriva a 98,78 miliardi di euro, una cifra pari più o meno al 5% del Pil italiano nel 2019. Naturalmente i calcoli tengono presente anche il fatto che gli uomini possano praticare un’attività più delle donne, per esempio la percentuale dell’83% dei responsabili maschili di incidenti mortali è calcolata a parità di tempo e chilometri di guida delle donne. 
La mancanza di dati A rendere complicati i calcoli è la drammatica carenza di dati sulla differenza di sesso nelle statistiche relative ai comportamenti antisociali. Sembra incredibile ma i numeri diffusi dagli organismi statistici sui bilanci del sistema giudiziario, di quello sanitario, dei servizi di emergenza, e così via, sono raramente disaggregati in tal senso. Ad esempio quando l’Istat pubblica una rassegna di 230 pagine sulla criminalità in Italia viene prestata più attenzione alla nazionalità o all’età degli imputati piuttosto che al fatto che siano maschi o femmina. Come se questa fosse una cosa scontata. Per aggirare questo problema le autrici hanno dovuto incrociare i diversi dati tra quelli pubblicati dai ministeri a quelli forniti dai servizi statali incaricati di produrre statistiche. 
Le cause

Qual è la ragione di questa incredibile discrepanza? Le autrici sostengono che i comportamenti anti-sociali degli uomini sono il frutto di una mascolinità tossica dovuta all’educazione che viene loro impartita. La società patriarcale promuove il modello dell’uomo-macho, virile, forte e superiore. Se ai bambini si insegna a sopprimere le emozioni, a mascherare il disagio o la tristezza ed ad utilizzare la violenza come indicatore di potere, i risultati sono quelli che vediamo. Il vocabolario Treccani alla voce virilità scrive: «La qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sé e risoluto, coraggioso, che si manifesta nelle sue azioni». Ma attenzione anche i maschi sono vittime di questa cultura misogina perché sono obbligati ad adeguarsi a un modello di persona fatta di testosterone e sete di dominio. È questa la gabbia in cui sono costretti a vivere. Nel resto del mondo Ovunque nel mondo, come in Italia e in Francia, gli autori di delitti e di violenze sono in grande maggioranza uomini. «Possiamo pensare che, senza una concezione virile delle relazioni internazionali, le guerre e i conflitti sarebbero meno numerosi?» si chiedono le autrici. È venuto il momento di provare, potrebbe nascere un mondo migliore.


(Corriere della Sera, 8 marzo 2023)

di Alessandra Pigliaru


«Per noi, senza retorica, 8 marzo è ogni giorno». Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, non ha dubbi nel constatare che, al di là di ogni celebrazione, un sistema complesso come quello dei centri antiviolenza (oltre 80 quelli che fanno capo a D.i.Re) e case rifugio, sia presente e attivo con ostinazione ogni giorno.

Quest’anno la loro attenzione, proprio in virtù dell’impegno quotidiano e consolidato su tutto il territorio, è rivolta anche alla strage di Cutro, ecco perché oggi, come associazione nazionale, i Centri aderiscono alle mobilitazioni «a sostegno del diritto di vivere oltre ogni confine una vita dignitosa. La nostra azione politica – aggiunge Veltri – procederà per continuare a rivendicare e tutelare i diritti di tutte le donne, ma quanto è successo non può essere messo da parte. Se questo è l’esempio di come il governo affronta i temi legati ai diritti umani, dovremo sempre più monitorare, reagire e far sentire la nostra voce».

Dall’inizio del 2023, su 20 donne uccise ben 18 lo sono state in ambito familiare/affettivo; di queste, 11 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Come commenta questi dati?

Lo scorso anno abbiamo visto – nuovamente – come gli omicidi siano costantemente in calo. Non è così per i femminicidi. Questi continuano ad essere costanti nel tempo, poiché non vengono affrontate le vere cause: il diritto al controllo e al possesso della donna da parte del partner, della famiglia. La libertà delle donne, la loro autodeterminazione, il percorso di consapevolezza femminile sempre più diffuso e in crescita è direttamente proporzionale alla volontà di dominio e di controllo di un patriarcato che persiste ancora e reagisce sempre più con efferatezza e violenza.

Sembra una ripetizione, ma fino a quando il fenomeno della violenza maschile sulle donne non verrà affrontato in modo sistemico, per il fenomeno strutturale che è, fino a quando non verrà messo in atto un serio e vasto programma di cambiamento culturale continueremo a contare le donne morte e a chiederci se sono più o meno dell’anno precedente.

A proposito del fenomeno strutturale della violenza maschile contro le donne, i fondi destinati ai vostri Centri sono insufficienti. A che punto è la riflessione istituzionale riguardo i ritardi e le gravi difficoltà che dovete affrontare?

Purtroppo, nulla sembra migliorare con il tempo. I fondi continuano ad essere insufficienti e sono sempre più parcellizzati. Fondi che arrivano in ritardo dallo Stato, Regioni che prendono il loro tempo per l’assegnazione, territori che rimangono indietro, alimentando così – anche in questo ambito – disparità e differenze. Per dare risposte continuative alle donne non è possibile proseguire a lavorare navigando a vista. Inoltre, l’Intesa Stato-Regioni ci lascia ancora perplesse, perché continua a considerarci meri servizi alle donne quando il lavoro culturale e di cambiamento strutturale attraverso azioni di formazione e di animazione territoriale lo facciamo ovunque e ormai da tempo. Per non parlare dei centri aiuto maltrattanti che beneficeranno di fondi con conseguenze anche nel processo di contrasto alla violenza alle donne molto preoccupanti. Serve una serie politica di sostegno alle attività delle organizzazioni del terzo settore che hanno una solida e consolidata esperienza nel contrasto alla violenza maschile alle donne. E serve un serio piano di formazione per un vero cambiamento culturale nelle istituzioni: ancora troppo frequenti i casi di vittimizzazione secondaria che sempre più allontanano le donne dai percorsi di giustizia. Senza la conoscenza del fenomeno e del suo radicamento culturale, combatterlo è impossibile.

Quali sono i progetti che porterete avanti nei prossimi mesi?

D.i.Re si sta muovendo su vari fronti. Abbiamo attivi una serie di fondi per sostenere economicamente le organizzazioni socie e le donne che accolgono. In questo 2023 vogliamo concentrarci particolarmente sui centri antiviolenza più in difficoltà, che spesso operano in contesti svantaggiati. Ci stiamo muovendo molto per supportare i progetti di inserimento lavorativo delle donne, ben sapendo quanto l’autonomia economica sia fondamentale per i loro percorsi di libertà.

Abbiamo attivato l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, per monitorare l’andamento di questo fenomeno che riguarda le istituzioni e le loro risposte alle donne. Continuiamo a migliorare l’accoglienza delle donne migranti e richiedenti asilo, anche formando vari interlocutori sulla metodologia dell’accoglienza e mediazione culturale. I progetti di D.i.Re offrono risposte ai bisogni che leggiamo grazie al grande radicamento nei territori delle organizzazioni nostre socie.


(il manifesto, 8 marzo 2023)

Proseguono i liberi scambi di riflessioni a partire dall’attualità. Invitiamo tutte ad attualizzare la storica giornata condividendo una parola che meglio rappresenti oggi passi e/o inciampi nel nostro cammino di libertà.