di Vita Cosentino


Quando una donna dice la sua verità, illumina un mondo. Questo ho pensato mentre Daniela Santoro raccontava le difficoltà umane ed esistenziali attraversate nel suo tormentato percorso di presa di coscienza politica. Con lei risuonava la voce di tante altre giovani donne che, con accanto l’ombra della depressione, passano gran parte del tempo sui social.

Nelle sue parole mi ha colpito soprattutto l’immagine di «tutte le porte chiuse in faccia» a chi cercava di tenderle la mano. Rendendosi consapevole di questo atteggiamento, ha trovato poi la spinta per decidere di «farsi tirare fuori dal baratro». Questo mi pare oggi il punto spartiacque: ritrovare la fiducia nelle relazioni in carne e ossa. Cosa evidentemente difficile per una generazione nata digitale.

Non è problema solo femminile. In questo momento di grave crisi delle forme della politica maschile il passaggio alla fiducia nelle relazioni in carne e ossa non riguarda solo le giovani donne come Daniela, ma tutti i giovani. Dopo le ultime elezioni regionali, Maurizio Ferrara, in un articolo comparso sul Corriere della sera dal titolo Giovani senza partito, esamina l’alto astensionismo dei giovani sostenendo, sulla base di inchieste approfondite, che non è sinonimo di alienazione. I giovani si interessano alla politica, ma «non considerano il voto come uno strumento efficace per far sentire la propria voce». Preferiscono impegnarsi in movimenti di protesta e il canale privilegiato è internet. Sono netizen, cittadini in rete che non vanno a votare e partecipano online ogni giorno (19/02/2023).

Senza per questo demonizzare i social, mi sembra forte il rischio di chiusura in una bolla virtuale se non si partecipa al mondo anche nella realtà. C’è chi lo ha già capito e lo vuole comunicare alle altre, come le Compromesse quando scrivono: «Raccontandoci sulla nostra pagina Instagram, vogliamo trasmettere alle nostre coetanee e alle ragazze più giovani, la voglia di unirsi, di trovare piacere infrangendo la bolla dell’individualismo, alla ricerca di una libertà che nasce dallo stare insieme, e non perde mai di vista la collettività» (AP n.1/2 2023).

Quello che posso offrire io a supporto di questo passaggio indispensabile sul piano esistenziale e politico è una narrazione che viene dalla mia storia e dice: la vita è fatta di incontri e poco più. Gli incontri sono più spesso casuali che cercati e alcuni determinano svolte esistenziali potenti. Anche la politica è fatta essenzialmente di incontri e di relazioni. Io mi sono sempre regolata dando un’iniziale fiducia, pensando che dall’incontro potesse venire qualcosa di buono. Non sempre accade, ma il più delle volte sì. Per puro caso, al convegno sull’affidamento, negli anni ’80, ero seduta vicino a Giannina Longobardi, come me insegnante, a Verona. Da lì è nata un’amicizia umana e politica che ha prodotto pensiero sulla scuola e il coraggio di agire in grande con il Movimento di autoriforma gentile. Per parte mia, non mi sono mai voluta mettere in analisi, pensando che la politica fosse il modo migliore per affrontare anche i buchi personali: i miei problemi non sono solo miei e condividerli apre a trasformazioni.

Siamo in un tempo di cambiamento e, per fortuna, l’individualismo imposto sembra al tramonto, come mostra una recente ricerca pubblicata sul Domani, nella rubrica Il Cannocchiale – l’economia e la società attraverso i dati. Enzo Risso dice: «Dopo quaranta anni di sbornia liberista, di spinta a disinteressarsi della società, degli altri, e di pensare solo a se stessi, ad arricchirsi senza badare alle conseguenze, la società sembra mutare la direzione del proprio timone». Dal suo osservatorio sui dati si vedono infatti percentuali altissime (tra 70% e 80%) di chi cerca nuove forme di scambio, di “legami caldi”, nuove forme di collaborazione e condivisione (19/03/2023).

Al contempo assistiamo all’estrema crisi delle forme della politica maschile e alla crescita di un bisogno sempre più diffuso di nuove forme di convivenza. Le invenzioni politiche delle donne, il partire da sé e le pratiche di relazione sarebbero le politiche più rispondenti a questo tempo, pure, quasi per paradosso, sono come offuscate.

In Via Dogana Tre abbiamo deciso di lavorare sulle pratiche politiche e sulla loro nominazione proprio per l’esigenza di gettare nuova luce su una concezione della politica fondata sulle pratiche. È infatti da nuove pratiche che possono venire nuove idee e nuove teorie. In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoriuscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. Le teorie infatti, anche le più avanzate sono in qualche modo debitrici del sistema simbolico in cui nascono. Quando ne abbiamo discusso nella redazione ristretta di VD3, una giovane ha detto: «Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica».

Ci sono delle ragioni per cui queste invenzioni della politica femminista sono offuscate, per non dire oscurate in questo momento. L’improvvisa comparsa di due donne in ruoli politici apicali, la presidente del consiglio dei ministri e la segretaria del maggior partito dell’opposizione, cattura lo sguardo, anche femminile, verso la scena del potere. È forte il rischio di polarizzazione e tifoseria da schieramento. Inoltre i femminismi che attirano maggiormente le nuove generazioni adottano prevalentemente le forme politiche tradizionali della sinistra come scioperi, manifestazioni, obiettivi, e non veicolano le pratiche originali pensate dal femminismo.

Nella sua relazione iniziale Lia Cigarini ha messo in evidenza un passaggio importante quando ha parlato di «allargamento della politica». È una notizia molto buona se le associazioni dicono di stare facendo “una politica sociale” e non “un lavoro nel sociale”. Fino a poco tempo fa non succedeva. Segna un cambiamento nella concezione della politica. Ricordiamoci – e mi faceva impazzire – che fino a poco tempo fa dicevano della politica delle donne che era “prepolitica” o “impolitica”.

Può venire un grande impulso dall’allargamento di ciò che si intende per politica e noi possiamo contribuire a queste nominazioni, avvistarle là dove si producono nella società, metterle in risalto, farle circolare, far sempre più nominare come politica ciò che è politica. Se cambiano le parole, cambia anche la realtà.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)

di Silvia Motta


So che desiderare un bambino e non poterlo avere può essere molto doloroso, soprattutto per una donna. Ugualmente io dico un NO DECISO alla GPA (gestazione per altri – utero in affitto). Rispetto all’evoluzione straordinaria che hanno avuto le tecnologie riproduttive, dico che non tutto quello che si può fare va fatto. E non tutto quello che si desidera è trasformabile in un diritto. Più precisamente: non si può fare mercato dei bambini e del corpo delle donne.

Non mi spaventa la ‘sintonia’ che queste affermazioni hanno con le politiche della destra e con quelle dell’area cattolica-conservatrice: io parto da considerazioni diverse.

Non mi interessa difendere la famiglia tradizionale, eterosessuale e immutabile, con il portato di pregiudizi e di omofobia che porta con sé. Io parto dalla differenza dei due sessi e dall’asimmetria che li caratterizza. Le donne possono partorire, gli uomini no. Le donne sanno sempre quando sono madri e chi sono i loro bambini. I maschi possono spargere in giro bambini senza neppure venirlo a sapere.

Ci vuole il seme di un uomo e l’ovulo di una donna per concepire una creatura. È nel ventre di una donna che l’ovulo fecondato può svilupparsi fino a diventare una creatura vivente. La gestazione per altri oscura e nega la madre biologica (detta anche genetica) che nella procreazione umana non fornisce solo l’ovulo ma ha anche l’apparato corporeo e psichico idoneo per trasformare l’ovulo fecondato in un un essere vivente e per relazionarsi con lui anche prima che veda la luce.

Tuttavia, se ci addentriamo nelle diverse modalità che possono assumere le relazioni sessuali tra donne e uomini, le questioni si complicano ed è necessario fare differenze e precisazioni, a seconda che la surrogazione sia richiesta da una coppia eterosessuale o da una coppia omosessuale maschile.

Le statistiche dicono che le coppie eterosessuali sono la maggioranza tra coloro che ricorrono all’utero in affitto, e fanno meno problema delle coppie omosessuali perché la funzione materna viene agevolmente assunta dalla compagna dell’uomo che ha fecondato l’ovulo.

Nel linguaggio comune, per le coppie omosessuali maschili si fa riferimento a bambini che hanno “due papà”. È il caso più inaccettabile da tutti i punti di vista. Due padri? Il fatto non sussiste. Uno dei due di sicuro non è il padre, ma, eventualmente un compagno del padre. Certamente il compagno del padre può svolgere una funzione educativa-affettiva ma dire che ci sono due papà è un falso.

E la madre dov’è? Chi è? Circolano molti racconti edificanti sul coinvolgimento della madre gestante nella famiglia gay, con soprannomi carini come mummy. Dice Valentina Pazé (docente di filosofia politica presso l’Università di Torino): “All’inizio ho pensato che questi racconti fossero poco credibili. Poi il mio giudizio è cambiato. Ho riflettuto su ciò che già osservava Alain Caillé: la grande capacità del capitalismo di mobilitare il “non utilitario”, come la dedizione, la generosità, e l’altruismo al servizio dell’utilitario. E, per altri versi, il bisogno da chi è coinvolto in simili transazioni di raccontare a sé e agli altri una verità diversa da quella dello scambio commerciale”[1].

Non c’è ovviamente surrogazione nella coppia formata da due donne. Volendo condividere la maternità esse possono fare lo sdoppiamento, una mette l’ovulo, l’altra la gestazione. Risalta in questo caso la superiorità femminile nella procreazione. La parità nel caso della procreazione non è valida, c’è un primato materno che nella nostra società viene comunemente ammesso.

Esprimere riprovazione e netto rifiuto verso la maternità surrogata per me non vuole dire legittimare comportamenti e parole criminalizzanti contro chi vi è ricorso. Non perché questa non sia un fatto di grande gravità, specie per noi donne che subiamo un’ulteriore cancellazione, ma perché è un fenomeno che esiste e non produce qualcosa di inerte, ma creature che devono poter vivere in un clima di accettazione e di non isolamento. Da questo punto di vista, la relazione che questi adulti hanno con i ‘loro’ bambini va riconosciuta esplicitamente e regolata legalmente per entrambi i soggetti della coppia. Nelle coppie omosessuali, la possibilità di adozione del figlio del partner potrebbe essere una buona soluzione[2]. L’applicazione a questi casi dell’adozione speciale, quella che la Cassazione indica per gli omogenitori, sembrerebbe già oggi una parziale risposta.

Per quanto riguarda i bambini nati con le tecniche della maternità surrogata, capita molto spesso che a una certa età vogliano sapere di più rispetto alla propria provenienza. A loro va riconosciuto il diritto di sapere la verità sulle proprie origini. Per questa ragione, alcuni paesi dove la maternità surrogata è permessa hanno introdotto la tracciabilità, cioè è vietato l’anonimato dei fornitori di gameti.

A chi voglio rivolgermi? In primis alle femministe, anche quelle della differenza, nel tentativo di portare un po’ di chiarezza perché la materia è complicata e molte si sentono confuse. E poi naturalmente a tutte e tutti coloro che vogliono confrontarsi davvero con questo argomento e non farne un’arma di propaganda politica.

Perché anche le femministe? Perché la denominazione femministe è una sorta di marchio ombrello sotto il quale trovano spazio diverse visioni. La mia visione va sotto il nome di ‘femminismo della differenza’ e in Italia è identificata spesso con la Libreria delle donne di Milano. Cosa in sé esatta ma riduttiva, perché il tema della differenza è riconosciuto da moltissime donne in tutta Italia e altrove.


[1] https://www.avvenire.it/vita/pagine/maternit-surrogata-ma-quale-libert?fbclid=IwAR2mlM4X1596q-c96_51NsbVOgPQmLoKQ7yGGxrcpOWPIPijxhzcQqvOV_k

[2] https://www.micromega.net/discriminazione-dei-figli-di-coppie-omosessuali-chiara-saraceno/


(libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)

di Umberto Varischio


Coloro che ritengono un pretesto (o una “fake news”) affrontare il problema della mancata trascrizione nell’anagrafe italiana di figli di coppie omosessuali a partire dalla pratica della “gestazioni per altri”, si dimenticano che la sentenza della Cassazione che ha innescato il caso riguardava proprio un caso di gpa.

La Corte, infatti, decidendo su questione relativa alla trascrivibilità dell’atto di nascita di un bambino nato in Canada con la gestazione per altri, pratica cui aveva fatto ricorso una coppia maschile di cittadini italiani uniti in matrimonio presso tale Stato estero, ha ritenuto che «la pratica della gestazione per altri […] offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane; ciò esclude la automatica trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero».

La Corte, tenendo conto degli aspetti affettivi del legame che esiste tra il padre naturale del bambino e il partner dello stesso (nello stato straniero il coniuge), riconosce però che il bambino ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, «del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con colui che ha condiviso il disegno genitoriale, e che l’ineludibile esigenza di assicurargli i medesimi diritti degli altri bambini è garantita attraverso l’adozione in casi particolari, che rappresenta lo strumento che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello “status” di figlio, al legame di fatto con il partner del genitore genetico che ha condiviso il disegno procreativo e ha concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita».

Al di là di ragioni strettamente politiche che si sono innestate nel dibattito e nelle iniziative che hanno seguito la scelta di alcuni sindaci di interrompere, nel loro Comune, la pratica della trascrizione (ragioni a cui accenna Marina Terragni nel suo articolo uscito sul Foglio che è consultabile qui), mi sconcerta verificare che a quasi quindici giorni dall’evento pochissime siano state le riflessioni maschili sul nesso tra desiderio maschile e gestazione per altri.

Vi accenna, nell’ambito di un ragionamento generale sul desiderio di paternità, Sarantis Thanopulos su Il manifesto del 25 marzo, ritenendo che la «gestazione surrogata», escludendo valutazioni di tipo morale o politico e partendo solo dalla prassi, sia una pratica che «implica uno sfruttamento del corpo della donna».

Una pratica che, almeno per me, nella stragrande maggioranza dei casi si riduce a un “servizio” in cui viene richiesto a una donna di “produrre” una merce a pagamento che in questo caso è un essere umano. Una pratica, per restare nell’ambito del rapporto di produzione che qui viene adombrato, in cui la donna in questione perde qualsiasi diritto su colui che ha “prodotto”. La stessa situazione in cui si viene a trovare un’operaia salariata che produce un qualsiasi oggetto e che perde ogni diritto su di esso. Se non fosse che un bambino non è un oggetto.

Si argomenta che porre un limite a questo oggettivo sfruttamento significherebbe porre un ostacolo al desiderio di paternità del genitore (maschio) non naturale. Niente quindi mercificazione e patriarcato, niente alienazione e violenza iscritta nei rapporti di potere e produzione, ma un desiderio sostanzialmente solipsistico, che mette in mora la complessa relazionalità del desiderio di paternità come descritta da Thanopulos.

In quanto uomo mi viene da chiedermi: ma il desiderio di paternità può essere senza limiti e quindi anche prevedere di essere messo in atto attraverso un rapporto puramente mercantile come nella “maternità surrogata”? Non sembra a qualcuno che in questa illimitatezza del desiderio agisca una pratica fortemente patriarcale come quella del controllo della maternità? E poi, il desiderio di paternità, non negando gli aspetti affettivi del legame, per rendersi effettivo deve essere per forza confermato dal diritto attraverso il riconoscimento dell’essere “mio” del bambino? Lascio agli uomini che vivono questo desiderio (che non è il mio) la risposta; per me vale quanto affermato da Terragni: «maschi che vogliono i figli delle donne, niente di così diverso dalla prima pietra su cui si è edificato il patriarcato».


(www.libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)

di Jessica Chia


«Nella mia dimensione culturale è normale che il Gange, sulle cui sponde sono nata, mi scorra nelle vene come parte di me, così come è naturale sapere che l’Himalaya costituisce la forza di pietra che mi contraddistingue. Io e la mia terra siamo uno. E questo vale per tutti gli esseri umani». È forse partendo da questo tutt’uno che si può entrare nel pensiero dell’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva (Dehradun, 1952), che allo studio e alla salvaguardia del pianeta ha dedicato la sua intera esistenza. Esattamente «cinquant’anni di attivismo» su settanta di età, come ha detto a La 27esimaOra nell’intervista che si è tenuta in occasione dell’uscita del suo nuovo libro. Il volume La vita è maestra. La mia storia di rivoluzione (Piemme, a cura di Manlio Masucci e Cinzia Chitra Piloni) è la prima autobiografia di Shiva, un «testamento culturale» e «un lascito alle future generazioni». Il volume inizia dal racconto della sua famiglia progressista – il nonno Mukhtar Singh fu l’iniziatore delle scuole femminili nei contesti rurali e morì di digiuno durante una protesta per poter fondare la prima università femminile. Cresciuta in simbiosi con la natura, Shiva si laurea in fisica nel 1978 all’Università del Punjab e consegue un dottorato in filosofia all’University of Western Ontario, Canada. Per tutta la vita si dedica a progetti di tutela della biodiversità, della sostenibilità alimentare, del clima e diventa «custode dei semi», che per l’attivista rappresentano «il principio della vita sulla Terra». Motivo per cui fonda Navdanya («nove semi»): un’organizzazione nata per difendere la sovranità alimentare e la biodiversità. Ma soprattutto Shiva, vincitrice nel 1993 del Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo per la pace, e fondatrice della Earth University, è la principale teorica dell’ecofemminismo e si è sempre battuta contro la globalizzazione, le colture intensive, gli Ogm, oltre a promuovere l’empowerment femminile, come lei stessa ha fatto lottando tutta la vita contro il patriarcato: lei, donna indiana che studia, che si separa dal marito, affronta una battaglia legale per ottenere la custodia del figlio, in una società che considera ancora donne e figli proprietà dell’uomo. In questa intervista le abbiamo chiesto il suo punto di vista sui leader mondiali, sul cambiamento climatico, sull’“immigrazione climatica” e sulla nascita del suo pensiero ecofemminista.

Perché la salvaguardia dei semi è così importante per il nostro pianeta? E qual è il significato di “monocultura della mente”?

«Ci hanno voluto far credere che le monocolture producono di più, ma la foresta naturale ha in realtà una produttività ben maggiore. Ho pensato: cosa impedisce alla gente di vedere la ricchezza e la diversità dei sistemi? Cosa li rende ciechi? Poi mi è venuta l’idea che la monocultura della mente non fa vedere la vita, la diversità, la pluralità. Questo è il pregiudizio attraverso cui prende forma l’uniformità della monocultura».

Com’è nato l’ecofemminismo e come si è evoluto?

«Sono stata coinvolta dal movimento Chipko (nato in India per la tutela delle foreste; sono celebri le donne del movimento che nell’Himalaya indiano abbracciarono gli alberi incatenandosi a questi per impedirne l’abbattimento, ndr) e pian piano mi è stato chiaro che sono state le donne a difendere la Terra. Quando mi è stato chiesto di scrivere un libro con Maria Mies, Ecofeminism (1993), raccontai il modo in cui il colonialismo e il commercio coloniale avevano deformato il processo economico dando vita all’estrattivismo: gli uomini venivano risucchiati nelle miniere e nelle piantagioni, e le donne erano lasciate a fare il lavoro di sostentamento della società, che però non veniva chiamato “economia”. Le donne avevano conoscenze su come sostenere i sistemi idrici, quelli alimentari, la comunità e la famiglia, e hanno continuato a farlo. Ecofemminismo è il riconoscimento che la convergenza di capitalismo e patriarcato sono le radici della distruzione del pianeta, del dominio sulle donne e del dominio sulle altre culture e razze. Ecofemminismo è il riconoscimento che facciamo parte di una sola famiglia sulla Terra, dove non ci sono specie, generi e classi privilegiate. Sulla Terra ognuno partecipa alla società della vita: questa è la vera democrazia, che io ho chiamato democrazia della Terra, e che è cresciuta dal mio pensiero ecofemminista pensando alla diversità, e non alle gerarchie, come base dell’uguaglianza».

Nel libro lei cita il G8 di Genova. In quel momento (era il 2001) in Italia il dibattito sul clima raggiunse la massa. Da allora, cos’è cambiato?

«Il dibattito sul clima esiste dal 1992 (con il primo summit della Terra a Rio de Janeiro, ndr) e, per qualche ragione, si pensa che sia appena venuto fuori. La Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici hanno 31 anni, ma siamo di nuovo di fronte a un punto cieco, come se non ci fosse una crisi della biodiversità.

Ricordo bene il G8 di Genova, la grande protesta; prima di allora, c’era stata quella di Seattle. Fu il momento in cui i poteri costituiti pensarono di poter creare monopoli; in realtà capirono che le persone sanno resistere. La violenza contro il ragazzo a Genova (Carlo Giuliani, ucciso a ventitré anni da un carabiniere, ndr) è stata la nuova morte della democrazia: le persone avevano il diritto di protestare, ma quel diritto è stato criminalizzato: è questo quello che abbiamo visto a Genova. Genova è uno spartiacque totale, perché un ragazzo ha dato la sua vita per la libertà e la democrazia. Perché il G8 di allora, e oggi il G20, sono gruppi di persone che si riuniscono e decidono verso quale direzione deve andare il mondo. Se guardiamo a oggi, le persone stanno marciando per la natura, per il lavoro… Ma pensiamo che i leader stiano ascoltando? No, loro pensano di essere immuni alla democrazia».

Poche settimane fa Giorgia Meloni ha incontrato in India Narendra Modi. Cosa pensa di quell’incontro e delle promesse dei leader fatte intorno all’emergenza climatica?

«Penso che l’emergenza climatica significhi scendere tutti dal carrozzone della globalizzazione. Dobbiamo guardare alle emissioni e a come sono aumentate dal 1995 quando l’economia, invece di essere locale e nazionale, è stata globalizzata attraverso il controllo di società multinazionali. La globalizzazione aziendale è una fabbrica di emissioni e distrugge anche i mezzi di sostentamento, la democrazia delle nostre culture. Direi ai due leader: voi, oggi nel 2023, rappresentate una civiltà molto antica. Cercate di conquistare la fiducia dei vostri popoli per difendere la diversità culturale e la biodiversità per affrontare il cambiamento climatico».

Che cos’ha rappresentato per lei l’incontro con Papa Francesco?

«Ho incontrato per la prima volta Papa Francesco durante gli incontri che aveva organizzato (nel 2014) in Vaticano per parlare del superamento di un’economia dell’indifferenza verso un nuovo paradigma economico. Poi di nuovo, via Zoom, per The Economy of Francesco. Quando mi è stato chiesto dell’enciclica (Laudato si’, 2015, ndr) ho detto che è stata scritta dai cattolici, ma avrebbe potuto scriverla un qualsiasi leader spirituale perché distilla il meglio dell’evoluzione e del pensiero umano, la giustizia e la sostenibilità, i diritti della gente e i diritti della Terra che sono interconnessi».

Secondo lei, qual è il cambiamento più urgente da fare per la salute della Terra?

«Stop al cibo industriale, stop alla globalizzazione dei sistemi alimentari. Perché il 50% dei gas serra proviene da un cattivo sistema dell’alimentazione che sta distruggendo anche la biodiversità. Ci si sta concentrando su quattro colture che sono geneticamente modificate, e da cui possono essere raccolte le royalties: mais, canola, soia, cotone. In India abbiamo visto cos’ha fatto il cotone ai nostri contadini. L’Argentina è stata distrutta dalla soia Ogm. È tempo di fermare questo macchinario distruttivo che è stato creato dall’industria chimica usando l’ingegneria genetica. La cosa più urgente da fare è sviluppare la biodiversità, le economie locali, maggiore connessione tra chi mangia e i produttori di cibo, per ricostruire le economie locali attraverso le democrazie locali e con esse la diversità culturale del nostro pianeta».

In Italia, nella tragedia di Cutro hanno perso la vita 91 migranti. L’immigrazione continuerà a crescere anche a causa dei cambiamenti climatici. Quale scenario ci attende?

«La disperazione della migrazione deriva dalla distruzione delle economie e delle ecologie dovuta al sistema globalizzato. Siamo noi a spingere le persone fuori dalle loro case. Come unica famiglia della Terra, dobbiamo iniziare a pensare a come la Terra e i mezzi di sostentamento delle persone stiano venendo distrutti. Questa è la prima cosa da fare perché le persone abbiano la possibilità di stare a casa; abbiamo l’obbligo di trovare modi per accoglierli perché il pianeta è la nostra casa comune. E trovare spazio per le persone che sono state sradicate e sfollate è un dovere umano. Criminalizzare gli sfollati è moralmente ed eticamente sbagliato».


(La 27esima Ora, 26 marzo 2023)

di Bianca Baldassarri


In occasione della giornata internazionale della donna, l’iniziativa del collegio Marianum dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano è stata quella di visitare la Libreria delle donne e avere l’onore di conoscere Luisa Muraro, filosofa e attivista nonché ex collegiale del Marianum. Quest’ultimo motivo ha aumentato in me, una delle organizzatrici insieme ai membri della direzione, il desiderio di incontrarla.

L’iniziativa è stata fortemente voluta da tutta la comunità collegiale soprattutto dopo aver letto alcuni suoi libri, presenti nella libreria del collegio, e fatto ricerca sulla sua storia e sul suo pensiero. Tutte volevano partecipare e alla fine siamo andate in una “delegazione” di quaranta studentesse.

Io all’inizio ho posto alcune domande a Luisa Muraro, principalmente riguardanti la sua concezione di femminismo della differenza e della lotta che le donne devono fare verso la libertà. Ho anche domandato se le donne sono riuscite a rompere il “soffitto di cristallo” di cui tanto si parla.

Durante l’incontro Luisa Muraro ha spiegato a noi collegiali come la parità di genere non debba essere l’obiettivo ultimo, ma solamente il punto di partenza verso la vera realizzazione di sé stesse. La nostra libertà non può essere delimitata da paletti posti dagli uomini, che ci hanno prevaricate per anni, ma ci si deve ergere con forza oltre questi limiti per poi soverchiarli, in una costante ricerca e autodeterminazione del proprio sé, della propria libertà.

Ho capito che parità di genere e uguaglianza sono due concetti molto diversi, il primo presupporrebbe l’adeguarsi a un confine già scelto da qualcuno che non siamo noi e di cui dovremmo passivamente accontentarci, la seconda presuppone invece pari diritti, pari opportunità, non in quanto uomini e donne, ma in quanto esseri umani.

Sul sito di presentazione della Libreria delle donne c’è scritto: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Questa frase mi ha colpito molto perché secondo me in poche parole spiega che la nostra libertà, che ci caratterizza e costituisce in quanto donne, non può avere come unità di misura e metro di giudizio i risultati degli uomini, dato che noi siamo diverse ed è giusto sottolinearlo.

Un altro punto saliente di cui si è dibattuto è stato quello delle famose “quote rosa”, le quali molto spesso sviliscono l’importanza e la bravura di una donna perché, agli occhi di molti, sembra che la donna ricopra quell’incarico lì non per le sue capacità ma semplicemente per la “quota rosa”.

Durante l’incontro sono nate riflessioni spontanee da parte di molte studentesse, una di queste è stata: «Molte donne preferiscono declinare il nome della propria professione al maschile invece che al femminile, come mai si prende questa scelta? È giusto parlarne o è qualcosa di superfluo?». Si è quindi aperto un dibattito sull’importanza del linguaggio. Il modo in cui parliamo rispecchia quel che pensiamo e in senso lato anche quel che siamo. In quest’ottica si è dibattuto sulla necessità di chiamare le cose col proprio nome e, soprattutto, il proprio genere; dunque, si è parlato dell’appellativo femminile e maschile circa i nomi di mestiere. È sicuramente più importante focalizzarsi su come una donna svolga il proprio lavoro rispetto a quale appellativo di genere usi per definirne il nome. Però, il volersi sottrarre all’appellativo femminile favorendo quello maschile veicola un messaggio di inferiorità e insicurezza, come se l’appellativo femminile togliesse prestigio alla carica istituzionale e professionale solo perché svolta da donne, le quali piuttosto che chiamarsi col proprio nome (“direttrice d’orchestra”, “ministra”) preferiscono l’appellativo maschile che non ne “snaturi” l’importanza, il potere.

È stato un incontro molto interessante, mi ha dato tanti spunti di riflessione, in particolar modo sul concetto di parità di genere che io fino ad ora avevo sempre ritenuto l’atteso traguardo e mai come l’inizio di qualcosa di più grande. Mi è rimasta tanta voglia di sapere cos’è realmente il femminismo e cosa è riuscito a ottenere in questi anni di lotta, ma soprattutto di cercare di capire cosa io voglio ottenere e come, grazie alla partecipazione della nuova generazione di donne, riuscirci.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 27 marzo 2023)

di Marina Terragni 


Il veto della Federazione mondiale di atletica per la partecipazione a gare femminili a chi è nato maschio è giustificato dal fatto che la «biologia ha la meglio sul genere» e «l’equità per le donne viene prima di ogni inclusione». La notizia esplode come una bomba giovedì 23 marzo al termine del consiglio mondiale di World Athletics, federazione internazionale di atletica leggera. La comunica il presidente Sebastian Coe, conferenza stampa in diretta BBC: le donne transgender (nate di sesso maschile) non potranno più partecipare alle gare internazionali di atletica nelle categorie femminili.

Mesi fa il Cio, Comitato Olimpico Internazionale, aveva invitato le federazioni a definire linee guida sulle partecipazioni di atlete transgender alle gare femminili. La decisione di World Athletics è netta: le atlete trans che hanno passato la pubertà sviluppando un corpo maschile non potranno più gareggiare con le donne. Un gruppo di lavoro esaminerà nei dettagli la questione ma Coe, nonostante le polemiche che si scatenano immediatamente, garantisce la linea intransigente con parole precise: la decisione è stata presa «nel migliore interesse dello sport» perché «la biologia ha la meglio sul genere» e l’equità per le donne viene prima di ogni inclusione. Decisione analoga a quella recentemente assunta dalla Fina, federazione internazionale sport acquatici, a cui Coe fa riferimento.

Nel nuoto il dibattito si è aperto a partire dal clamoroso caso dell’americana Lia Thomas nata Will, ultracorpo maschile che ha stravinto tutte le gare stile libero femminili sulle distanze di 200, 500 e 1650 yard battendo i record della categoria. Nelle 200 yard Thomas è passata dal 462° posto nazionale nella categoria maschile al primo posto in quella femminile. Alle avversarie che si erano lamentate per la palese ingiustizia i dirigenti avevano consigliato un supporto psicologico per accettare l’inclusione. Perfino la trans Caitlyn nata Bruce Jenner, ex-campione olimpico, aveva twittato: «La felicità di individuo come Lia non può avere la priorità sull’innegabile fatto biologico che è trans e ha enormi vantaggi fisici».

La tennista Martina Navratilova è stata l’atleta che più si è battuta per la lealtà sportiva insieme a reti globali femministe come Save Women’s Sports. Abbassare il livello di testosterone non basta a rendere gli uomini pari alle donne. Studi scientifici valutano un vantaggio nel nuoto dell’11%: la riduzione del testosterone ha un effetto solo marginale. Linda Blade, ex-campionessa di atletica e educatrice sportiva canadese, ha quantificato l’enorme vantaggio fisico maschile dal 10% al 160% a seconda dello sport. Il corpo di un uomo è infatti dal 20 al 40% più pesante, del 30-60% più potente, ha un 33% in più di potenza esplosiva, è più veloce del 10-15% nella corsa, i calci e i pugni sono del 20% e del 160% più forti, la forza di mischia nel rugby aumenta del 40-60%, l’assorbimento massimo di ossigeno è del 20-40% maggiore. C’è bisogno di dimostrazioni? Perché, come ha detto un’atleta, tanto «odio per la verità e le persone che la dicono?».

Nel suo libro Unsporting Blade propone in alternativa due categorie: una solo femminile (XX) e una maschile aperta in cui possano gareggiare atleti uomini che si identifichino come donne. Altro clamoroso caso di unfairness quello del neozelandese Laurel Hubbard nato Gavin, figlio dell’ex-sindaco di Auckland, autentica schiappa nel sollevamento pesi maschile che dopo la tardiva transizione (a 34 anni) vede le sue performance volare nella categoria femminile fino alla qualificazione alle Olimpiadi di Tokyo. In Italia il caso più discusso è quello dell’atleta paralimpica Valentina Petrillo. Nata Fabrizio, classe 1973 e padre di un figlio, Petrillo ha iniziato la terapia ormonale a 45 anni e ha stravinto le gare di corsa con regolarità, l’ultima volta l’11/12 marzo ai campionati di Ancona arrivando a conseguire otto titoli master: gareggiando con gli uomini non ne aveva conseguito neanche uno. Lo statistico Marco Alciator ha analizzato per Feminist Post le performance di Petrillo confrontando i risultati nella categoria maschile e in quella femminile. «Da atleta non di rilievo» Petrillo è diventata «potenziale partecipante alle Olimpiadi […] Il vantaggio iniquo dell’ordine del 10%». Alciator interpella le atlete danneggiate ad Ancona.

Agnese Rossi: «La competizione deve avvenire con il rispetto della categoria: con atlete dello stesso sesso, non con chi ha mantenuto corpo da uomo». Cristina Sanulli, la più veloce: «Parlo anche a nome della maggior parte delle ragazze che corrono con me: non ci sentiamo alla pari, proprio perché la sua struttura fisica è maschile… ci sentiamo molto discriminate». Ma a Petrillo non basta stravincere e commenta con durezza la decisione della Fidal (Federazione Atletica Italiana) di assegnargli uno spogliatoio riservato dopo la richiesta inoltrata da 30 atlete rappresentate dall’avvocata-atleta Mariuccia Fausta Quilleri. Alla giornalista del Corriere di Bergamo che riporta il disagio delle atlete per il fatto di «condividere la doccia con una persona che, allo stato attuale, ha il corpo di un uomo», Petrillo replica: «Non credo che chi ha scritto quel commento non abbia mai visto dei genitali maschili […] né vedo le donne avendo gravi problemi visivi».

E accusando sui social i suoi critici di nazismo e di xenofobia Petrillo ha annunciato – in anticipo sulla decisione della World Athletics – che «per ragioni di sicurezza e di incolumità personale» non parteciperà ai campionati del mondo master indoor che si aprono oggi in Polonia, a Torun. Resta incredibile che si sia costretti – soprattutto costrette – a “sguainare spade” per dimostrare ciò che è autoevidente: che i corpi maschili, a prescindere da qualunque autopercezione, sono diversi da quelli femminili. Lo dice con semplicità Chelsea Mitchell, già “ragazza più veloce del Connecticut” che con l’inclusione delle atlete trans ha visto sfumare il suo primato: «I maschi hanno enormi vantaggi fisici. I loro corpi sono semplicemente e mediamente più grandi e più forti dei corpi femminili. Per ogni singola ragazza in pista è una cosa ovvia. Ma i funzionari del Connecticut sono determinati a ignorare l’ovvio».


(Avvenire, 26 marzo 2023)

di Francesca Visentin


Una sentenza rivoluzionaria. E una condanna, nel 2014, che portò l’imputato non solo a un risarcimento economico, ma anche morale, con l’acquisto di libri sul pensiero delle donne. Nella vicenda delle ragazze minorenni del quartiere Parioli di Roma, al centro di un giro di prostituzione, Paola Di Nicola Travaglini è la giudice che all’epoca, spazzando via stereotipi anche istituzionali, ribaltò il punto di vista sul caso. E per risarcire una delle minorenni, «vittima» di quegli uomini della «Roma-bene», puntò nella sentenza sulla conoscenza, come forma di libertà. «Com’è possibile risarcire quello che una minorenne ha barattato per denaro dandole altro denaro? Non farei che ripetere la stessa modalità che ha avuto l’imputato con la vittima, rafforzando in entrambi l’idea che tutto sia monetizzabile. Allora ho ritenuto, da giudice, che non fosse il denaro a risarcire quella ragazzina, ma i libri sulla storia delle donne, sul loro pensiero, sulla loro intelligenza, sulla loro capacità».

Alla giudice Paola Di Nicola Travaglini, oggi consigliera in Corte di Cassazione penale e nel tavolo tecnico contro la violenza sulle donne del ministero per le Pari Opportunità, è dedicata la pièce Tutto quello che volevo. Storia di una sentenza di e con Cinzia Spanò, diretta da Roberto Recchia, che da nove anni gira i teatri di tutta Italia. E il 3 maggio sarà al Teatro Sperimentale di Pesaro, il 6 maggio alla Casa Teatro ragazzi e giovani di Torino, il 20 settembre al Teatro Don Bosco di Padova.

Giudice Di Nicola Travaglini, perché la sua sentenza del 2014 diventata esempio a livello internazionale e anche pièce a teatro, è rimasta un caso isolato?

«In quel momento ho spostato l’interesse, anche mediatico, dalle vittime agli aggressori, cercando di fare capire quanto era viziata la lettura del caso e il modello di narrazione di giornali e tivù. Perché la sentenza è rimasta isolata? Bisogna chiederlo ai giudici venuti dopo…».

Nove anni dopo il debutto della pièce a teatro, cosa è cambiato?

«In magistratura è cambiato molto: abbiamo una donna a presiedere la Corte di Cassazione, abbiamo il 54 % di donne in magistratura, abbiamo l’Accademia della Crusca che formalizza la correttezza dell’uso del femminile nelle nostre professioni. Elementi decisivi dal punto di vista simbolico. Adesso abbiamo bisogno del cambiamento che nasce dalla consapevolezza di appartenere a un genere, quello femminile, escluso dall’interpretazione per millenni perché temuto per le sue capacità trasformative. Dobbiamo osare di più. Fino a oggi a Roma dove sono avvenuti i fatti della sentenza, quella pièce sul giro di prostituzione ai Parioli non è stata mai rappresentata».

Sempre ispirata alla sua sentenza, è stata la serie tv Baby con Benedetta Porcaroli, trasmessa su Netflix. Cosa ne pensa?

«È una serie tv che non racconta la prostituzione minorile, a partire dal titolo che vuole evocare la malizia. Una serie che non mostra l’orrore dei clienti che picchiano, che sfruttano quei corpi senza chiedere il permesso di nulla, che li usano come stracci pensando che pagare consenta loro di distruggere tutto. Dei clienti non si parla mai. Baby ci mostra una prostituzione minorile che non esiste, un gioco glamour. Dietro ci sono criminali dai quali non ti liberi più, è l’affare economico più lucroso del mondo e quello che devasta corpi, menti, sogni, identità per sempre. Io tutto questo nella serie tv non l’ho visto».

Oggi la violenza istituzionale e giudiziaria è ancora così radicata?

«È una struttura culturale che porta avanti stereotipi invisibili in cui le donne sono colpevolizzate sempre, anche se vittime. C’è un immediato inconsapevole capovolgimento delle responsabilità da parte di chiunque, giornalisti, magistrati, avvocati, forze di polizia. Perciò è indispensabile avere consapevolezza su quanto accade in modo automatico, bisogna utilizzare tutti gli strumenti per modificare tale modo di procedere».

Qualcosa sta cambiando all’interno della magistratura?

«Stiamo andando avanti a piccoli passi. La scuola superiore di magistratura sta facendo corsi sui pregiudizi giudiziari, ma su base volontaria. È un segnale, anche se non basta. È necessario studiare, approfondire, cambiare l’impostazione radicata nel contesto sociale, un contesto di cui anche la magistratura fa parte».

Cosa accade nelle aule dei tribunali quando si parla di violenza di genere?

«L’Italia nel 2022 è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani proprio perché sottovaluta la violenza che viene praticata in sede giudiziaria nei confronti delle madri vittime di violenza durante separazioni e divorzi. Poi ci sono sentenze della Corte di Cassazione che escludono l’esistenza della Pas, la cosiddetta sindrome da alienazione parentale, che viene utilizzata per togliere i figli alle madri. Ce lo dice anche la Convenzione di Istanbul, la violenza giudiziaria, specie in sede civile, è sempre di più la nuova frontiera della violenza contro le donne. Come uscirne? È fondamentale che i giudici civili si attrezzino culturalmente. La formazione dei giudici civili su questi temi è un problema gigantesco, spesso sottovalutano le violenze e così rischiano di confondere conflitti familiari e violenza, due cose completamente diverse».

Molte donne private dei figli dopo avere denunciato la violenza del partner lamentano giudici che agiscono contro la legge, ma restano intoccabili.

«Tutti i giudici sono tenuti ad applicare le convenzioni internazionali ratificate. Le sentenze ritenute sbagliate vanno impugnate in Corte d’Appello e Corte di Cassazione, sono percorsi processuali lunghi, ma producono effetti. La deliberata non applicazione delle leggi o convenzioni da parte dei giudici può condurre a responsabilità disciplinari. Credo però sia un problema culturale, di mancanza di strumenti culturali, non di volontà».

Parlando di donne, violenza di genere e giustizia, cos’è più urgente oggi?

«È urgente e prioritaria la formazione obbligatoria per legge di tutti i magistrati e operatori che in qualsiasi modo entrano in relazione con casi di donne vittime di violenza».

Si arriverà a una formazione adeguata di chi lavora nei tribunali?

«Sì. Non si può più tollerare la sottovalutazione di quello che è uno dei fenomeni criminali e culturali più diffusi nel mondo».


(La 27esimaOra, 26 marzo 2023)

di Betti Briano


[…]

Ora dovrebbe essere chiaro che le donne che intendono intraprendere la carriera politica e desiderano farlo da protagoniste, non in modo ancillare o da ‘vice’ di qualcuno poiché sentono di potersi esprimere al meglio se investite di responsabilità di direzione e di guida, debbono puntare sulle proprie qualità e, qualora si presenti l’occasione favorevole, farsi avanti mettendo in gioco proprio l’intelligenza e la forza della differenza femminile.


(eredibibliotecadonne.it, 25 marzo 2023 – Vai al blog e leggi l’articolo)

di Vincenzo Mattei


Natascia pesa diligentemente i chicchi di caffè verde nei secchi di plastica alimentari, con il misurino definisce il grammo, la tostatrice è già accesa da un’ora per ottenere il risultato migliore. Versa tutto con cura dentro gli ingranaggi che daranno l’aroma inconfondibile al caffè. Sebbene la macchina sia completamente automatizzata e scandisca tutto al secondo, di tanto in tanto Natascia segue il progredire della tostatura attraverso un piccolo oblò di vetro dal quale si vedono i chicchi cambiare colore e assumere il tipico marrone scuro della bevanda nazionale.

Natascia è di Ponticelli, ha quarantaquattro anni, non aveva mai fatto questo lavoro, per vent’anni ha spacciato cocaina e droghe minori sul territorio napoletano. Sono otto anni che è reclusa nel carcere femminile di Pozzuoli. Il tempo passa, l’aroma del caffè tostato si diffonde nell’ambiente, intanto prepara i contenitori per raccogliere i chicchi tostati e i silos dove verranno stipati.

«La maggior parte delle carcerate di Pozzuoli viene quasi tutta dalla periferia, ma se sono di Ponticelli (un rione di Napoli), dicono “Andiamo a Napoli”, la stessa cosa se vengono da Scampia. Molte che vivono nel quartiere Sanità, qui vicino, non hanno mai attraversato la strada, non sono mai state a piazza Dante che è qua dietro. Così ti accorgi che non escono dai propri quartieri, sembra impossibile ma è la realtà. Vivi là per tutta la tua vita senza mai uscire come se fosse un piccolo villaggio, con le sue regole, le sue leggi e il destino che ti riserva. In molte pensano nel proprio immaginario che l’attività criminale sia l’unica cosa che si può fare, che non c’è alternativa!», afferma Imma Carpiello che ha fondato la cooperativa delle Lazzarelle nel 2010 con lo scopo di cercare il recupero delle detenute attraverso il lavoro.

Quale mezzo migliore se non il caffè? «Lo abbiamo scelto perché è un prodotto tradizionale, a cui ci si affeziona, è tipico napoletano, ed è un prodotto che dà identità», afferma Paola Pizzo, socia delle Lazzarelle dal 2016. La Cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli di comune accordo con le autorità costituite e di cui Paola è responsabile. «È un’impresa tutta al femminile in un settore tipicamente maschile. Abbiamo immaginato qualcosa che fosse realmente qualificante per le donne che lavorano con noi, per andare incontro a un bisogno, non solo di un reddito, ma soprattutto qualcosa che desse delle vere skill e competenze da spendere eventualmente una volta finita la pena», continua Paola.

«Noi diamo uno stipendio normale alle carcerate, con tanto di contributi, questo permette di non pesare sull’economia familiare. Ci sono delle spese, come gli assorbenti e altre necessità, che sono a carico dei loro parenti. Così facendo s’innesca un meccanismo inverso in cui sono le detenute stesse ad aiutare la propria famiglia che spesso versa in condizioni indigenti. Inoltre hanno la possibilità di pagare il debito che hanno con lo stato, sì, perché stare in prigione è come pagare un canone che poi risulta un debito da pagare in piccole rate una volta uscite di galera. Invece le nostre Lazzarelle riescono a mettersi qualcosa da parte, non molto, qualche migliaio di euro, ma comunque una somma discreta per chi deve reinserirsi nella società. Può essere investita nell’affitto di un appartamento e provare a iniziare in maniera indipendente un lavoro invece di ritornare a casa da un marito-padrone dal quale si dipende economicamente», precisa Imma.

Le Lazzarelle sono una piccola realtà e non possono di certo competere con la produzione industriale ma hanno una discreta distribuzione del proprio caffè a livello nazionale. «Abbiamo fatto tanto in questi dodici anni, con le fiere ci siamo fatti conoscere, anche a Napoli eravamo ignorate prima di aprire il bistrot qui alla Galleria Principe Umberto perché ovviamente, stando chiuse in carcere non era facile accorgersi di noi. Facemmo una fiera a Milano e fortunatamente siamo esplosi in Lombardia e in tutto il nord Italia, poi abbiamo i GAS [gruppi di acquisto solidale, Ndr], che per noi sono molto importanti», afferma Imma.

Dal 2020 le Lazzarelle hanno aperto il loro bistrot a pochi passi dal Mann [Museo Archeologico Nazionale Napoli, Ndr], in pieno centro storico, Imma ne descrive l’idea: «Quando abbiamo proposto il progetto ce lo eravamo immaginate già con un punto esterno come sua normale evoluzione, per proseguire il lavoro che facevamo dentro avevamo bisogno di un punto fuori. È stata una coincidenza fortuita trovare questo posto perché ci permette di non essere un progetto periferico e di portare le detenute al centro della città in un posto unico come la Galleria Principe. Circa sei anni fa il Comune di Napoli fece un bando per affidare questi locali e presentammo un progetto, lo vincemmo e avviammo i lavori di ristrutturazione per i quali abbiamo acceso parzialmente un mutuo usufruendo anche dei finanziamenti di due fondazioni. Stare qui e essere all’interno della rete del Mann e avere quindi come interlocutore il museo archeologico, il suo direttore Giulierini che viene a prendere il caffè dove ci sono le detenute, è diventato un processo osmotico».

«Lavorare con le Lazzarelle mi ha aiutato tantissimo perché ero una persona molto depressa, tendevo sempre a stare a letto con psicofarmaci, invece stando qua mi sento di nuovo viva. Grazie a Paola e ai ragazzi del servizio civile e alla mia amica Nunzia ora sto molto meglio, davvero un grandissimo cambiamento, anche perché con le altre persone ero chiusa, adesso no», Natascia lavora alla torrefazione dal 1° febbraio del 2022, riesce a mandare ai suoi due figli ventenni circa 300 euro al mese, un piccolo contributo in una realtà non sempre facile nelle periferie delle grandi città. «I miei familiari mi hanno visto cambiata, mi hanno detto che sono la Natascia di una volta, proprio perché ero caduta in una brutta depressione per i troppi anni di carcere».

Infatti il carcere, visto come sola detenzione, diventa un mezzo punitivo che spesso porta le detenute, una volta terminata la pena, a ritornare sugli stessi passi, a meno che non si agisca sia all’interno della struttura detentiva sia nel territorio. «Le mura chiuse possono portare all’annullamento della persona. Sono originaria di Aversa, ho vissuto in una città in cui il manicomio giudiziario e quello civile erano limitrofi, si passava sotto quelle mura senza rendersi conto di quello che c’era all’interno. E si continua ancora a fare così, quando si cammina a Poggioreale, non ci si pone il problema di chi è all’interno, per questo faccio gli incontri nelle scuole, gli studenti pensano che dentro le prigioni ci siano tutti Totò Riina e invece la maggior parte è la povera gente. Poi insisto sulla stessa cosa da anni: ci vogliono politiche di welfare differenti per evitare la dispersione scolastica, perché molte delle donne che noi incrociamo hanno la quinta elementare e molte intorno ai quarant’anni sono già nonne. Quindi significa che ti trovi di fronte a dei meccanismi che si rigenerano. Se non si vanno a intaccare queste problematiche, se non se ne parla, non se ne uscirà mai», conclude Imma.

Uno dei problemi del Meridione è appunto la mancanza di servizi che possano evitare l’abbandono scolastico, ma non solo. Nel Sud, molto di più che in altre zone d’Italia, le donne sono relegate a un ruolo prettamente domestico, quando diventano madri il loro percorso è scritto, devono rimanere a casa e accudire i figli. In Campania sono poche le scuole pubbliche che hanno la possibilità di tenere i bambini a tempo pieno, il che impedisce alle madri di trovare un lavoro anche part-time che possa renderle indipendenti. «Spesso il marito o il figlio maschio costituiscono l’unica fonte di sostentamento della coppia/famiglia perché le detenute non hanno mai lavorato. Quando i mariti, compagni o figli vengono arrestati, l’unico modo per portare avanti la famiglia è prendere il loro posto. Lo fanno perché hanno bisogno di soldi e non hanno altra opportunità lavorativa», descrive le dinamiche Imma.

«Avevo il marito ergastolano con due figli da mantenere e mandare a scuola, un appartamento, l’avvocato… sono tante le spese, poi quando non c’è il marito che fai? Non c’era alternativa, almeno per me». Natascia ripercorre la sua vita, e continua: «Chiaramente non si può avere una prospettiva per sapere già quello che si farà una volta fuori dal carcere, perché sarà molto difficile prima recuperare la propria libertà, nel senso che esco dopo tanti anni, me metto paura pure de pija’ o purman (il bus). Prima devo riacquistare fiducia in me stessa stando fuori, non commettere più errori, lo devo fare per i miei figli che non devono assolutamente fare la nostra vita! Sono sicura che non mi succederà mai più, e se troverò un lavoro in una torrefazione sarò felice».

Natascia poi ricorda con piacere un evento con le Lazzarelle che l’ha segnata positivamente, con una vena di orgoglio e soddisfazione: «La prima volta che siamo andate con Paola a fare il mercatino, per me era una novità uscire con l’azienda anche solo per lavorare davanti a un supermercato e confrontarsi con altre persone, parlarci, cioè, io lavoro, dopo tanti anni io lavoro, sto uscendo con la mia titolare e vado a fare un mercato, per me era una cosa nuova e bella che non pensavo di poter fare».

Le detenute non hanno l’educazione o la forma mentis volta all’emancipazione imprenditoriale, quindi il lavoro delle Lazzarelle all’interno del carcere di Pozzuoli rappresenta un’alternativa, una diversa prospettiva della vita. «In Campania si riscontra un contesto socioeconomico complicato. In generale noi donne abbiamo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e siamo doppiamente svantaggiate, per cui per una donna che ha scontato la pena non avere delle qualifiche è una tragedia. Abbiamo studiato i bisogni del contesto carcerario femminile e abbiamo immaginato le Lazzarelle come un’impresa femminile che fa caffè, dove il caffè non è lo scopo, ma è il mezzo, loro devono diventare in grado di fare qualsiasi cosa, o tornare a essere in grado di farla. Normalmente la detenzione reprime quelle che sono le loro capacità, quindi si lavora insieme per ricordarsi di quello che si sapeva e si può fare, ma soprattutto ciò che si può imparare a fare per il futuro nella speranza di non tornare più qui dentro ed essere grado di riprendersi la propria vita», precisa Paola.

«C’era questa realtà molto bella all’interno del carcere che dava la possibilità alle donne che sono recluse di poter imparare un lavoro ma anche acquisire delle competenze. Le Lazzarelle danno una speranza di poter ricostruire il proprio futuro nonostante ciò che è successo e gli errori commessi, avere una seconda possibilità, inserirsi nel mondo del lavoro, ti assumono con contratto regolare per un sostegno economico, quando uscirò da questo posto avrò accumulato una piccola somma che mi permetterà di ricominciare la mia vita», ad affermarlo è Anna, che attualmente lavora al bistrot nella Galleria Umberto grazie all’articolo 21, cioè in semilibertà in un contesto lavorativo esterno, dopo aver lavorato nella torrefazione nella casa circondariale.

«Il bistrot per me è stata l’opportunità per tornare in qualche modo a essere libera, sebbene la sera debba rientrare in istituto. Ho imparato nuove cose perché all’interno della torrefazione ci si dedica alla produzione, quindi si scopre come si tosta il caffè e tutta la catena produttiva/industriale, mentre al bistrot ho acquisito un’altra competenza come il contatto con il pubblico, lavorare al bar, servire i tavoli, fare i catering. Con le Lazzarelle ho scoperto il lavoro manuale e di possedere delle abilità che non credevo di avere. All’inizio, devo ammettere, mi sono sentita un po’ in difficoltà e in imbarazzo. Arrivati a una certa età si pensa che non sia possibile fare determinate cose, invece non è così, si scoprono altre capacità, altre situazioni… riscopri te stessa in un percorso di crescita», continua Anna.

Anna non solo lavora al bistrot, ma conta di laurearsi per luglio del 2023 in Economia e Commercio, ha ripreso ad andare a casa dai genitori e a frequentare di nuovo i suoi amici. «Quando entri in un contesto come quello carcerario, pensi che i tuoi amici abbiano cambiato idea su di te, esiste un pregiudizio che porta a farsi una serie di domande. Invece, quando sono tornata a casa, loro sono stati contenti di rivedermi e mi vengono a trovare anche qui al bistrot, questo è stato un ulteriore punto di forza che mi ha fatto capire che sì, è vero, è successo quello che è successo, evidentemente non era poi tutto sbagliato, c’è stata solo una fase molto deleteria nella mia vita e sono anche quello che mi è accaduto, ma c’è anche un tutto prima e un tutto dopo», precisa Anna.

A differenza di molte altre detenute Anna era diplomata in ragioneria e lavorava in amministrazione presso una succursale Fiat di Napoli. Anna non vuole scendere nei particolari, ma «…Uno lotta, si riprende, vuole riprendersi la propria vita, però c’è sempre quella parte che ci divide. Ho fatto sicuramente pace con me stessa, ma non so se l’ho fatta con il mio reato. Penso di avere piena responsabilità del mio crimine, però mi sento in colpa. Ho sempre pensato e continuerò a pensarlo che non sono una persona ignorante, avevo tutti gli strumenti per chiedere aiuto, perché mi sarebbe bastato chiederlo a qualcuno e dire che ero in una situazione psicologica che non riuscivo ad affrontare, ma non l’ho chiesto. Quindi mi assumo appieno la responsabilità del mio errore e ciò mi fa sentire meglio piuttosto che giustificarmi».

Anna esce alle 7.00 del mattino e deve rientrare in carcere alle 10.00 di sera, e su questo punto è non poco contrariata perché aveva ottenuto la semilibertà in periodo di emergenza covid, quindi invece di rientrare in prigione poteva dormire a casa dei suoi genitori e lo ha fatto da fine estate 2022 fino al 7 gennaio 2023. «Già da due anni che con l’articolo 21 faccio lavoro esterno, poi mi è stata data la semilibertà che ho rispettato per cinque mesi senza dare noie con nessuna infrazione o segnalazione. Ora questo passo indietro non ha un senso, è una pugnalata, ci sono dei premi, il premio dovrebbe essere proprio questo di darci una possibilità di rimanere a casa. Il giudice dovrebbe valutare il percorso formativo di reinserimento che la persona sta facendo e potrebbe premiarla confermando la libertà vigilata», afferma sconsolata Anna. È cosciente che esiste un limite edittale della pena che il giudice è tenuto a tenere in considerazione, ma in un contesto di sovraffollamento delle carceri, come è il caso italiano, forse potrebbero essere applicate le norme in maniera più contestuale.

Non aiuta di certo la cosiddetta legge anti-rave approvata dall’attuale governo che «… Ha comportato una serie di restrizioni per le persone con reati ostativi», afferma Paola Pizzo, «Sostanzialmente nessuna di loro due, Natascia e Nunzia, è andata più in permesso premio, quindi hanno perso dei benefici di legge a causa di questo nuovo decreto. Così a Natale non sono andate a casa e stare con i figli come gli altri anni, per una detenuta è la cosa peggiore che possa accadere. Abbiamo avuto dei momenti complicatissimi che sul lavoro si gestiscono ma dal lato emotivo non ci siamo ancora riprese. E poi non abbiamo capito se questa cosa inficia la possibilità di una misura alternativa come la semilibertà o un lavoro esterno come il caso di Anna, stiamo ancora capendo».

Le Lazzarelle hanno presentato il progetto al dipartimento di politiche sociali e giovanili campano per ospitare il servizio civile (SC) che è in auge da circa un anno. «I ragazzi si sono trovati in questo momento di tempesta natalizia, abbiamo sofferto tutti insieme, abbiamo pianto, un pianto collettivo… Sono stati molto bravi a cogliere la sensibilità, a stare vicino a Nunzia e Natascia. Si sono interessati alla legge stessa per cercare di capire e di aiutarle, perché alla fine le vedono per quello che sono, delle donne, che hanno sbagliato sì, ma sono esseri umani. Quindi il SC può aiutare i giovani a comprendere il carcere e quanto possa essere duro, la limitazione della propria libertà è la cosa più orribile che possa capitare, e può creare un po’ di dissuasione nel commettere reati», continua Paola.

Maria Cristina ha ventisette anni e fa il servizio civile alla torrefazione delle Lazzarelle, racconta la sua esperienza: «Non avevo mai messo piede in un centro detentivo, quindi mi ero interrogata a lungo su come potevo reagire dopo l’ingresso in un carcere. Ero cosciente che non avrei saputo dei reati commessi dalle detenute e mi ero posta il problema di come sarebbe stato lavorare con loro nel momento stesso in cui avrei saputo di più delle loro vite. Devo ammettere che poi si è risolto nella maniera più naturale possibile. Bisogna capire come effettivamente funziona il sistema penitenziario italiano con tutte le sue asperità e durezze, ma anche con i piccoli spiragli di speranza. Si capisce come si svolge la vita in una prigione, come loro trascorrono le giornate, il senso del tempo e dello spazio, perché nel carcere è diverso e quindi anche il lavoro assume delle sfumature diverse da quello che ha fuori».

Nunzia, trentaquattro anni e due figli di diciassette e sedici anni, collabora con le Lazzarelle da circa cinque mesi ed è in carcere per lo stesso reato di Natascia. Spiega meglio l’importanza del SC: «Ritorniamo parzialmente al mondo di prima: non abbiamo possibilità di contatto con persone all’esterno, invece stando con loro abbiamo notizie da fuori, se ci dimentichiamo di qualcosa, qualche dinamica, loro ce lo ricordano, sembra una sciocchezza ma è molto importante. Sono ragazzi ed è bello stare con i giovani», conclude Nunzia, poi descrive l’ambiente da cui proviene: «Lo spaccio era un mondo facile, facile per un guadagno economico, facile non fare niente dalla mattina alla sera… Poi magari ci siamo trovati in una situazione più grande di noi ma abbiamo capito che quello è un mondo che oggi non ci appartiene. L’ho capito proprio con le Lazzarelle, perché abbiamo la possibilità di fare per la prima volta un lavoro vero, entriamo in un mondo che noi neanche conosciamo, ci fanno capire che il lavoro è dignitoso e che dobbiamo andare avanti».

«Le Lazzarelle mi hanno anche appoggiato quando mi sono iscritta all’università, Imma mi dà la possibilità di collegarmi per le lezioni qui al bistrot. Sono contente nel seguirti, stai facendo un percorso di crescita e loro ti accompagnano, ti danno tutte le armi e tutti gli strumenti per poter affrontare la tua vita in modo diverso», conclude Anna.

Dal 2010 più di ottanta detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Una goccia nel mare, «Le detenute che vengono a lavorare con noi certo hanno un cambiamento, anche all’interno del carcere, però 3-6 detenute su 180 è un numero irrisorio anche se importante. Posso dire solo una cosa: a livello personale ognuna di loro mi lascia un pezzo, o si porta via un pezzo di me», conclude Imma. Il lavoro intenso delle Lazzarelle è stato riconosciuto a livello nazionale tanto da ricevere l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana dal Capo dello Stato Mattarella il 23 febbraio 2023 (https://caffelazzarelle.jimdofree.com/).


(Alias – Il manifesto, 25 marzo 2023)

“Donna, vita, libertà”: in Iran la libertà delle donne è diventata un paradigma di libertà per tutti. Donne giovani e giovanissime sono l’anima del movimento. Giovani uomini sono al loro fianco per la propria libertà che non credono possibile senza quella delle loro compagne. Vogliamo confrontarci sul senso di questa nuova visione della libertà e del cambio di civiltà che può portare. Ne parliamo con Mahnaz Ekhtiary e Mojdeh Karimi. Introduce Silvia Baratella.

Note a margine dell’incontro di VD3 del 12 marzo 2023

di Maria Castiglioni


A proposito delle nostre pratiche Lia Cigarini ha parlato di trovare i “nessi” tra la politica rappresentativa, istituzionale e quella non professionale (la nostra, quella dei movimenti e dell’associazionismo) e anche Francesca Pasini ha ripreso questo tema dell’uscire dal “tra di noi”. Annarosa Buttarelli ha posto la questione delle “tre scelte”: Antigone che combatte il potere tirannico, Ismene, la sorella, che “non fa niente”, la terza quella di “andare via”, dai partiti, dai dibattiti televisivi, luoghi dove nessuna trasformazione è possibile.

Alla figura di Antigone è stata dedicata molta attenzione da parte di alcune filosofe, molto meno a quella di Ismene. Nel suo La tumba de Antígona Zambrano ci restituisce una Antigone che, dialogando in sogno con la sorella, ricorda che lei era quella che sempre «usciva dalle righe, le calpestava, andando e venendo sulla terra proibita». Per Irigaray (nel saggio contenuto in Essere due, da cui ho tratto il mio titolo) Antigone incarna «la singolarità concreta e i suoi legami con una collettività concreta», contrapposta a Creonte che rappresenta «il passaggio dalla singolarità ad un universale astratto» su cui si fonda il suo potere. Antigone, diremmo noi, “parte da sé”, Creonte dalla coscienza disincarnata. Simone Weil nel suo breve saggio Il racconto di Antigone e Elettra, a partire dalle omonime tragedie di Sofocle, mette a fuoco il dialogo tra Antigone e Ismene. La scelta di Antigone è quella radicale, di opposizione a un potere tirannico, a cui si contrappone quella della sorella Ismene che sceglie di obbedire alle leggi, benché si offra, per amore, di seguire la sorella nella sua terribile sorte. Antigone respinge la sua offerta: «Tu hai scelto di vivere, io di morire» le dice, e aggiunge, quasi un viatico «Fatti coraggio, vivi».

È, quello assegnato da Antigone a Ismene, un fare o un “non fare niente”?

È abbastanza scontato attribuire ad Antigone tutta la parte dell’azione e a Ismene quella dell’inazione, ad Antigone quella del coraggio, a Ismene quella della viltà: una lettura polarizzata che non ci porta molto lontano. Mentre la posizione di Ismene, il suo primum vivere, può essere un invito a pensare altre posture, a trovare altri sguardi, altre prospettive quando ci si trovi “davanti al re”.

Su questo tema ci stiamo interrogando anche nel nostro piccolo gruppo di autocoscienza, così come nell’associazione de “Le Giardiniere” di Milano che da anni lotta contro la speculazione immobiliare su una vasta area militare dismessa.

Devo registrare però che su questo specifico scenario, quello del confronto/conflitto diretto con il potere, specie nella sua versione forte, l’elaborazione femminista segna il passo ed esempi di pratiche concrete (fatta eccezione per alcune, preziose, all’interno della realtà delle Città Vicine) sono davvero rare. Perché un conto è chiedere qualcosa, altro è voler togliere. Uno spazio per svolgere attività di vario genere (flashmob, manifestazioni, eventi culturali etc.) è solitamente concesso, il contendere al potere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio, è invece fonte di conflitto. Se su quell’area noi ci vogliamo fare un parco e gli investitori (anche pubblici) una speculazione immobiliare, è evidente che si entra in rotta di collisione.

Quale allora la pratica, le pratiche?

Abbiamo nella nostra storia femminista messo a punto pratiche fondamentali quali l’autocoscienza, l’affidamento, il partire da sé, la pratica di relazioni. Come metterle in gioco quando lo scenario è il confronto diretto col potere con cui è in atto una relazione conflittuale?

È evidente che non possiamo giocare sulla forza: occorrono allora altri movimenti, altre azioni, altre strategie che evitino il braccio di ferro, la polarizzazione (in cui, come Antigone, o anche Alfredo Cospito, si può perdere la vita).

Come Giardiniere abbiamo messo in campo innanzitutto una considerazione: il potere ha dei buchi, non va sopravvalutato, non è un monolite. Quindi va “accerchiato”, vanno aperte relazioni a 360°, senza alcun preconcetto, oltre gli schieramenti tradizionali e le generalizzazioni, senza dare nulla per scontato o già tentato (ciò che qualche tempo prima sembrava blindato, si può sempre aprire), e senza polemiche, trovando sempre, come ammoniva Ildegarda, la «parola netta, affilata come spada». È un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione (di reti, di relazioni, di prospettive), ma è anche un lavoro che implica un “di più di pensiero” quando dall’altra parte c’è una donna.

Situazione sempre più frequente, nelle amministrazioni locali, come in quelle nazionali o europee.

Noi l’abbiamo sperimentato varie volte, e anche adesso, con l’amministrazione comunale dove l’assessore all’Ambiente è una donna.

Come giocare la politica delle relazioni quando prevale nella donna (e deve prevalere, altrimenti non potrebbe essere in quel posto) il senso di appartenenza al sistema di potere? Come può aiutare uno sguardo che, al di là della contrapposizione, possa comprendere punti di vista radicalmente opposti? Come può un potere “ritirarsi” quando il suo mandato è quello di “occupare”, sempre e comunque?

Occorre trovare un “nome” afferma Vita Cosentino, che non cancelli il “nesso”, occorre una “parola pubblica, dice Silvia Motta, che crei un diverso rapporto tra politica istituzionale e politica non professionale. Occorre tutto ciò, aggiungo io, ma occorre anche moltiplicare le nostre pratiche politiche su questi scenari conflittuali che andranno sempre più intensificandosi, sia per l’emergenza sociale che per quella ambientale.


(ViaDoganaTre, www.libreriadelledonne.it, 25 marzo 2023)

di Antonella Mariani 


Professoressa Izzo, cominciamo dal lessico: gravidanza per altri, maternità surrogata o utero in affitto?

«Bisogna chiamare le cose con il loro nome e quindi il termine giusto, anche se più crudo, è utero in affitto. L’ambito della maternità surrogata è sempre commerciale. “Gravidanza per altri” è una forma neutralizzante che cerca di rendere questa pratica socialmente accettabile. Ma anche quella che viene chiamata “solidale” o “altruistica” è una surrogata commerciale che si vergogna: c’è sempre passaggio di denaro».

Francesca Izzo è filosofa, docente universitaria, tra le fondatrici del movimento femminista Se non ora quando? Già deputata del Partito democratico della Sinistra (Pds), lasciò il Pd nel 2017, perché la dirigenza non voleva aprire una discussione seria proprio sull’utero in affitto.

Ieri come oggi: anche ora il Pd evita di pronunciarsi in maniera chiara, nonostante le sollecitazioni in questo senso della componente cattolica e delle femministe. Perché?

Da un sondaggio che abbiamo commissionato risulta che una volta che si spiegano bene i termini della questione, la percentuale di chi è favorevole all’utero in affitto è bassissima.

Una questione di consenso, quindi?

Immagino di sì.

È per questo allora che Elly Schlein è scesa in piazza a Milano per i diritti dei bambini delle coppie arcobaleno ma sulla Gpa non si pronuncia esplicitamente?

Parlando dei diritti di bambini si solleva un moto unanime di solidarietà. Ma è una mistificazione: non ci sono bambini di serie B, come ho sentito dire. Il padre biologico che arriva in Italia con il bambino nato da surrogata, lo iscrive all’anagrafe e da quel momento in poi ha tutti i diritti e le tutele di qualsiasi altro bambino.

E l’altro genitore?

Il genitore intenzionale deve intraprendere la via indicata dalla Cassazione: l’adozione in casi speciali. La stessa procedura che deve seguire un uomo che sposa una donna che da nubile aveva avuto un figlio. Perché per le coppie omosessuali si chiede un trattamento di favore, considerando anche che per avere quel figlio hanno utilizzato una pratica che in Italia è punita come un reato?

Parliamo proprio di questo: il centrodestra è compatto sulla richiesta di una normativa che consideri l’utero in affitto un reato dovunque commesso. In base a che principio?

Guardi, io faccio parte della Coalizione internazionale per rendere reato universale la maternità surrogata (Ciams) sulla base di un principio semplice: consideriamo la maternità surrogata una pratica che ha un fondo di disumanità perché spezza l’unicità del processo riproduttivo umano. Questo processo, che si genera da una singola donna e da un singolo bambino, non replicabili o riproducibili, viene segmentato e diviso in pezzi. È come un assemblaggio per fabbricare bambini secondo le peggiori regole del mercato. Si toglie alla donna che affitta l’utero la sua identità e il bambino diventa una merce. Nel mondo ci sono solo 20 Paesi su 212 che hanno legalizzato la maternità surrogata. Qualcosa vorrà dire… E c’è un altro tema.

Quale tema?

Quello dei diritti: la paternità e la maternità non sono diritti dei singoli. La generazione è l’incontro tra due diversi. E invece la sinistra ha imboccato la via dei diritti, aprendo terreni minati perché si aprono conflitti tra diritti diversi. E d’altra parte c’è una subalternità al progressismo, senza capacità di giudizio collettivo, anche etico. Trovo intollerabili i camuffamenti, i sotterfugi per non affrontare il cuore della questione e parlarsi apertamente. Il progresso tecnico scientifico può indurre a cambiamenti radicali dei fondamenti antropologici e di questo non si parla.


(Avvenire, 22 marzo 2023)

di Ida Dominijanni


“Donne senza uomini”, dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat, vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di Stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, «fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me». Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: «Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno».

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà.

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati Uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia), è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Mahsa Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica.

La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000, ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.

È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana, che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo.

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta.

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del PCI “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria.

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sue connivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo, ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo.

Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine.

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani.

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.


(Italianieuropei.it, 23 febbraio 2023)

di Luca Liverani


Presidio pacifista a Roma in piazza dell’Esquilino, in concomitanza col dibattito alla Camera sul nuovo invio di armi all’Ucraina, discusso il giorno prima al Senato. E in vista dell’intervento della presidente del consiglio Meloni al Consiglio europeo di oggi e domani, che verterà sullo stesso tema. A manifestare c’erano i rappresentanti di Disarmisti esigenti (membri di Ican, la rete per la proibizione delle armi nucleari, premio Nobel per la pace 2017). Con loro anche Per la scuola della Repubblica e Wilpf Italia (la lega internazionale delle donne per la pace e la libertà).

Le organizzazioni ieri hanno manifestato contro il sesto voto del Parlamento sul decreto di aiuti militari a Kiev: «Inviare armi è utile solo a esasperare il conflitto – ha detto Alfonso Navarra, portavoce di Disarmisti esigenti – e danneggia il popolo ucraino, gettando benzina sul fuoco della guerra. Siamo contro l’escalation e per la difesa nonviolenta del popolo ucraino. L’Italia – ha sottolineato – dovrebbe ripudiare la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, come dice l’art. 11 della Costituzione. E papa Francesco ci ricorda che “non esistono guerre giuste”».

Al presidio è stata annunciata la promozione di un referendum popolare contro l’invio di armi all’Ucraina, con una raccolta di firme dopo Pasqua. Le organizzazioni presenti hanno infine ribadito il loro sostegno alla campagna internazionale “Object War” lanciata da War resister international (di cui è testimonial anche Michele Santoro): «Agli obiettori di coscienza e ai disertori russi e ucraini va riconosciuto il diritto di asilo in Europa».


(Avvenire, 23 marzo 2023)

di Stefania Tarantino


Al nono mese di gravidanza, presa dall’ansia che da lì a poco si sarebbero rotte le acque, anelavo disperatamente che qualcun’altra partorisse per me. Il fatto che non fosse possibile e che la mia bambina era lì, senza volto dentro di me e sempre più grande e invadente, mi agitava e mi riportava sempre alla stessa domanda: com’è possibile? Come poteva essere che il mio corpo poteva non solo contenere ma anche espellere una cosa così grande? Ecco, proprio perché non è una cosa, ma una creatura. Ciò significa che si vive anche dentro il suo ritmo, che s’impara a convivere una dentro l’altra sapendo di essere legate da un filo potente. Una carne condivisa, indecidibile come quando il mio piede indugia sulla riva del mare. Nella gravidanza stai sulla riva di te stessa, in bilico tra te e quella creatura ancora sconosciuta. Lo spazio che si apre è non solo fisico, ma anche affettivo, sensoriale, erotico, spirituale. Ci sei tutta dentro. Chiudere ciò che la gravidanza apre, ridurla a una funzione, a un meccanismo riproduttivo, significa perdere un enorme e possente dimensione di libertà. Ritornando all’ansia del parto, quando è arrivato il momento, il mio unico punto d’appoggio è stato il pensiero rivolto a tutte quelle donne che hanno partorito prima di me, a coloro che nei millenni ci hanno messo al mondo con fatica, dolore, difficoltà, derisione, venerazione. Anche io, con loro, ce l’ho fatta! E con loro (e Simone Weil) ho capito anche che l’aiuto, o meglio il sostegno, non è mai la falsa e artificiale (virtuale) liberazione dalla necessità, ma porre tutte quelle condizioni per cui una necessità è trasformata in libertà.


(Facebook, 23 marzo 2023)

di Giovanna Borrelli


Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne dai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Máxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.


(Altreconomia, 22 marzo 2023)

Presentazione del film-documentario Donnadarte. Gigliola Rovasino, regia di Valerio Finessi (Italia, 2022, 68’). In fuga da una vita di provincia che le sta stretta, Gigliola Rovasino approda nella Milano del ’68 e nel ’70 crea la Galleria di Porta Ticinese. “Un luogo d’incontro e di scontro collegato alla lotta politica per allargare il dibattito tra artisti democratici” come scriveva Lea Vergine. Uno spazio inedito in cui mettersi in gioco con artiste e artisti. Presenta Francesca Pasini con Valerio Finessi e Gigliola Rovasino.

di Clara Jourdan


Mi ha molto colpito la vasta adesione – più di cento tra partiti e associazioni – alla manifestazione di Milano del 18 marzo scorso a favore dei “diritti dei figli e figlie di coppie dello stesso sesso”. Una delle motivazioni più sentite è che non è giusto discriminare i genitori per l’orientamento sessuale. Verissimo! Quello che conta è l’amore. Ma all’origine della mobilitazione c’è la richiesta di registrazione in Italia dei bambini nati all’estero e lì registrati come figli di coppie di uomini. Allora il punto della questione non è l’orientamento sessuale, ma di chi sono figlie le creature di cui si vogliono tutelare i diritti. Per saperlo bisogna distinguere se le coppie dello stesso sesso sono di uomini o di donne, e in questo la differenza è abissale. Se si tratta di coppie di donne, le creature sono figli e figlie di una delle due donne, quella che ha dato loro vita e giustamente vuole che venga riconosciuto anche giuridicamente il legame che hanno con la sua compagna, mamma di fatto. Se invece si tratta di coppie di uomini, forse non tutti sanno che i loro bambini e bambine sono stati comperati, con un contratto di “utero in affitto” detto anche “gravidanza per altri” che in altri paesi è ammesso, perciò sarebbe aberrante considerarli figli loro: gli esseri umani non possono essere oggetto di scambio, da quando è stata abolita la schiavitù.

Queste creature sono state programmate per essere separate alla nascita dalla madre, perché venga loro tolto ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno, come sa chi ha visto un neonato o una neonata: stare con la propria madre, colei con cui si sono formate e nel cui ventre hanno vissuto per nove mesi. Portarle via è un modo crudele per diventare genitori. Assurdo pensare di sistemarlo con i diritti. Come si può credere che il diritto ad avere due padri si possa basare sul privare un bambino o una bambina del suo primo diritto, il legame con la madre? Se si tratta di una privazione per necessità, per la morte o il rifiuto da parte della madre, ben venga l’amore di genitori sostituti. Altrimenti c’è una crudeltà che resta indelebile. Se gli acquirenti sono persone sensibili si porteranno per tutta la vita il senso di colpa per la crudeltà originaria che hanno fatto, e il senso di colpa, specie se di vera e grave colpa, è una mina vagante nelle relazioni. Se poi non sono persone sensibili, continueranno ad aggiungere altre crudeltà alla crudeltà originaria pur di godere al massimo del loro bene prezioso.

Purtroppo il commercio di bambini si sta estendendo, e riconoscere come genitori i committenti (uomini e donne) non farebbe che aumentare questa orribile pratica, come avviene con la prostituzione quando è legalizzata. Allora come proteggere le creature già comperate e portate in Italia? La cosa più giusta sarebbe sottrarle ai compratori, come si fa con i rapitori di bambini, che non vengono considerati accettabili come genitori, e riportarle alla madre, se possibile; se no, darle in adozione a singoli o coppie (di qualunque orientamento sessuale) che possano amarle più liberamente dato che non hanno causato la perdita del loro legame materno. D’altra parte però molti di questi bambini si sono affezionati ai compratori, li considerano genitori, come capita anche in caso di rapimenti, e causerebbe un ulteriore trauma separarli da loro. Bisogna pensare cosa sia meglio davvero per le creature, andrebbe valutato caso per caso, ma da chi? È un problema molto grande, non si può liquidarlo trasformando in diritto uno stato di fatto originato da una violenza.

Comunque una cosa è certa: l’utero in affitto non va introdotto nel nostro ordinamento, neanche con la scorciatoia dell’adozione strumentale, e va abolito in tutti i paesi, così come è stata abolita la schiavitù.


(www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2023)

di Marina Terragni


Avevamo avvisato: i temi biopolitici si sarebbero presi il centro della scena. Elly Schlein avrebbe avuto tutto l’interesse a traccheggiare sino alle europee, limitandosi a qualche bandierina qua e là per non spaccare il partito (mica solo i cattodem: perfino Bettini, Zingaretti, Gualtieri a suo tempo si erano pronunciati contro l’utero in affitto).

Ma per ragioni uguali e contrarie il governo ha deciso di partire in quarta bloccando le trascrizioni degli atti di nascita integrali dei bambini nati per iniziativa di coppie dello stesso sesso – forte della legge 40 e di un paio di sentenze della Cassazione – stoppando l’Europa sulla cosiddetta omogenitorialità transnazionale e proponendo una legge sull’utero in affitto come reato universale. Perché il nome della cosa è quello, utero in affitto o gestazione per altri: faccenda che, vero, riguarda al 70 per cento gli etero e al 30 per cento i gay. Ma quel 30 per cento si spalma – a spanne – sul 5 per cento della popolazione e il 70 sul restante 95 per cento: i numeri vanno letti. Maschi che vogliono i figli delle donne, niente di così diverso dalla prima pietra su cui si è edificato il patriarcato.

Alla manifestazione arcobaleno di Milano la questione scompare dai radar. In Europa Schlein votò contro un emendamento che stigmatizzava l’utero in affitto, dunque la pratica non le dispiace ma ora evita l’argomento. Sul palco quasi solo donne, faccia presentabile della cosiddetta omogenitorialità. I bi-padri mandano avanti loro. Alessandro Zan, incaricato di stendere la nuova proposta di legge sull’omogenitorialità, in un’intervista dichiara addirittura che «l’utero in affitto è una fake news». Si parla solo di “diritti dei bambini”: bene, vediamoli.

Primo diritto di un bambino è non essere separato dalla donna che l’ha partorito che per lui – ma anche per la legge: semper certa – è sua madre. Quasi mai nelle Gpa la gestante è anche madre genetica, l’ovocita è di un’altra donna ma il problema si porrà solo in seguito. La belly-mommy [mamma-pancia, mamma di pancia, Ndr], come la chiamano pucciosamente i committenti, per il neonato è mommy e basta. La creatura ne riconosce odore, temperatura, ritmo del cuore, voce. Se la appoggi sulla belly di mommy si arrampicherà come un freeclimber fino alle mammelle: partorire per credere. Cellule del bambino sopravviveranno nel corpo della gestante per molti anni (microchimerismo materno-fetale). La rottura per soldi di quella relazione che fonda civiltà è una catastrofe per il piccolo umano e anche per la civiltà. Il sincero democratico, ovviamente antispecista, non lo farebbe mai a cani, gatti e lucertole ma per la sua specie – avendo pagato – fa eccezione e si porta a casa il bioprodotto appena sfornato.

Altro diritto del bambino: quello alla verità sulle proprie origini, quel favor veritatis che compare in svariate sentenze. Il mondo è pieno di figli di eterologa alla ricerca delle loro radici, a quanto pare se non ti radichi da qualche parte fatichi a spiccare il tuo volo umano. La verità sullo status filiationis è costitutiva del diritto all’identità personale. Proprio a partire dalle richieste dei nati da queste tecniche, dall’anonimato dei donatori di gameti negli anni Settanta varie legislazioni nazionali si sono via via aperte alla tracciabilità. Ebbene, la richiesta di trascrizione integrale di quegli atti di nascita va in direzione contraria, negando il diritto alla verità sulle origini. Altro che rendere quei bambini più uguali: introduce una disuguaglianza. Per capirci: se una madre single dichiara il falso sulla paternità del figlio viene perseguita per alterazione di stato civile. Ma se un atto di nascita riporta due padri o due madri, falso palese, la cosa dovrebbe essere lecita e non perseguibile, aprendo di fatto una corsia preferenziale in base all’orientamento sessuale in spregio all’art. 3 della Costituzione, che invece ci vuole tutti, genitori e figli, uguali davanti alla legge.

Se poi quella madre single si sposa e vuole che il marito sia riconosciuto come padre del bambino, la strada è l’adozione in casi particolari. “Casi particolari” (Annunziata!) non significa riservata ai gay figli di un Dio minore, ma è la strada per l’adozione di bambini che non si trovino in stato di abbandono: la stessa strada che egualitariamente la Cassazione indica per gli “omogenitori”. Tra l’altro l’istituto è stato recentemente riformato velocizzando le pratiche e riconoscendo un pieno rapporto tra l’adottato e i parenti dell’adottante: ma tutto è ulteriormente migliorabile.

Quanto agli altri diritti: non ne manca uno, dal pediatra (Concita!) alla scuola.

Quindi dove sarebbero le disuguaglianze tra i figli di “omogenitori” e tutti gli altri? Che cosa renderebbe questi figli – che espressione orribile e autolesionista! – “di serie B”? Forse qui si muove un fantasma, la consapevolezza agitante del fatto che siamo una specie bisessuata e che servono entrambi i gameti per riprodursi. Qui agisce il prometeismo di voler cancellare con una norma dal sound transumano un limite di natura, altro che ambientalismo. C’è anche un altro fatto che il diritto e la politica non sanno rappresentare ed è la differenza sessuale nella riproduzione. Dice la costituzionalista Silvia Niccolai: «C’è un’eccedenza femminile. Il corpo delle donne interloquisce in un’altra maniera con le norme e con le leggi». In effetti sulle “due madri” anche la circolare Piantedosi mostra un’esitazione e qualche distinguo – circa i nati all’estero da coppie di donne – su cui è stato richiesto il parere all’avvocatura generale dello Stato. E la sentenza della Cassazione del 30 dicembre scorso si riferisce unicamente ai “due padri”. Nel caso delle coppie di donne l’utero in affitto non c’entra, e converrebbe loro smarcarsi dalle rivendicazioni maschili. Il pari e patta tra donne e uomini sotto l’ombrello dell’omogenitorialità è un dispositivo che serve anzitutto ai maschi che affittano uteri di donne bisognose. Libere di farlo, si sostiene: di sicuro non libere di fare mercato di terzi, le creature. Ma sulla differenza sessuale torneremo.


(Il Foglio Quotidiano, 21 marzo 2023)

di Annarosa Buttarelli


Fa bene la Libreria delle donne a riprendere la riflessione intorno alle pratiche politiche, perché senza dubbio vanno ripensate alla luce delle trasformazioni in corso. Sono convinta che le pratiche radicali della politica delle donne siano l’unica vera chance sul tappeto del travaglio contemporaneo, in cui la parola “radicale” è diventata quasi una brutta parola da quando è utilizzata per indicare tutt’altro. Per fortuna, spesso il cinema è un passo avanti: nella sale si può vedere un film, Women Talking di Sarah Polley, già molto amato e commentato dalle donne e da noi femministe. Ma tra i molti meriti, mi ha colpito la nettezza con cui il film ricapitola mirabilmente tre posizioni che le donne possono assumere in un mondo dove si rischia continuamente, anche oggi, la prevaricazione o la violenza maschile: 1) si può rimanere dove si è senza fare nulla; 2) si può rimanere dove si è, lottando fortemente; 3) si può andare via insieme alle altre. Le donne del film parlano, riflettono, discutono, litigano a lungo, fanno confliggere le tre posizioni tra loro, ma alla fine tutte quante scelgono di andare via insieme e di portare con sé via tutti e tutte, figli, figlie, parenti e amiche. Il coraggio e la forza che richiede questa posizione sono raffigurati molto bene in tutta la vicissitudine del racconto. Perché le donne del film scelgono di andare via? Perché hanno verificato che nessun affetto, nessuna cura, nessuna parola, nulla di nulla convincono i vari uomini a farla finita con la violenza, le botte, gli stupri, la pedofilia. Detto in altri termini: quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile, non vale la pena farsi mortificare, sperare in una conversione, perdere preziose energie, spendere inutilmente parole d’amore e di saggezza. Si deve andare via insieme alle altre che vanno via, per custodire vita, speranza, fiducia, immaginazione, parole di verità.

Mi pare un chiaro suggerimento per l’oggi, una pratica che è necessario togliere dalla eventuale polvere della storia del femminismo, se è vero, come diceva Carla Lonzi, che il femminismo è un’eterna istanza delle donne. Certamente la prima posizione, quella delle donne che accettano l’impotenza della ribellione che implode dentro di loro, quando accettano l’omologazione, non è più quella della maggior parte delle donne nel mondo, come è stato dimostrato dalla rivoluzione femminista. La seconda pratica, rimanere nel contesto lottando fortemente, la stanno perseguendo, ad esempio, le iraniane, le afghane, le curde che mettono la loro vita a disposizione della lotta anche estrema. Ma i maschi, in generale, vogliono ancora che sia versato il sangue di chi li ha messi al mondo, o vogliono che le loro istituzioni non siano modificate di un grammo, pena l’espulsione, ancora oggi. Perciò, dopo tutti i tentativi amorosamente cercati, nei secoli e negli ultimi decenni, perché avvenisse un dialogo trasformativo tra donne e uomini, sembra che la sensibilità e la capacità profetica femminile suggeriscano di riprendere la pratica di andare via. Come illustra politicamente il film, non si tratta di andare via da sole, individualmente, si tratta di un esodo da realizzare adeguato ai tempi che corrono, letteralmente corrono. Un andare via insieme alle altre, per lasciare soli gli uomini di cattiva volontà e quelli che provano piacere nel fare svariati tipi di violenza. Un esodo della mente, prima di tutto, se non di mente e corpo, come invece hanno fatto la Sturgeon e le altre auto-dimissionate al culmine della carriera. Un esodo capace di contenere propositi, vita, responsabilità, pratiche politiche, scienza e sapienza inascoltate dai seguaci del dominio. Le pratiche dell’andare via a cui alludo sono anche molto semplici ma, nei contesti politicamente corretti, anche molto coraggiose: per esempio, quella di una ex assessora del Comune di Roma che ha sempre rifiutato di sedere a tavoli dove sarebbe stata l’unica donna; o quella di rifiutarsi di partecipare a dibattiti dove le posizioni vengono azzerate da contrapposizioni inscalfibili, con la scusa del pluralismo dell’opinione; o quella di rifiutarsi di adottare la formula sciagurata del genitore1 e del genitore2, nata per far fuori le madri, ancora una volta.

C’è, ancora una volta nella storia, la necessità di far valere la differenza e l’intelligenza che stanno consentendo alle donne di tutto il mondo di partecipare pienamente a una rivoluzione riuscita e in corso di sviluppo ulteriore, una rivoluzione che ha la potenza di poter convertire le fragili sorti del mondo in cui viviamo.


(www.libreriadelledonne.it, #VD3, 20 marzo 2023)