di Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme


Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto di combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere


Not in their name, non nel loro nome. Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.

Dan Eliav, all’epoca 63enne e dunque esentato, anzi, ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. «All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo ed evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».

«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».

Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.

Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e centotrenta, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte».


(Avvenire, 12 ottobre 2024)

di Bianca Terraciano


Umanità, identità e dignità sono motivi ridondanti nell’opera di Han Kang, scrittrice nata nel 1970, prima sudcoreana – e diciottesima donna nella storia – a vincere il premio Nobel per la letteratura, assegnatole il 10 ottobre 2024. La sua opera è composta da otto romanzi, una raccolta di poesie, e alcuni racconti, più un’installazione di videoarte. Kang ha come caratteristica peculiare uno sguardo penetrante sul suo tempo e la sua cultura di appartenenza, capace di scendere in profondità per poi risalire all’origine dei danneggiamenti che innescano cause e effetti delle sue storie. Il suo stile narrativo riesce a suscitare impressioni forti in chi legge, tali da radicarsi nell’animo per un tempo superiore a quello di lettura. La natura di questo radicamento si rinviene nei luoghi che caratterizzano la vita di Kang sin dalla nascita, cioè Gwangju e il villaggio di Suyu-ri, che riflettono gli eventi principali della Corea del Sud a partire dalla seconda metà del Novecento. La città di Gwangju, luogo di nascita di Kang, è lo scenario di una sanguinosissima rivolta studentesca che ha mietuto più di 2000 vittime, anche se le cronache governative dell’epoca ne riportano solo 150. La comunità studentesca insorge il 18 maggio 1980, coinvolgendo tutta la città per ben dieci giorni, ribellandosi al direttore dei servizi segreti Chun Doo-hwan che solo il giorno prima aveva dichiarato lo stato d’assedio in Corea del Sud, sciogliendo il Parlamento e chiudendo le Università. Chun, insieme ad altri due generali dell’esercito, si era impadronito del potere conquistato da pochi giorni dal neopresidente Choe Kyu-hah, successore del generale Park Chung-hee, attuatore dello Yusin, dittatore della Corea del Sud dal 1963 al 1979 e padre della presidente Park Geun-hye, a lungo incarcerata per corruzione e abuso di potere, poi libera dopo il perdono del presidente Moon Jae-in ottenuto a fine 2021. Chun avrebbe ricoperto lo stesso ruolo di Park dal 1980 al 1988. Per maggiori approfondimenti rimando all’ottimo Storia della Corea: Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotto (Bompiani 2005). Proprio nel 1980 Kang si trasferisce a Suyu-ri, a nord di Seoul, luogo al confine tra campagna e città, che da ri – villaggio – passa a dong – quartiere – inglobato di diritto dall’urbanizzazione velocissima e dilagante della capitale sudcoreana. Così veloce che le fogne di Seoul ancora oggi non reggono lo smaltimento della carta igienica nei WC.

Mentre scrivo, la bio sul sito ufficiale di Han Kang non è stata ancora aggiornata: non ha ancora vinto il premio Nobel, sono citati svariati riconoscimenti internazionali. In Italia i romanzi di Kang sono stati tradotti dall’inglese, questione che, così come per i sottotitoli o il doppiaggio delle serie televisive coreane, molto spesso priva l’esperienza di fruizione di alcuni importanti significati e modi di dire pertinenti alla coreanità della scrittrice. Non abbiamo accesso a tutti i titoli pubblicati, ma a una selezione – edita da Adelphi – di quelli che sono considerati i più grandi successi della scrittrice, a partire da La vegetariana (2017), inserito dal New York Times tra i 100 migliori libri degli ultimi venticinque anni, seguito poi da L’ora di greco (2011), Atti umani (2014), e dalla raccolta di due racconti Convalescenza distribuita dal 2019 (le date riportate per i romanzi riguardano l’uscita in Corea del Sud).

Nei racconti Convalescenza e Il frutto della mia donna sono condensate le linee narrative delle sue maggiori opere, dove lutto e perdita si intersecano con salute mentale e fisica, agenti corrosivi del corpo umano che in realtà assorbe, impotente, lo stato generale della società. Kang fa pronunciare alla protagonista femminile di Il frutto della mia donna delle parole molto significative: «Questo paese è marcio dentro!», «Qui non può crescere niente, non lo vedi? Non intrappolato in questo… in questo posto soffocante e assordante!». La donna è nel bel mezzo della sua metamorfosi in vegetale, annunciata dalla comparsa di lividi azzurrini sulla sua pelle, che in La vegetariana si convertono nella macchia mongolica sulle natiche della protagonista Yeong-hye, un “ornamento” naturale che triggera le fantasie artistico-erotiche del cognato, poi soddisfatte dalla realizzazione di un body painting incentrato su fiori dipinti attorno a quel “petalo” azzurro. Yeong-hye prima rifiuta la carne e poi i vestiti, in un atto di ribellione contro le aspettative sociali e la sua disconnessione dalla realtà circostante. Attraverso i cambiamenti nell’abbigliamento di Yeong-hye, il romanzo riflette la sua evoluzione interiore e il suo distacco dalla società. I vestiti diventano un simbolo potente della tensione tra il desiderio di libertà individuale e le pressioni conformiste della cultura di appartenenza.

Gli abiti ordinari e conformisti da carnivora, semplici e funzionali, riflettono il malessere della corruzione del corpo in particolar modo per quanto concerne le sue semplici scarpe nere, tra le più banali mai viste. Il vestirsi come termometro della salute fisica e mentale ritorna anche in Convalescenza, in cui la protagonista prima della morte della sorella indossava «vestiti anticonformisti dai colori vivaci» e «scarpe bianche e gialle», mentre al tempo della narrazione, afflitta da una caviglia in cancrena e uno stato di evidente depressione indossa solo il nero. Questo colore ritorna anche in L’ora di greco come carattere distintivo della «tenuta da veglia funebre» della protagonista ripiombata in uno stato di completa afonia per la seconda volta, dopo la prima esperienza di silenzio forzato avvenuta al compimento dei sedici anni «quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito». L’elemento di fastidio esplicitato con il ricorso a una metafora vestimentaria non è la voce, ma la facoltà di comunicare in una società che sostanzialmente silenzia qualsiasi parere divergente dalla massa. Il far coincidere in tutte le narrazioni i cambiamenti di visione del mondo, di salute e abbigliamento sottolinea come la moda e i vestiti siano, nella visione di Kang, strumenti di controllo sociale e di giudizio. Convalescenza viene pubblicato in Corea nel 2013, l’anno in cui Park Geun-hye diventa presidente. In un’intervista di Mark Reynolds in lingua inglese dal titolo “Han Kang: To be Human”, pubblicata sul sito Bookanista, Kang commenta la presidenza di Park come un momento di sofferenza per parecchie persone, che l’ha portata a rivalutare l’incidente di Gwangju per trovare una risposta al quesito “cosa ci rende umani?”. Questa è la genesi di Atti umani, il romanzo in cui Kang ripercorre la rivolta studentesca attraverso gli occhi di Dong-ho, un ragazzo che classifica oggetti banali del quotidiano come accessori e indumenti per riconoscere le vittime e dar loro giusta sepoltura, nella speranza di trovare i corpi della sorella e di un amico. Capi e oggetti sono elementi reali, concreti, che possono consumarsi, ma non essere trasformati dalla mala-informazione dei poteri dominanti.

In Atti umani Kang fa una metariflessione sul ruolo di chi riporta il suo punto di vista e sullo statuto intersoggettivo, facendo capire che il suo mestiere di scrivere è un modo di connettere chi legge all’evento, così come accade nella relazione di connessione madre-figlia durante la gestazione: si è avvolti da un mondo dove si assorbono e poi si rielaborano i pensieri dell’istanza autoriale. E qui si arriva al romanzo non ancora pubblicato in Italia, il penultimo che precede I Do Not Bid Farewell (2021), The White Book (2016), commentato dall’autrice nel 2017 in un’intervista a The Guardian.

Qui spiega che la litania “non morire” presente in Atti umani risale alla sua gestazione, confermando la visione epigenetica sposata dalla comunità scientifica relativa alla formazione del carattere e alla comparsa di eventuali scompensi. La madre di Kang, prima di partorire lei e suo fratello, ha perso ben due figli, di cui sua sorella morta due ore dopo la nascita, la cui storia è raccontata in The White Book. Durante la gravidanza che avrebbe poi dato alla luce Han Kang, la madre era in pessime condizioni di salute e ha pensato più volte all’aborto, poi ha cambiato idea dopo che ha sentito il feto calciare forte. Kang però è convinta che quel malessere generale abbia condizionato la sua visione del mondo, così come emicranie debilitanti, il cui dolore lancinante ha profondamente plasmato la sua comprensione del male di vivere. Kang è maestra di “passioni tristi” – qualsiasi sia oggi la loro accezione – per cui crea delle immagini che si abbarbicano nell’animo come piante rampicanti, radicate in rabbia e mestizia, come si legge in Il frutto della mia donna.

Questo passaggio mi ha ricordato il componimento del poeta nordcoreano Cho Sŏnggwan, dal titolo Chŏju (‘Maledizione’), riportato da Riotto:

Fiori, non sbocciate!

Uccelli, non cantate!

Prima che sulla Terra svanisca per sempre l’ombra dello Yusin,

Che come prezzo riceve il sangue del popolo, a fiumi.

Prima di dare la morte a te, farabutto, cento e mille volte!

Oh, inestinguibile rabbia!

Oh, eterna maledizione!

Il Nobel di Kang dimostra la capacità dei sudcoreani di provare passioni collettive, comunitarie, che oggi affascinano il mondo intero in tutte le loro manifestazioni, auliche e pop.


(doppiozero.com., 11 ottobre 2024)

di Fosca Giovanelli


La Chiave di Sophia è un progetto che ha lo scopo di diffondere cultura utilizzando la filosofia come strumento privilegiato per leggere ogni ambito della vita e per sviluppare un pensiero critico. Infatti, per coloro che contribuiscono a questa realtà, la filosofia può e deve essere di tutti e non riservata ad una élite accademica. Perciò promuovono molteplici iniziative: circoli di filosofia, laboratori, incontri con autori e autrici, spettacoli teatrali e musicali, passeggiate letterarie, una rivista digitale e una cartacea.

Scrivo riguardo il 24° numero della rivista di filosofia pratica (giugno-settembre 2024), intitolato “LIBERTÀ e LIBERAZIONI”, dedicato alla riflessione intorno al tema della libertà sia essa intesa come esercizio effettivo sia come disposizione interiore di un soggetto libero. Questa indagine si snoda attraverso il pensiero di illustri intellettuali e tocca svariati ambiti quali le conquiste femminili, l’educazione, il carcere, la medicina, le migrazioni, la salute, l’antispecismo, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e molto altro. Gli autori e le autrici riescono a fornire spunti di riflessione da diverse angolazioni e differenti campi del sapere. Tale approccio permette ai lettori di porsi domande, di indagare sé stessi, di mettersi in discussione e ripensare, con maggior consapevolezza, il mondo che abitiamo.

Le prime diciotto pagine presentano quattro articoli “a tema libero”, il secondo dei quali, dal titolo “Il dominio della pornografia – Dall’invasione del porno alla sessualità come dono e mezzo di espressione tra esseri umani” di Alessandro Tonon, spiega come i contenuti pornografici, sempre più facilmente reperibili su internet, siano nocivi per gli adolescenti, i preadolescenti e i bambini. L’industria della pornografia si erge esclusivamente su logiche economiche e non prende in considerazione le conseguenze dal punto di vista psicologico e relazionale che queste rappresentazioni potrebbero avere. All’interno dei contenuti pornografici vengono normalizzate la violenza, il dominio e la sottomissione dei corpi nei rapporti sessuali. L’autore attraverso la critica alla pornografia non vuole quindi farsi portavoce di una morale sessuofobica, ma intende ribadire l’importanza di considerare l’altro con cui ci relazioniamo come un soggetto e non come un mezzo per soddisfare la nostra pulsione sessuale. Alessandro Tonon sottolinea la centralità dell’erotismo e dell’amore, elementi che permettono al desiderio di svilupparsi e radicarsi. L’industria del porno invece incentiva la gratificazione immediata che innesca la coazione a ripetere e distrugge il desiderio, desiderio che è il luogo dell’incontro autentico con l’altro.

Da pagina 19 inizia una rassegna di articoli riguardanti il tema della libertà. Personalmente trovo che siano tutti ugualmente interessanti perché favoriscono una riflessione su tematiche contemporanee di massima rilevanza politica.

In particolare, cito il testo scritto da Pamela Boldrin dal titolo “L’insostenibile leggerezza del libero consumo – È possibile liberarsi dai vincoli di un sistema opprimente?”, in cui l’autrice, prendendo spunto dalle idee dell’antropologo Jason Hickel e dal filosofo Hans Jonas, sottolinea le responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti della natura. Scrive così Pamela Boldrin: «[…] la massima libertà che siamo disposti a concedere al capitale, finisce per comportare la restrizione della libertà degli esseri umani di sopravvivere dignitosamente su un pianeta in salute». Il pensiero filosofico occidentale ha allontanato l’uomo dalla natura. Ad esempio, Francis Bacon (1561-1626) identifica il progresso scientifico con il dominio dell’uomo sulla natura. Eppure non poteva sapere che la sua visione sarebbe stata strumentalizzata dalla società dei consumi. L’autrice invita i lettori a fare della politica una dimensione reale di ognuno e a ripensare un nuovo tipo di società, libera dal capitalismo e dallo sfruttamento delle risorse del pianeta.

Altro articolo su cui desidero soffermarmi è quello scritto da Hamdan Al-Zeqri, ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano, e Gherardo Gambelli, cappellano cattolico nel medesimo carcere, intitolato “Carcere e libertà – Come si vive la libertà nella realtà del carcere?”. I due autori spiegano come la possibilità di agire liberamente sia correlata indissolubilmente alla questione della dignità umana. Una persona ha dignità se è libera. Il compito che questi uomini religiosi hanno all’interno del carcere è quello di suscitare nei condannati il senso di libertà interiore, dal momento in cui il carcere toglie la libertà fattuale. Se privare un soggetto di libertà significa conseguentemente distruggerne la dignità, come è possibile che attraverso il carcere si venga rieducati? Infatti, non basta chiudere chi è colpevole dentro una prigione per farlo desistere dal male, ma è necessario credere nella sua possibilità di riscatto e aiutarlo a intraprendere un percorso rieducativo.

Ultimo contributo di cui parlerò è quello di Lia Cigarini intitolato “Ci siamo prese molte libertà! – Appunti di differenza femminile, di emancipazione e di relazionalità”. Lia Cigarini non vede nell’emancipazione femminile la massima espressione della libertà delle donne. La libertà infatti non è un’esperienza riducibile a diritti civili o costituzionali, ma si inscrive nella scelta di vivere liberamente la propria condizione di donna. Ed è da queste premesse che l’autrice arriva a parlare delle pratiche di relazione tra donne come modalità di affermazione della libertà, spiegando come la libertà femminile non può essere storicizzata. Le pratiche delle donne sembrano coincidere in luoghi diversi e lontani tra loro. Questo è possibile perché, ancor prima di attuare delle pratiche, le singole e i singoli sono mossi dal desiderio di mettersi in relazione e cambiare la realtà circostante.


(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2024)

di Safaa Odah

Della fumettista palestinese Safaa Odah abbiamo pubblicato anche il video “Una tenda in Palestina”, qui.


(erbacce.org, 9 ottobre 2024)

di C.J. Chivers


In ricordo della giornalista russa uccisa il 7 ottobre 2006, riproponiamo questo articolo del giornalista americano C.J. Chivers uscito all’indomani dell’assassinio sul New York Times e tradotto dal sito Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa – www.balcanicaucaso.org/.

(La redazione)


Anna Politkovskaja, celebre giornalista e scrittrice russa il cui nome era ormai da solo una scottante critica al Cremlino e alle sue politiche in Cecenia, è stata trovata morta sabato nel palazzo dove abitava, uccisa con dei colpi di pistola in fronte, secondo quanto dichiarato dalle autorità e dai suoi colleghi.

Quarantotto anni, Anna Politkovskaja era una giornalista come pochi in Russia. Era corrispondente speciale per il giornale Novaja Gazeta ed era divenuta una dei più importanti difensori dei diritti umani nel Paese.

Negli ultimi anni, quando i media russi stavano affrontando pressioni sempre più forti sotto l’amministrazione del presidente Vladimir Putin, era riuscita a restare una voce indipendente. Era divenuta una figura internazionale che spesso parlava all’estero di una guerra che definiva «terrorismo di stato contro terrorismo di gruppo».

Rappresentava ormai una stridente critica a Putin, che accusava di soffocare la società civile e permettere un clima di corruzione e brutalità ufficiali.

È stata trovata morta da una vicina poco dopo le 17. Accanto al corpo, una pistola Makarov 9 millimetri, firma di un omicidio su mandante, ha riferito Vitalij Jaroševskij, vicedirettore della Novaja Gazeta, in un’intervista telefonica.

«Siamo sicuri che questo sia una terribile conseguenza della sua attività di giornalista», ha affermato. «Non vediamo alcun altro motivo».

A Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, ha dichiarato che gli Stati Uniti «invitano il governo russo a condurre un’indagine immediata e accurata per trovare, perseguire e portare davanti alla giustizia tutti coloro che sono responsabili di questo brutale

assassinio».

L’ex presidente sovietico Mikhail Gorbačëv, azionista del giornale per il quale lavorava Anna Politkovskaja, ha definito il suo assassinio un «crimine selvaggio».

«È un colpo per tutta la stampa democratica e indipendente», ha dichiarato all’agenzia stampa Interfax. «È un grave crimine contro il Paese, contro tutti noi».

I resoconti sulla sua morte sono contrastanti, alcune autorità di polizia dicono che sia stata trovata nell’entrata del suo palazzo mentre altri dicono si trovasse nell’ascensore.

La polizia ha affermato che una telecamera di sicurezza ha registrato l’immagine del suo presunto killer: un giovane alto in abiti scuri e con un cappello da baseball. La ricerca dell’esecutore sarebbe già iniziata.

Anna Politkovskaja, che ha due figli adulti, lavorava alla Novaja Gazeta dal 1999, aveva seguito i bombardamenti della seconda guerra cecena e il sequestro da parte dei terroristi del teatro Dubrovka a Mosca nel 2002. In uno dei suoi libri, Un piccolo angolo d’inferno, raccontava le sue impressioni sulla crudeltà implacabile e spesso macabra della guerra in Cecenia, e la manifesta corruzione di molti dei suoi partecipanti.

Aveva scritto di torture, esecuzioni di massa, rapimenti a scopo di estorsione per eliminare i sospetti ribelli e la vendita da parte dei soldati russi dei cadaveri dei ceceni alle famiglie, per la sepoltura islamica. I suoi scritti le avevano assegnato il ruolo di una delle più dirette critiche interne della guerra.

«L’esercito e la polizia, circa 100.000 uomini, si aggirano in Cecenia in uno stato di completo decadimento morale», aveva scritto. «E che risposta ci si può aspettare se non più terrorismo e il reclutamento di nuovi combattenti nella resistenza?»

Sin dal crollo dell’Unione Sovietica, la Russia è sempre stata uno dei Paesi più difficili e pericolosi per i giornalisti. Il clima è rimasto tale negli anni recenti; secondo il Committee to Protect Journalists almeno dodici giornalisti sono stati uccisi in Russia dal 2000, in assassini su commissione. Nessuno dei casi è stato risolto, compresa l’esecuzione nel 2004 di Paul Klebnikov, redattore americano dell’edizione russa della rivista Forbes.

In passato Anna Politkovskaja aveva ricevuto minacce di morte, e almeno una volta aveva lasciato il Paese temendo per la propria incolumità. Nel 2004 aveva dichiarato di essere stata avvelenata mentre era sull’aereo che la stava portando a Beslan a seguire il sequestro della scuola; aveva perso conoscenza durante il volo ma era sopravvissuta. Jaroševskij ha anche aggiunto che alcuni anni fa la Novaja Gazeta l’aveva fatta scortare per un periodo.

Mentre si aprono le indagini verso quello che viene definito un omicidio premeditato, i suoi colleghi hanno espresso stupore per la sua uccisione, affermando che la sua importanza pubblica sembrava averle conferito un’aura di invincibilità.

«Stava facendo così tante cose rischiose da così tanto tempo che sembrava trascendere il pericolo», ha affermato Tanja Lokšina, direttrice del Demos Center, un’organizzazione per i diritti umani di Mosca. «Mi vergogno a dirlo, ma a tutti sembrava essere quasi un monumento, era un simbolo».

Lokšina ha raccontato di essere stata con lei a Stoccolma due settimane fa, e che niente sembrava fuori posto. «Non ha mai parlato di alcuna minaccia recente», ha detto, «tutto sembrava piuttosto normale. Appariva felice e non ha mai raccontato nulla di preoccupante».

Jaroševskij ha affermato che la Politkovskaja era stata al lavoro sabato per terminare un articolo per l’edizione di lunedì del giornale, riguardante l’uso di torture da parte del governo di Ramzán A. Kadýrov, il premier ceceno allineato al Cremino. Il reportage includeva documentazioni e immagini.

In un’intervista di aprile per il New York Times, Anna Politkovskaja aveva affermato di avere prove di torture in Cecenia perpetrate dalla polizia di Kadýrov e altre forze armate, incluso almeno un testimone torturato dallo stesso Kadýrov. Kadýrov ha sempre negato vigorosamente tali accuse.

Jaroševskij ha affermato che non ci sarebbero per ora ipotesi su chi possa stare dietro il suo assassinio, e ha fatto notare che potrebbe essere conveniente per un nemico di Kadýrov uccidere Politkovskaja in modo da infangare il nome del premier.

Il giornale attendeva il file dell’articolo sabato sera, ha affermato, e probabilmente la giornalista è stata uccisa di ritorno dalla spesa presso un negozio vicino casa. Secondo quanto riportato dalla rete televisiva RTR gli investigatori ritengono che sia stata seguita tutta la giornata.


(https://www.balcanicaucaso.org/, 9 ottobre 2006, tradotto a cura di Maddalena Parolin da New York Times, 8 ottobre 2006)

di Rita Baroud


Oggi il cielo è grigio e non per le nuvole invernali o per la brina, ma per la cenere e le macerie. Gli aerei israeliani volano bassi, fendendo l’aria con suoni terribili sembrano volerci ricordare che la morte è vicina. Le strade sono quasi vuote, e i pochi che si vedono guardano il cielo con volti tesi e pieni di paura preparandosi per qualcosa che potrebbe sorprenderli da un momento all’altro.

Macerie umane

Dopo un anno di distruzione, ci sono solo i resti di quelli che prima erano esseri umani.

Quando mi guardo allo specchio, sul mio volto vedo i segni lasciati giorno dopo giorno da questo lungo conflitto. I miei capelli cadono, mi abbandonano a poco a poco. Sono diventati grigi quasi a riflettere tutto il dolore e la tristezza che ho visto: è come se in un anno fossi invecchiata di quaranta, ogni capello grigio racconta la storia di una notte insonne.

Adesso peso 44 chilogrammi, sono l’ombra della vecchia me e ho un corpo che a malapena resiste contro il vento. Mi sento leggera, ma non con la leggerezza della libertà – piuttosto, la leggerezza di chi non ha più certezze, un vuoto che mi lascia sospesa tra il cielo e la terra. Ogni chilo che ho perso era parte di una forza che una volta pensavo fosse permanente, ma che invece si è sgretolata sotto il peso dell’ansia e della costante ricerca di un posto sicuro.

La memoria e l’oblio

Ottobre per Gaza ha segnato la fine dei sogni e l’inizio di un viaggio forzato.

La mia mente è come un disco rotto: conserva ogni dettaglio dei miei spostamenti, ma non riesco più a ricordare com’era la vita prima del 7 ottobre. Ho dimenticato l’indirizzo della mia casa andata distrutta, il francese imparato alle lezioni universitarie, il profumo del cibo che mia madre mi preparava. E me stessa. Ricordo solo le volte in cui ho dovuto cambiare riparo: quattordici volte. E le lacrime versate quando la mia amica Sarah è stata uccisa: la sua assenza ha lasciato un vuoto nella mia vita.

Rammento l’ultimo saluto a Ruba, a mio fratello Ilya e mia nonna quando sono riusciti a mettersi in salvo fuggendo da Gaza. Indelebile il momento in cui siamo fuggiti mentre i carri armati erano a pochi metri di distanza e sparavano a caso sulla gente. Siamo scappati nel bel mezzo della notte per le strade buie. Correvamo senza una direzione chiara, cercando qualsiasi rifugio che potesse proteggerci dai missili che cadevano come una pioggia fitta. Il suono degli aerei era implacabile, l’aria piena dell’odore del fumo, e non c’era niente che potessimo fare se non continuare a correre. La mia memoria è piena di quell’odore di cenere che impregnava l’aria quando la mia casa è stata colpita ed è stata divorata dal fuoco.

La vita e la morte

La cosa peggiore che ho visto è stato l’incontro tra la vita e la morte, quando i lamenti dei vivi si mescolavano con i volti immobili. Ho visto i bambini urlare, le loro voci che si affievolivano sotto le macerie delle case che crollavano. Ero presente quando un’intera famiglia è stata tirata fuori dalle macerie con negli occhi quel vuoto, quell’incapacità di piangere, come se il dolore avesse superato i limiti e le lacrime non fossero più sufficienti.

La cosa peggiore è stata vedere lo sguardo di chi non capisce il senso di quello che succede. I momenti peggiori sono stati quelli in cui mi sono sentita impotente, quando il cibo scarseggiava, quando l’acqua era appena sufficiente per il giorno dopo. Ricordo il volto stanco di mia madre, i suoi occhi parlavano più delle parole che non riusciva a dire, e quei suoni come un grido di vita che sfidava la morte. I momenti peggiori non arrivano improvvisamente ma si insinuano, accumulandosi nelle profondità della mia anima fino a schiacciarla completamente.

La cenere

Sono diventata un cumulo di macerie e non perché ho perso tutto, ma perché porto nella mia memoria i resti dei volti di coloro che se ne sono andati, delle parole non dette, di risate che non sono mai arrivate alla fine. Sono quello che rimane di una sorella che prometteva ai suoi fratelli giorni sicuri, di una ragazza che sognava di studiare e lavorare, di una bambina che sorrideva alla vista del mare, quando il mondo sembrava molto più lungo. Oggi, quando mi guardo allo specchio, vedo degli occhi carichi di ricordi, occhi mostrano tutto ciò che hanno vissuto. Sono i resti di una persona che cerca di sopravvivere.

Pensare al futuro a Gaza

Il futuro è una pagina bianca, una pagina in attesa, da scrivere. Ma nel profondo la speranza si mescola alla paura. Il futuro sembra nebbioso, come una strada tortuosa tra colline che nasconde la sua destinazione finale. Provo a disegnarne un’immagine, ma cambia colore, trasformandosi ogni giorno, a volte ogni ora. Sembra che il futuro porti con sé gli stessi pesanti fardelli, le stesse lotte, le stesse ombre che oscurano il sole. E temo che sarà solo un’altra versione dei giorni che stiamo vivendo ora: pieno di perdite, sfollamenti e sempre alla ricerca di un posto sicuro.


(la Repubblica, 8 ottobre 2024)

di Anna Momigliano


Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima.


Gli amici che mi sono venuti a prendere mi hanno accolto con un abbraccio più lungo del solito. L’aeroporto era deserto, le bandiere e le foto degli ostaggi ovunque, ma non c’erano persone e, soprattutto, non c’erano aerei, perché le poche compagnie che si avventurano qui hanno paura di lasciare i velivoli fermi, a tiro di missile, dunque arrivano, fanno rifornimento, e poi ripartono. Anche la città mi è sembrata più vuota. Sono atterrata poco prima del tramonto e le strade di Tel Aviv, che un tempo mi erano così familiari, avevano qualcosa di irriconoscibile. Sulle facciate degli edifici, cartelloni enormi, luminosi, opprimenti, con la faccia del primo ministro e slogan accusatori: «In mille sono stati uccisi, sono sulla tua coscienza».

Dicono che le cose che troviamo più inquietanti sono quelle che conosciamo nel profondo e al contempo ci appaiono sconosciute. Sono stata in Israele, da dove mancavo da quasi dieci anni, a maggio, cioè otto mesi dopo l’attacco del 7 ottobre: sapevo che avrei trovato una nazione scossa, perché leggo i giornali e perché gli amici mi avevano avvertito che era peggio di quanto non sembrasse da fuori; eppure non ero preparata alla sensazione di straniamento che ho provato nel vedere un paese dove ho vissuto, che mi è entrato sottopelle, così cambiato, e in peggio. Credo ci vorranno ancora anni prima che storici e politologi riescano a inquadrare appieno la misura in cui quel giorno ha trasformato Israele, ma quello che ho visto io era un paese incattivito, impaurito, in guerra con sé stesso e con il mondo, in balìa di un senso di inevitabilità.

Il 7 ottobre c’è stata la più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah, i terroristi di Hamas sono entrati dentro i confini israeliani come un coltello nel burro e hanno ucciso più di mille e cento persone, in alcuni casi stanandole casa per casa. È passato un anno e da allora sono successe così tante cose, è stato sparso così tanto sangue che, immagino, per alcuni ormai è un ricordo sbiadito. Gli israeliani hanno massacrato più di 42mila persone a Gaza e più di 2.000 in Libano, mentre in Cisgiordania i coloni violenti sono a briglia sciolta. In un contesto come questo, se qualcuno mi dicesse perché scrivi degli israeliani, e non dei libanesi o dei palestinesi, ecco, se qualcuno mi dicesse questo, io lo capirei pure. Ma questa è l’unica storia che so raccontare, perché questo è il posto che conosco, che ho chiamato casa, la sua gente è la mia gente.

Com’è possibile che Israele si sia spinto fino a questo punto? Penso a quello che mi aveva detto Robi Damelin, un’attivista di The Parents Circle, l’ong che riunisce genitori israeliani e palestinesi che hanno perso figli nel conflitto e che vorrebbero non succedesse più ad altri, quando le avevo parlato, poche settimane dopo l’attacco di Hamas: «La gente qui è terrorizzata, il trauma è così totale, i razzi così spaventosi, piovono dappertutto, a Tel Aviv, ad Ashkelon. Ma soprattutto la gente è umiliata, che è la cosa peggiore, perché l’umiliazione chiama vendetta, ti offusca la mente». E penso a quello che ha detto il giornalista di Haaretz Gideon Levy: «Se un solo attacco, per quanto così barbaro, è stato sufficiente a spingere così tanti israeliani a comportarsi in modo disumano, provate a immaginare che cosa sta facendo tutto questo ai palestinesi».

Nei giorni in cui sono stata lì, i razzi di cui parlava Robi, quelli lanciati da Hamas, a Tel Aviv non c’erano più. Nei primi due mesi della guerra da Gaza sono partiti quasi diecimila tra razzi, droni, missili sulle città israeliane: la gente viveva tappata nei rifugi, una mia amica, che ha due bambine piccole, mi raccontava che non riusciva a lavarle, perché, nel caso di un attacco, non avrebbe avuto il tempo materiale di portarle fuori dalla vasca. Però a maggio la situazione era tranquilla, Hamas ormai non aveva più la potenza di arrivare fino a qui, e persino l’attacco che aveva lanciato l’Iran il mese prima non aveva fatto troppi danni. Certo, al nord, oppure al sud, sarebbe stata tutta un’altra storia, c’erano 135mila sfollati, in fuga dalla Galilea e dalla regione di Israele al confine con Gaza (in ebraico si chiama Otef Aza, ovvero «ciò che avvolge Gaza», i media anglofoni spesso lo traducono come Gaza envelope, che però suona come fosse dentro la Striscia).

Tel Aviv però non è il paese reale, è la città più grande e ricca, è protetta dal sistema antimissilistico molto più delle periferie, dunque la guerra, vista da lì, era come un’ombra, lontana e vicina. Tutti erano un po’ depressi, quasi tutti avevano qualcuno al fronte. Poi, gli autobus. Una cosa che sarebbe stata ridicola, se non fosse stata tragica, erano i messaggi registrati sugli autobus. A ogni fermata partiva l’annuncio «siete arrivati alla via tal dei tali» seguito da uno slogan un po’ consolatorio e un po’ propagandistico, come «insieme siamo forti» oppure «supereremo tutto questo insieme». Gli autisti, che Dio li benedica, spesso li tagliavano a metà.

Un’altra cosa che mi ha colpito, anche se non c’entrava nulla con la guerra, era la presenza di due tipi di persone che un tempo a Tel Aviv si vedevano poco. Primo, gli ebrei religiosi: Tel Aviv è la città più laica di Israele, in passato mi capitava raramente di incontrarne, ma adesso erano una presenza visibile, specie nella zona dove alloggiavo, Ramat Aviv, un quartiere lontano dal centro che ricorda un po’ i Parioli. Poi, i palestinesi con cittadinanza israeliana. Anche loro una volta si vedevano poco a Tel Aviv, eppure i poliziotti che si sono seduti nel tavolo vicino al mio, in un caffè vicino al mercato Carmel, parlavano fra loro in arabo (in Israele ci sono anche ebrei che parlano arabo come prima lingua, ma sono anziani), ed era palestinese il farmacista che mi ha venduto i prodotti per la skincare che avevo promesso a mia figlia.

Il primo giorno la coppia che mi ospitava mi ha portato a una manifestazione. Non mi hanno chiesto se volevo andarci, lo davano per scontato, ci vanno tutti, ogni venerdì sera, e molte altre sere. L’appuntamento è a Kaplan, una delle strade più centrali di Tel Aviv, davanti alla Kiryà, il quartier generale dell’esercito, si manifesta per gli ostaggi, contro Netanyahu, e, con mia sorpresa, anche un po’ contro la guerra. Incontro gente che conosco, colleghi, amici, figli di amici, perché, se hai quarant’anni, in Israele, i tuoi amici cominciano ad avere figli grandi. Qualcuno mi regala una maglietta con scritto «Lo LeShavè», che significa «non invano», dove credo il messaggio fosse «non permetteremo al governo di distruggere Israele, dopo avere lottato per evitare che fosse distrutto da nemici esterni». Urlano «accordo! accordo!» e «cessate il fuoco». La cosa mi ha stupito un po’, dicevo, perché era una novità, maggio era proprio il periodo in cui le manifestazioni per gli ostaggi iniziavano anche ad essere manifestazioni per il cessate il fuoco.

Una delle critiche mosse più spesso al movimento pacifista israeliano è che non importa loro dei palestinesi, che chiedono la fine della guerra solo perché rivogliono gli ostaggi vivi, non perché gli faccia orrore vedere quarantamila palestinesi morti ammazzati. Questo non è proprio vero, però c’è del vero. Tra le persone con cui ho parlato non ce n’era una a cui non dispiacesse anche per i palestinesi, ma era come un secondo pensiero. Pensi prima di tutto ai tuoi, poi agli altri, che è una cosa molto umana, anche se, come molte cose umane, non è particolarmente bella.

Alla manifestazione ho visto molte insegne viola di Standing Together, un gruppo che riunisce giovani ebrei e palestinesi con cittadinanza israeliana e che col tempo è diventato una delle voci più forti della piazza. Loro erano stati i primi a schierarsi apertamente contro la guerra, fin da subito, mentre altre importanti organizzazioni pacifiste ci hanno messo un po’: B’Tselem ha aspettato fino a dicembre prima di prendere una posizione per il cessate il fuoco, Peace Now a gennaio, e so che in alcuni gruppi c’è stato un meltdown, in altri invece palestinesi ed ebrei che per anni avevano lavorato insieme hanno smesso di parlarsi per un po’.

Il colpo del 7 ottobre è stato così feroce e così improvviso che ha disorientato tutti, anche la parte più sana della società. Ne ho parlato con un vecchio amico di cui preferisco non fare il nome, un collega un po’ più grande e molto più bravo di me. Ci incontriamo in un caffè nella zona vecchia della città, lui mi offre una shakshuka, il piatto tunisino a base di uova, importato dagli ebrei nordafricani giunti qui negli anni Cinquanta, è stanchissimo, nervoso, lavora quindici ore al giorno e ha un figlio al fronte. Non faccio domande, tira lui fuori l’argomento: «Non chiedermi di trovare l’empatia per l’altra parte, non ho lo spazio, non ce la faccio». Mi torna in mente una cosa che avevo sentito dire, qualche mese prima, da Ilana Dayan, una giornalista televisiva molto famosa per il suo programma investigativo Uvdà: «Prima o poi dovremo fare i conti con il dolore che stiamo infliggendo ai palestinesi di Gaza, vedere la distruzione. Ma non è difficile immaginare che una nazione col cuore spezzato è troppo rotta per avere una riserva di empatia».

In che senso una nazione rotta? Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima. Questo è un paese giovane, dove l’età mediana è 29 anni (e in Palestina è 19, l’età mediana è quella che divide a metà la popolazione) e dove le cose cambiano con una rapidità che in Italia è difficile da immaginare. È un paese che, come diceva l’editorialista Ari Shavit, poggia sulla sabbia, convive da sempre con l’idea che altri vogliano spazzarlo via. E, soprattutto, è un paese che da quasi sessant’anni occupa illegalmente un territorio dove vivono quasi tre milioni di palestinesi, che non sono cittadini israeliani, non godono di pieni diritti, non eleggono il governo che, nei fatti, decide delle loro vite, con un sistema che molti chiamano “apartheid”, e sinceramente non trovo una parola migliore.

Nell’ultimo decennio, forse negli ultimi due decenni, sono successe tre cose importanti e connesse fra loro. Primo, si è fatta strada l’illusione che la questione palestinese potesse essere dimenticata, che Israele sarebbe potuto andare avanti con l’Occupazione senza essere per questo in guerra. Secondo, quella che gli esperti chiamano la One State Reality: la Cisgiordania è stata annessa di fatto, se non sulla carta, la linea verde che separava Israele dai Territori occupati è come evaporata, per gli israeliani almeno (per i palestinesi, ovviamente, no), e il risultato è che l’Occupazione e il paese sono diventati tutt’uno.

Terzo, la vecchia guardia, la maggioranza di un tempo, sta diventando una minoranza. È un cambiamento demografico epocale. Fino a poco tempo fa gli ebrei laici, che credevano in uno Stato ebraico e democratico, con tutte le limitazioni e le contraddizioni del caso, erano una maggioranza netta, che conviveva con due minoranze con valori diversi: da un lato gli ultraortodossi, che non si riconoscono nell’idea di democrazia moderna; dall’altro i palestinesi con cittadinanza israeliana, che per ovvi motivi non si riconoscono nell’idea di Stato ebraico. Questi due gruppi, che oggi messi insieme rappresentano il 35 per cento della popolazione, sono anche quelli che tendono a fare più figli. Sono fatti collegati perché, volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus.

Vado a Gerusalemme per trovare un’amica, giochiamo a fare le turiste, andiamo nella Città Vecchia, dove i negozi sono quasi tutti chiusi perché di turisti non se ne vede l’ombra, entriamo nel Santo Sepolcro che è deserto, tutto per noi.

Alloggio fuori dalle mura, a Emek Refaim, un quartiere verde e in tempi normali vivace, dove abitano molti americani e professori universitari. Era il quartiere di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo di 23 anni preso ostaggio il 7 ottobre e morto, pare giustiziato dai suoi carcerieri, ad agosto. Hersh nel quartiere lo conoscevano un po’ tutti, era molto attivo nella tifoseria dell’Hapoel, una delle due squadre di calcio di Gerusalemme, e negli ambienti di sinistra, ci sono le sue foto ovunque, appese sui balconi, nei ristoranti, davanti a una palestra, su qualcuna hanno incollato sticker dell’Hapoel o appoggiato una sciarpa.

Sono a Gerusalemme per vedere la mia amica, ma colgo l’occasione per incontrare un contatto di lavoro, una persona con cui volevo parlare dei cambiamenti che ho visto. «Una volta dicevamo che l’Occupazione corrompe, ma ormai dovremmo dire che l’Occupazione ha corrotto», mi racconta Yehuda Shaul, quando ci vediamo alla First Station, la vecchia stazione dei treni che oggi è un mercato semicoperto. Esattamente vent’anni fa, quando aveva appena finito il servizio militare, Yehuda ha fondato Breaking the Silence, l’ong di soldati israeliani che denunciano le violazioni dei diritti umani nei Territori, e ora lavora per Ofek, un think tank.

Il suo ragionamento è lo stesso che ho sentito da molti altri (su questo ha scritto un libro molto bello la politologa Dahlia Scheindlin): se ti abitui a opprimere gli altri con violenza, la violenza entra a fare parte di te. Per più di cinquant’anni Israele ha imposto un sistema antidemocratico nei Territori palestinesi che occupa, mentre si illudeva di potere restare una democrazia – magari imperfetta, ma pur sempre una democrazia – all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Ma alla lunga non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi una specie di apartheid agli altri. Alla fine anche il sistema antidemocratico entra a fare parte di te.

Ecco, la normalizzazione della violenza. Yehuda Shaul mi dice che quando è nata l’organizzazione, i racconti di Breaking the Silence su come erano trattati i palestinesi scioccavano il pubblico israeliano, la gente faceva domande, ora non se li fila più nessuno. Dal 2018 esiste perfino una legge che impedisce a quelli di Breaking the Silence di andare a parlare nelle scuole, non sia mai che gli alunni diventino troppo pacifisti.

Lui ha una teoria: il punto di non ritorno è stato nel 2016, con la vicenda di Elor Azaria, il paramedico dell’esercito israeliano che sparò a un miliziano palestinese già ferito e a terra, colpevole di avere sparato a un suo commilitone. Azaria finì in carcere, condannato da una corte marziale, ma il governo di destra lo dipinse come una vittima e costrinse il ministro della Difesa, che invece si era schierato coi giudici militari, a dimettersi. «Quello è stato lo spartiacque, il momento in cui la nuova classe dirigente ha detto alla vecchia che le regole non contavano più, ora comandiamo noi», dice Yehuda.

Quello che stiamo vedendo in questi mesi a Gaza è una reazione al 7 ottobre, ma anche il risultato della traiettoria che Israele aveva preso da un po’, un sostrato di incattivimento che c’era già prima, a cui si sono aggiunte la paura e la vendetta. Ricordo che nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, gli amici e colleghi di Tel Aviv che vivevano nei rifugi dicevano speriamo che il conflitto non si estenda, che l’esito non sia quello in cui spera Hamas: costringere Israele a combattere in contemporanea su più fronti, in Libano, in Cisgiordania. Invece è successo, il conflitto si è esteso.

Qualche giorno fa l’Iran ha lanciato centinaia di missili su Tel Aviv e altre città. Nelle ore precedenti all’attacco, mi ha telefonato una cara amica, salutiamoci, mi ha detto, parliamo un po’, finché ne abbiamo la possibilità. Intendeva dire che i suoi figli sono dei rompipalle e i miei pure, chissà quando ci ricapita di avere una mezz’ora, ma intendeva anche dire altro. Le notizie di questi giorni sono il Libano e l’Iran, spero che qualcuno le racconti bene quelle storie, perché l’unica storia che posso raccontare io è quella di Israele, e mi spiace davvero che sia una storia brutta.


(Il Post, 7 ottobre 2024)

di Roberta De Monticelli


Ci sono momenti in cui quel po’ di luce che le apocalissi più spaventose (la parola, si sa, vale ‘rivelazioni’) fanno sulle verità della storia si offusca repentinamente, e quel po’ di consapevolezza delle ragioni e dei torti delle parti in causa che i più hanno acquistato, a un prezzo indicibile di sofferenza altrui, rischia di perdersi. Forse l’attuale è uno di quei momenti. Molti libri hanno in questi ultimi mesi e giorni proiettato potenti fari sull’«elefante nella stanza», l’enorme rimosso della più lunga e feroce occupazione militare che la storia ricordi, quella israeliana dei territori che erano stati assegnati dall’Onu al futuro Stato di Palestina, o del poco che ne resta.

Penso a Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia (Laterza), ma anche a Gad Lerner, Gaza, Odio e amore per Israele (Feltrinelli), al toccante Il suicidio di Israele di Anna Foa (Laterza), all’appassionato fact-checking di Arturo Marzano dal titolo Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza), alla nuova edizione ampliata del classico di Paola Caridi Hamas (Feltrinelli). Quanta luce, finalmente.

Eppure, è bastato che balenasse l’idea di un regime change in Medio Oriente, addirittura di un colpo mortale che Israele potrebbe infliggere alla teocrazia iraniana, perché tutto rischi improvvisamente di essere dimenticato: la più grande carneficina di civili in questo secolo, che a Gaza continua e in Libano (ri)comincia, la Cisgiordania sparita dalle cartine di Netanyahu, le accuse di genocidio pendenti su Israele alla Corte dell’Aja, la risoluzione presa dalle Nazioni Unite a schiacciante maggioranza solo il 18 settembre scorso (che chiede a Israele di cessare il fuoco e ritirare le sue forze armate da Gaza e dalla Cisgiordania, in omaggio al severissimo parere consultivo emesso il 19 luglio dalla Corte dell’Aja stessa sulle conseguenze legali dell’occupazione), la richiesta di mandati d’arresto internazionali da parte della Corte Penale Internazionale per i capi del governo e della difesa israeliani (che hanno pensato a eliminare senza storie giudiziarie i tre leader di Hamas equiparati a loro nella condanna della CPI), il sangue innocente che continua a colare senza fine dietro i miliardi di specchi dei nostri telefonini.

Tutto perdonato? In grazia del «lavoro sporco» (Gad Lerner) che Israele si incarica di fare, a beneficio di chi? Tre volte l’ha ribadito ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu la delegata statunitense il pieno, pienissimo appoggio a Israele nelle sue azioni contro l’Iran. Ma s’è sentito anche nei più innocui conviti del mondo della cultura, virare il vento.

«Le guerre nascono nella mente degli uomini», recita l’esordio della costituzione dell’Unesco. Raramente è dato vedere con tanta chiarezza come nascono, nell’esempio di una mente che si apre in pubblico. «Quell’uomo ha rilasciato una dichiarazione disgustosa sull’attacco iraniano e non l’ha condannato. Sono contento che Israele non permetterà a questo idiota di entrare nel Paese».

«Quell’uomo» è il Segretario Generale dell’Onu, che infaticabilmente ribadiva gli argomenti dell’umana ragione, nel linguaggio del diritto internazionale. E a dargli dell’idiota e dell’uomo disgustoso non è un presunto criminale di guerra, che c’è già dentro fino ai capelli, e per il quale è parte del mestiere usare le parole come pistole. È Benny Morris, che le ha ribadite in un’intervista rilasciata a «La Stampa» (3 ottobre).

Cioè il primo dei «nuovi storici» di Israele, quello che già nel 1988, in un famoso libro sulla nascita del problema dei rifugiati palestinesi, aveva provato come «la Nakba non sia stata una conseguenza della guerra fra i paesi arabi e Israele, iniziata nel maggio del 1948, ma – essendo cominciata prima – sia legata ai rapporti fra popolazione araba ed ebraica all’interno della Palestina britannica» (A. Marzano 2024).

Cioè: all’origine della tragedia è proprio la pulizia etnica, la virtuale soppressione della gente che abitava lì da sempre. Ci sono uomini non solo capaci di vedere una verità morale occultata da altri, ma che non hanno affatto bisogno di nasconderla di nuovo, per rigettarla come motivazione etica, dato che gliene preferiscono una etnica. Che dicono cioè: «È verissimo: e allora?».

Di questa tempra è Benny Morris, che fra i «nuovi storici» è stato il solo a rammaricarsi apertamente «che questa pulizia etnica non sia stata completata» (Traverso 2024). A proposito di «lavoro sporco».

Già, chi siamo noi per giudicare. Una cosa è certa, però: altro luogo che le nostre menti non c’è, dove le guerre si possano anche spegnere. Dove a tutta la verità morale su cui la cognizione del dolore ha fatto finalmente luce non si risponda così: «E allora?». Purché il vento dell’opinione che vira non la spenga di nuovo, la luce. E tutti quei libri fatti per alzare «nella mente degli uomini… le difese della pace» (Unesco) non siano stati scritti invano.


(il manifesto, 6 ottobre 2024)

di Caterina Soffici


Scrivono forsennatamente, ad amici, amanti, famigliari. Quella degli epistolari è una scrittura più intima e meno controllata rispetto ai libri. Diventano quindi meravigliosi squarci di quotidianità, dove si parla di tutto, anche di cuoche che non si trovano, di gestione domestica, di cose apparentemente minime, ma che ci rendono più vivi i personaggi famosi. Vanessa Bell e Virginia Woolf si scrivono spessissimo, quasi tutti i giorni. Sono lettere spontanee e disinibite, che rispecchiano gli alti e bassi, gli umori dello scorrere della vita, dei rapporti con amici, famiglia e amanti, piene di giudizi e anche pettegolezzi che rompono il rigido schema puritano e bigotto dell’epoca vittoriana. A noi sono arrivate quasi quattromila lettere a testa: di queste Vanessa ne ha scritte a Virginia 373, quella di Virginia a Vanessa sono 495. In Se vedi una luce danzare sull’acqua Liliana Rampello, una delle più importanti studiose italiane della Woolf e socia fondatrice dell’Italian Virginia Woolf Society, ne ha selezionate 72 di Vanessa e 99 di Virginia, quasi tutte inedite in Italia. Una scelta “arbitraria”, come avverte la curatrice, dettata dalla volontà di rappresentare al meglio la natura della complessa relazione tra le due sorelle. Le seguiamo dalla giovinezza del primo cognome, quando ancora si chiamano entrambe Stephen (figlie di Sir Leslie) e la famiglia abita ancora al famoso indirizzo di 22 Hyde Park Gate, passando per i numerosi lutti, le prime manifestazioni dell’infermità mentale di Virginia fino al passaggio a Bloomsbury e all’altro famoso indirizzo di Gordon Square, frequentato anche da Clive Bell e Leonard Woolf, che diventeranno i rispettivi coniugi e le sorelle sbocciano nelle proprie arti: Virginia nella scrittura e Vanessa nella pittura.

Tanto è stato scritto sulle due sorelle e sulla natura del loro rapporto, ma in questa scelta si percepisce il profondo affetto che le lega e si confuta una volta per tutte l’idea di una rivalità tra artiste (l’antagonismo è un automatismo di un certo tipo di narrazione, quando si ha a che fare con due donne estrose, affascinanti e intelligenti). Piuttosto c’è una sotterranea vena di gelosia, gelosia buona come spesso accade tra sorelle. E una certa invidia di Virginia per la maternità di Vanessa, che lei rifugge ma da cui allo stesso tempo è attratta. Lei non sarà mai madre, ma sarà sempre una zia affettuosa e affezionatissima per i figli di Vanessa e la sprona a non farsi fagocitare dalla famiglia, dalle incombenze e a perseguire nella sua arte. Si scrivono molto di arte, di pittura, di scrittura, sicure entrambe della propria strada, Virginia anche del proprio successo, perché più di una volta parla di una sua biografia, che non vorrebbe mai scrivere. Intorno a loro gira il vorticoso circolo di Bloomsbury e i vari personaggi che lo hanno animato entrano ed escono nella corrispondenza con la stessa facilità di cameriere, figli, banalità, spese.

Virginia si firma Billy la Capra e soprannominerà la sorella Delfino. La prima è più estroversa, ironica, tagliente, volatile e sembra quasi innamorata della sorella, più solida, seppure donna sensuale e seduttiva, che diventa il punto di riferimento di Virginia alla morte della madre e poi del padre. Più tardi le cose si capovolgeranno quando Vanessa perde il figlio volontario nella guerra di Spagna ed è Virginia il faro a cui puntare per trovare un porto sicuro in cui rifugiarsi.

Le lettere coprono il periodo dal 1904 al 1941. Sono divise in tre sezioni: “Ragazze” (1904-1912); “Penna e pennello” (1913-1936); “Amore e morte” (1937-1941).

Già dai titoli dei capitoli si può intuire la scansione della vita. La giovinezza di ragazze privilegiate in una casa dove si respira arte e letteratura, dove l’educazione è parte della quotidianità, dove si viaggia e si studiano le lingue. Una vita felice e più o meno spensierata, almeno finché non arriveranno i lutti a creare la rottura. Poi il periodo della maturità, della fecondità artistica e di donne, ognuna con la propria personalità ma sempre legatissime, che si cercano e si raccontano tutto, Nessa (l’altro soprannome) più riservata e meno espansiva, Virginia un turbine di sensazioni, umori e sensazioni. E infine l’arrivo della guerra, altri lutti, altro grigiore che si addensa intorno alle sorelle. La vita di Vanessa è devastata dalla morte del figlio Julian, partito per combattere contro Franco in Spagna. La depressione di Virginia torna più potente che mai. Si scrivono comunque tutti i giorni, una si aggrappa alla penna l’altra ai pennelli per trovare un minimo di serenità ma nelle lettere nessuna delle due indulge nel lutto o nel dolore. Siamo comunque in quel tipo di Inghilterra e con quel tipo di educazione. Il 1941 è già cupo di distruzione, le bombe cadono su Londra, macerie ovunque, case distrutte (compresa la sua). Il finale è noto e Vanessa sopravvive altri vent’anni alla sorella, «fragile ma non sopraffatta», anche se ormai gli anni d’oro sono affondati nell’acqua insieme ai sassi con cui Virginia si è riempita le tasche.


(La Stampa – Tuttolibri, 5 ottobre 2024)

di Franca Fortunato


A un anno dal massacro di Hamas del 7 ottobre, con morti, violenze e ostaggi, e dopo un anno di vendetta di Israele sul popolo palestinese con Gaza rasa al suolo, 42.000 morti di cui 20.000 bambine/i, migliaia di feriti, mutilati, di violenze dei coloni in Cisgiordania, di un popolo lasciato senza cibo, acqua e medicine, la parola pace dentro e fuori Israele e nei territori palestinesi è bandita da chi ha scatenato l’inferno, seminando morte, odio e distruzione. Eppure tra tanta tragedia ci sono israeliani e palestinesi, di cui i mass-media non parlano, che continuano tra tanti ostacoli a coltivare e tenere in vita pratiche di pace, di dialogo e riconciliazione come unica alternativa alla guerra. Le loro voci, schiacciate ma non ammutolite, e le loro storie sono state raccolte dalla giornalista Chiara Zappa nel libro di recente pubblicazione Gli irriducibili della pace – Storie di chi non si arrende alla guerra in Israele e Palestina, edito da TS.

«Mi rifiuto di battermi per Israele senza battermi anche per la Palestina», scrive la cantante israeliana Noa nella prefazione e invita a non schierarsi «né da una parte né dall’altra, ma piuttosto schierarsi per la pace, per l’umanità, per la dignità, per la vita». È quello che hanno fatto per tanti anni le donne e gli uomini che nel libro raccontano le loro storie fatte di pratiche di pace, di conoscenza l’uno dell’altro, di rispetto e di fiducia reciproca, per una riconciliazione e una convivenza che li orienta anche dentro l’inferno scatenato da Hamas e dal governo di Netanyahu. Tante le voci e le storie di israeliane/i e palestinesi che meritano di essere ascoltate e conosciute. Con la loro esperienza sono lì a dimostrare che una convivenza e una riconciliazione, dopo tanta distruzione, dolore e odio, un giorno in Terra Santa sarà ancora possibile. Layla, madre palestinese di un villaggio a pochi chilometri da Betlemme, ha visto morire tra le sue braccia il figlio di tre mesi intossicato dal fumo dei lacrimogeni dopo un’incursione in casa dell’esercito israeliano che ha poi ostacolato l’arrivo in ospedale per salvarlo. Dopo anni di dolore e di odio verso “il nemico” trova la forza di perdonare e riconciliarsi stando in un’associazione di palestinesi e israeliani che hanno perso un familiare. «Per la prima volta mi resi conto che condividiamo lo stesso dolore, le stesse lacrime.» È la stessa consapevolezza che spinge Chon, l’ufficiale israeliano che dopo anni di “violenza” e “terrorismo” a Gaza e Cisgiordania si «rende conto di aver «disumanizzato l’altro disumanizzando se stesso, e decide di dire basta. Diventa obiettore di coscienza, fonda il movimento “Combattenti per la pace” tra ex soldati e ufficiali israeliani e palestinesi che hanno partecipato alla lotta armata contro Israele» e una compagnia teatrale binazionale «per sfatare miti e pregiudizi, costruire la fiducia reciproca, riumanizzare l’altro». Chon come Tal, Sofia, prima obiettrice dopo il 7 ottobre, e Ben, è in carcere per aver rifiutato di partecipare alla guerra. Samah e Nir, una palestinese israeliana e un ebreo del “Villaggio della pace”, fondato nel 1950 da un frate domenicano, esempio di convivenza di due popoli e una terra, hanno rifiutato “i fucili di assalto” dati dal governo israeliano. Ariella, cofondatrice del movimento “Le donne portano la pace”, e Reem di quello palestinese “Le donne del sole”, candidate al premio Nobel per la pace, tre giorni prima del 7 ottobre hanno marciato insieme da Gerusalemme Est e Cisgiordania fino al mare. Altre voci, altre storie, si uniscono a queste e nessuna si arrende alla guerra, custodendo i semi che un giorno, si spera, germoglieranno e porteranno ai due popoli di quella terra insanguinata pace e riconciliazione.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 5 ottobre 2024)

di Sarah Parenzo


Un rapporto del Centro Adva e dell’Istituto Van Leer di Gerusalemme, in collaborazione con la Fondazione Friedrich Ebert, pubblicato lo scorso settembre, fornisce i primi e provvisori risultati dell’impatto di un anno di conflitto sulle donne israeliane. Come sottolineano gli autori, la guerra, come altre situazioni di crisi, colpisce le donne in modo diverso rispetto agli uomini e tendenze preoccupanti si registrano in molteplici settori, a partire da quello lavorativo.

Dal rapporto emergono danni significativi all’occupazione femminile, soprattutto tra le impiegate a ore, le autonome e le donne palestinesi. Le donne sono state la maggioranza sia dei licenziati che dei destinati alla cassa integrazione. Una problematica di genere traspare anche dal tasso di assenteismo dal lavoro a partire dal 7 ottobre. Tra gli uomini la ragione principale di assenza è legata alla chiamata come riservisti con un tasso che dal 18% nell’ottobre 2023 ha raggiunto il picco del 41% nel gennaio 2024, per poi scendere gradualmente fino al 6% nei mesi di aprile e maggio.

Tra le donne, il tasso di assenteismo dovuto alla chiamata ha raggiunto il picco massimo del 7% nel gennaio 2024, tuttavia la percentuale di donne assenti per malattia propria o di un familiare è stata più elevata durante tutto il periodo. Si parla di circa un quarto delle donne assenti nei mesi di gennaio e febbraio (rispetto al 16% e al 19% degli uomini). Le donne hanno preso anche più giorni di ferie rispetto agli uomini. Sempre in materia di occupazione, nei settori della sanità e dell’assistenza sociale accanto alla domanda crescente da parte degli utenti si accompagna una grave carenza di personale specializzato, soprattutto nel campo della salute mentale in cui sono impiegate prevalentemente donne. Secondo le stime, ad esempio, negli enti locali e nei ministeri di Welfare e Sanità mancano circa 5mila assistenti sociali, mentre nel sistema scolastico manca il 30% delle psicologhe previste.

Dal numero delle accuse presentate e degli arresti effettuati, emerge anche l’aumento della gravità dei casi di violenza domestica, con un andamento diverso da quella dei primi mesi dell’epidemia di covid, quando un forte aumento delle denunce di violenza domestica era evidente nel contesto della politica di quarantena. La differenza sta nella diminuzione delle richieste di aiuto nei primi mesi di guerra, causata dalla percezione di mancanza di legittimità nel lamentarsi o contattare gli operatori sanitari rispetto al dramma in atto e dalla mancanza di disponibilità da parte delle vittime alla cura di se stesse.

L’incremento della militarizzazione ha comportato inoltre un aumento significativo del numero di licenze private di armi (il numero di quelle approvate dal ministero per la sicurezza interna nel 2023 è più di tre volte superiore a quello dell’anno precedente) che mette a repentaglio la sicurezza delle donne. Inoltre, l’aggravarsi delle persecuzioni di natura politica ha condotto a una perdita del senso di sicurezza delle donne arabe, soprattutto negli spazi condivisi, intaccando la loro possibilità di integrazione nel mercato del lavoro. Il 60% delle palestinesi riferisce di sentirsi a disagio nel recarsi in insediamenti ebraici o misti per lavoro o commissioni, e questo rispetto al 48% degli uomini arabi intervistati.

Preoccupante è anche la forte diminuzione della rappresentanza delle donne in posizioni chiave e nei processi decisionali. Nell’attuale Knesset sono presenti solo 29 deputate, rispetto alle 35 del parlamento precedente [su 120 seggi, Ndr]. Solo una donna presta servizio nel gabinetto politico di sicurezza, mentre in quello socio-economico si contano solo tre donne su 19 membri complessivi. Al fine di ridurre i danni e prevenire un’ulteriore espansione dei divari di genere in Israele, il rapporto chiede l’integrazione delle donne tra i responsabili politici e l’adozione di una prospettiva di genere nella pianificazione e nel processo decisionale, auspicando che venga garantita anche la raccolta e la pubblicazione sistematica di dati segmentati per genere in modo che le tendenze possano venire identificate nel tempo.

La preoccupante fotografia fornita dal rapporto è per forza di cose parziale per mancanza di dati, né prende in considerazione le donne palestinesi prive della cittadinanza israeliana, come quelle che vivono in Cisgiordania o a Gerusalemme Est. Inoltre i risultati andranno monitorati anche in fase di riabilitazione, processo che tuttavia non può avere inizio mentre i traumi sono ancora in corso. In questo senso continuano a essere particolarmente penalizzate, oltre alle palestinesi, le donne sfollate, le madri e mogli dei riservisti e tutte le donne che detengono legami personali e familiari con gli ostaggi. I danni dell’atroce stress fisico e psicologico a cui sono sottoposte sono ancora inimmaginabili e potranno essere stimati solo nel lungo periodo. Come nel caso delle violenze di genere perpetrate il 7 ottobre da Hamas e delle donne catturate, è evidente che il genere femminile sta pagando a caro prezzo la violenza politica e militare che pervade lo spazio pubblico israelo-palestinese.

Per quanto allarmanti, tuttavia, le statistiche non possono cancellare il ruolo centrale ricoperto in questi mesi proprio dalle donne ebree, palestinesi e druse di cittadinanza israeliana e il loro preziosissimo contributo alla società nell’affrontare la crisi. Le donne sono anche in prima linea per la pace e nelle ancora troppo poche e coraggiose iniziative congiunte come quella recentemente promossa dal «Movimento Spirituale per la Pace» tenutasi a Gerusalemme il 26 settembre scorso. Sono proprio le donne osservanti, ebree e musulmane, a muoversi con maggiore agio negli spazi «misti», a dimostrazione che la religione e le donne sono anche delle preziose alleate, checché ne dicano gli stereotipi occidentali.

Tra le oratrici che hanno tenuto i discorsi più interessanti c’è stata la giornalista drusa Eman Safady dell’organizzazione JPC che ha sottolineato l’importanza di mettere da parte le vendette per avviarci verso la pace e la normalizzazione che passeranno, secondo lei, attraverso una «pulizia energetica» e accordi sugli spazi marini e le risorse energetiche. Importante anche la riflessione della professoressa Haviva Pedaya dell’Università di Ben-Gurion del Negev, presidente del movimento, intellettuale e discendente della stirpe di cabalisti Fatiyah di origine irachena, che ha sottolineato l’importanza della stipula di accordi politici nella realpolitik della tradizione sefardita orientale ebraica. E siamo solo all’inizio.

Oggi, a un anno da quel disgraziato 7 ottobre, l’urgenza di spendersi in prima persona per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e per il ritorno immediato degli ostaggi, per poi iniziare un faticoso e lungo processo di ricostruzione, è massima e le donne dimostrano di averlo compreso superando coraggiosamente ogni accusa di tradimento e critica di asimmetria che viene loro rivolta dalle rispettive etnie. Mettiamo da parte le ideologie e diamo loro voce.


(il manifesto, 5 ottobre 2024)

di Rosalba Galli


Il 25 settembre scorso ha suscitato l’interesse di molte persone la presentazione alla libreria NeaPolis di viale Teocrito (Siracusa) del libro Vietato a sinistra – Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Castelvecchi 2024), un titolo forte e chiaro che chiama al confronto su questioni che negli ultimi anni hanno provocato conflitti aspri e rotture sia nell’universo femminista che nei partiti e nelle organizzazioni progressiste e di sinistra. Le autrici dei dieci capitoli del libro sono dodici donne, femministe, studiose e professioniste che operano in diverse regioni e fanno parte della rete di discussione, elaborazione e scambio che si chiama Dichiariamo.

Ecco gli argomenti “scomodi” che creano contrasti e disagio a sinistra e che sono stati affrontati alla libreria NeaPolis da tre delle autrici del libro presenti invitate dalla libraia Annalisa Sansalone.

– Le conseguenze della logica paritaria, abbracciata dalla sinistra, che comporta l’ammissione delle donne a cogestire un mondo pensato e regolato da uomini a loro misura, secondo tempi, ritmi e modalità che non tengono conto della differenza femminile.

– La parificazione del ruolo materno e paterno, le conseguenze della legge 54 del 2006 che stabilisce e regola, in modo penalizzante per le madri, l’affido condiviso nelle separazioni.

– La censura e il silenziamento del dibattito democratico e della libertà di pensiero rispetto a questi temi considerati scomodi e su cui si sfugge il confronto e la discussione.

– La prostituzione, la pornografia, tutto il sistema prostituente non possono essere considerate attività lavorative come altre, espressioni di libertà, autodeterminazione e scelta di donne (o uomini) banalizzando o sorvolando sulle implicazioni teoriche e pratiche e disconoscendo il racconto e le esperienze dirette di molte donne che la prostituzione l’hanno praticata.

– La differenza sessuale delle donne viene cancellata con l’adozione del neutro in nome dell’inclusione di quegli uomini, che mantenendo intatti i loro attributi sessuali, si percepiscono donne, si sentono discriminati e preferiscono che le donne siano chiamate “esseri umani mestruanti” o “esseri umani con utero”.

– Le difficolta che incontrano le associazioni femminili a causa delle norme che regolano il RUNTS (Registro Unico del Terzo Settore) secondo le quali le associazioni femminili e femministe devono avere iscritti maschi, anche se si chiamano Unione donne italiane o Arcilesbica, per usufruire dei sostegni pubblici al Terzo settore.

– Riflessioni sul concetto di “identità di genere” che sostituisce il “sesso” e comporta la neutralizzazione delle differenze grazie alla cui esistenza l’umanità esiste e continua a riprodursi.

Alla fine l’elemento unificante del libro è il corpo femminile con le sue potenze. La rappresentazione davanti a cui ci troviamo nel mainstream progressista contemporaneo racconta come sia naturale e giusto che il corpo femminile, ormai emancipato dal destino patriarcale di oggetto di servizio del maschio (padre/marito/padrone) e liberato dalla condanna della maternità obbligatoria, debba avvalersi come crede della libertà che ha raggiunto e all’occorrenza possa mettersi in vendita sul “libero” mercato della gestazione per altri, della prostituzione, della pornografia, occupazioni peraltro praticabili anche prima della (supposta) liberazione ma con il vantaggio di essere ora considerate, nella visione della modernizzazione progressista, come pratiche evolute e democratiche espressione  della libertà individuale e dell’autodeterminazione femminile.

Dunque, guardando ai fatti nudi senza avanzare giudizi, la donna secondo questa lettura avrebbe fatto un percorso di precarizzazione della propria condizione, passando dalla posizione di dipendente moglie/figlia/madre e con un ruolo sociale garantito, a “libera professionista” che si propone al mercato dei corpi femminili con le sue oscillazioni e competizioni.

D’altra parte, però, in questo contesto di sistema sociale democraticamente aggiornato e ordinato secondo le norme e il linguaggio del gender, il corpo femminile si trova contemporaneamente ad affrontare una prova estrema: la propria neutralizzazione. La parola donna (ma non la parola maschio, che non entra mai in questa revisione linguistico-simbolica, forse perché la parola uomo sinonimo di maschio ma con doppia personalità di neutro universale, rimane saldamente il significante di umanità e dunque non è coinvolgibile in questo terremoto linguistico), la parola donna secondo questo contesto democraticamente aggiornato non dovrebbe più invece significare un corpo definito dall’appartenenza al sesso femminile.

È soprattutto questo malinteso sul significato delle parole collegate alla differenza sessuale e la confusione simbolica che ne deriva, che rende difficile il confronto su questi temi cosiddetti divisivi.

Il potere, la dote procreativa del corpo della donna, per esempio, in questo contesto torna ad essere svalorizzato, come ai tempi del patriarcato trionfante quando il corpo femminile era il contenitore del figlio o, con meno soddisfazione, della figlia del maschio, maschio di cui la donna, o almeno il suo corpo, era proprietà.

Nel business della surrogazione (parliamo per approssimazione di un ammontare globale di poco meno di cento miliardi di dollari) la procreazione, smontata in procedure produttive differenziate (selezione e scelta degli ovociti/gameti sul mercato, procedure contrattuali attraverso le reti di agenzie preposte, selezione dell’utero e gestazione-consegna del prodotto finale) sono state messe a punto procedure di razionalizzazione del processo produttivo che ottimizzano i risultati finali e allo stesso tempo riducono il disagio dei committenti e i problemi gestionali degli esercenti del commercio. La procreazione, separata dalla sessualità, diventa una techné e il corpo femminile diventa un mezzo di produzione. Uno strumento per questo organizzato e ricco mercato globale della Gestazione per altri.

E non si può non pensare che sia proprio la non accettazione della potenzialità procreatrice del corpo femminile (altro che invidia del pene!) che porta a confondere il desiderio di essere genitore con il diritto di essere genitore, con una compulsione identitaria che ha fatto sostenere ad alcune donne con il pene che la differenza sessuale femminile è discriminatoria nei confronti dei maschi che si percepiscono donne arrivando al paradosso per cui l’impossibilità del corpo maschile di procreare viene considerata una condizione patologica penalizzante da risarcire con il finanziamento mutualistico della surrogazione.

La libreria NeaPolis di Siracusa ha in programma un altro incontro di riflessione e confronto su questioni che riguardano le pratiche politiche femministe, si terrà il prossimo 19 ottobre alle 17,30. Al centro dell’incontro ci sarà il libro Femminismo mon amour, Quaderni di via Dogana 2024, che raccoglie testi di varie autrici e autori. Sarà presente Laura Colombo della Libreria delle donne di Milano.


(La Civetta di Minerva – lacivettapress.it, 1/10/2024)

di Safaa Odah


Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.


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(Erbacce, 29 settembre 2024)

di Paolo Ottolina


Dal 2022 guida la fondazione dietro all’app che, dopo il dietrofront di Telegram, resta ultimo baluardo dell’assolutismo nella privacy. Ex Google, che ha lasciato in modo polemico nel 2019, della sua app dice: «Signal lavora all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso»


Chi è Meredith Whittaker, simbolo della privacy tecnologica che guida Signal

Nostra Signora della privacy ha una laurea in Retorica e Letteratura inglese presa a Berkeley e un ciuffo bianco sui neri capelli ricci. Da quando, nel settembre 2022, Meredith Whittaker è presidente della fondazione che sta dietro l’app Signal, è diventata un faro, l’icona di un’altra visione della tecnologia, in cui l’accesso famelico ai dati degli utenti non sia più un mantra ma un qualcosa da ripudiare o per lo meno da gestire con mille cautele. Ora che anche Pavel Durov, il fondatore di Telegram, sembra aver ceduto alle pressioni, cambiando le policy della sua app e concedendo l’accesso alle autorità (in casi legati a reati), Signal resta l’ultimo porto franco.

Signal è relativamente poco nota tra le app di messaggistica istantanea, ha tra i 100 e i 150 milioni di utenti (non esistono statistiche pubbliche aggiornate), contro il miliardo di Telegram e gli oltre 2 di WhatsApp. L’approccio estremamente rigoroso alla privacy lo ha reso però piuttosto diffuso tra tecnologi, giornalisti, personale politico, stelle dello spettacolo e dello sport. E piace anche a chi vuole discrezione mentre organizza proteste, da Black Lives Matter alle milizie paramilitari degli Oath Keepers.

«Signal, innanzitutto, è un’app creata da un’organizzazione no-profit, la Signal Foundation. È un progetto open source, e dunque il codice sorgente, cioè le istruzioni con cui è programmato, sono visibili a tutti e chiunque abbia delle doti di programmazione può contribuire a svilupparlo. È per questa ragione che Signal non può usare “trucchi”: è un po’ come se ogni dettaglio della sua struttura fosse scritto su una bacheca visibile a tutti» spiega Riccardo Meggiato, esperto di cyber-sicurezza e informatico forense. Poi aggiunge: «Ciò non toglie che la tecnologia crittografica utilizzata da Signal garantisca uno dei più elevati livelli di sicurezza: è “end to end”, quindi solo i partecipanti a uno scambio di messaggi hanno le rispettive chiavi per codificare e decodificare i contenuti scambiati». C’è di più: «Signal inoltre adotta un sistema di “codici di sicurezza”: ogni conversazione è contrassegnata da un codice di sicurezza diverso, visibile ai partecipanti, che ne garantisce l’integrità. Se il numero cambia, vale la pena verificare se uno dei partecipanti ha re-installato l’app, o cambiato telefono. In caso contrario è meglio fare attenzione. C’è poi la possibilità di comunicare solo tramite nome utente, in modo da non condividere alcun numero di telefono». Per queste sue caratteristiche Signal è diventata ormai da qualche tempo l’app d’elezione per chi ha la necessità di comunicare in modo davvero sicuro, al punto che è diventata anche una sorgente di contenuti e comunicazioni illegali. «Per certi versi – conclude Meggiato – Signal è la versione “seria” di ciò che Telegram prometteva di essere e che, in fondo, non è mai stato».

Nata nel 2014 dalla fusione di due progetti open source, RedPhone e TextSecure, a opera di Moxie Marlinspike, un hacker e crittografo americano, è oggi gestita da una fondazione no-profit, la Signal Technology Foundation, che si finanzia esclusivamente attraverso donazioni e sovvenzioni. Un modello che permette di mantenere una totale indipendenza e di non dover rispondere a logiche di pure profitto che spesso confliggono con la tutela della privacy. Mentre WhatsApp, pur utilizzando proprio il protocollo di crittografia di Signal, è di proprietà di Meta (ex Facebook) e raccoglie metadati sulle interazioni degli utenti, Signal adotta una politica “zero-knowledge”: i dati sono crittografati end-to-end e nemmeno i server di Signal possono accedervi. Telegram, invece, non crittografa i messaggi di default e il suo codice non è open source, il che rende impossibile verificarne la sicurezza in modo indipendente.

La carriera di Whittaker

Il percorso professionale di Whittaker è interessante quanto l’app che guida. Per ben tredici anni ha lavorato in Google, vivendo dall’interno l’evoluzione del colosso tech e la sua transizione verso l’intelligenza artificiale (AI), ben prima dell’esplosione del settore con ChatGpt. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente, portandola a guidare proteste interne contro le presunte molestie sessuali sul posto di lavoro e i contratti di Google con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti per lo sviluppo di AI militari. Nel 2019, Whittaker lasciò il colosso americano in modo polemico, per concentrarsi sul combattere «per un’industria tecnologica responsabile», dicendo: «È chiaro che Google non è un posto dove posso continuare questo lavoro». Da allora ha tenuto fede alla sua parola e la sua missione sembra essere diventata il mettere in guardia sui rischi dell’intelligenza artificiale e sulla pericolosa concentrazione di potere nelle mani di poche grandi aziende tecnologiche. Ha co-fondato l’AI Now Institute, con cui Whittaker si batte instancabilmente per indagare le implicazioni etiche e sociali dell’AI sul nostro futuro, partendo dai diritti e dal benessere collettivo. Whittaker non crede agli scenari distopici sull’AI che ci sterminerà. Anzi, invita a smitizzarla, ricordando che non si tratta di magia o di un’entità immateriale, ma di una tecnologia basata su enormi quantità di dati concentrati nelle mani di pochi attori.

E quando, come in un’intervista con Corriere LOGIN dello scorso anno, le vengono citate regolamentazioni come l’AI Act adottato dall’Ue, lei rilancia sempre la palla un po’ più in là: «Non basta limitarsi a contenere i rischi: serve un ripensamento più profondo dei presupposti su cui si basa lo sviluppo dell’AI. Abbiamo bisogno di fermarci un attimo e pensare: che cos’è l’intelligenza artificiale? Non è un qualcosa di immateriale che abbiamo portato in questo mondo: è una tecnologia che si basa su un’enorme quantità di dati concentrati nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti». Da cui nessun volo fantascientifico su futuri alla Terminator (che tanto piacciono a Elon Musk, tra gli altri), ma un grido d’allarme concreto: «Il vero rischio è che l’AI inizi a presentare la realtà misogina e razzista come naturale, illudendoci che le risposte di una macchina siano oggettive. Queste problematiche possono essere evitate almeno in parte assicurandosi che tutti siano correttamente rappresentati nei set di dati che alimentano le AI».

Ecco perché Signal, con la sua crittografia end-to-end e la sua vocazione al no-profit, rappresenta per Whittaker un modello alternativo: «Signal sta lavorando all’interno dell’ecosistema dell’industria tecnologica, contro di esso. Sta cercando di creare qualcosa che interrompa il flusso diretto dei dati».


(Corriere della Sera, 29 settembre 2024)

di Ludovica Augugliaro


Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.


«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.

Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?

Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.

Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.

L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.

Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.

Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.

Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.

Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.

E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.

Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.

Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.

A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.


(www.libreriadelledonne.it, 28 settembre 2024)

di Adriana Cavarero


Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.


(Doppiozero, 28 settembre 2024)

di Pinella Leocata


Vietato a Sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (Castelvecchi editore) è un pamphlet attraverso cui le femministe della differenza vogliono rivendicare la propria storia e le proprie pratiche attaccate e contestate dalle compagne di strada, le transfemministe e le femministe intersezionali, e anche dalle forze di sinistra con cui per anni hanno fatto un importante percorso comune. Uno scontro su temi complessi, delicatissimi e “divisivi” che dieci femministe con storie diverse hanno raccontato a partire da una prospettiva comune, quella della difesa della donna da un pensiero e da un approccio teso a svalutarla negando la centralità del corpo e del sesso e, dunque, della differenza tra maschi e femmine. Un attacco alla dualità sessuale pensato nell’ottica dell’inclusione volta a dare pari dignità e uguaglianza ai gruppi minoritari e messi ai margini, come gay, transessuali, transgender, intersex. In questa prospettiva – sostengono le femministe della differenza – il “gender” viene visto come la via per eliminare alla radice le differenze sessuali considerate fonte di discriminazione. E dire che sono state proprio le femministe le prime a distinguere tra sesso biologico con cui si nasce e genere, cioè il «ruolo sociale, comportamentale ed emotivo che le diverse società attribuiscono ai due sessi».

Daniela Dioguardi, curatrice del pamphlet – a Catania in occasione della presentazione del libro che si è tenuta alla Camera del Lavoro su iniziativa de La Ragna-Tela e Fare Stormo – ha denunciato che chi non è d’accordo su questioni come la gestazione per altri, chi non considera la prostituzione un lavoro come un altro, chi non condivide il blocco farmacologico della pubertà in casi di disforia sessuale, viene accusato di essere reazionario, transfobico e persino fascista, mentre condividere queste idee e pratiche sarebbe espressione di laicità e modernità. Un approccio contro cui le femministe della differenza prendono posizione pubblica rivendicando la centralità del corpo e l’importanza della dimensione universalistica del tutto abbandonata per assumere il «paradigma individualistico diventato dominante nell’economia come nella politica e nell’etica». Paradigma in nome del quale «la concezione della libertà come affermazione positiva dell’integrità della persona viene scambiata con l’idea mercantile della libertà senza vincoli nel disporre di sé sul mercato». Una libertà per cui si pretende di avere diritto alla maternità surrogata che svilisce la complessità della procreazione umana trasformandola in una forma di produzione che riduce la maternità a mera gravidanza, a una sorta di «lavoro da fare svolgere alle operaie della riproduzione». Un’idea di libertà che reputa un diritto la mercificazione del proprio corpo e considera la prostituzione come un normale lavoro sebbene questa sia una delle moderne forme dello sfruttamento e del colonialismo.

«Si rivendica come un diritto l’avere un figlio, scegliere il sesso, prostituirsi», sostiene Silvia Baratella della “Liberia delle donne” che sottolinea come «i diritti ufficiali sono costruiti sul corpo maschile per cui l’eccedenza femminile rimane fuori». «Anche la legislazione di parità, che pure ha rimosso molti ostacoli alla realizzazione delle donne – denuncia – non solo non ha raggiunto del tutto l’obiettivo, ma produce paradossi». Per cui – come ha evidenziato Anna Di Salvo nell’introdurre l’incontro – in nome della bigenitorialità, in caso di separazione per violenza del coniuge, la donna rischia di vedersi togliere i figli accusata di “alienazione parentale”, cioè di istigarli contro il padre che i piccoli non vogliono incontrare per paura. Ancora. Il ministro dell’istruzione Valditara ha previsto “quote blu”, cioè quote maschili, per i posti di presidi, data la prevalenza di donne in questo ruolo. E nell’Emilia rossa l’Udi e un’associazione di lesbiche si sono viste rifiutati i finanziamenti previsti perché non hanno maschi tra i soci. Un approccio, questo, che – in nome di quello che viene definito progresso e modernità – anche la Sinistra ha fatto proprio. Di qui il titolo provocatorio del libro “Vietato a Sinistra”.

La volontà di cancellazione della donna – ha denunciato la femminista e deputata Avs Luana Zanella – passa anche dall’uso del linguaggio: dal ricorso al neutro, lo schwa, e dall’uso dell’espressione “violenza di genere” anziché violenza maschile contro le donne, e dalla perifrasi “persona con utero” per indicare la donna. È di questi giorni il manifesto di “Non una di meno” dove si legge che «il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco». «Per essere inclusive bastava dire: il diritto all’aborto è sotto attacco, perché ad abortire sono le donne».

Temi su cui si sono consumate rotture di relazioni politiche e amicali e persino l’interruzione di ogni forma di dialogo. Eppure è da qui, dal confronto, che bisogna ripartire per una politica condivisa delle forze di sinistra.


(La Sicilia, 28 settembre 2024)

di Franca Fortunato


L’iraniana Narges Mohammadi, Premio Nobel per la pace 2023, attivista per i diritti umani e contro la pena di morte e la tortura, in occasione della 79esima Assemblea generale dell’Onu in corso a New York, ha fatto pervenire al segretario generale Guterres e a tutti i membri dell’Assemblea un appello dal carcere di Evin (Teheran) dove sta scontando una condanna a dodici anni e undici mesi. «Sono trascorsi due anni dalla nascita del movimento “Donna Vita Libertà” – scrive – che ha attraversato tutto l’Iran […]. Il prezzo pagato per aver aderito a questa sollevazione collettiva e per aver mostrato solidarietà al popolo unito […] è stata una repressione che continua ancora oggi. Il mondo è testimone di uccisioni, esecuzioni, incarcerazioni e di una violenta e spietata repressione delle donne nelle strade, nei centri di detenzione e nelle prigioni. In questi giorni […] assistiamo alle sentenze di condanna a morte emessa dal regime contro donne attiviste come Pakhshan Aziz e Sharifeh Mohammadi», a tutti chiede di «agire con urgenza e determinazione […] per fermare le selvagge esecuzioni di massa dei prigionieri, liberare tutti i prigionieri politici e fermare la repressione delle donne e di tutte le istituzioni civili». I muri della prigione non hanno mai impedito a Narges Mohammadi di far sentire la sua voce. Oggi è in carcere anche per aver scritto un libro, Più ci chiudono più diventiamo forti. Voci di donne iraniane in lotta per la libertà, da poco tradotto in italiano e pubblicato da Mondadori. Il libro, per cui è stata accusata «di aver infangato il nome dell’Iran in tutto il mondo», raccoglie interviste a dodici detenute, sue “compagne” di prigione. Dodici detenute che raccontano, documentano, discutono con lei sulle condizioni disumane del carcere, e in particolare su una forma specifica di tortura, la “tortura bianca”, usata in tutte le carceri iraniane e anche contro di loro: la detenzione in isolamento con deprivazione sensoriale portata alle estreme conseguenze. Quello che viene fuori dai loro racconti sono storie dolorose di donne che solidarizzano tra loro, non si piegano al carnefice, alla repressione, alle botte, agli insulti, alle minacce e intimidazioni ma restano fedeli a se stesse e ai loro ideali politici e religiosi per cui sono in carcere. «A tenermi in piedi – scrive Narges in un appello consegnato in carcere alla madre Ozza Bazargan – in questa prigione, mentre il mio corpo è ferito e contuso, sono l’amore per il popolo onesto ma tormentato di questo paese e i miei ideali di giustizia e libertà». Donne che fanno scioperi della fame per protestare per le loro condizioni carcerarie o per “commemorare” i morti della repressione seguita alle manifestazioni per la morte di Mahsa Amini e «dimostrare vicinanza alle famiglie». Per punirla le viene negata la possibilità di parlare al telefono con la figlia Kiana e il figlio Ali, che vivono in Francia col padre Tahi Rahmani, giornalista progressista che ha lasciato l’Iran dopo essere stato arrestato e incarcerato per un totale di quattordici anni. Narges Mohammadi è una giovane donna, nata il 21 aprile 1972, laureata in fisica, e sin dall’università si batteva per i diritti umani e la giustizia sociale. Durante quegli anni – come racconta nel libro – ha subito i primi due arresti e da allora è stato un entrare e uscire dal carcere «per aver agito contro la sicurezza nazionale, per l’appartenenza al Centro dei difensori dei diritti umani, per propaganda contro il regime». Ma lei è una donna indomita. «Non smetterò mai di lottare affinché i diritti umani e la giustizia trionfino nel mio paese». Per quella lotta lei è in carcere e continuerà a fare sentire al mondo la sua voce.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”, 28 settembre 2024)

di Marta Ragozzino


Alla Libreria delle donne di Milano si possono trovare tutte le edizioni originali (i “libretti verdi”) delle opere di Carla Lonzi e degli scritti di Rivolta Femminile.

La redazione


«Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente». Con queste perentorie parole si chiude Sputiamo su Hegel, forse il più noto scritto di Carla Lonzi (1931-1982), storica e critica d’arte assai acuta, poi filosofa femminista radicale, il cui pensiero non convenzionale è all’origine del femminismo della differenza sessuale. Annarosa Buttarelli, nel suo recente Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Milano, Feltrinelli 2024, un breve ma denso profilo intellettuale e politico, pubblicato nella collana Eredi a cura di Massimo Recalcati, scrive che il rivoluzionario testo, stampato nell’estate del 1970, rappresenta per la sua autrice «il primo pericoloso passaggio – in pubblico – verso la liberazione». Proprio quell’estate, Lonzi aveva fondato, con la pittrice Carla Accardi e la giornalista e attivista Elvira Banotti, il movimento Rivolta femminile, il cui manifesto in sessanta punti aveva tappezzato i muri di Roma e poi di Milano. Liberarsi dall’hegeliano rapporto servo-padrone, riportato alla millenaria oppressione della donna da parte del patriarcato, è uno dei nodi della filosofia della trasformazione di Lonzi che, attraverso autocoscienza, deculturazione e rivolta femminile, voleva letteralmente «sputare Hegel fuori da sé», e fuori dalle altre donne trasformate. «La donna così com’è è un individuo completo», scriveva Lonzi, «la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».

Parole chiare, e forse scomode, soprattutto allora, che hanno distinto un pensiero filosofico d’avanguardia, molto amato e negli anni costantemente approfondito. 

Non pochi sono stati infatti i contributi di studiose femministe, storiche dell’arte, critiche o filosofe, prevalentemente donne, che hanno affrontato l’opera mirabile (e ineludibile) di Lonzi, avvicinandola dal lato filosofico o da quello della critica d’arte. Dalle prime ricerche sul femminismo di Maria Luisa Boccia negli anni ’90 (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano 1990), fino ad arrivare, appunto, a quelle attuali di Buttarelli, secondo la quale Lonzi è la pensatrice femminista più amata al mondo. Certamente è impossibile immaginare la storia del femminismo in Italia senza di lei. 

Su questo non si può non concordare, al di là delle specifiche passioni, o appropriazioni, scatenate da un pensiero filosofico tanto originale e al contempo rigoroso e concreto, che accende l’interesse anche delle nuove generazioni di giovani irriducibili, che oggi rifiutano ogni forma di patriarcato e pretendono confidenza con le parole e le forme più feconde del femminismo del passato. Anche per questo, forse, si stanno ripubblicando le preziose opere, ciclicamente irreperibili, della prima e della seconda Lonzi, la critica d’arte e la filosofa femminista, grazie all’iniziativa della casa editrice La Tartaruga (con la supervisione e cura proprio di Buttarelli), che segue il precedente sforzo di Sandro D’Alessandro e della sua Et al./edizioni, che aveva già riproposto, tra 2010 e 2011, diversi titoli dell’autrice, di nuovo esauriti in tutte le edizioni (o con prezzi alle stelle su e-bay).

Io sono stata fortunata, ho ritrovato in casa la prima edizione di Sputiamo su Hegel, quel piccolo libretto con la copertina verde degli Scritti di Rivolta femminile, la casa editrice fondata da Lonzi, testimonianza aurorale del femminismo di mia madre, Grazia Centola, che poi la intervistò nel 1981 per “Quotidiano donna”, il suo giornale. Proprio quel «sottile libretto verde» che, scriveva mia madre, «ha aperto a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano». Molto lontano. Attraverso una profonda irrinunciabile trasformazione del modo di pensare e di essere delle donne, della cultura borghese dalla quale spesso provenivano, del marxismo e del loro stesso fare politica, anche attivamente, nei partiti o gruppi della sinistra, della psicanalisi, della famiglia e semmai dei figli, dei rapporti uomo-donna, ma anche tra donne, del proprio corpo, dei desideri, della sessualità. 

La conversazione, intitolata “Con il problema dell’uomo alle spalle”, verteva sull’ultimo libro di Lonzi, intitolato Vai pure, allora da poco pubblicato sempre da Scritti di Rivolta femminile, spregiudicata analisi a due voci del rapporto di coppia che, nei diciassette anni precedenti, aveva legato Lonzi allo scultore Pietro Consagra, al quale, alla fine del lungo dialogo registrato con il magnetofono (che è anche, di nuovo, un discorso sull’arte e nell’arte e soprattutto sul potere, oltre che il “verbale di un fallimento spaventoso”), Carla appunto dice “vai pure”. «E dopo, dopo cosa succede?», chiedeva mia madre, «Non voglio sapere come finirà, perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non sarà più congeniale per me riprendere il cammino da sola per una esplorazione finale della mia vita». 

Era un discorso lungimirante, benché animato, ora capisco, da un profondo rovello. Ma purtroppo, fatta ancora una volta tabula rasa, non ci fu più tempo, Lonzi, che era stata male negli anni Sessanta, si ammalò di nuovo e morì, a Milano, l’anno successivo, con Consagra al suo fianco. 

La nuova collana promossa dalla casa editrice fondata nel 1975 da Laura Lepetit, che fu molto vicina a Lonzi e alle sue compagne nei primi anni Settanta, oggi della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi e diretta da Claudia Durastanti, è stata aperta, l’estate scorsa, proprio dal volume Sputiamo su Hegel e altri scritti, che raccoglie i primi scritti femministi di Lonzi, pubblicati nei “libretti verdi” e poi stampati in unico volume nella medesima collana nel 1974. Quello del 1970 che dà il fulminante titolo all’intero libro, il successivo e forse ancor più radicale La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971, anch’esso dotato di un titolo “scomodo” che subito infranse un tabù e un modo di essere, distinguendo due categorie femminili e privilegiando la donna clitoridea, svincolata e liberata anche dagli schemi sessuali imposti dal patriarcato (e non dalla fisiologia, spiega l’autrice con tanto di illustrazioni). Raccolti insieme ad altri scritti di Rivolta femminile, tra cui naturalmente il Manifesto del gruppo, che apre il volume ed è una chiarissima e “lapidaria” dichiarazione di intenti, che si conclude con il famoso «Comunichiamo solo con donne».

La nuova edizione ha una copertina assai bella, che chissà se le ribelli separatiste di Rivolta femminile avrebbero approvato. Si tratta di Violarosso, un quadro del 1963 proprio di Accardi, con i classici segni dell’artista, ormai sottili e quasi grafici, che compongono una specie di calligrafia-pattern. Tra i segni di Accardi, che si ripetono su un fondo di colore uniforme (che nella stampa risulta fucsia ma in verità è viola), alla ricerca di un potente effetto luminoso che Gillo Dorfles chiamò “brillanza”, ve ne è anche uno che, un poco dilatato, diventerà poi il logo di Rivolta femminile. Anche per questo, efficace il progetto grafico, accattivanti i colori, significativa l’opera scelta, esposta tra l’altro nella grande retrospettiva dedicata nel 2024 ad Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, forte il messaggio che passa, anche nella specialissima relazione tra le due Carle, molto legate negli anni precedenti il 1970 e destinate ad allontanarsi un po’ bruscamente nel 1973. «Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo fare l’artista, non la femminista», confida Accardi ad Anne-Marie Sauzeau, anche lei critica, femminista e compagna di vita di artista (Alighiero Boetti), in uno scritto su Lonzi di qualche anno fa. Anche perché Accardi funge, in un certo senso, da trait d’union tra i due periodi, la critica e il femminismo, e tra i due primi libri editi da La Tartaruga. 

Il secondo è infatti Autoritratto, il capolavoro di Lonzi critica d’arte, che dialoga con 14 importanti artisti del suo tempo, registrando le conversazioni (raccolte tra 1965 e 1969) e ricomponendole poi, «in modo da riprodurre una specie di convivio, reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo», con un montaggio coraggioso e poetico, quasi una ricerca sulla lingua oltre che sui linguaggi dell’arte. Lonzi è insofferente, cerca una critica orizzontale, paritetica, rifugge il rapporto di potere che si cela nell’atto critico, ma partecipa al dialogo come una di loro.

Il volume, rieditato nei mesi scorsi sempre per la cura di Buttarelli, che anche in questo caso sceglie di non premettere un saggio introduttivo è un «libro fondamentale per come si scrive d’arte ma è anche il preambolo della pratica dell’ascolto che rivoluzionerà il femminismo di Carla Lonzi».

Naturalmente Accardi è compresa, unica donna, tra gli artisti protagonisti del famoso convivio (gli altri sono Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato e, in assenza, Twombly), apice di un sodalizio «largamente comunicativo e umanamente soddisfacente», come lei stessa scrisse. Pubblicato nel 1969 da De Donato, con in copertina un Concetto spaziale di Fontana, il più anziano e famoso tra gli artisti coinvolti, forse non approvato dall’autrice, che aveva scelto con cura il resto dell’apparato iconografico del volume, composto prevalentemente da piccole fotografie molto private e intime, sue e degli artisti che colloquiano con lei, Autoritratto è un’opera fondamentale nella storia della critica d’arte italiana per metodo e contenuti. Un’opera preziosa per comprendere le vicende della cultura non solo artistica di quegli anni, con la quale di colpo si chiude la vicenda critica di Lonzi, e si apre quella filosofica e femminista.

A ben vedere, impossibile immaginare non solo la storia del femminismo ma anche quella della critica d’arte senza di lei che, dopo aver rotto ogni schema in quel campo, fu capace all’improvviso di lasciare tutto, scegliendo la strada filosofico-politica, la strada dell’autocoscienza, del separatismo, e della concreta trasformazione, come ricorda Buttarelli nel suo libro.

Lei, che era stata l’allieva più promettente di Roberto Longhi, padre-patriarca della critica d’arte italiana, lei che era stata una delle «menti più lucide della generazione critica che aveva attraversato gli anni sessanta», come scrive Laura Iamurri nel suo volume su Lonzi e l’arte in Italia, descrivendone anche, sulla base delle fonti, i precedenti anni di formazione.

Ma nulla, forse, fu davvero improvviso, bensì inesorabilmente consequenziale e connesso al problema del potere (lo approfondiscono sia Iamurri che Giovanna Zapperi). L’arte, per Lonzi, non poteva farsi vettore di quelle forme liberatorie di costruzione del sé e di formazione dei legami, sulle quali stava lavorando dai primi anni sessanta, anche con Accardi, l’arte alla fine è maschile, e lei si allontana anche dagli artisti.

Non era facile, non era scontato, c’era stato anche il Sessantotto. Si apriva un decennio nuovo: di lotte, conflitti, tensioni, violenza, e anche di nuovi linguaggi creativi, nuove parole chiave, nuovo femminismo, nuove priorità, tra cui liberarsi da ogni forma di oppressione. Ma Lonzi quella vita vissuta a fianco degli artisti in difesa dell’autonomia della creazione, e della creatività, libera infine anche dal potere della critica, l’aveva lasciata: aveva scelto il femminismo, l’“uscita allo scoperto”, come lei stessa dice, lo sdegno per quella cultura maschile millenaria e misogina che aveva imposto l’inferiorità della donna.

Con Rivolta femminile aveva dimostrato di «saper andare via da dove una donna non può stare», come scrive Buttarelli, in un libro che non è esattamente una biografia e nemmeno un’esegesi, bensì si pone in risonanza con Lonzi, in un attraversamento dell’inesausta vitalità del suo pensiero, lungo un percorso scandito da capitoli che toccano in maniera non cronologica i principali scritti del periodo femminista, rileggendoli per similitudini e confronti e fornendo chiavi e spunti di riflessione, più che di interpretazione, sempre interni al corpo a corpo con il pensiero e l’opera dell’autrice.

Lonzi oggi si studia in tutto il mondo, non so dire se più come filosofa femminista che come critica.

Ma, a conti fatti, forse non furono veramente due vite e due Carle, anche se così parve, e in questi termini, quasi contrapposti, Lonzi era stata letta negli anni.

Un prima e un dopo, con il giro di boa del decennio più lungo del secolo breve a fare da discrimine. 

Due ambiti di ricerca e pratica separati, quasi che questo iato tra un prima e un dopo, questo farsi lei stessa, come scrive, tabula rasa, in un pensiero/azione assolutamente identificato con la vita, fosse irriducibile. Difficile, seppur utile, interpretare però. Buttarelli, che vuol far «far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé» invece un poco lo considera un tradimento. Del resto, Lonzi scrive nel suo Taci anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978 da Rivolta femminile, «Quando un altro mi spiega una cosa mia, mi interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza perché io lo accetti». Dunque Lonzi rifugge dall’interpretazione e non vuole lasciare alcuna eredità? O forse, come scrive Buttarelli, che molto si rivolge al monumentale diario, la sua è una eredità senza testamento «di cui non ci si può appropriare ma si può abbracciare»? Scritti trasformativi che cambiano la vita, li definisce la filosofa che ha avuto, dal 2017, la responsabilità scientifica del Fondo Carla Lonzi, per qualche anno depositato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per volontà del figlio Battista Lena e sensibilità dell’allora direttrice Cristiana Collu. Partì allora una meritoria attività di catalogazione e digitalizzazione dei documenti, preziosa per le studiose e gli studiosi di ambo i fronti, il femminismo e la critica d’arte. In questi ultimi mesi, tra grandi polemiche, il comodato è stato sospeso, per la visione diversa della nuova direttrice, e il Fondo sta cercando un’altra casa. Di sua iniziativa, mia nipote ventenne ha rintracciato online, digitalizzate, le minute delle lettere di Carla a mia madre, sua nonna, in occasione di quella intervista. Conferma del fatto che Lonzi interessa ancora alle più giovani.

Grazie alla sua visione e al suo pensiero, che tocca temi e nodi nuovamente attualissimi, Lonzi ha potuto cambiare «il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità e dei loro desideri». Rimbombano nelle orecchie le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto […] ora serve una sorta di rivoluzione culturale».

In particolare la lotta al patriarcato e la liberazione dai ruoli, anche sessuali, imposti da una cultura misogina pervasiva, che si annida anche nelle rivendicazioni egalitarie contro le quali Lonzi e le altre allora insorgevano «L’uguaglianza tra i sessi è la veste con cui si maschera oggi l’inferiorità della donna». Affermazioni che colpiscono con chiarezza e senza mediazioni, «Non vogliamo tra noi e il mondo nessuno schermo». Anche per questo, forse, il Manifesto e gli scritti di Lonzi possono avere ancora oggi un effetto dirompente sulle ragazze che vivono un femminismo diverso, intersezionale e connesso alle rivendicazioni di genere.

Ma non era questo il suo obiettivo. Lonzi non è mai diventata una maestra. Non era nella sua rivolta. Lei aveva decostruito, decolonizzato, deculturalizzato, utilizzando autocoscienza e separatismo per smontare, con autenticità, in primo luogo la sua vita e la sua cultura, tabù e pregiudizi, stereotipi e ruoli, ma non per essere una maestra del pensiero.

Del resto non voleva lasciare un’eredità, come suggerisce Buttarelli, ma piuttosto scrollarsi di dosso ogni incrostazione, ogni retaggio e vincolo di una cultura di sopraffazione millenaria, rifiutata con un taglio netto.

Ci vuole un grande coraggio per fare questo vuoto. Buttarelli è sincera, rivela di essere diventata “lonziana” da giovane, di aver avuto una vera e propria conversione nel 1974: «da quel momento ho iniziato a essere una donna».

E in questa decostruzione, in questo svuotamento quasi artaudiano, Buttarelli parla anche del vuoto dello zen e delle mistiche contemporanee, come Teresa di Lisieux, che Lonzi avrebbe scelto come riferimento morale, per comprendere l’abbandono di parti di sé e di posizioni, fuori da qualunque compromesso, verso un’autenticità inesorabile, come prima di lei per esempio Cristina Campo, Lonzi si consuma, pur non essendo una mistica.

La nuova edizione di Autoritratto porta in copertina una fotografia di Teresa di Lisieux nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, durante una mise en scène al convento del Carmelo. Durastanti scrive che era desiderio dell’autrice “accompagnare” il suo libro proprio con questa fotografia, o forse con un particolare, come il primissimo piano del volto della santa mistica, diventato un’opera di Giulio Paolini proprio nel 1969. Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione, omaggio all’amica Carla, che all’epoca «nutriva un particolare interesse per la figura di Teresa di Lisieux».


(Doppiozero, 27 settembre 2024)

di Valentina Pazé


Di che cosa parliamo quando parliamo di maternità surrogata? Oggi tutti si esprimono sull’argomento, con piglio sicuro e toni ultimativi, in un clima politico fortemente ideologizzato e inquinato da confusioni, ambiguità, malintesi, primo fra tutti quello derivante dall’indebita sovrapposizione di questo tema con quello dei diritti delle coppie omosessuali. Può allora essere utile ripartire dall’inizio e provare a fissare alcuni punti fermi.

La surrogazione di maternità, o gestazione per altri (di qui in poi, per comodità, anche Gpa), è una pratica che consente di scomporre il processo procreativo in varie fasi, affidandole a soggetti diversi. Il modello oggi di gran lunga prevalente prevede che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna (diversa dalla prima) si offra per ospitare nel proprio utero gli embrioni (spesso più di uno) creati in laboratorio attraverso le tecniche della fecondazione in vitro. Ne risulterà una gravidanza particolarmente impegnativa per la gestante, tenuta ad assumere ormoni prima e dopo l’impianto ed esposta al rischio di complicanze, aborti spontanei, depressione post-partum superiore alla media. Non proprio una gravidanza fisiologica, dunque, nonostante si senta talvolta parlare della Gpa come di una pratica “vecchia come il mondo”, di cui si troverebbe traccia già nella Genesi, dove Agar (una schiava!) dà un figlio ad Abramo…

Quando parliamo di maternità surrogata ci riferiamo, inoltre, a un rapporto giuridico, mediato da un contratto tra soggetti privati, che richiede talvolta di essere convalidato dall’autorità giudiziaria. A sottoscrivere l’accordo c’è, da un lato, la donna che si impegna a portare avanti la gravidanza, rinunciando a rivendicare qualsiasi legame con il bambino che ha partorito. La chiamerò, di qui in poi, “madre naturale” o “madre surrogata”. Non “portatrice”, come si usa anche fare, perché è termine asettico che banalizza in modo davvero inaccettabile l’esperienza della gravidanza, nel corso della quale la madre ha scambi biologici ed emozionali con il feto, comprovati dall’epigenetica. Dall’altro lato ci sono i singoli o le coppie infertili che alla donna si rivolgono per superare la loro impossibilità di generare. Li chiamerò, di qui in avanti, “committenti” o “genitori intenzionali” (le formule più frequentemente usate nei testi legislativi, là dove la Gpa è legale).

Ciò che mi sembra importante evidenziare è che stiamo parlando di un accordo che intercorre tra persone che prima di essere state messe in contatto da un’agenzia non si conoscevano. Questo è il caso tipico, per lo meno. Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella, un’amica o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà ci sono tutta una serie di altri soggetti attorno alle parti che siglano il contratto: agenzie incaricate di fare incontrare la domanda e l’offerta (e di provvedere alla necessaria “formazione” della surrogata), cliniche, avvocati, psicologi. Un indotto dalle ricadute economiche non indifferenti, che contribuisce a dare un’idea degli interessi in gioco, anche là dove la Gpa sia ammessa esclusivamente nella forma “altruistica”.

Quello della donna che si offre di soccorrere una sorella o un amico gay si presenta (quasi) solo nei film. Nella realtà si tratta di un rapporto giuridico mediato da un contratto tra soggetti privati.

Ecco un ulteriore punto da chiarire, forse il più delicato e controverso dell’intera faccenda. Oggi normalmente si distinguono due versioni di Gpa: commerciale e altruistica. Nel primo caso la donna che sottoscrive il contratto viene remunerata per il suo “lavoro”, nel secondo riceve un “rimborso spese”. Nella realtà, distinguere tra queste due forme di compenso è molto difficile. Daniela Danna, una delle massime esperte italiane sul tema, non ha dubbi:

“La differenza tra Gpa altruistica e Gpa commerciale […] non esiste. Le donne, tranne rarissime eccezioni nell’ambito di relazioni strette già esistenti – non si prestano a portare a termine una gravidanza per altri se non ricevono un compenso, in alcuni paesi ufficialmente sottoposto a un tetto (facile da aggirare)” (“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, p. 6).

Distinguere tra remunerazione e rimborso è arduo non solo per la facilità con cui i controlli possono essere aggirati, ma perché il rimborso tipicamente non copre solo le spese mediche o gli abiti pre-maman, ma anche i “mancati guadagni” di donne che, al momento della stipula del contratto, possono essere disoccupate o lavoratrici precarie.

Più in generale, distinguere tra “lavoro” e “dono”, in questo campo, non è semplice. In tutti i casi, lo abbiamo visto, esiste un contratto, che vincola la gestante a tutta una serie di obblighi (stile di vita salubre, accertamenti medici, assistenza psicologica), limitandone la libertà, per non parlare della privacy. In alcuni casi i contratti prevedono che la stessa decisione di abortire, o non abortire (quando siano consigliabili interventi di “riduzione embrionale”) non sia pienamente nella disponibilità della donna, tenuta a risarcire i genitori intenzionali in caso di scelte a loro sgradite.

Esiste poi, soprattutto, l’obbligo di consegnare il neonato a coloro che lo hanno “commissionato”. Su questo punto è bene essere chiari. Si favoleggia, talvolta, di Paesi che riconoscerebbero alla donna il diritto di cambiare idea, nel caso in cui l’esperienza della gravidanza e del parto faccia sorgere in lei il desiderio di non interrompere la relazione con il suo bambino. La realtà è diversa. In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di Paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali. Non diversamente dispone il progetto di legge elaborato dall’associazione Coscioni, depositato in parlamento durante la scorsa legislatura: in caso di controversie tra committenti e madre naturale deciderà un giudice, “adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un tribunale. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del minore ad essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai genitori intenzionali. Solidarietà obbligatoria? Altruismo forzato? Dono esigibile per via giudiziaria? È chiaro che la presenza di un accordo giuridicamente vincolante e formalmente coercibile cozza con l’idea di un gesto gratuito e ispirato a generosità…

In nessun luogo in cui la Gpa è legale viene riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola: l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure dei genitori intenzionali.

Ma perché, allora, è così facile imbattersi in testimonianze di madri surrogate che dichiarano di avere agito per amore, e non per soldi? (per farsi un’idea, si veda il volume di S. Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri, Fandango, 2017). A me sembra che si debba riflettere per lo meno su due aspetti. Per un verso – l’abbiamo visto – non dobbiamo pensare alla Gpa come a una relazione che riguarda esclusivamente una donna e una coppia infertile, ma tenere presente ciò che si muove dietro di loro: le agenzie, le cliniche, gli studi legali, gli psicologi… Il fatto che una surrogata non sia (ufficialmente) pagata, insomma, non implica che attorno a lei non esista un mercato. E dove c’è mercato c’è marketing; ci sono le donne che fanno da testimonial per le agenzie e sono tenute a restituire una certa immagine dell’attività in cui sono state coinvolte. Ma c’è poi, forse, anche una spiegazione più banale dietro al grande bisogno di alcune madri surrogate, e di coloro che ad esse si rivolgono, di raccontare – e raccontarsi – la Gpa in termini diversi da uno scambio commerciale: il fatto che, osservata dall’esterno, assomiglia un po’ troppo alla compravendita di un bambino. Qualcosa che perfino nell’epoca del neo-liberismo trionfante risulta difficile da accettare…

Su questo aspetto vale la pena di interrogarsi. Che cosa vendono, o “regalano”, le surrogate? Un bambino? O piuttosto un servizio, una prestazione, per quanto molto particolare e irriducibile a qualsiasi altra, perché consistente nella messa al mondo di un essere umano? Al di là della difficile risposta a questo quesito, una delle ragioni per cui dovrebbe essere a mio avviso mantenuto il divieto della Gpa ha a che fare con il rischio che l’esperienza sempre singolare e concreta della gravidanza venga banalizzata e ridotta a mera fabbricazione di un “prodotto” da offrire a chi ne faccia richiesta.

L’altra ragione, su cui mi sono soffermata maggiormente altrove (Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato, Bollati Boringheri, 2023) rinvia alla libertà delle donne di autodeterminarsi, che non va confusa con l’autonomia negoziale e va difesa anche contro le pressioni del mercato.

Il fatto che i bambini siano persone, e non oggetti, se per un verso giustifica il divieto di istituzionalizzare una pratica che li priva programmaticamente della relazione con colei che li ha messi al mondo, per altro verso induce a criticare proposte di legge punitive come quella presentata in Parlamento dalle destre, che, facendo della Gpa un “reato universale”, avrebbe ricadute deleterie sui bambini già nati attraverso tale pratica. Se i bambini sono persone, se i loro bisogni devono essere messi al primo posto, non si possono fare pagare a loro le colpe degli adulti che, per averli, hanno fatto ricorso alla Gpa nei Paesi in cui è legalmente riconosciuta. “Colpe”, peraltro, originate da un desiderio di genitorialità comprensibile, che non va criminalizzato. Non si tratta qui di inasprire le pene e rendere la vita difficile ai trasgressori. Si tratta di fare una battaglia culturale sul significato della Gpa, che non può essere considerata una semplice tecnica di riproduzione assistita. E chiedersi se il desiderio di avere bambini, di accudirli e amarli non possa essere soddisfatto attraverso forme di genitorialità diverse da quella biologica, basate sull’adozione e sull’affido (da aprire anche alle coppie omosessuali). E forse anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per esprimersi.


(Il Mulino.it, 6 giugno 2023)