Questa lettera è nata da donne che sono in relazione politica nella rete Dichiariamo


Cara Elly Schlein,

siamo femministe di varie età e con diverse storie politiche e abbiamo visto con piacere la tua elezione alla segreteria del Partito Democratico, per la valenza storica di questo fatto e perché tu sei una donna giovane che ha in mente di cambiare; la tua proposta ha intercettato speranze di scelte migliori per la collettività e ne ha suscitate, ti auguriamo di saperle custodire e non sciuparle.

Ti scriviamo a proposito del dibattito in corso sui bambini nati da surrogazione di maternità per comunicarti le nostre preoccupazioni, su cui desideriamo avviare un confronto con te.

  1. Ci sono persone che programmano di aggirare la legge italiana che vieta la surrogazione di maternità commissionandola all’estero, confidando che al ritorno potranno invocare il superiore interesse del/la minore e ottenere la regolarizzazione.

Queste persone pretendono la trascrizione automatica in Italia dei certificati di nascita formati all’estero e rifiutano come discriminazione la procedura dell’adozione in casi speciali da parte del partner del genitore. E questo nonostante l’adozione in casi speciali a seguito della sentenza n. 79 del 2022 della Corte costituzionale garantisca ormai all’adottata o all’adottato lo stato di figlia/o dell’adottante, realizzando il pieno inserimento nel suo ambiente familiare (cioè i legami di parentela dell’adottante si estendono all’adottata/o, i genitori ne diventano legalmente nonni, fratelli e sorelle ne diventano zii e zie e così via).

I partiti di sinistra sono il riferimento della lotta alle discriminazioni e hanno raccolto il tema, ma senza adeguata considerazione di tutte le implicazioni, secondo noi.

  1. Chi nasce da surrogazione di maternità è privato delle cure materne e non viene allattato ma subito consegnato ai committenti perché si vuole spezzare l’attaccamento che già sussiste con la puerpera, a prescindere dal legame genetico. Questo è un danno. Crescendo gli sarà negato di conoscere la sua origine materna, deliberatamente scomposta tra produttrice di ovulo ignota e gestante, che non sarà sufficiente vedere talvolta su skype. Questo è un altro danno.

Si tratta di danni programmati, non di vicende sfortunate.

  1. La donna che si presta alla surrogazione di maternità mette a rischio la sua salute fisica e mentale, perché deve condurre la gravidanza di un feto a lei estraneo geneticamente, con manovre impattanti e intrusive per sostituire la sua fisiologia a vantaggio della gravidanza per altri; e deve operare una scissione tra sé e sé per non sentire come proprio ciò che accade al suo corpo, cioè deve approdare a uno stato psicologico che nelle gravidanze comuni è patologico.
  2. La donna che cede i suoi ovociti si sottopone a stimolazione ovarica per una iperproduzione di gameti, metodica che comporta rischi per la sua salute.
  3. All’argomento secondo cui ogni persona adulta ha facoltà di scegliere i rischi da correre per arrivare a un suo obiettivo, opponiamo che l’obiettivo da raggiungere non è di colei che rischia ma dei committenti, e che lei ha solo bisogno di denaro.
  4. Non concordiamo con la visione meccanica della donna, dal corpo disgregato in pezzi e separato dalla personalità. Non concordiamo neppure con lo spacchettamento della ratio delle norme: nel dibattito attuale molti ripetono che non è in discussione la legittimità della surrogazione di maternità ma solo la doppia filiazione a tutela dei nati. Ma si tratta di nati da surrogazione! Si dice anche che non è in discussione il diritto alla genitorialità. Ma ciò che si chiede è di trascrivere la genitorialità intenzionale come se fosse quella naturale! In gioco secondo noi ci sono proprio la legittimità della surrogazione di maternità e il diritto alla genitorialità, entrambi contestabili invece.

La Convenzione di Oviedo del Consiglio di Europa all’articolo 21 dispone il «Divieto del profitto – Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto».

La Corte di Cassazione nella sentenza 38162/2022 pubblicata il 30/12/2022 dichiara che «nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialità, le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identità nella società».

Ancora prima del rinvio ai codici, è il senso umano dell’inviolabilità delle persone a ribellarsi contro la riduzione delle donne a materie prime e della prole a ordinativo. L’inviolabilità della donna e l’inviolabilità del/la neonata/o è l’inviolabilità di tutti, senza la quale non c’è differenza tra persone e cose.

Per questo ti scriviamo. Nella surrogazione di maternità la donna si consegna alla committenza e non può decidere neppure se interrompere la gravidanza o quali farmaci assumere. La surrogazione di maternità si fonda su premesse (il contratto e la riduzione della donna a contenitore di materiale biologico altrui) che, se accettate collettivamente, mettono a rischio la possibilità per ogni donna di decidere liberamente su questioni riproduttive e rappresentano la base filosofica per ogni recriminazione degli uomini sui figli in senso proprietario. Siamo femministe, quindi non ammettiamo un contratto che implica la rinuncia di una donna al controllo sul proprio corpo. Inoltre, usando le parole di Stefano Rodotà, aborriamo che i ricchi comprino la vita dei poveri, come ci aspettiamo che lo aborrisca chiunque si collochi politicamente a sinistra.

Chiediamo a te che guidi il principale partito dell’opposizione di prendere una posizione netta contro la surrogazione di maternità e non consentire che si faccia propaganda tramite i bambini a favore dell’uso coloniale e classista della fisiologia degli esseri umani. Non lasciare questo tema alla destra, che lo distorce per piegarlo a un progetto di riaffermazione della famiglia tradizionale istituzionalizzata e obbligatoria, e non lasciare che la sinistra diventi complice di nuove forme di sfruttamento dell’umano. Ti chiediamo anche di proporre sistemi che disincentivino il ricorso alla surrogazione di maternità all’estero.

I bambini e le bambine nate da surrogazione di maternità hanno adeguata protezione dall’adozione in casi speciali. L’infanzia abbandonata, d’altro canto, dovrebbe trovare accoglienza presso aspiranti genitori singoli o in coppie anche dello stesso sesso e auspichiamo una riforma in questo senso.

Per ultimo ti diciamo che alle femministe come noi, dissidenti dal pensiero unico, è difficile esprimersi in contesti pubblici, perché ci sono vessazioni organizzate, campagne di diffamazione, convenzioni ad escludere dalla discussione. Come ha detto Rosa Luxemburg, «la libertà è sempre la libertà di chi pensa diversamente». Hai parlato tante volte delle idee plurali che devono animare l’alternativa. Ti chiediamo un segnale contro la censura, un incontro a più voci su questi temi sarebbe una svolta promettente.


(Dichiariamo, 12 aprile 2023)

di Giorgia Basch


Il costo della realizzazione del sé è stata la mia grande sfida degli ultimi anni. Il valore la grande scoperta, che non sarebbe stata possibile senza le pratiche femministe acquisite attraverso le relazioni, gli scambi, l’amicizia alla Libreria delle donne e nel mondo.

Le pratiche non si studiano ma, come ci dice l’etimologia stessa della parola, si imparano facendo. Esercizio, conoscenza: le pratiche sono “una modalità di azione – un insieme di modi di fare o reagire per accumulare esperienza” come scrive la compositrice Pauline Oliveros in una sua riflessione a proposito del Quantum Listening.[1] Il senso delle pratiche e la loro ricchezza per me sta in questo: stare nel processo che è già trasformazione. Il rapporto con le altre e gli altri, lo scambio di affetto e di idee, la condivisione di voci e esperienze, il creare forme di vita è già realtà, è già cultura, “è già politica”[2].

Viviamo in una società in cui il senso della ricerca e della produzione artistica e culturale, come anche del fare impresa, sta solo nel risultato, nel merito e nel riconoscimento, sanciti da criteri di classificazione che non possiamo più depennare come propri del mercato, perché quel mercato ora più che mai siamo noi. Noi che nell’economia dell’autosfruttamento poniamo noi stessi assieme al nostro corpo come esito, come prodotto. Quante volte al giorno sentiamo di dover far fruttare la nostra libertà di metterci al centro, di capitalizzare sulle nostre capacità e virtù, in nome di una retribuzione emotiva prima che economica? Ed è davvero quella, la libertà? Da donna mi interrogo spesso su quali siano le mie vere volontà, se le mie scelte non siano orchestrate dai fili sottili del neoliberismo e da un patriarcato latente, e come me lo stanno facendo molte altre, insieme, nel tentativo di scindere libertà controllata e volontà profonda di autodeterminazione. La strada per la consapevolezza è un cammino comune, che può farci trovare delle risposte sono nell’ascolto delle richieste che nascono dalla contraddizione tra la società corrente e i bisogni reali.

I fatti recenti che riguardano il mondo della scuola e l’aggressione degli studenti verso sé stessi, l’impossibilità di continuare a lavorare in ambienti di lavoro che chiedono sempre di più e il conseguente quiet quitting[3], la difficoltà nel mettersi in gioco nelle relazioni sono dimostrazioni evidenti che l’individualismo e la società della prestazione volgono al tramonto, eppure in questo importante passaggio non dobbiamo farci trarre in inganno dalla pigra abitudine di dare la colpa al sistema che più direttamente sembra responsabile di tali situazioni: l’università, il lavoro, il capitale, la monogamia[4]. Il problema si nasconde nei processi, quei processi che dovremmo rivalutare per dargli nuova linfa e nuove radici.

Ribaltare il senso degli spazi e delle relazioni è possibile solo attraverso lo scambio continuo tra individui, l’ascolto delle nuove nascenti necessità, la forza dello stare assieme per creare nuove strutture o agire su quelle che non funzionano più. Dico struttura perché credo sia importante dare forma all’esistenza, l’esistenza comune, fatta di progettualità, di propositi, di intenzioni. Non lasciamoci ingannare dalla tirannia dell’assenza di struttura, del nichilismo anarchico in cui alla fine vincerà il più forte – ogni azione collettiva richiede responsabilità per non cadere nella trappola del potere, quello delle élite informali, spesso maschili e mai garanzia di reale partecipazione. Costituiamo, organizziamo, poniamo le basi. E nel farlo riconosciamo l’autorità l’una dell’altra. Non a caso, l’organizzarsi del movimento delle donne può essere letto come una specifica pratica, che attraverso la creazione di agende e lotte comuni è ora più che mai un esempio brillante di resistenza e al contempo produzione.[5]

La voglia crescente delle giovani e dei giovani di associarsi, di formare collettivi, di fare gruppo mi dà un grande senso di speranza. Non solo per lo sbocciare di interessanti progetti che si nutrono dell’interrelazione e che confermano la mia credenza che solo nella sinergia si crea il nuovo, ma anche per il passaggio dalla critica della società al cambiamento della società, con posizioni e energie che vedono le donne scommettere sulla propria forza e le proprie capacità.

In una riunione di qualche mese fa Lia Cigarini in un attimo di grande fermento ha detto “Quando le parole sono logore bisogna trovarne di nuove”. Spero che questo sia quel momento, e che le nostre parole nuove tengano in considerazione che solo con la messa in gioco radicale di sé stesse si tende verso una politica viva che si fa concreta, e che supera l’inconsistenza del vivere con l’espressione adeguata alle proprie aspettative.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 12 aprile 2023)


[1] Oliveros, Pauline, Oakland, 1999. In Oliveros, Pauline, Quantum Listening, Ignota Books, UK, 2022. Il Quantum Listening è un apparato teorico sviluppato da Oliveros a partire dalla pratica da lei ideata del Deep Listening, la quale unisce meditazione e esercizi d’ascolto, oltre ad includere pezzi da lei composti a partire dal 1970

[2] Scritti di Rivolta Femminile, È già politica, Milano, 1977

[3] Il fenomeno a cui è stato dato un nome nel 2022 inquadra la tendenza di lavoratori e lavoratrici a fare solo lo stretto necessario nel tentativo di mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata. Si legga in merito Zeric, Bojan, Che cos’è il quiet quitting, Wired 23/09/22: https://www.wired.it/article/quiet-quitting-lavoro/

[4] Al pari degli altri regimi citati, la monogamia sembra incarnare nel dibattito degli ultimi anni un ostacolo alla felicità e una forma di costrizione, mentre il poliamore cerca di farsi istituzione. Credo sia il momento di prendere le distanze dalle etichette e iniziare a ragionare partendo da noi stesse e noi stessi sulle cause profonde del fallimento delle relazioni. Potremmo forse scoprire che al posto di diritti e doveri nella coppia c’è necessità di mettersi in gioco fino in fondo.

[5] A questo proposito si invita a leggere Equi Pierazzini, Marta, A Legacy without a will. Feminist Organizing as a Transformative Practice, Phd Thesis Dissertation, IMT Institute for Advanced Studies, Lucca, 2019; Equi Pierazzini, Marta, Ogni pratica cosciente di vita collettiva. Leggere le pratiche organizzative femministe tra iscrizione e trasmissione. Convegno Cinquant’anni di Rivolta. I movimenti femministi dal lungo ’68 a oggi. Società Italiana delle Storiche in collaborazione con Casa Internazionale delle donne di Roma e Archivia, 13-14 e 19 novembre 2020

di Roberto Ciccarelli


Alessandra De Fazio, studentessa al quarto anno di medicina, presiede il consiglio degli studenti dell’università di Ferrara. Durante l’inaugurazione dell’anno accademico alla presenza del presidente della Repubblica lei ha denunciato l’«università neoliberale» e gli effetti che produce sugli studenti. Quali sono? 
Senso di inadeguatezza, depressione, persino il suicidio. E questo vale specialmente per i più poveri, esclusi da un Welfare degno di questo nome e da un’idea di emancipazione. Questo è l’esito di un sistema governato sulla base di parametri che spingono gli atenei a mettere pressione sugli studenti a laurearsi in tempi brevi, ad essere «performativi». Tutto ciò incide anche sul benessere psicologico dell’individuo.

Com’è organizzata l’università neoliberale? 
È l’esito di un ciclo di riforme culminate con quella Gelmini nel 2010. L’università è gestita come un’azienda. Lo si vede dalla suddivisione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). La gestione della cosiddetta «quota premiale» ha trasformato i finanziamenti in premi per gli atenei più numerosi e performanti. Quelli piccoli ne ricevono una quota minore e sono considerati improduttivi. Si trovano costretti a decidere se alzare le tasse degli studenti o aumentare gli iscritti per concorrere ai «premi». E hanno trasformato radicalmente la didattica e la ricerca che rispondono ai parametri stabiliti da un’agenzia chiamata «Anvur». Noi studenti siamo bombardati da un sistema che ci sbatte in faccia i successi degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuna fallisce al posto nostro.

«Sono un fallimento, non merito di vivere». «La mia vita è inconcludente e inutile» dicono alcuni studenti, talvolta protagonisti di atti tragici. A cosa è dovuta una simile disperazione? 
Ci stanno insegnando che la legittimazione sociale è definita dalla realizzazione personale. È legittimato socialmente chi raggiunge i traguardi che la società impone. Questa idea è fondata su una falsa equivalenza per cui la realizzazione professionale di una persona coincide con l’utilità della stessa. Ma quando è stato deciso che per vivere bisogna essere solo e semplicemente utili? Lo studente non è più libero di seguire il proprio percorso, è costretto a agire più come una macchina o si sente trattato come un oggetto. In questa università l’obiettivo non è la formazione, ma l’essere legittimati socialmente attraverso il successo. Ma noi siamo già legittimati socialmente dal fatto che siamo persone autonome.

Nel suo discorso ha detto che il sistema universitario è classista. Cosa significa? 
Le faccio l’esempio delle borse di studio. Sono un sussidio per chi non può accedere all’università. Però c’è una grande differenza tra chi ha genitori facoltosi e chi no. I primi possono pagare l’università per tanti anni i secondi no. Quando si prende la borsa si è obbligati a maturare crediti in un determinato tempo. Ma questo può anche non avvenire. Ho conosciuto studenti che piangevano perché, per un solo credito (Cfu), non hanno perso solo la borsa, hanno dovuto restituire tutto l’importo. E non hanno potuto più pagarsi l’affitto. Può immaginarsi gli effetti devastanti su queste persone, e sulle loro famiglie, dopo tanti anni di crisi.

Quali soluzioni ci sono? 
Finanziare veramente il diritto allo studio. Creare un reddito di formazione che possa permettere a tutti di studiare e vivere. L’università dovrebbe virare da un sistema classista a uno accessibile, gratuito e garantito. La formazione non si merita, va garantita in maniera universale.

Al ministero dell’Istruzione è stato aggiunto il concetto di «merito». Che cosa significa per lei? 
Mi sembra un’idea distopica, forse l’hanno presa dal libro di Michael Young che ha immaginato un paese governato dalla «meritocrazia» nel 2033. Denominare così un ministero che non trova una soluzione ai problemi degli studenti, significa aumentarli. La meritocrazia è la versione ipocrita del privilegio. È una giustificazione della competizione in nome di un’uguaglianza fittizia.

Luigi Marattin (Italia Viva) ha scritto che i concetti che lei sta usando anche in questa intervista «sembrano essere sostenuti anche da persone che hanno il doppio o triplo della sua età». Cosa risponde? 
Non conosce il modo in cui si parla nelle aule universitarie in Italia. Non c’è nessuno meglio degli studenti che può parlare della propria condizione. Io ho 24 anni e mi assumo la responsabilità di ciò che dico.

Ha chiesto alle autorità accademiche di «restituirci un mondo che possa davvero appartenerci». E se non lo restituiscono pensa sia possibile andarselo a prendere?  
Io faccio parte degli studenti di Link e invito tutte le componenti studentesche consapevoli a non fermarsi davanti a questa società che ha consumato tutto quello che poteva consumare. E si è impadronita anche delle nostre soggettività. Cercheremo di fare sentire la nostra voce in qualsiasi momento. Non ci fermeremo. Questo è sicuro.


(il manifesto, 9 aprile 2023)

di Sandra Petrignani


«Le parole non contano/ noi preferiamo le cose». Sono due versi di Alba De Céspedes dalla raccolta di poesie, Le ragazze di maggio, riproposte ora negli Oscar Mondadori (208 pagine, 12 euro). Era così esaltata, Alba, di quanto stava accadendo nelle strade di Parigi in quel maggio del 1968, che non le importava se le protagoniste delle rivolte e di quei versi mettevano in discussione le sue amate “parole” in nome delle “cose”. Ci sono momenti in cui le parole tacciono e in primo piano vengono i fatti. «Non facevo altro che seguire ciò che accadeva intorno a me» racconta in una nota al libro. «Mi recavo alla Sorbona, all’Odéon, assistevo ai dibattiti, alle riunioni, e lì come nelle strade devastate, disselciate, ingombre di automobili carbonizzate e puzzolenti di gas, incontravo i giovani rivoluzionari, li interrogavo, li spingevo a parlare». Ma lei resta comunque una scrittrice e, tornata a casa, sente il bisogno di creare qualcosa su quei fatti straordinari. Con le parole. Lei ama le rivoluzioni e le donne. Per questo nelle sue poesie dà la parola alle ragazze. Anche lei è stata una rivoluzionaria. Una decina di anni prima, per Cuba, non aveva avuto esitazione a schierarsi con Fidel Castro e Che Guevara, quegli eroi di cui adesso i giovani francesi sventolavano le immagini. Non ha battuto ciglio quando tutti i beni ereditati dalla famiglia (cubana) sono stati confiscati e distribuiti fra il popolo. Ha accettato con allegria di diventare povera, perché quel che conta è che tutti i bambini possano andare a scuola e che la gente abbia un tetto sopra la testa.


Marco Vichi


Il revival attuale di De Céspedes coincide curiosamente con tempi (in Italia) che sicuramente non amano le sue posizioni politiche. Eppure è tutto un fiorire di attenzione verso di lei e di ristampe dei suoi libri. È appena arrivato il libreria Dalla parte di Alba, un’approfondita biografia-romanzo di Michela Monferrini (Ponte alle Grazie, 253 pagine, 16,80 euro) e nell’ultimo anno sono ricomparsi in tascabile Mondadori – che nel 2011 aveva meritoriamente pubblicato un volume dei Meridiani a lei dedicato, curato da Marina Zancan – Nessuno torna indietro, Dalla parte di lei (introdotto da Melania Mazzucco), Quaderno proibito (introduzione di Nadia Terranova) e L’anima degli altri (con prefazione di Loredana Lipperini). E sottolineo che si tratta di nomi tutti femminili, perché le donne hanno imparato a sostenere con convinzione queste grandi madri della letteratura, troppo facilmente destinate a cadere nel dimenticatoio. Ma almeno uno scrittore appassionato di De Céspedes c’è. Si tratta di Marco Vichi che ha contagiato il suo commissario Bordelli con questa passione trasformandolo in un lettore di Alba. Vichi di romanzo in romanzo trova il modo di citarla e parlarne (anche nel prossimo, Nulla si distrugge, che uscirà da Giunti il 20 giugno).

E anzi, sempre a fine giugno una delle quattro serate di incontri, organizzati da Vichi, Lungomare da leggere a Marina di Massa, sarà dedicata ad Alba De Céspedes. Sono cose che fanno piacere: purtroppo è rarissimo che gli scrittori tributino un simile riconoscimento ad autrici che non siano già accettate nell’Olimpo, come Woolf, come Morante, forse come Flannery O’Connor.

Il libro di Michela Monferrini può essere un ottimo ingresso per imparare a conoscerla. Perché De Céspedes, oltre che una grande narratrice e una pasionaria, ha avuto una vita in qualche modo esemplare di un’identità femminile fuori dagli schemi, esuberante, coraggiosa. È una donna che con tenacia e determinazione fa della scrittura il senso centrale della propria esistenza senza rinunciare a impegnarsi quando i tempi lo esigono.


(Editorialedomani.it, 8 aprile 2023)

di Dimitri Canello


Il compenso del contratto nazionale è sotto la soglia di povertà. L’azienda dovrà pagare la differenza con lo stipendio di un portiere. Adl Cobas: «Vittoria che può dilagare»

Una paga oraria da fame, a nemmeno quattro euro ogni sessanta minuti di lavoro. È una storica vittoria, quella di una lavoratrice padovana, che ha fatto causa alla Civis sostenuta dagli Adl Cobas e dai legali padovani Giorgia D’Andrea e Giacomo Gianolla e che ha convinto un giudice del lavoro di Milano a darle ragione. La paga di 3,96 euro orari prevista dal contratto nazionale, secondo il giudice, viola l’articolo 36 della Costituzione, laddove è sancito che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Parliamo di un reddito netto di 640 euro mensili, al di sotto della soglia di povertà e inferiore persino al reddito di cittadinanza. La vittoria potrebbe fare giurisprudenza e spalanca le porte a conseguenze davvero imprevedibili: «È una vittoria storica – spiega Mauro Zanotto di Adl Cobas – che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia e a Padova. In tutto il Paese sono circa 100mila gli interessati a una sentenza simile. A Padova ci sono una ventina di cause pendenti per motivi analoghi, più altri sparuti casi qua e là contro aziende private. Sono coinvolte diverse strutture, come l’Esu, l’università, l’Agenzia delle Entrate, alcune aziende private. Speriamo che questa sentenza faccia capire alle sigle sindacali che hanno firmato questi contratti inaccettabili a livello nazionale che non si può andare avanti così».

La Civis, società di vigilanza per la quale lavora la donna, è stata condannata a pagare un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese (6,756,04 in totale), cioè la differenza tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato. Un lavoro povero, che però deve rimanere entro determinati confini e deve garantire un trattamento minimo ben diverso dai contratti firmati negli anni scorsi dalle principali sigle sindacali: «Non è accettabile – prosegue Zanotto – che si parli di un lavoro con molte responsabilità e non un semplice aprire e chiudere un ingresso sia pagato meno del reddito di cittadinanza. Ci sono casi in cui ci sono state richieste di integrazioni e chiunque può capire che una cosa del genere non sta e non può stare in piedi. Questi lavoratori, per portare a casa uno stipendio dignitoso, erano e sono costretti a fare continui straordinari con un orario di lavoro che supera anche le 12 ore quotidiane».

Da qui la richiesta successiva, formulata proprio da Adl Cobas: «Chiediamo l’apertura di un tavolo che coinvolga università, Esu, Regione, Provincia e tutti quei soggetti che sono coinvolti da questa sentenza perché si metta fine a questa logica di sfruttamento. Prendiamo atto con soddisfazione – conclude Zanotto – che questo giudice fa riferimento a un contratto di portierato riconoscendo che il lavoro svolto non è quello di un semplice portinaio. Questi lavoratori hanno diverse responsabilità, fra cui anche quella in caso di incendio. I contratti, poi, sono fermi da almeno otto anni. Le cose devono cambiare».


(Corriere del Veneto, 6 aprile 2023)

di Niccolò Nisivoccia


Il dibattito dei giorni scorsi intorno alle madri detenute è stato capace, in una volta sola, di infliggere due torti, e di infliggerli entrambi non solo alle donne, indipendentemente da qualunque discussione di natura femminista (quale che sia l’accezione di femminismo alla quale ciascuno preferisca accedere, essendo il femminismo molto variegato e plurale al proprio interno), ma anche a una visione aggiornata e moderna della società in cui dovremmo vivere, anche al di là degli orientamenti politici: un torto sostanziale, da un lato, riguardante il contenuto specifico della proposta di legge avanzata dalla Lega; un torto formale, ma formale solo in apparenza (e perciò non meno grave), da un altro lato, sotto l’aspetto delle parole da cui il dibattito è stato accompagnato, da ogni parte.

Il contenuto della proposta, in primo luogo. In realtà i commenti e le polemiche lo hanno quasi subito sopravanzato, come purtroppo succede troppo spesso: anzi, ormai ci siamo perfino abituati a capire poco di ciò di cui si parla, ci accontentiamo di opinioni precostituite senza più neppure pretendere, né dagli altri né da noi stessi, delle ricognizioni oggettive che ci consentano di capire le ragioni di un’opinione o di un’altra. Maturiamo un’opinione sopra un fatto, ma per pura e semplice adesione all’opinione espressa da altri, in un circolo quasi sempre vizioso: e troppo spesso neppure noi sapremmo più dire, alla fine, in cosa consista o consistesse quel «fatto». Ed è successo, in una certa misura, anche in questo caso, perché alla proposta della Lega tutti hanno fatto riferimento senza mai riportarne il testo.

Tuttavia a risultare chiara, in questo caso, è quantomeno l’ispirazione da cui il testo è sorretto, perché a esplicitarla senza mezzi termini è stato il viceministro Edmondo Cirielli (non un soggetto qualsiasi, quindi, ma il viceministro degli Esteri, esponente della medesima maggioranza di cui fa parte la Lega): «Se una madre viene condannata e finisce in carcere le si deve togliere la patria potestà, visto che se si va in carcere vuol dire che si è commesso un reato grave punibile con almeno cinque anni». E qui il punto è questo: non dovrebbe appartenere a tutti, tanto più a chi rivendica a voce alta le proprie radici cristiane e cattoliche, la convinzione che nessuno di noi si risolve in un gesto compiuto, fosse anche il più efferato? Due versi di David Maria Turoldo, ad esempio, lo dicono meravigliosamente: «perché ogni uomo/è una infinita possibilità». Nessun gesto potrà mai esaurirci, perché ciascuno di noi porta sempre con sé un mondo molto più ampio, nelle sue potenzialità, di qualunque singola azione.

Ma in secondo luogo le parole. Tutti, non solo Cirielli, hanno parlato di “patria potestà”: in ogni sede, a destra come a sinistra, su tutti i giornali, dovunque. E qui il punto è questo: la «patria potestà», in Italia, non esiste più né come concetto né come espressione linguistica da quasi cinquant’anni. Non solo: da dieci anni, in relazione al rapporto fra genitori e figli non esiste più neppure la parola «potestà». Nel 1975 era stata la riforma del diritto di famiglia a sostituire la «patria potestà» con la «potestà genitoriale», per volontà di superamento sotto ogni profilo, anche linguistico, di un’idea di famiglia patriarcale, in favore di una famiglia che veda i genitori in una situazione di completa uguaglianza fra loro; e poi più di recente, nel 2012, è stata una riforma in materia di filiazione ad eliminare anche la parola “potestà”, a favore della parola “responsabilità”, che molto meglio esprime e restituisce la concezione di un rapporto che non impone solo, rispetto ai figli, «poteri» e «doveri» esercitati dall’alto, verticalmente, bensì è molto più complesso.

Continuare a parlare di «patria potestà», insomma, è semplicemente e gravemente scorretto. Ma cosa rivela, più nel profondo, questa scorrettezza? Quale rimozione tradisce, questa incapacità ad aggiornare e ad adeguare il nostro linguaggio? Rivela forse il desiderio, ancora pervasivo anche quando inespresso o addirittura combattuto, di una famiglia patriarcale o più in generale di una società autoritaria?

Vorrebbe dire che la legge ci cammina molto davanti, da questo punto di vista; e che noi da parte nostra non riusciamo ad affrancarci da modelli che dovrebbero essere lasciati al passato. Come se non lo confessassimo ma il linguaggio ci tradisse. Oppure non è così: ma allora vorrebbe dire che dovremmo imparare a parlare meglio, e correttamente.


(il manifesto, 6 aprile 2023)

di Francesco Ferasin


Dev’essere lì, la tomba di Elisabetta Caminer Turra. Tumulata fra un tabernacolo del Tiepolo e una pala del Tintoretto, nascosta da qualche parte nella chiesa barocca di Santo Stefano a Vicenza. Eppure il suo nome non c’è. Non si scorge nemmeno la sigla “E.C.T.”, con cui firmava le sue ferocissime recensioni sull’Europa letteraria. Il Comune deve ancora rivedere gli annali, confessa a mezza voce il sagrestano. Al momento non si sa dove sia. Ma viene da storcere il naso: sarà mica tutta qui la gloria che la storia ha saputo riconoscere alla prima giornalista donna d’Italia?

Lei non si sarebbe certo sorpresa di questo trattamento. Del resto, alla marginalità era abituata fin da piccola; da quando la madre la chiudeva nelle masserie per sottrarla agli intrallazzi amorosi. Era destinata a diventare una delle tante “fantesche, nate fra i pregiudizi, marcite nell’ignoranza”. L’unico vantaggio che la vita le concede è quello di nascere nella Venezia cosmopolita del 1751.

Carattere volitivo e libertino, Elisabetta fiuta subito l’avvento dell’Illuminismo. Studia da autodidatta tra una lezione di cucito e l’altra. Di notte divora Voltaire e Rousseau (messi al bando dalla censura veneta), di giorno li traduce per il padre Domenico, con cui fonda L’Europa letteraria. A 18 anni dirige già il giornale, decidendo la linea editoriale. Lega il suo nome alle traduzioni della comédie larmoyante: la “commedia lagrimevole”, come la chiama Carlo Gozzi, adirato per le recensioni impietose dei suoi drammi (un teatro degradato alla “Donna Serpente e al Re Cervo… e ad altre simili scurrilità”). Intanto il circolo di ammiratori cresce sempre di più. Senza saperlo, la Caminer incarna gli ideali dell’eroina romantica. Anche Goethe le fa visita. Ed è in questo fermento di idee nuove, ripulite dalle parrucche dell’Ancien Régime, che fioriscono i fogli d’opinione. In altre parole, il giornalismo moderno.

Nei suoi articoli “E.C.T.” si scaglia contro i dogmi della Chiesa e il classismo della borghesia. Punta il dito contro il gender gap partendo da un’apologia dell’adulterio. Ma soprattutto, è una delle prime intellettuali a capire chi è il vero padrone della stampa: “Ma fremano pur quanto possono gli Apologisti indiscreti della pudicizia; noi non ci asterremo per questo dal seguire la massima fondamentale del nostro istituto, di giovare cioè e di piacere alla massa dei nostri Lettori”.

Doveva essere un bel caratterino, a leggere i suoi incipit taglienti (“Ecco un libro che accresce il numero dell’inutili”). Gli uomini più illustri del tempo, non volendole riconoscere il potere di informare, le rimproverano quello di sedurre. Antonio Piazza la definisce una decima musa “di tanti ghiribizzi adornata, che pare una Bottega portatile”. Lei infatti è l’unica a steccare nel coro degli osanna (dando a Goldoni dell’egocentrico patologico), ma riesce a sguazzare sempre a testa alta in un “mestieraccio” tutto politica e testosterone. Svela, insomma, il grande inganno: che nascere femmina è un peccato originale da espiare con la servitù. Nel 1777 si chiede: “E poi che ne sarebbe degli uomini se le donne divenissero gran pensatrici?”. Lo scopre presto, quando si trasferisce nella bigotta Vicenza per seguire il naturalista Antonio Turra. Qui non trova nessuno che pubblichi la sua nuova creatura, il Giornale Enciclopedico. Deve aprire da sola una tipografia. Dalle corrispondenze conservate nella biblioteca Bertoliana di Vicenza emerge un carattere imprenditoriale pugnace come pochi. Anche il piglio polemico lo mantiene fino all’ultimo, quando viene sopraffatta da un brutto male. Forse un tumore, causato – si dice – da un pugno sferrato al seno da un soldato ubriaco.

Colpita in quella porzione di corpo di cui tanto andava fiera e difendeva, si spegne nel 1796. Anche gli articoli, che prima firmava con sommessa reticenza “E.C.T”, durante la malattia diventano sempre più anonimi (mentre lo stile rimane inconfondibile). E una tomba senza lapide è solo l’ultimo atto di una commedia della rimozione scritta su una vita straordinaria, troppo audace per essere ricordata.


(Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2023)

di Maria Teresa Carbone


Con poche eccezioni (fra queste il ritratto di Antonio De Sortis su Alias domenica) i media italiani hanno dato notizia in ritardo e con poco risalto della morte di Dubravka Ugrešic, avvenuta il 17 marzo a Amsterdam, dove la scrittrice – nata jugoslava da padre croato e madre bulgara – viveva da anni. Di questa indifferenza Ugrešic non si sarebbe stupita più di tanto, basti leggere il testo conclusivo dell’ultimo suo libro edito in italiano, lo splendido La volpe, tradotto da Olja Perišic per La Nave di Teseo (che, sia resa lode, ha appena ripubblicato un altro suo titolo, Il museo della resa incondizionata, uscito nel 2002 da Bompiani nella stessa traduzione di Lara Cerruti, prefazione di Predrag Matvejevic).

«Il mio settore professionale – scrive Ugrešic in questo racconto che comprende una descrizione esilarante della Scuola Holden di Torino (“una sorta di Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, corporativa, adattata ai nostri tempi”) – si suddivide in economy class e business class, rispetto alla visibilità mediatica dell’autore e ai suoi compensi. La grande maggioranza degli scrittori si trova in economy class, una minoranza trascurabile in business class… In ogni caso io rientro nell’economy class, autentico vivaio di misantropia».

E misantropico e buffo è il seguito: il resoconto di un viaggio aereo durante il quale il viaggiatore davanti «abbassa il sedile, anche se sa bene che con questo gesto mi schiaccia le ginocchia e mi fa rovesciare il caffè sulle gambe», perché – e qui sta il genio della scrittrice – «i poveri amano vantarsi, pavoneggiarsi, sbattere le ali, mettersi comodi sul sedile visto che l’hanno pagato, calpestare il vicino mandandogli il messaggio che è un esemplare umano del tutto trascurabile, come d’altronde lo sono loro».

Il fascino dei libri di Ugrešic sta qui, nella precisione di uno sguardo che grazie alla sua nitidezza coglie (e accoglie) gli aspetti assurdi e fantastici del mondo in cui viviamo, un mondo che la scrittrice osservava con pena. Lo si capisce in un’intervista inedita rilasciata a Andrea Toribio nel 2021 e pubblicata adesso dalla rivista messicana Letras libres: «L’orologio globale non funziona più per tutti allo stesso modo. La circolazione dei flussi di informazione ha perso significato perché percepiamo sempre le stesse cose. Allo stesso tempo, la tragedia più drammatica oggi, la vita dei rifugiati, sembra passare inosservata dalla società. E questa mancanza di consapevolezza si ripercuote su altri sconvolgimenti cruciali come la revisione della storia, soprattutto quella dei paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est, la “destigmatizzazione” del fascismo storico, l’emergere del neofascismo…».

Né Ugrešic si pensava «da meglio» in quanto scrittrice, sia pure di economy class: in una bella serie di ricordi dei suoi traduttori in inglese proposta da Literary Hub, Vlad Beronja nota che «nella sua immaginazione socialmente sovversiva, Dubravka vedeva una profonda affinità tra il proprio lavoro letterario e le acrobazie di una donna delle pulizie polacca ad Amsterdam, la malinconica musica di strada di una donna rom a Berlino, il mestiere meticoloso di una manicure vietnamita a New York: tutte figure precarie, migranti, esposte ai capricci crudeli del mercato capitalista».

Ricorda un’altra sua traduttrice, Ellen Elias-Bursac, di averla chiamata l’8 marzo, la giornata internazionale della donna, per farle gli auguri: «Mi ha detto che era malata e che lo era da più di tre anni. Questo è accaduto nove giorni prima che morisse. In questi anni io e lei abbiamo lavorato a stretto contatto sulle traduzioni, ma non lo sapevo. In Croazia c’è un detto: nascondere qualcosa come un serpente nasconde le zampe. Molto Dubravka».


(il manifesto, 6 aprile 2023)

di Alberto Leiss


Sabato ho partecipato nella Biblioteca comunale di Spinea, vicino a Venezia, a un evento a suo modo eccezionale. Si è discusso con l’autrice, Teresa Lucente, di un libro: Il luogo accanto. Identità e Differenza, una Storia di Relazioni, Effigi edizioni, 2020. Ed è stata data la notizia, da Gabriella Cimarosto e dalla responsabile della Biblioteca Paola Marchetti, che tutti i materiali relativi alla storia raccontata nel libro sono ora raccolti e archiviati, e potranno quindi essere consultati.

Ma qual è la storia?

Parla di un buon mezzo secolo – dai primi anni ’70 al 2018 – di attività politica, in un senso molto originale di questa parola, promossa da una associazione di donne e di uomini, Identità e differenza, il cui «motore energetico» è stato una donna, Adriana Sbrogiò.

Ma lei stessa aggiungerebbe, come ha fatto sabato, che se la cosa ha funzionato è solo perché con altri e altre è stata fatta nascere, rafforzarsi e moltiplicarsi una rete di relazioni che, seppure attraversata e in qualche caso rotta, da conflitti acuti, è riuscita a costituire un permanente «luogo accanto»: accanto ad altri luoghi più tradizionali della politica, come amministrazioni comunali, impegni sindacali, volontariato, comitati di quartiere; un luogo nel quale il confronto e lo scambio radicati nelle esperienze personali, soprattutto l’ascolto, hanno suscitato energie capaci di «allargare l’ambito del possibile».

Espressione pronunciata di Teresa Lucente, che si è appassionata alla storia che ha scritto pur non avendola vissuta direttamente, e con lei altre e altri. Come Graziella Borsatti, una donna minuta ma che con grande forza era riuscita a sperimentare, come sindaca di Ostiglia, una ricerca nuova sul governare come capacità di «creare», non solo «gestire», facendo del potere politico qualcosa che può essere condiviso nella più ampia connessione di relazioni tra «governati e governanti».

Come Gabriella Cimarosto, che ha parlato del suo impegno per la conservazione della memoria non solo a Spinea, ma anche nel contesto ricco di storia operaia e popolare di Marghera. Come altri amici che ho rivisto con grande piacere (Marco, Gianni, e Marco…).

Anch’io la condivido.

Ho partecipato alla fase trentennale che racconta il libro, quando dal 1988 al 2018 Identità e Differenza ha organizzato a Asolo e a Torreglia seminari annuali con al centro lo scambio tra donne uomini nella ricerca di una pratica politica comune. Condividendo, discutendo e provando a arricchire il portato del pensiero e della pratica inventati dal femminismo della differenza. Incontri a cui hanno sempre partecipato amiche della Libreria delle donne di Milano, a cominciare da Lia Cigarini e Luisa Muraro.

Per me è stato un luogo di incontro anche con altri uomini che desideravano questa ricerca, e mi è successo davvero di condividere nuova energia, investita – sempre con altri – per esempio nella costruzione della rete di Maschile plurale. Sabato ho ricordato che, per me, la scrittura con altri amici di questa rete, nel 2006, di un testo che affermava prima di tutto la responsabilità maschile, di tutti gli uomini, nella violenza contro le donne – testo che fu condiviso da moltissimi maschi e che diede impulso all’azione di Maschile plurale – era stata motivata dalle discussioni avute in quel «luogo accanto». Una esperienza molto concreta, dunque, di «allargamento dell’ambito del possibile».

Ogni storia prima o poi finisce. E non è detto che tutti rimangano felici e contenti. Credo però che quella ricerca sia ancor più necessaria oggi. Forse dovremmo essere noi uomini a tentare di reinventarla in altri luoghi. Nuovi, ma vorrei non troppo smemorati.


(il manifesto, 5 aprile 2023)

di Sara Bigardi e Livia Alga


Essere in fuorigioco non è di per sé un’infrazione. Secondo le regole del calcio, il fuorigioco è una condizione, meglio: una posizione. Tre sono gli elementi che la determinano: la posizione dell’attaccante, del pallone, e di chi difende. La regola vuole impedire che l’attaccante sosti sola oltre la linea dei difensori nei pressi della porta avversaria, quando le viene passata la palla. Più precisamente: una giocatrice è in fuorigioco quando si trova nella metà campo avversaria, quando tra lei e la porta si trovano meno di due giocatrici avversarie (portiere inclusa), e prende parte attiva all’azione, toccando la palla, o traendo vantaggio dalla sua posizione.

Questione di attimi, centimetri, questione di linee. Io non ho mai visto questa linea sul campo. È una linea invisibile, chi guarda la partita la immagina. Non avevo idea che il campo da calcio avesse delle linee oltre quelle tracciate in bianco che ne delimitano il perimetro, le aree, il centro. E invece, ci sono sempre delle linee invisibili che regolano i territori in cui giochiamo, note spesso solo agli esperti o ai nativi. Imparare a giocare significa imparare a vedere le linee invisibili.

Una linea immaginaria è una linea che può esistere e non esistere. È la flessibilità di una separazione. È una linea fatta da corpi in movimento, per questo è mobile. Non è una linea del paesaggio. È una linea d’ombra che si crea tra chi difende e chi attacca. Il fuorigioco è una condizione del loro conflitto che ferma il gioco e richiede l’intervento esterno dell’arbitro, una punizione, un riequilibrio. Proprio perché si esaurisce nell’azione, il fuorigioco non è pienamente teorizzabile: da qui la difficoltà di spiegarlo in modo esplicito e chiaro. Difficoltà aggravata dal fatto che alla norma, con il tempo, sono stati aggiunti una serie di commi di non facile interpretazione. Tutto questo, oltre a creare una confusione tale da indurre l’IFAB (International Football Association Board) e la FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) a sperimentare la moviola in campo, rende discrezionali le valutazioni e la lettura della posizione di fuorigioco: trovarsi in linea o non in linea, prima o dopo “quella” linea invisibile.1

Il fuorigioco non è una teoria, ma una tattica, anzi un insieme di tattiche pensate e organizzate per dare vita a movimenti che creano conflitto. Questo insieme di tattiche favoriscono una postura liminare, sempre disposta a esporsi, tempi e movimenti sincronici, invitando a leggere con attenzione il complesso situazionale, smarcamenti e inserimenti non prevedibili. Il fuorigioco invita ad agire facendo uno “scarto”.2 Secondo Françoise Jullien «fare uno scarto significa uscire dalla norma, procedere in modo inconsueto, operare uno spostamento rispetto a ciò che ci si aspetta e a ciò che è convenzionale. In breve, vuol dire rompere il quadro di riferimento e arrischiarsi altrove».3

Una tattica, non una strategia, perché non prevede schemi collaudati a priori o del tutto predeterminati. Il comportamento tattico è inventivo, rischioso: si concretizza in una serie di iniziative che devono essere decise rapidamente in una situazione caratterizzata da un notevole grado di incertezza. È questione di velocità: un passo avanti della difesa nel momento “giusto”, e tutte ferme: è fuorigioco. La difesa infatti può attuare la trappola del fuorigioco per bloccare sul nascere l’azione offensiva avversaria, recuperare palla e guadagnare spazio. Il fatto che esista la possibilità di utilizzare la tattica del fuorigioco permette alla squadra che difende di “rimanere corta”, talmente compatta da impedire agli avversari di avvicinarsi alla porta. In questo modo durante la fase di non possesso palla si riducono le dimensioni del campo, «sempre troppo grandi quando si tratta di difendere».4 Poi, come tutte le tattiche, c’è la possibilità di trovare delle contromisure per eluderla. Una di queste è il gioco corale e aperto sulle fasce: si tratta di creare una situazione di grande respiro, in una manovra avvolgente che non dia tempo alle avversarie di risalire velocemente e lasciarti così in fuorigioco.5 Dove sta la lealtà di un conflitto? Se penso al fuorigioco mi sembra in sé una regola ingiusta. La giocatrice è riuscita ad arrivare, grazie a passaggi e scambi ben riusciti, vicino alla porta e viene bloccata da una norma. Si ritrova in una posizione potenzialmente vincente che, essendo riconosciuta come problematica, viene censurata. È la tua voglia di vincere che ti fa pensare in questo modo, o forse il disagio o la frustrazione di non potere andare liberamente, senza ostacoli, verso ciò che desideri? Io credo che il fuorigioco sia la regola che per eccellenza rende il gioco, gioco. Sembra paradossale che “fuorigioco”, un’espressione apparentemente così chiara nell’indicare la fine, l’esterno del gioco, l’esclusione definitiva, così vicina alla formula “essere fuori dai giochi”,6 indichi, invece, secondo me, proprio il contrario. Lo scopo di questa norma è infatti quello di rendere il gioco più avvincente e meno prevedibile, obbligandoti a riprendere il gioco, a pensare un altro movimento, a negoziare ancora con l’avversaria perché la relazione sia più viva possibile. Come ti sentivi quando finivi in fuorigioco? Sono sempre tornata dal fuorigioco, sorridendo. Un sorriso sarcastico perché sai di esserti spinta oltre, di avere superato il limite. E che il gioco riprende.

Fuorigioco è una rubrica di tattiche, movimenti e conflitti. Raccoglie interviste e racconti autobiografici di vissuti sportivi da un punto di vista non strettamente agonistico. Intende valorizzare pratiche sportive come esperienze di condivisione, trasformazione e potenziamento in cui i corpi sono pienamente in gioco. Fuorigioco è uno spazio per parlare delle dinamiche di gruppo nei giochi di squadra, dei non detti, delle relazioni dentro e fuori gli spogliatoi, dei vissuti emotivi in campo nel corpo a corpo con le altre, le compagne e le avversarie. Per giocare bisogna avere o assumere un ruolo. Quanto costa viverlo? Come giochiamo in un ruolo che non sentiamo congeniale? Che relazione si stabilisce con il maschile (allenatore, società, terna arbitrale, pubblico)? Come ci autorappresentiamo come sportive all’interno della squadra e fuori? Diciamo che giochiamo per passione. Ma di chi o di cosa lo esplicitiamo raramente.

Questa rubrica è la proposta di un’alternativa filosofico-esperienziale ai discorsi circolanti sulle modalità di vivere lo sport da parte delle donne. Dopo anni di inattività dal calcio, quest’estate mi è venuta l’idea di creare una squadra di calcetto. Pensavo fosse un fuoco fatuo, visto che è sempre più difficile conciliare gli impegni quotidiani con una attività sportiva serale, soprattutto d’inverno. Invece le cose sono andate diversamente: la squadra gioca ogni settimana da un anno. Pensando al freddo, volevamo premiarci con una felpa, così, con una amica, sono andata a chiedere supporto al titolare di un bar, chiedendogli esplicitamente di farci da sponsor.

“Ascolta, noi abbiamo una squadra di calcetto, ci daresti una mano per farci una muta per l’inverno?”. “Che tristezza una squadra di calcetto femminile!”, è stata la sua risposta. Anch’io una volta pensavo che giocare a calcetto fosse triste, vuoi mettere il calcio a undici? Il campo largo, il gioco in profondità, il lancio lungo, le accelerazioni, le verticalizzazioni, il fuorigioco! Tutto questo nel calcetto non esiste. Con il tempo non mi sono ricreduta, ma ho scoperto le potenzialità che il gioco a cinque offre, e mi diverto ancora, in modo diverso. “Ti capisco, ho giocato a calcio per tanti anni, il calcetto è un’altra cosa”. “Sinceramente mi fa tristezza una squadra femminile qualsiasi tipo di calcio pratichi”. Sì, avevo capito, idiota. Non ho ribattuto perché mi sono mancate le parole. Me ne sono andata. In quel momento ero impreparata a confrontarmi con una posizione come la sua, ma posso parlare a lungo della prestazione fisica, del talento, dell’eleganza e delle intuizioni delle donne in campo.

Nell’universo discorsivo mainstream, mediatico, escluse dal business che il calcio è perlopiù diventato7, le donne che giocano sono poco note, o rientrano in un confronto svalutante con il maschile. Donne che giocano a calcio suscitano ancora curiosità, ilarità e, a volte, come ha ribadito il mio interlocutore, tristezza. Lo sport che praticano rimane in una dimensione di svago, spazio di mero divertimento, spazio alieno di cui spesso non si interroga il senso. O si scade nella promozione della partecipazione e della valorizzazione del femminile in una tendenza omologante al maschile, oppure negli stereotipi della calciatrice, e della sportiva in generale, come eccezione perlopiù sexy.

L’intento di questa rubrica è creare nuove narrazioni, che accolgano esperienze e pratiche che si sottraggono al linguaggio del simbolico dominante di cui la cultura italiana è impregnata.

Siamo consapevoli che, come sostiene Silvia Jop, «la soluzione non si possa esaurire in uno spazio confinato in cui discutere il rapporto tra le donne e il calcio. Va sradicato il dato per scontato che il calcio è uno sport maschile che di tanto in tanto praticano anche alcune donne».8 La giornalista propone di farci promotrici di «una risemantizzazione della narrazione complessiva dell’universo calcistico», e propone «una riqualificazione a partire dalla matrice: rimbalziamo assieme».9

La rubrica è un tentativo di rimessa in gioco, a partire da una posizione di dislocamento, di pensieri e pratiche che tendono a non scadere né nello scimmiottamento di comportamenti già esistenti, né nella logica dell’astraente neutralità.

Lo sport spesso è espressione di sogni. Non a caso in tante abbiamo sognato di diventare calciatrici.

Recentemente alcune ragazze hanno voluto portare all’attenzione, con web serie, festival e tornei autogestiti, la loro passione di giocatrici e il disagio di giocare uno sport ancora emblema della virilità (S&C: Sesso&Calcio, di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato, su web channel repubblica.itA qualcuna piace il calcio, prodotto da Stanza 101, racconta la squadra della Res Roma, Equipe Les dégommeuses, transfemifestesportiu). Le citiamo per dire che non siamo sole in questa operazione di risignificazione delle pratiche sportive, ma anche perché una delle puntate di S&C: Sesso&Calcio di Maria Beatrice Alonzi e Giorgia Mazzucato si intitola “Cosa è il fuorigioco?”. C’è un pregiudizio condiviso che rivendica la comprensione del fuorigioco solo da parte degli uomini: le donne sarebbero riluttanti -incapaci- a capire la regola. Senza falsa retorica, potremmo scardinare questo senso comune con un’azione simbolica significativa: ripartiamo dal fuorigioco.


Note:

  1. «Una regola pilastro (ha appena compiuto 90 anni) del calcio – scrive Francesco Ceniti su La Gazzetta dello sport– è stata snaturata e depenalizzata con il solo scopo di favorire qualche rete in più». Sono stati introdotti una serie di elementi di valutazione che hanno fatto perdere quello che era «lo spirito originario dell’offside che non lasciava margini di dubbio: sei davanti ai difensori? Gioco da interrompere. Sei in linea oppure dietro? Si può continuare». Francesco Ceniti, “Un rompicapo inapplicabile. Il fuorigioco è da cambiare”, La Gazzetta dello sport, 16.01.2015
  2. Françoise Jullien, Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, a cura di Marcello Ghilardi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2014.
  3. Ivi, pp. 45-46.
  4. Walter Bragagnolo, Marco Gaburro, Paolo Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, Calzetti & Mariucci, Ponte San Giovanni (PG), 2004, p. 204.
  5. «Avvolgere significa condurre attorno circolarmente. Nel caso calcistico il condurre attorno va visto come orientare la propria manovra in zone di campo adiacenti alla concentrazione difensiva degli avversari che, essendo raggruppati per difendere la zona del tiro in porta, lasciano libere le fasce laterali. Si possono distinguere due tipi di avvolgimento: uno basso e uno alto, a seconda che l’azione sia condotta con trame di gioco dove le traiettorie del pallone sono basse oppure con passaggi alti», W. Bragagnolo, M. Gaburro, P. Romagnoli, Dentro il gioco. Comportamenti e gestualità. Nuove proposte metodologiche per l’allenamento del calciatore, cit., p. 145.
  6. “Fuorigioco” si intitola un documentario di Davide Vigore e Domenico Rizzo sulla vita del calciatore Maurizio Schillaci, cugino di Salvatore, noto come Totò, l’eroe di Italia ’90. «Oggi Maurizio Schillaci ha 52 anni, è un barbone che chiede l’elemosina alla Stazione centrale di Palermo, dorme in un treno abbandonato e non ha più sogni. Lo hanno scovato due giovani registi siciliani, Davide Vigore e Domenico Rizzo, che sulla sua storia hanno realizzato il docufilm: Fuorigioco», in Lucio Luca, “La Storia”, Repubblica, 1.12. 2014). L’intervista a Davide Vigore si può leggere al link:http://www.loraquotidiano.it/2014/11/21/maurizio-schillaci-da-star-a-barbone-il-film-sul-calciatore- dimenticato13495/
  7. Tranne poche eccezioni (calcio, basket, motociclismo, golf e pugilato), lo sport In Italia è dilettantistico, cioè lo si pratica per diletto. Ma se per gli sport menzionati, gli uomini sono dei professionisti, le donne, in nessuna disciplina sportiva, lo sono. Questo significa che per loro lo sport non può essere una fonte principale di reddito: un lavoro. Alle donne atlete è imposto per legge il dilettantismo: la legge 91 del 1981, che regola il professionismo sportivo, esclude di fatto le donne.
  8. Silvia Jop, freelance writer, collaboratrice giornalistica e attualmente coordinatrice redazionale presso “Il lavoro culturale”, Su Fùtbologia: riflessioni sparse in brevi accenni autobiografici, consultabile online a questo link: http://www.lavoroculturale.org/su-futbologia-riflessioni-sparse-in-brevi-accenni-autobiografici/. Questa riflessione fa parte di un interessante dibattito sorto intorno al convegno di Fùtbologia: «Considerato che il livello del discorso sul calcio in Italia è molto basso e il sistema del business globale del calcio è nella merda fin sopra i capelli, da tempo ci divertiamo meno. Però abbiamo un piano: una tre giorni per ripensare il calcio»: httt://blog.futbologia.org/.


(Per amore del mondo, n.13, 2015)

di Antonietta Lelario


Tutta la mia esperienza di insegnante è stata attraversata dal desiderio di dare corpo all’amore per la libertà.

La mia generazione la ereditava dagli anni ’70 del ’900 e molte di noi, donne, dal femminismo.

La scuola era il luogo ideale perché la libertà femminile è una pratica in cui ognuna scopre sé stessa nell’incontro, con i e le più giovani, con colleghi, colleghe e genitori.

La scuola era il luogo ideale perché esercitare la libertà femminile significava muoversi dagli schemi già stabiliti per reinterrogare tutto, compreso il senso del nostro lavoro. Grazie a un nuovo sguardo sui saperi, sulla loro origine sessuata e sulle differenti genealogie, maschile e femminile, si riaprivano le risposte possibili alle domande del presente, si allacciavano nessi nuovi fra la scuola e gli altri luoghi della città, scorreva energia e desiderio. Il conflitto simbolico con la logica aziendale, da una parte e con l’ossessione del controllo dall’altra, che le varie riforme ministeriali, con pochissime differenze fra l’uno e l’altro governo, imponevano alla scuola era nei fatti.

A quelle riforme, abbiamo risposto con uno scarto di lato, pensando che dovevamo prenderci il cambiamento nelle mani. Fu per questo che la bellissima proposta da parte di Luisa Muraro di lavorare ad una rete di autoriforma nell’Università prese piede nella scuola di ogni ordine e grado. Noi aggiungemmo “gentile” per sottolineare la distanza dal modello che avevamo ereditato, fondato sull’autoritarismo e l’in/differenza.

Abbiamo lasciato un sassolino, come spesso fanno le donne, per segnare un sentiero. Infatti, oggi forse più che mai, nella necessaria ricostruzione che segue le macerie prodotte dal patriarcato, il processo di insegnamento apprendimento ha bisogno di incontri, di tempi suoi, di sguardi, di attese, -Chiara Zamboni ha parlato a questo proposito di materialismo dell’anima.

Non gli sono utili né le logiche produttiviste, né le scorciatoie propagandistiche, né le pratiche lusinghiere e adulatorie alla Meloni.

Quello che io auspicherei però è che lo sdegno antifascista, anziché sul personaggio di turno, anziché segnale di buona coscienza diventasse critica attenta e puntuale verso queste logiche e queste pratiche perché è lì nelle logiche e nei meccanismi patriarcali che sono ancora fra i nostri piedi che va ripreso l’esercizio di libertà e creatività, perché è lì nelle pratiche che affiora la forma del mondo, in positivo quella che vogliamo e in negativo quella che ci ferisce. Da molto tempo mi tornano alla memoria i versi danteschi “Il modo ancor mi offende”. Oggi so che nel modo c’è la sostanza.


Antonietta Lelario fa parte del circolo La Merlettaia di Foggia.


(www.libreriadelledonne.it, 4 aprile 2023)

di Redazione


Ragazze ancora intossicate a scuola, donne aggredite o addirittura arrestate perché non indossavano il velo o non lo portavano correttamente. E ora in Iran – dove il velo è diventato simbolo di una rottura interna alla società, tra i fedeli ai principi della rivoluzione e chi è stanco delle imposizioni – arriva la decisione del ministero dell’Istruzione di Teheran, che ha imposto l’obbligo, per le studentesse, di rispettare nelle classi i codici di abbigliamento islamico. Tradotto, significa indossare l’hijab. La decisione segue le proteste in corso nel Paese da settembre, ovvero dalla morte della 22enne Mahsa Amini dopo essere stata arrestata dalla cosiddetta polizia morale di Teheran con l’accusa di non indossare correttamente il velo islamico. Da allora, molte donne stanno sfidando le regole sull’obbligo di indossare l’hijab, soprattutto nelle città più grandi. Il documento in 16 punti del ministero dell’Istruzione afferma che l’obbligo dell’hijab è finalizzato a creare una crescita spirituale sana e sicura. Dopo la diffusione del comunicato, diversi media iraniani hanno riferito delle dimissioni del ministro dell’Istruzione Yousef Noori, subito approvate dal presidente. La sua rinuncia all’incarico, scrivono i media iraniani, sarebbe collegata al ritardato pagamento degli stipendi degli insegnanti alla vigilia del capodanno persiano.

Ma il tema del velo va molto oltre l’obbligo a scuola: alcune donne che non lo indossavano in negozi e centri commerciali di alcune città dell’Iran, rende noto il portale di dissidenti iraniani con sede all’estero ‘Iran International’, sono state arrestate e i locali sono stati chiusi. A Kashan, in provincia di Isfahan, 40 negozi sono stati chiusi perché le clienti non rispettavano l’obbligo di portare il velo, in vigore dalla fondazione della Repubblica islamica nel 1979. A Kermanshah, nell’Iran occidentale vicino al confine con l’Iraq, il personale del complesso turistico Taq-e Bostan ha impedito a donne che non portavano l’hijab di accedere all’area mentre il procuratore di Dezful, nella provincia meridionale del Khuzestan, ha dichiarato che “uno dei siti turistici della città è stato chiuso da venerdì perché non si atteneva agli standard morali”.

La questione del velo, poi, non è l’unica a colpire le donne. Continuano infatti i casi di intossicazione di ragazze nelle scuole, un fenomeno iniziato a novembre dell’anno scorso sul quale non ci sono ancora risposte ufficiale. Finora, oltre cinquemila studentesse sono arrivate in ospedale per avere inalato gas tossico nelle scuole di 26 province del Paese. E il sospetto è che possa trattarsi di attacchi deliberati per impedire alle ragazze di avere un’istruzione o di “punirle” per avere partecipato alle manifestazioni anti governative in corso da mesi. Gli ultimi episodi riguardano cinque studentesse della scuola femminile 22-Bahman di Naghadeh, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale nel nord ovest dell’Iran, che sono state portate in ospedale dopo avere inalato gas tossico mentre si trovavano nell’istituto scolastico.


(Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2023)

di Cristina Piccino


All’inizio c’è la regista, Claire Simon che seguendo la sua ombra, quasi come una guida ci introduce nello spazio dell’ospedale specializzato in ginecologia teatro del suo nuovo film Notre corps, presentato in anteprima al Forum della scorsa Berlinale, ora evento speciale a Cinéma du Reel di Parigi, il festival del documentario che si chiude oggi.

«Il nostro corpo» è il corpo delle donne colto nei suoi diversi passaggi, dalla giovinezza alla vecchiaia, tra desiderio, scoperta di sé, maternità, malattia, morte. Un corpo molteplice, che prova a sottrarsi qui a quanto lo intrappola, alle rappresentazioni codificate in una cultura secolare di vergogna, oppressione, luoghi comuni, silenzi che la società degli uomini produce su di esso. Un corpo imperfetto, magnifico, potente, che non è quello patinato dai dettami delle mode ma appartiene alla quotidianeità della vita. E narra un’esistenza attraverso tante diverse persone, che arrivano da paesi e culture diverse, che esprimono esigenze specifiche, compresa quella di non volersi riconoscere in quel corpo ma di volerne cambiare il genere, che raccontano in ogni parola, sguardo, timore, dolcezza il nostro mondo e le questioni che pone.

In questa cartografia universale entra a un certo punto anche la regista che davanti alla macchina da presa scopre di avere un cancro grave mettendosi in gioco in quell’universo orizzontale di cui la cura è principio fondante, e egualitario, che lei sa cogliere e restituire con precisione. Non c’è retorica emotiva in viaggio di scoperta che è quasi un’avventura, durante il quale conosciamo la nostra realtà di donne e di persone, anche nel fuori campo di un maschile che viene costantemente interrogato. Con passione e delicatezza Simon ci conduce dunque nel «nostro corpo» come non lo avevamo mai visto, illuminandone storie, emozioni e soprattutto quella potenza simbolica che continua ancora adesso a spaventare nella sua libertà.

Il corpo delle donne e quanto su di esso si inscrive in termini di cultura, società, politica, sentimenti racchiude il mondo. Come hai lavorato in una realtà che è molto intima, con ciascuna delle persone che deve condividere un suo privato rendendolo frammento della collettività?

L’idea era quella di restituire attraverso le diverse storie la vita di una donna dalla giovinezza alla vecchiaia alla morte attraverso quei passaggi fondamentali che la caratterizzano, come l’amore, il desiderio, la gravidanza, la maternità, la scoperta del gender, la malattia. In questo ospedale siamo un contesto di uguaglianza, non ci sono differenze tra le donne migranti e quelle borghesi o le senza fissa dimora: ciascuna ha diritto alla cura allo stesso modo Nel dispositivo del film volevo che fosse chiaro il riconoscimento personale in quanto donna, e prima ancora del momento in cui passo davanti alla macchina da presa divenendo con la scoperta della mia malattia una paziente. È per questo che all’inizio entro in campo, volevo essere sicura che questo movimento tra una dimensione soggettiva e una oggettiva fosse evidente. Gli uomini vogliono controllare le donne perché sanno che la loro esistenza dipende dal desiderio femminile, il suo potere simbolico spaventa.

Hai incontrato difficoltà nel filmare?

A volte sì, avevamo per esempio una sequenza molto bella con una donna migrante velata che all’inizio aveva accettato di farsi riprendere ma quando ha visto il suo corpo svestito ha detto di no. Ho fatto dei sopralluoghi per diversi giorni, poi ho preparato un testo che ho inviato a tutte in cui dicevo che se accettavano di farsi filmare la loro testimonianza sarebbe stata di aiuto anche per le altre. Non è solo un problema legato alle diverse religioni, è capitato lo stesso con alcune donne francesi e borghesi i cui mariti si sono opposti come se il corpo delle donne gli appartenesse per diritto.

Una volta ho chiesto a una donna se voleva partecipare al film e il marito ha risposto: «No». Gli ho detto che non lo avevo domandato a lui. Un’altra ragazza aveva accettato di farsi filmare durante il parto ma il compagno non voleva, era preoccupato che si vedessero «le sue parti intime». Il senso di vergogna rispetto al corpo femminile è sempre molto forte, e così i tabù che lo soffocano. Lo stesso vale per la fertilità che nell’educazione è quasi ossessiva, come se una donna fosse tale solo se è fertile, se può avere figli cancellando la libertà che fa parte della decisione di essere madre o di essere ciò che si vuole.

È ancora attuale quello che diceva Simone de Beauvoir in Il secondo sesso a proposito del fardello della riproduzione, e del suo rapporto con la sessualità che connota anche quello delle donne rispetto a se stesse nel passare delle diverse età. Gli uomini vogliono tenerle sotto perché sanno che sono le donne a generarli e che quindi la loro sopravvivenza dipende dal desiderio femminile. La mancanza di controllo li fa impazzire, hanno paura che le donne riescano a raggiungere l’uguaglianza. In questo giocano un ruolo anche donne orribili, perché, proprio perché siamo uguali, per ogni uomo orribile esiste una donna orribile.

Rispetto alla maternità seguiamo l’intero percorso della maternità assistita dalla parte dei pazienti e da quella dei medici, in un modo che è molto forte.

La prima impressione è stata per me quella di vedere un découpage del coito. È chiaro che per le donne è molto più doloroso con l’impianto degli ovociti e tutto il resto. C’è anche una parte fisica nell’azione dei medici, nel gesto delle loro mani quando inseriscono lo spermatozoo nell’ovulo, quasi fossero un demiurgo. In quel laboratorio l’atmosfera che ho colto è davvero fantastica, c’è una grande motivazione rispetto a una sfida che purtroppo però non sempre riesce.

Il film mostra con grande dolcezza diverse scene operatorie come un intervento su un caso di endometriosi, altre come il parto che è una sequenza bellissima, che riguardano l’esplosione di vita e altre ancora che invece toccano la morte. In che modo hai trovato il tuo posto da regista rispetto a ogni situazione?

La cosa che mi interessava più di tutto era mostrare i corpi delle donne, e non quelli un po’ plastificati che vediamo sempre sulle riviste ma quelli veri. Nella relazione con i medici mi piaceva il modo in cui loro guidano le diverse pazienti alla consapevolezza del loro corpo, a un sapere «anatomico» che è molto diverso da quello che pensiamo, di fronte al quale siamo spesso sorpresi o sperduti. Quello che si crea è un rapporto tra il linguaggio e il corpo col quale viviamo ma che non sappiamo nominare mai nella sua interezza. Ho ripreso anche molti incontri tra i medici, mi piacevano i loro racconti e l’idea che il corpo delle donne potesse essere narrato anche in quel modo.

E le due sequenze di cui dicevamo? Rispetto all’endometriosi tra l’altro, a proposito di «nominare le cose», è una malattia di cui si parla pochissimo ma che influenza terribilmente la vita di molte.

Si, è nuovamente anche a causa dei condizionamenti culturali sulle donne, la scena della ragazza che preferisce soffrire piuttosto che curarsi è molto indicativa. La sofferenza è un altro aspetto dell’oppressione, quando la dottoressa chiede alla donna che sta per partorire se è stata escissa, in modo da preparare meglio il suo parto, e lei risponde sì, capiamo che questa ragazza non ha mai provato piacere; ha un marito vecchio e lei che ha solo sofferto per avere rapporti sessuali volti alla procreazione.

Riguardo l’endometriosi, ne sappiamo poco eppure è molto diffusa con esiti invalidanti tra le giovani donne. Sarebbe fondamentale riconoscerla per dare loro la possibilità di curarsi meglio – anche rispetto al lavoro, ai giorni di congedo ecc. Ho ripreso le operazioni perché volevo mostrare il nostro corpo dall’interno, e non come una forma di sperimentazione dell’immagine ma per conoscerlo ancora più da vicino, per assumerne una coscienza Nel parto ho cercato di filmare di profilo, volevo che il viso della mamma fosse legato a quello del bambino che stava venendo al mondo.

Quando hai deciso di filmarti?

Avevo già in mente di riprendere una conversazione di diagnosi di un cancro, pensavo di chiedere a una persona in sala d’aspetto di prestarsi a una messinscena di questa situazione. Quando ho fatto i miei esami e mi hanno convocata mi è sembrato ovvio che ci fossi io davanti alla macchina da presa, non potevo certo farmi interpretare da un’altra!

E poi ero convinta che non fosse niente di grave. La dottoressa, Sonia Zilberman era contraria, ma io sono andata avanti. E quando mi hanno detto cosa avevo è stata dura, ho filmato senza filtri, nello stesso momento che lo scoprivo, è stato davvero un colpo terribile. Mi sembrava impossibile, era come un incubo.

Anche «Les Bureaux de Dieu» (2008), metteva al centro il corpo delle donne.

Lì però si parlava di maternità, contraccezione, aborto; qui in questo ospedale che per questo trovo formidabile, si tocca ogni aspetto della ginecologia con le diverse questioni che pone. E questo mi ha permesso di di lavorare su aspetti del corpo femminile in modo che non è mai stato fatto al cinema.


(il manifesto, 2 aprile 2023)

di Valentina Parisi


Riavvolgendo il filo di quella intricata matassa che è il suo romanzo Memoria della memoria, Marija Stepanova ha rinchiuso in una immagine pregnante l’aspirazione recondita che l’aveva animata nel corso della scrittura: «Il mio intento era far sì che al lettore venisse voglia di trasferirsi, armi e bagagli, nel mio labirinto verbale».

Abitare un dedalo affabulatorio, fatto di digressioni, citazioni colte e repentine stoccate emotive, è anche quanto spetta a chi si inoltri, gomitolo alla mano, nella sua eterogenea produzione poetica, cui di recente si è aggiunta la silloge La guerra delle bestie e degli animali (a cura di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti, Bompiani, pp. 256, € 20,00).

I cinque testi raccolti confermano la tendenza di Stepanova a prediligere, rispetto all’improptu lirico, forme di ampio respiro, come quella della ballata o del poema, rielaborate con distacco post-moderno e con una energia deflagrante che ha spinto il critico Boris Paramonov ad avvicinare l’autrice nata a Mosca nel 1972 ai cubo-futuristi e ai poeti alogici dell’avanguardia. Al tempo stesso, i suoi versi sembrano scritti da un Io femminile dai confini instabili, che ha rinunciato a una individualità definita per aderire a quella metamorfosi continua che, sebbene inavvertita, contraddistingue secondo Stepanova l’esistenza umana. Proprio su questo desiderio di dare alla propria voce una fluidità proteiforme si è concentrata la nostra conversazione, a Napoli, poco prima che l’autrice intervenisse al Festival della Lettura e dell’Ascolto.

Nella sua poesia è fondamentale il ruolo svolto dalla parola altrui, quella dei poeti russi, e non solo, ma anche quella proveniente da canzoni e slogan sovietici. Sembra che la sua voce poetica sia definita proprio da questo continuo gioco citazionale. È così?

Vorrei che lo fosse. Il mio modo di esistere sulla lingua sta in questo discorso fra voci diverse – a volte anche fra culture e lingue eterogenee. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a scrivere, regnava la convinzione che un poeta dovesse trovare una propria voce unica, da mantenere immutata per il resto della vita. Questa associazione fra una persona e una sola voce mi sembra molto limitante, così come lo è, del resto, l’idea che l’identità umana sia inalterabile.

Nel suo poema «Spolia» un personaggio ignoto, forse maschile, rimprovera a una non meglio precisata «lei» di non essere «capace di parlare per sé» e di «essere mille voci». C’è qualcosa di autobiografico in questa notazione?

L’inizio di Spolia è un montaggio di citazioni pressoché letterali dalle stroncature di quei critici che, anni fa, mi accusavano di non essere in grado di trovare una «mia» voce, e mi fa piacere che lei abbia intuito la natura maschile di quel coro, perché in effetti a parlare erano quasi esclusivamente uomini. Com’è ovvio, le mie poesie andavano in tutt’altra direzione rispetto alle confessioni liriche che, almeno in Russia, ci si attende tuttora da una poetessa. In generale però credo che tutta questa enfasi sulla persona dell’autore sia eccessiva. Quando penso all’Io, mi viene in mente il buco vuoto di una ciambella; da questo buco esce una voce che «tasta» il mondo e lo rende reale. L’istanza concreta da cui proviene questa voce mi pare irrilevante, anche perché come le dicevo, va soggetta a radicali cambiamenti.

In mezzo a tutte queste metamorfosi e a tutte queste voci c’è almeno una costante nella sua poesia?

Direi che c’è una sola cosa che non cambia e cioè una domanda alla quale cerco di rispondere scrivendo: probabilmente, non sono in grado di formularla con chiarezza, ma è legata alla morte come momento di passaggio e a ciò che segue subito dopo. Ovviamente è una domanda gigantesca, difficile da delimitare, simile a un enorme cratere o a un imbuto; mi limito a camminare sui margini di questa immensa buca, nel tentativo di individuarne i contorni.

Il poema «La guerra delle bestie e degli animali» risale al 2015 ed è ispirato agli scontri nel Donbass fra truppe separatiste filorusse ed esercito ucraino. Ora che quel «conflitto a bassa intensità» si è trasformato nell’attuale catastrofe, colpisce ancora di più il suo volgersi all’indietro per parlare del presente, il gioco citazionale che lei qui propone non solo pescando da «The Waste Land», ma anche dal Canto sulla schiera di «Igor’», un testo che si riferisce a Kiev. Come mai ha scelto di dialogare proprio con queste due opere?

Anzitutto perché sono entrambi «poemi del dopo-guerra», testi che cercano di restituire la percezione spaesata di una realtà in cui è cambiato tutto. Ma, a dire il vero, con queste inserzioni di voci diverse mi interessava più che altro infrangere la linearità del discorso poetico sulla guerra. Ogni conflitto è lacerazione, della carne, ma anche del linguaggio. Mi chiedo se la brutalità sia una componente intrinseca della lingua russa, ovvero se il potenziale di violenza di cui osserviamo oggi l’attualizzazione sia iscritto nelle nostre stesse parole. Non penso che la lingua sia colpevole, però ad esempio Paul Celan, per poter scrivere, ha dovuto inventare un tedesco «nuovo», sia dal punto di vista morfologico che grammaticale. D’altronde non c’è lingua che «vanti» un passato imperiale cui sia estranea la violenza. Quello che può fare la poesia, credo, è tentare di delimitare queste zone a rischio. La lingua è come un campo minato dove restano insepolti gli ordigni dei secoli passati. Forse, prendendo coscienza di questa minaccia nascosta, possiamo trasformare il tessuto stesso della lingua. Sogno una lingua russa che diventi consapevole della violenza di cui è stata ed è portatrice.

Nella sua poesia un’immagine ricorrente, che dà anche il titolo a un ciclo del 2020, è quella del «rammendo della vita» (počinka žizni). Come ne spiega l’origine?

Questa metafora non è mia, viene dal chassidismo, secondo il quale ogni essere umano è al mondo per «rammendare la vita», quasi fosse una calza. D’altra parte, è una immagine che per me ha una profonda valenza sentimentale, perché evoca il nome del villaggio sperduto, Počinki, da cui provengono i miei avi materni. Fin dall’infanzia avevo sempre sognato di visitare questo luogo irraggiungibile, pressoché fantastico, e così, quando in seguito mi sono imbattuta di questa idea della mistica chassidica, ho avuto l’impressione che, in fondo, fosse stata mia fin da bambina: la vita ha bisogno sì di počinki («rammendi»), ma anche di Počinki – una sorta di Eden perduto cui tendere.


(il manifesto-alias, 2 aprile 2023)

di Franca Fortunato


Adriana Valerio è una teologa, una storica, un’esegetica, interprete dei testi sacri della Bibbia. Nel suo ultimo libro Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, edito Feltrinelli, raccoglie il suo lavoro di quarant’anni di passione e di ricerche per una narrazione delle donne “altra” da quella istituzionalizzata dalla Chiesa nei suoi millenni di storia.

Valerio parte dall’assunto, comune alle teologhe femministe, che la Bibbia composta da numerosi libri, tramandati e scritti nell’arco di tempo di circa mille anni (dal X sec. a.C al I sec. d.C.) è un prodotto letterario e come tale non esaurisce le sue potenzialità di senso nel passato, ma si arricchisce continuamente di nuove chiavi di lettura; per questo non ha, e non può avere, univocità di interpretazione, ma si presta a significati molteplici da decodificare e interpretare. Nel libro la sua narrazione abbraccia il Vecchio e il Nuovo Testamento fino a Paolo di Tarso; mette a confronto interpretazioni diverse tra donne e uomini, propone questioni teologiche e storiche ancora aperte.  Nella sua narrazione il “racconto di creazione e di caduta” diventa il “mito delle origini”, la rappresentazione simbolica “dell’umano alla ricerca di una propria autonomia”. L’universo non è nato in sei giorni; Eva, come Adamo, non è mai esistita e quindi è priva di fondamento l’accusa di una trasgressione a un comandamento divino e infine Eva non è nata e non poteva nascere da Adamo giacché sono le donne che partoriscono e non viceversa. Le donne non sono solo destinatarie, come gli uomini, del messaggio di salvezza, ma anche “portatrici della salvezza”. “Nostre madri fondatrici”, protagoniste della loro vita e di quella del loro popolo, sono le “matriarche” – Sara, Rebecca, Rachele, Lia, Tamar, Miriam, Debora, Hulda, Ester, Giuditta, Rhut, Noemi –, una genealogia femminile che non ha trovato memoria nella storia collettiva.

Il Dio delle donne non ha i caratteri del potere maschile. Non è il Dio guerriero, monarca assoluto che chiede sacrifici, giudica, incute terrore, castiga, esige obbedienza. È il Dio, invece, dell’amore, della misericordia, della vicinanza che le accompagna nella vita accettando le loro scelte libere. È lo           stesso Dio di Gesù, che non chiede sottomissione, non parla di timore, ma di amore: annuncia felicità e speranza. È il Padre misericordioso-materno che abbraccia, accoglie incondizionatamente il figlio perduto e cerca chi si è smarrito senza condannare. Le donne, le cui tracce non scompaiono dai testi canonici, riconoscono Gesù, il Maestro. Ascoltano, interrogano, provocano, accudiscono, amano, condividono, testimoniano, inquietano, trasgrediscono, lo seguono e lo accompagnano lungo il suo cammino fin sotto la croce, dove gli uomini lo abbandonano. Gesù, un uomo pieno di sentimenti, le ama, ne fa le sue discepole (le sorelle Marta e Maria), le sue Apostole (Maddalena, l’Apostola degli Apostoli, non la prostituta pentita, come la si è voluta ritrarre; Maria, la madre, la sovversiva che non sempre capisce suo figlio), discute e si confronta con loro (la Samaritana, la missionaria ispiratrice della mistica), nel mentre i discepoli faticano a comprendere il suo comportamento. Il Gesù dei Vangeli non concepisce la sua comunità come una cerchia separata di soli uomini e non voleva un tempio, un sacerdozio, una struttura gerarchica, né tantomeno un diritto canonico, la sua attenzione era esclusivamente rivolta a un profondo rinnovamento di vita, in vista dell’immanente Regno di Dio. Una narrazione, quella di Adriana Valerio, che va letta, conosciuta e studiata.


(Il Quotidiano del Sud, 1° aprile 2023)

Il corpo delle donne è ancora una volta al centro del dibattito odierno: maternità surrogata, prostituzione, pornografia sui social. L’ambivalente rapporto tra scelta e necessità, libertà e mercato, ci mette di fronte a sempre nuovi interrogativi sulle forme di autosfruttamento all’interno della società neoliberista. Corpo merce o corpo politico? 

La partecipazione è aperta a tutte e tutti

di Valentina Pazé


Depositatosi, almeno per il momento, il polverone generato dallo stop del Governo all’iscrizione anagrafica dei figli delle coppie omosessuali, impropriamente associato allo spauracchio della maternità surrogata, è forse possibile provare a ragionare pacatamente su questi temi, a partire da alcuni punti fermi.

Primo. Le due questioni (diritti dei bambini delle coppie omogenitoriali e regolamentazione della maternità surrogata) sono concettualmente diverse e vanno tenute separate. È possibile stare a fianco del mondo lgbtq quando rivendica il matrimonio paritario, il diritto all’adozione e il pieno riconoscimento dei diritti dei bambini delle “famiglie arcobaleno”, e opporsi alla legalizzazione della maternità surrogata nel nostro paese, insieme a una parte non piccola della stessa galassia lgbtq (come, in Italia, Arcilesbica). Sul piano teorico, è possibile anche l’inverso: difendere la famiglia tradizionale e ritenere accettabili i contratti di surrogazione di maternità, se è vero che oggi sono soprattutto coppie eterosessuali a ricorrere a questo strumento, che in alcuni paesi è consentito solo a loro e/o a coppie regolarmente sposate.

Secondo. La destra – questa destra, ultra-liberista sul piano economico e oscurantista sui diritti di libertà – non ha alcuna credibilità e alcun titolo a intestarsi una battaglia contro la mercificazione del corpo femminile e lo sfruttamento delle donne vulnerabili. Non finché continuerà a fare la guerra ai poveri (e alle povere), a disinteressarsi dei drammi delle donne migranti, a lucrare facili consensi sulle “borseggiatrici rom” detenute, alle quali vorrebbe addirittura togliere i figli… A intestarsi una battaglia contro lo sfruttamento del corpo femminile – o per lo meno ad aprire una discussione seria e approfondita su questo tema – dovrebbe invece essere la sinistra, che nel nostro paese (ma non in altri: vedi France Insoumise o Podemos) sulla maternità surrogata appare reticente, ambigua, contraddittoria. Apparentemente incapace di andare oltre i “non è all’ordine del giorno” o “i tempi non sono maturi”.

Cerchiamo allora di capire che cos’è la maternità surrogata, o gestazione per altri (solo per comodità, di qui in poi anche gpa), concentrandoci sulla versione “solidale e altruistica” che una proposta di legge depositata in Parlamento nella scorsa legislatura dall’associazione Luca Coscioni, firmata anche da Nicola Fratoianni, vorrebbe introdurre nel nostro paese.

In che cosa si distinguono la forma commerciale e quella altruistica? Teoricamente, la differenza è chiara. Nel primo caso la prestazione della donna che accetta di ospitare nel proprio utero uno o più embrioni ottenuti attraverso le tecniche della fecondazione in vitro, portare avanti la gravidanza e partorire, per poi consegnare il bambino ad altri, viene pagata. Nel secondo caso si prevede solo un rimborso spese. Di fatto, però, nei paesi in cui la gpa altruistica è legale, l’entità del rimborso, largamente indefinita e spesso destinata a coprire anche i mancati guadagni di donne che nel momento in cui hanno sottoscritto il contratto erano disoccupate o lavoratrici part time, tende ad attestarsi su cifre paragonabili a quelle della gpa commerciale. Il motivo è semplice. Se davvero si riconoscesse alla gestante un semplice rimborso spese, senza alcun margine di guadagno, di donne disponibili a sobbarcarsi le fatiche di una gravidanza particolarmente pesante e rischiosa anche sul piano fisico (perché ottenuta attraverso ovodonazione) sarebbero poche. Come poche sono le “donatrici” di ovociti nei paesi in cui il rimborso è esiguo. A queste condizioni, oltretutto, le agenzie che stanno dietro la stessa gpa solidale, che (quasi) solo nei film coinvolge sorelle e amiche carissime (e altrettanto carissimi amici gay), ma nella realtà riguarda persone sconosciute che si incontrano attraverso un’intermediazione commerciale, non riuscirebbero a stare sul mercato e a sopravvivere alla concorrenza internazionale.

A distinguere la gpa altruistica da quella commerciale – si potrebbe immaginare – dovrebbe poi essere la natura della relazione che si instaura tra la donna che si candida a portare avanti la gravidanza, da una parte, e i “genitori intenzionali”, dall’altra. In realtà anche da questo punto di vista non è dato osservare differenze. Anche nella gpa altruistica i rapporti tra le parti sono minuziosamente normati da un contratto, che vincola la gestante a seguire un certo stile di vita, sottoporsi a controlli e visite mediche, farsi seguire da una psicologa. Tra le questioni spinose che devono essere regolamentate c’è quella del diritto di abortire (o non abortire, nel caso si prospetti la necessità di interventi, non infrequenti, di riduzione embrionale). A chi spetterà l’ultima parola, se la gestante va intesa solo come una “portatrice” di un figlio non suo? Anche là dove – come fa il progetto di legge Coscioni – si attribuisca esplicitamente alla donna la decisione ultima, non è chiaro se i contratti possano prevedere forme di risarcimento (effettivamente contemplate negli Stati Uniti) a favore dei “genitori intenzionali”. Ed è facile immaginare che possano esserci indebite pressioni sulla gestante. Ma il contratto serve soprattutto a vincolare la puerpera a consegnare il bambino che ha partorito, rinunciando a qualsiasi pretesa nei suoi confronti. Questo strano obbligo, che cozza con l’idea intuitiva di “dono”, è stabilito anche dal progetto di legge Coscioni, che rinvia a un tribunale il compito di dirimere eventuali controversie tra le parti. L’esperienza di altri paesi insegna che, in questi casi, i giudici attribuiscono il bambino ai “genitori intenzionali” che (guarda caso!) sono in grado di garantirgli condizioni di vita più agiate della madre naturale.

L’eventualità che la gestante possa cambiare idea, dopo un’esperienza emotivamente coinvolgente come la gravidanza e il parto, non è tuttavia peregrina ed è ben presente a chi si occupa professionalmente di gpa. In Portogallo la legge del 2017, che ha legalizzato la forma altruistica, rimarca «l’importanza di salvaguardare il legame del bambino con la madre genetica [in realtà inesistente prima del parto], riducendo al minimo nel corso dell’esecuzione del contratto la relazione tra la madre surrogata e il bambino, in considerazione dei potenziali rischi psicologici e affettivi connessi a tale relazione» [sic!]. Proprio per scongiurare tali rischi le agenzie ricorrono a tutta una serie di tecniche, tese a evitare che gli ormoni della gravidanza, assolvendo al loro compito, favoriscano l’attaccamento tra madre e bambino. In India le gestanti, ricoverate per l’intera durata della gravidanza in appositi ostelli, si sentono ripetere continuamente che “sono uteri”, o che l’utero è uno “spazio vuoto” di cui sono proprietarie, che può essere temporaneamente affittato per ospitare bambini altrui. In Israele si invitano le “portatrici” ad evitare accuratamente di toccarsi la pancia quando i movimenti del feto iniziano ad essere avvertibili. Altrove si punta a deviare l’affettività della gestante dal bambino in formazione nel suo ventre al singolo, o alla coppia, di cui è la “benefattrice”. Come spiega un imprenditore del settore, quando tutto funziona a dovere, «la surrogata si lega alla coppia e non al bambino; quando la surrogata rinuncia al bambino, non prova ansia da separazione per questo, ma perché perde la coppia» (A. Phillips, Our Bodies, whose property?, Princeton University Press, 2013, p. 89). Ecco allora l’invito a non isolarsi, a partecipare a gruppi di auto-aiuto, ad avvalersi di un supporto psicologico (previsto obbligatoriamente per tutto il periodo della gravidanza anche dal progetto di legge Coscioni). Alla faccia della libera scelta – viene da dire – e della difesa della maternità surrogata in chiave di autodeterminazione delle donne…

Ce n’è abbastanza, credo, per far sorgere qualche dubbio sulla visione idealizzata della gpa altruistica come alternativa a quella commerciale. E per accorgersi che legalizzare la gpa, in qualsiasi sua forma, al di là di quella fin d’ora possibile (quando una donna non riconosce il bambino al momento del parto e lo fa, al suo posto, il padre genetico) significa spalancare le porte a un lucroso mercato fatto di cliniche, agenzie, consulenti legali e psicologiche. Un mercato che non recluterà certo le sue “volontarie” tra le donne benestanti, con un buon livello d’istruzione e un lavoro appagante… Davvero tutto ciò non pone problemi a sinistra?


(Volere la Luna, 31 marzo 2023)

di Luisa Muraro


C’è una scrittrice francese che ha scritto un libro in cui parla della differenza sessuale, La différence des sexes, che è stata tradotta come se parlasse della differenza tra i sessi. Non va bene. La differenza sessuale non è tra i sessi, ma dei sessi. Vuol dire che per avere un uomo e una donna da confrontare, la differenza c’era già a farli differenti. La differenza sessuale era già al lavoro dal momento del loro concepimento. Bisogna avere chiaro questo fatto quando parliamo di uomini e donne. La differenza sessuale viene prima e si riproduce dando vita a lei o lui, facendoli differenti. Questa semplice verità di fatto caratterizza il femminismo della differenza. La differenza sessuale si riproduce anche nei nuovi nati, nel fatto cioè che sono sessuati, di un sesso o dell’altro, maschi o femmine. Nella lingua italiana e in altre lingue la cosa viene significata con l’uso del maschile e del femminile. Ma si creano dei problemi perché, primo, non abbiamo il genere neutro per cui tutte le cose sono sessuate, secondo, perché la sessuazione maschile/femminile si ripete al plurale senza poter combinare i due sessi nel plurale. A causa dei problemi linguistici, troppo spesso nelle discussioni sulla differenza sessuale non si fa attenzione al passaggio dal dato biologico al dato antropologico. Si fa confusione tra l’uno e l’altro aspetto, oppure si mantiene un solo aspetto e si tralascia l’altro, mentre sappiamo che l’essere umano comprende insieme la natura e la cultura passando e ripassando dall’uno all’altro. Nella famiglia questo è evidente per la compresenza di sessi e di età differenti. Il fatto che i genitori siano tradizionalmente un uomo e una donna sta a significare che, ad ogni passaggio procreativo, la differenza sessuale passa e ripassa dal due all’uno, dall’uno al due. Passa e ripassa dal biologico all’umano, dall’umano al biologico. È un ordine al quale siamo sottoposti e al quale è bene obbedire anche quando i genitori non sono entrambi biologici. Obbedire all’andirivieni tra natura e cultura, tra cultura e natura è il modo più diretto di vivere la complessità tipicamente umana. Siamo animali razionali, abbiamo un’anima e un corpo, proviamo istinti e sentimenti, parliamo, pensiamo, dormiamo…


(libreriadelledonne.it, 31 marzo 2023)

di Laura Colombo


I temi controversi che in questi giorni, a torto o a ragione, sono passati sotto l’etichetta “diritti dei bambini” hanno bisogno di pensiero e ho sentito l’esigenza di trovare un punto fermo per orientarmi. Attraverso la prospettiva della differenza sessuale, è possibile squadernare verità altrimenti mistificate. La prima e principale riguarda l’asimmetria tra donne e uomini in materia di riproduzione, essendo la capacità procreativa propria del corpo femminile, che porta avanti il processo di gestazione per trasmettere la vita. È vero che negli ultimi decenni la tecnologia ha reso possibile la procreazione con mezzi artificiali, scindendola dalla natura, ma è anche vero che la riproduzione artificiale rimanda sempre alla procreazione naturale: anche con le tecnologie riproduttive, l’embrione ha origine dall’incontro di due gameti di provenienza materna e paterna (omologa o eterologa che sia) e si sviluppa all’interno del corpo di una donna che lo dà alla luce. Questa asimmetria tra i sessi nella procreazione è, a mio parere, un preciso punto di ancoraggio per pensare la maternità da molti punti di vista, anche quello giuridico. Scrive Silvia Niccolai: “Nascere da un corpo di donna fa di un essere umano un certo qualcuno: il figlio di lei. Mater semper certa è un principio anti-volontarista che ferma la capacità di ogni dispositivo – di legge o di contratto – di manipolare l’identità e la storia di un essere umano facendone il ‘costrutto’ di quel dispositivo, ed è in questo senso un auto-limite che presidia un rapporto il meno possibile squilibrato tra ‘legge’ e ‘realtà’, al cospetto dell’angosciante consapevolezza di ciò che può implicare l’abuso della prima nei confronti della seconda”[1].

Posta questa asimmetria, è evidente la differenza che passa tra una famiglia composta da due donne e quella composta da due uomini: nel primo caso, la procreazione può comportare uno sdoppiamento di maternità (la madre gestazionale può dare alla luce una creatura che origina dal gamete femminile della compagna e da quello maschile necessariamente eterologo) ma chi nasce mantiene il legame materno ed eventualmente potrà risalire al padre biologico. Nel caso di una coppia di uomini, se viene negata la possibilità di adottare una creatura già nata, il fare famiglia passa necessariamente per la surrogazione di maternità, che avviene inevitabilmente in un contesto di mercato anche quando è di carattere gratuito (non solo per via del rimborso spese alla gestante, ma anche e soprattutto per le agenzie di intermediazione, gli avvocati e tutto l’apparato a pagamento che rende possibile la surrogazione).

Per i bambini e le bambine già venuti al mondo, è a mio parere fondamentale che l’istituto dell’adozione in casi particolari sia il più snello possibile, in modo da riconoscere, anche da un punto di vista giuridico, una famiglia che di fatto già esiste, preservando tuttavia l’interesse primario e fondamentale del minore alla conoscenza delle proprie origini. Questo perché noi siamo anche corpo, il nostro corpo ha una sua storia che fa tutt’uno con la storia della nostra umanità: la storia del corpo conta, la biologia conta insieme e mescolata a tutte le relazioni che hanno fatto di noi l’essere umano che siamo.

Detto questo, mi chiedo quali significati essenziali veicolava la manifestazione del 18 marzo. In primo luogo, mi pare evidente che si manifestasse il sacrosanto bisogno di rendere socialmente accettato il “fare famiglia” da parte di coppie omogenitoriali. I discorsi sui diritti dei bambini sono in realtà discorsi sulla necessità che siano riconosciute e accettate famiglie differenti da quella tradizionale. C’era anche un non detto, un sottaciuto discorso antidiscriminatorio che, ahimè, presuppone la parità tra uomini e donne e la loro equivalenza nella dimensione del fare: l’accudimento, l’educazione, il crescere i bambini lo fanno sia i padri che le madri, si pone quindi la genitorialità sul piano sociale espungendo il di più femminile della gestazione e del parto, che noi sappiamo non essere un mero fare ma esperienze di una qualità differente[2]. Più precisamente, il di più femminile viene collocato in una dimensione irrilevante e sorprende che siano anche le donne a fare questa mossa.

La matassa ingarbugliata dei discorsi che circolano intorno alla maternità surrogata diventa per me ancora più intricata quando penso alle coppie eterosessuali che vi ricorrono, perché in quel caso è in questione un desiderio femminile che resta enigmatico e inespresso. Cerco una leva nel femminismo per orientarmi e, come è in parte emerso nel numero di Via Dogana 3 dedicato alla maternità (ottobre 2022), a giocare un ruolo determinante sarebbe l’innegabile guadagno femminile della procreazione per libera scelta. Pensando allo stigma sociale che gravava sulle donne con figli al di fuori del matrimonio di pochi decenni fa, ci rendiamo conto di quanta strada abbia fatto la libertà femminile. Se si aggiungono i progressi fatti dalla scienza nel campo della riproduzione assistita, comprendiamo il senso dei discorsi che legano la maternità a una libera scelta femminile. Tuttavia, questo legame presenta lati oscuri e multiformi: non sempre scegliere di essere madre significa effettivamente poter diventare madre. Il silenzio femminile e femminista è proprio nel punto ostico della messa in parola di un desiderio ostinato, quando la possibilità di scelta si interrompe. Mi chiedo come rendere possibile un discorso. Forse attraverso la creazione di uno spazio politico perché lei possa trovare le parole, condivise, scambiate con altre, per venire a capo del suo desiderio non realizzabile in maniera sensata.


[1] https://iris.unica.it/retrieve/e2f56ed8-2f10-3eaf-e053-3a05fe0a5d97/silvia%20genius.pdf

[2] Stefania Tarantino ha saputo descriverlo con nitidezza e verità in un recente post facebook


(libreriadelledonne.it, 31 marzo 2023)

di Letizia Paolozzi


Esistono pratiche politiche che hanno contiguità, corrispondenze, assonanze con quelle femministe. Eppure, l’occhio impigrito dei media, per abitudine o per opportunismo, non le guarda, anzi, le esclude dal proprio campo visivo comportandosi come i “retroscenisti” che puntano a scoprire magagne, a prevedere ribaltoni nel modesto perimetro dei partiti in crisi e in questo modo dimenticano tutto ciò che significa politica legata alla vita.

Prendiamo quanto accaduto dopo il naufragio nella notte del 26 febbraio a venti chilometri da Crotone. Il 9 marzo il Consiglio dei ministri va in trasferta e si riunisce nel municipio di Cutro. Strade blindate, schieramento di polizia, qualche orsetto di peluche scagliato contro le auto blu. Intanto i corpi – sono 71, diventeranno 90 dopo un mese – degli afghani, siriani, iraniani, iracheni giacciono in fila nelle bare al Palamilone di Crotone. Il governo riparte senza fermarsi al Palamilone.  

L’11 marzo migliaia in corteo camminano silenziosamente verso il mare di Steccato di Cutro sollevando croci fatte con le assi consumate del caicco Summer Love che si è inabissato a pochi metri dalla riva. Ascoltano il racconto di un superstite afghano; piantano fiori sulla spiaggia.

Il sesso femminile conosce la spinta a partecipare al lutto con un gesto di condivisione, la pietas che diventa ricchezza umana e politica.

Nel bel film “Gli spiriti dell’isola” di Martin Mc Donagh che gira intorno alla nascita dei conflitti, viene portata ad esempio l’amicizia tra due uomini – Colm e Padraic – troncata brutalmente. È Colm a dire a Padraic, sodale di bevute al pub e di chiacchiere sulla cacca del pony: «Non voglio più parlare con te, mi annoio. Devo comporre una musica; voglio essere ricordato quando scomparirò».  L’altro non si dà pace, insiste, tampina. La cosa scivola nell’horror mostrando il mistero terribile della brutalità delle azioni umane; l’impulso vendicativo impossibile da contenere e la spirale della lotta fratricida dalla quale si salva solo la sorella di Padraic. La quale, per difendere il proprio desiderio – leggere libri – sceglie di esiliarsi. «Me ne vado. Siete tutti pazzi». Combatte così la violenza e la guerra, sottraendosi alla sua logica. Stesso gesto di sottrazione degli obiettori di coscienza, di quanti dalla Russia sono emigrati pur di non andare a combattere, delle iraniane che si ribellano a mani nude.

Ha osservato Svetlana Aleksievič: «Vorrei scrivere di chi non spara, di chi non riesce a sparare a un altro essere umano, di qualcuno a cui l’idea stessa della guerra provoca dolore» e noi siamo chiamate a dare voce a chi compie queste scelte.

D’altronde, il coraggio non è solo fisico e non si trova in un solo sesso.

Le ucraine fuggite in Europa, in Italia con bambini, nonne e maschi troppo vecchi per essere obbligati a combattere, in Italia possono essere accostate alle migranti nel tentativo di riconfigurare altrove i propri rapporti sociali.

Però l’Italia accoglie i perseguitati dall’invasione russa e non gli afghani, iracheni o siriani bombardati dai russi e dagli americani. “Aiutiamoli a casa loro” siriani, afghani, iracheni. 

Quanto all’esodo, alla diserzione rimanda a una pratica di resistenza in relazione con il primum vivere della politica femminista: immaginiamo altre pratiche, impariamo a riconoscerle dove già esistono. Di qui l’esigenza di immaginare altre pratiche, di saperle riconoscere giacché la contaminazione dell’ordine simbolico e del reale è un lavoro di cui ci siamo fatte carico noi donne. 


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 30 marzo 2023)