A cura della redazione Cronaca


Tre ciotole, l’ultimo libro di Michela Murgia, esce il 16 maggio. Il primo racconto si apre con la diagnosi di un male incurabile. Ed è una vicenda autobiografica in modo “pedissequo”, spiega la stessa Murgia in un’intervista al Corriere della Sera. Perché l’autrice di Accabadora, la vincitrice del premio Mondello, la barricadera di Istruzioni per diventare fascisti e Stai zitta, la cronista impegnata di Il mondo deve sapere, la cattofemminista di Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, God save the Queer. Catechismo femminista, ha un tumore al quarto stadio, uno stadio da cui “non si torna indietro”. Sta per morire, sottolinea. Le restano pochi mesi. E ha deciso di raccontarlo. Spiegando che «le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello». Racconta anche che «il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».

Nel libro Tre ciotole la protagonista di uno dei racconti rifugge la definizione di tumore come appunto di qualcosa di alieno, da combattere, «perché non mi riconosco nel registro bellico. Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno». E in più «non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».

Murgia racconta anche della sua passione per il coreano e la Corea. Nata in un momento di estrema difficoltà e di depressione, seguito allo shit storm che le si era scaraventato addosso quando, all’inizio del lockdown, in una trasmissione televisiva, aveva criticato la retorica di guerra costruita intorno a quella malattia, «l’uso del registro lessicale militare e dei simboli bellici – medaglie, armi e divise – nella comunicazione della gestione dell’emergenza covid», la stessa che la infastidisce anche oggi rispetto alla malattia che le vive accanto. L’attacco fu violentissimo e nessuno la sostenne, alcuni ritenendo di avere troppo pochi follower rispetto a lei da non avere in fondo nessuna voce.

A tirarla fuori da quella situazione fu il video della star coreana Kim Tae-hyung dei BTS che si accascia sul red carpet: era l’aprile del 2021. Casca e un suo compagno di band per non lasciarlo solo si accascia insieme a lui, come lei stessa ricorda in un suo articolo: «In quei sette secondi di video i BTS hanno messo in atto una consapevolezza comportamentale di cui avrei avuto estremo bisogno nella mia vita: il fatto che nessuna persona possa rimettersi in piedi al tuo posto non le impedisce di inginocchiarsi al tuo fianco. Quel video mi dimostrava che davanti alla fragilità non esiste solo la risposta dei rapporti di forza, dove sei costretta a chiederti chi è più potente, chi lo è meno, chi può aiutare chi e chi non può farlo. Esisteva da qualche parte nel mondo anche la categoria della parità fragile, della capacità non innata di flettersi insieme allo stesso vento finché il vento non passa, durasse anche solo i pochi secondi di un calo di pressione davanti ai fotografi».

Michela Murgia racconta poi che si è preparata a quella che sarà: si sposa ma non «solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono». E si sposa con «un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere». Ha comprato una casa con dieci posti letto «dove stare tutti insieme» io e «la mia queer family» cioè «un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli».

Non ha paura della morte, Michela Murgia, anche se annuncia che la visiterà entro poco. «Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio», dice. «Perché il suo è un governo fascista. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».

Proprio su questo aspetto ha risposto la premier Giorgia Meloni: «Apprendo da una sua lunga intervista che la scrittrice Michela Murgia è affetta da un bruttissimo male. Non l’ho mai conosciuta e non ho mai condiviso le sue idee, ma voglio mandarle un abbraccio e dirle che tifiamo per lei. E io spero davvero che lei riesca a vedere il giorno in cui non sarò più Presidente del Consiglio, come auspica, perché io punto a rimanere a fare il mio lavoro ancora per molto tempo».


(la Repubblica, 6 maggio 2023)

di Franca Fortunato


Tina Anselmi come tante donne della sua generazione ha fatto della passione politica la ragione della sua vita, restando sempre fedele a sé stessa, alla ragazza che a diciassette anni nel 1944 scelse di entrare nella Resistenza, pronta come altre/i “a morire” battendosi “contro il nemico, a morire detestando la morte, a morire per la pace e la libertà”. È così che racconta la sua scelta nel libro Storia di una passione politica scritto con Anna Vinci e tornato da poco in libreria con la prefazione di Dacia Maraini (Chiarelettere 2023). Dal libro è stata tratta la fiction Tina Anselmi. Una vita per la democrazia, interpretata da Sarah Felberbaum, andata in onda il 25 Aprile su Rai1. Ragazzina di campagna, nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo 1927, conobbe l’antifascismo attraverso il padre, Ferruccio, socialista che “portava sempre con sé la tessera del partito firmata da Matteotti” e “schedato e controllato, quando c’erano manifestazioni, raduni, visite di gerarchi da Roma, lo prelevavano per portarlo nella farmacia dove lavorava e lo costringevano a bere l’olio di ricino”. Da lì il suo sentimento contro l’ingiustizia che l’accompagnerà per tutta la vita. Dalla madre, Norma, imparò ad essere contro la guerra. “Lei, la nonna e una mia zia dovettero andare profughe in Piemonte, per avere un lavoro, perché da noi la miseria era tanta. Erano state impiegate a cucire le ali dei piccoli aeroplani. La mamma aveva paura perché gli aeroplani portano la morte, quindi, partecipare, seppure indirettamente, a costruire quegli strumenti di guerra la faceva stare male. E il suo malessere, la sua paura io li ho vissuti, ne ho fatto un motivo per rifiutare la guerra”. Dalla nonna materna, Maria, imparò il coraggio, l’amore per la vita, la libertà di donna. È con gratitudine e riconoscenza che parla dei loro insegnamenti che l’hanno “messa in condizione di stare bene al mondo”, l’hanno aiutata “ad amare, stimare, avere fiducia nelle persone”. A quella prima scelta di adolescente ne seguirono altre e ogni volta scelse con coraggio da che parte stare, partendo sempre da sé, dal suo desiderio profondo di “esserci”, di “agire” per rendere il mondo migliore, prima di tutto per le donne. Vuole essere protagonista della ricostruzione del paese. Si laurea, entra nella Dc, nel sindacato per battersi con le operaie tessili, entra in Parlamento (1968) poi nel governo, ministra del Lavoro, prima, e della Salute, poi. A lei si deve la legge sulla parità salariale e di trattamento al lavoro, ma anche il Servizio Sanitario Nazionale. Quando la presidente della Camera Nilde Iotti le affida la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2, lei sceglie di stare dalla parte della verità. Sarà ostacolata da molti e isolata dal suo stesso partito. A distanza di anni si rammaricherà che quella inchiesta non si sia voluta portare fino in fondo in quanto “faceva paura a molti”. Lega i suoi ricordi “più belli alla risoluzione dei problemi, alle risposte che” ha “saputo dare ai bisogni della gente”, il che fa capire il senso per lei della politica e del potere. Una donna coraggiosa, battagliera, autorevole, che a ragione dopo Tangentopoli ha potuto dire: “Personalmente io mi sento con le mani pulite”. Attraverso il racconto della sua vita ci si immerge nella storia del nostro Paese dal 1944 al 1992, quando lascia il Parlamento. Un racconto che si chiude con un dolce ricordo della nonna: “La ventata di leggerezza che nell’infanzia ha tante volte spazzato via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà per me l’odore del cocomero e del panino con le ulivette di nonna Maria”. È morta il 1° novembre 2016.


(Il Quotidiano del Sud, 6 maggio 2023)

Proseguono i liberi scambi di riflessioni a partire dall’attualità.

di Enciclopedia delle donne


Care e cari,

il direttivo della Società per l’enciclopedia delle donne aps vi informa che ha deciso di partecipare alla rete mai più lager – NO ai CPR che da anni lavora sul monitoraggio delle condizioni dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio e ne chiede la chiusura. 

Luoghi ai confini del diritto, impermeabili al mondo esterno, in cui si moltiplicano episodi di autolesioinismo da parte dei detenuti per uscire dalla condizione di isolamento in cui vivono; luoghi della cosiddetta “detenzione amministrativa” che non sono compatibili con la nostra costituzione né con alcuna sedicente democrazia.

Il nostro contributo sarà soprattutto di sensibilizzazione e partecipazione alle iniziative che intendono mobilitare tutte e tutti le cittadine e i cittadini per chiedere la chiusura di questi centri, e opporsi alla apertura di nuovi, prevista dal decreto Cutro appena approvato. 

A Milano, Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (GO), Macomer (NU), Palazzo San Gervasio (PZ), Roma, Torino, Trapani esistono questi luoghi di detenzione amministrativa, appaltati a società private, in cui vigono condizioni vergognose che ledono la dignità dei reclusi e delle recluse, e che esprimono solo una volontà punitiva nei confronti di persone migranti (ma anche di persone rom nate e cresciute in Italia) che non hanno commesso alcun delitto. 

Per chi volesse restare informato suggeriamo di iscriversi alla mail noaicpr@gmail.com o di visitare la pagina facebook NOaicpr.

Aggiungiamo alcuni link che potranno facilmente illustrare l’emergenza che questi centri costituiscono, reclamando una presenza civile non più procrastinabile.

a) il report Delle pene senza delitti, stilato in seguito all’accesso del senatore De Falco al CPR di via Corelli nel giugno 2021 (scarica il pdf)

b) l’Inchiesta Rinchiusi e sedati di “Altreconomia” dove si analizzano le condizioni e la questione della sedazione obbligata come forma di contenimento del disagio che la detenzione induce.

https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani/;

c) il link all’articolo Da hospes a captivus: le basi psicopatogene della criminalizzazione delle persone migranti e della detenzione amministrativa a cura di #No ai CPR uscito su medicinademocratica: 

https://www.medicinademocratica.org/wp/wp-content/uploads/2023/05/PAG-23-33-NoCPRSalute.pdf.

Un caro saluto, sperando che ciascuna e ciascuno di voi vorrà far sua questa causa.


Rossana, Margherita, Verena


(da redazione@enciclopediadelledonne.it – newsletter del 5 maggio 2023 – http://www.enciclopediadelledonne.it/)

di Marina Terragni


Alla bambina lasciata dalla madre nella Culla per la Vita a Bergamo – una volta si chiamava Ruota – è stato dato il nome di Noemi. Noemi avrà presto una famiglia e una casa, per lei ci si augura “tutto il bene e la felicità del mondo”, come se l’è augurato sua madre in un biglietto toccante che in poche righe riesce a raccontare una vita: «Nata stamattina 3/5/2023, a casa. Solo io e lei come in questi 9 mesi. Non posso, ma le auguro tutto il bene e la felicità del mondo. Un bacio per sempre (dalla mamma). Vi affido un pezzo importante della mia vita che sicuramente non dimenticherò mai».

Le culle per la vita sono un presidio importante ed è bene che ne sia data pubblicità. Così come è bene che si sappia che ogni donna può partorire in ospedale in anonimato – ovvero senza riconoscere il neonato/a che verrà posto in stato di adottabilità – evitando i rischi di un parto domestico e spesso in solitudine com’è stato per la madre di Noemi.

Ma almeno in alcuni casi, probabilmente in questo caso, partiamo dal testo del suo biglietto, forse la donna – che si è voluta autonominare come “mamma”, ancorché tra parentesi, dicendo “io e lei” e parlando di “un pezzo importante della mia vita” – non avrebbe voluto separarsi dalla creatura. Forse quel “non posso” avrebbe potuto diventare un “posso” e quel “mamma” uscire dalla parentesi se non fosse mancato l’aiuto necessario. In quel biglietto si legge un desiderio destinato a restare inappagato.

Non sempre è così. Forse solo in una minoranza dei casi è così. Ma capita, come in questo caso, che il desiderio non manchi e che siano le circostanze a renderlo impraticabile.

E allora ai due presidi – il parto in anonimato, le culle per la vita – forse se ne dovrebbe aggiungere un terzo, un luogo in cui le madri in difficoltà che lo desiderano e non vorrebbero separarsi dai propri figli possano incontrare l’aiuto necessario: un sostegno economico continuativo, un lavoro quando manca, qualcuna/o, un/una single o una famiglia, che si impegni ad affiancare la madre nell’impegno e nella gioia di crescere la creatura. Le soluzioni possono essere variamente declinate, ogni storia è diversa.

Forse alcuni luoghi del genere esistono già, in parte i Centri Aiuto alla Vita – come il CAV Mangiagalli di Milano fondato da Paola Bonzi – assolvono questa funzione. Ma occorrerebbe de-ospedalizzarli, istituzionalizzarli e “laicizzarli”, rendendoli luoghi di incontro e di relazione.

Si può fare?


(FeministPost, 5 maggio 2023)

di Donatella Di Cesare


Un incontro fra 600 aziende italiane e 150 ucraine in vista di una fantomatica “ricostruzione” dell’Ucraina, mentre di giorno in giorno si moltiplicano i bombardamenti e i raid, aumentano le stragi e i morti. È difficile immaginare qualcosa di più subdolo e ipocrita. L’unico risultato della politica meloniana di fronte alla catastrofe della guerra non è che la messa in scena di uno sciacallaggio cinico e ripugnante. Continuino pure le carneficine, le distruzioni e le rovine – noi siamo qui che ci freghiamo le mani, pronti a investire in una “ricostruzione” su quel che resterà di edifici e persone. Intanto eleviamo inni patriottici alla libertà, o meglio, alla “nostalgia della libertà”, che gli alleati europei, da Macron a Scholz, con i loro sbandamenti e le loro indecisioni, sembrano aver dimenticato. Barra dritta, dunque, verso la “vittoria”, in attesa ovviamente del “dividendo della libertà”, dei profitti e degli utili, ammantati persino da una “scelta etica”: quella di una guerra da far combattere ad altri, per delega e per procura. D’altronde Meloni – si sa – viene dal fior fiore della tradizione democratica. Chi meglio di lei, e del suo governo postfascista, potrebbe rappresentare i valori europei? Chi meglio, insieme al premier polacco Morawiecki, potrebbe capeggiare la nuova Europa belligerante, il vecchio continente ancora una volta in armi? La partita sarebbe, com’è noto, democrazie contro autocrazie.

Questo scenario parrebbe semplicemente grottesco, se non avesse le conseguenze tragiche che sono già sotto gli occhi di tutti e che si moltiplicheranno se questo conflitto continuerà a essere avallato e supportato. L’Italia, tra i paesi europei più colpiti, e più coinvolti, sembra un caso emblematico. Il draghismo liberista e atlantista ha fatto la sua parte imprimendo sin dall’inizio della guerra una violenta sterzata. Meloni si è collocata nel solco di quel fondamentalismo atlantista. Niente di meglio per far digerire, nel contesto internazionale e in quello interno, il suo indigeribile postfascismo. Così un paese a maggioranza pacifista, che da subito ha espresso – come poteva – la propria opposizione all’invio di armi, è stato tradito. Avrebbe potuto svolgere un decisivo ruolo diplomatico, in consonanza con la propria storia, la propria geografia, la propria vocazione, mentre è costretto al ruolo opposto, nel fronte anti-europeo di America e Inghilterra, con l’appoggio delle forze più oscure e retrive, tra polacchi e baltici. Eppure l’Italia ha una Costituzione che nell’articolo 11 la dovrebbe preservare da ogni guerra e non permetterebbe in nessun modo l’invio di armi a Paesi non alleati, cioè una cobelligeranza a tutti gli effetti. Quell’articolo è stato calpestato, insieme con la Costituzione. Non la si venga a sbandierare nei discorsi pubblici, inneggiando a una immaginaria “identità italiana” fondata sulla guerra. Qualche incauta giornalista – non mancano davvero quelli proni alla peggiore propaganda militarista – ha sostenuto di recente che sarebbero “marginali” coloro che si prodigano per la pace o che la auspicano. Si sbaglia. È la maggioranza del Paese, che da tempo non riesce a farsi sentire. Questa maggioranza è favorevole all’invio di aiuti umanitari al popolo ucraino, ma è contraria alle armi. Non per indifferenza, bensì per ragioni politiche ed etiche. Quando manca una rappresentanza, e si viene consegnati all’impotenza, si può e si deve ricorrere a tutti quei mezzi che, mentre restituiscono ai cittadini la capacità di cambiare le cose, riattivano la democrazia. Perciò marceremo insieme per la pace nella “Staffetta dell’umanità” programmata il prossimo 7 maggio, un grande flash mob che, passando simbolicamente per la via Francigena, attraversa tutta l’Italia fino alle coste ioniche. E firmeremo per il referendum che, richiamando ai principi della Costituzione, chiede lo stop all’invio di armi.

Ogni giorno i pacifisti continuano a essere dileggiati. Inaccettabili sono i distinguo di coloro che, tacciandoli di irrealismo o utopismo, pretendono di navigare nell’ambiguità. È il caso purtroppo di Elly Schlein e di gran parte del Pd. Non si può parlare di pace mentre si avalla la guerra. Le parole hanno un valore e non possono essere deturpate e costrette a significare il contrario. Pace vuol dire pace. Ci chiediamo piuttosto che cosa voglia dire la “vittoria” preannunciata da Meloni e dal fronte atlantista. L’Ucraina, armata fino ai denti dall’Occidente, forte di nuovissimi mezzi militari, tra carrarmati e missili (ha ricevuto il 98% del materiale richiesto), si appresta alla controffensiva. Per riprendere il Donbass? La Crimea? Per una campagna di Russia? Per una guerra protratta? Qual è la strategia politica dell’Italia in questo scenario in cui l’arma nucleare – a detta degli Usa – può essere ormai un’arma preventiva? Pretendiamo democraticamente di saperlo.


(Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2023)

di Gianpaolo Contestabile


La salute mentale è oggi uno degli argomenti più discussi, spiegati, promossi, venduti e raccontati dai mezzi di comunicazione. Esistono psicologhe influencer che forniscono consigli dai loro canali e pazienti che condividono le loro testimonianze attraverso video, libri e opere d’arte. Il boom della salute mentale è sicuramente una buona notizia se pensiamo al superamento dello stigma e alla possibilità di informare un pubblico ampio rispetto alla gestione di alcuni disturbi avvolti da pregiudizi. La sovraesposizione mediatica, però, porta con sé anche il rischio di “psicologizzare” la società, cioè spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali e di voler cambiare il mondo partendo dalla nostra psiche individuale.

Nel suo articolo La meditazione che fa bene al capitale, Ronald Purser spiega come la tecnica buddista della Mindfulness sia diventata la ricetta perfetta da vendere sul mercato perché ci rende pacifici, cioè “vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo”. In questo caso si tratta di una forma mercificata della mindfulness, che di per sé può invece essere un utile strumento per gestire lo stress, l’ansia e modificare alcuni automatismi mentali che ci fanno soffrire. Il problema si presenta quando viene ridotta a una ricetta per il successo e si trasforma nella panacea di tutti mali, o addirittura come una filosofia rivoluzionaria necessaria per cambiare il mondo.

Qualcosa di simile potrebbe succedere con le terapie psicologiche quando si paventa la possibilità di risolvere qualsiasi problema semplicemente iniziando una terapia. Quando problemi strutturali come la povertà, la violenza domestica, lo sfruttamento, la disoccupazione o la distruzione dell’ecosistema diventano questioni personali, allora il campo d’azione si riduce alla depressione, al self empowerment, allo stress da lavoro correlato, all’abuso di sostanze o all’ansia. Il contesto sociale rimane sospeso, lasciando spazio esclusivamente all’interpretazione e gestione dei sintomi della paziente. Il processo clinico della terapia è un’ottima risorsa che aiuta le persone a conoscersi e curarsi ma non può essere la bacchetta magica per risolvere i conflitti che riguardano la collettività. Per esempio, una campagna di sensibilizzazione sul burnout lavorativo lanciata su Instagram propone come unica soluzione rivolgersi a un servizio di psicoterapia online a prezzi calmierati. Organizzarsi per migliorare le condizioni di salubrità, i ritmi di lavoro, la cultura aziendale, ridurre i turni e la competizione sfrenata rimangono invece rimossi dai possibili scenari d’azione.

Se la radice di tutti i malesseri diventa un problema dell’individuo e della sua mente allora la scienza psichiatrica è in grado di fornire spiegazioni sempre più raffinate sul funzionamento dei processi chimici del nostro cervello. Nella serie televisiva italiana Tutto chiede salvezza vengono raccontati i sette giorni di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO), a cui viene sottoposto il giovane Daniele. Durante il primo giorno di internamento coatto il protagonista chiede spiegazioni alla dottoressa responsabile del reparto psichiatrico; questa gli risponde chiedendogli se sa cos’è la serotonina: “è un neurotrasmettitore” gli spiega, Daniele potrebbe avere un deficit e quindi “si tratta di ripristinare i valori. A volte le cose sono più semplici di quelle che sembrano”.

La sovraesposizione mediatica porta con sé il rischio di spiegare tutti i fenomeni sociali a partire da processi mentali.

Semplificare è rassicurante, e agire sulle correlazioni chimiche può, in alcuni casi specifici, aiutare ad alleviare sintomi gravi e offrire un po’ di serenità per iniziare un percorso di cura, ma ridurre la sofferenza psichica a uno scompenso di valori comporta una serie di rischi. Primo fra tutti, quello di trasformare le persone nelle loro diagnosi, o in deficit da aggiustare meccanicamente. Non stupisce, quindi, che una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si possa, come succede nella serie e nella realtà degli ospedali italiani, sedare, legare, far reprimere dalla polizia, togliere la libertà, incarcerare e lasciar morire. La normalità dell’assistenza psichiatrica in Italia, infatti, è la contenzione meccanica dei pazienti in reparti a porte chiuse: solo in 19 dei 318 Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura sul territorio italiano non si legano le persone.

Proprio l’Italia, paradossalmente, è conosciuta nel mondo per aver esportato un modello di cura esattamente contrario a questa tendenza, cioè contrario alla patologizzazione di chi soffre di disturbi mentali. Uno dei mantra del movimento che ha lottato per la chiusura dei manicomi nel nostro Paese negli anni Settanta era quello di “mettere tra parentesi la diagnosi” per far emergere la persona con la sua storia e il suo contesto socioeconomico. Si trattava, cioè, di fare il contrario del manicomio, nel quale ci si interfacciava con la malattia mentale e il soggetto e le sue condizioni di vita rimanevano nell’ombra . Nelle parole di Franca Ongaro Basaglia, una delle principali intellettuali che guidarono quel movimento, il modello medico egemonico crea “un’organizzazione dell’assistenza ospedaliera tutta incentrata sulla «riparazione», atta a confermare e a trattare la malattia come semplice fenomeno naturale, non potendo interferire nel processo storico-sociale che la produce”.

Alla medicina relegata “al suo compito di rimedio dei danni”, Ongaro oppone un approccio capace di andare alla radice dei problemi per prendersi cura delle sue cause. In questo senso, negli anni Settanta, i manicomi, da luoghi di tortura e annichilimento, si trasformarono nello scenario di innumerevoli assemblee ed eventi culturali dove pazienti, medici, operatrici, artisti e attiviste partecipavano alla vita politica dell’ospedale e riflettevano sulle cause del proprio malessere. Quando Daniele, il protagonista della serie, fugge sul tetto dell’ospedale con la sua amante, inizia a riflettere ad alta voce: “A me le malattie di tutti quelli che stanno qui dentro mi sembrano come un’unica malattia. Però non nostra. Del mondo.”

Curarsi durante la catastrofe

Nel libro Cattive acque. Contaminazione ambientale e comunità violate, Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini raccolgono una serie di studi incentrati su uno dei più gravi disastri ambientali della storia d’Europa: il rilascio di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nelle falde acquifere venete. Una catastrofe ecologica che interessa le province di Verona, Padova e Vicenza e una popolazione di quasi 800mila abitanti. Nel volume si presentano gli effetti psicologici dei disastri ambientali, tra cui lo stress acuto, l’ansia, la depressione, i pensieri intrusivi, l’insonnia, l’aumento del consumo di tabacco e alcool, ma anche problematiche sociali come l’aumento dei conflitti coniugali, la sfiducia verso le istituzioni e la corrosione del tessuto sociale. Tra le comunità danneggiate dai Pfas serpeggia un sentimento di impotenza, di rassegnazione e incertezza riguardo al futuro, al proprio lavoro, alle condizioni di salute dei propri cari e delle future generazioni.

Una volta trasformati i pazienti in macchine da riparare, li si può sedare, legare, far reprimere dalla polizia, incarcerare e lasciar morire.

Di fronte a questo scenario sconfortante le comunità possono però decidere di reagire partecipando nella gestione collettiva della catastrofe. In Veneto, le cosiddette “Mamme NoPfas” hanno deciso di attivarsi per sensibilizzare la popolazione, chiedere giustizia di fronte alle istituzioni e far sì che “la rabbia individuale diventi legittimazione di azioni collettive e [restituisca] una quota di potere”. Come viene ripetuto spesso nel testo, la cura al malessere generato dalla contaminazione va oltre il trattamento individuale dei sintomi psicologici: “nei casi di contaminazione ambientale il recupero psicologico coincide, sovente, con il recupero ambientale del sito inquinato”. Detto in altre parole, per curare i nostri disturbi mentali abbiamo bisogno di incontrarci, partecipare attivamente e curare l’ecosistema in cui viviamo per evitare che le industrie sversino i propri veleni nelle nostre fonti idriche.

Un’altra organizzazione di madri è diventata famosa in tutto il mondo per aver trasformato il loro trauma personale in una battaglia sociale: le Madres de Plaza de Mayo. Le mamme argentine dei quasi 30mila desaparecidos del regime militare degli anni Settanta si sono trasformate in un emblema internazionale dei diritti umani quando hanno sfidato il coprifuoco iniziando a incontrarsi ogni giovedì pomeriggio nella piazza pubblica di Buenos Aires. La dittatura dei militari e il successivo regime democratico hanno implementato una vera e propria guerra psicologica nei loro confronti chiamandole locas (pazze), responsabilizzandole di non aver educato a dovere i propri figli, invitandole al silenzio, ad accettare la morte dei cari scomparsi e a dimenticare il passato per favorire un clima di riconciliazione nazionale.

Questo tipo di politiche ha generato una serie di sintomi come la dissociazione di fronte al messaggio che nega la violenza, la autocolpevolizzazione e la fantasia di non aver fatto abbastanza per salvare il proprio figlio. Le psicoterapeute Diana Kordon e Lucilia Edelman hanno lavorato al fianco de Las Madres durante diversi anni per aiutarle a gestire il trauma. Il loro intervento ha preso la forma di gruppi liberi e autogestiti di riflessione sull’esperienza comune delle madri.  Facilitando questi spazi di discussione hanno notato che il riconoscimento di una situazione comune ha permesso l’identificazione e l’empatia reciproca per evitare una chiusura narcisistica in sé stesse e ha favorito la catarsi del trauma attraverso la drammatizzazione dei conflitti con le istituzioni. Organizzarsi in gruppi per cercare i propri figli ha significato partecipare attivamente nella tragedia, mantenendo il rispetto verso di sé e tutelando la propria autostima, riducendo l’angoscia e il sentimento di colpa. Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza e non unicamente sulle storie personali genera una comprensione intellettuale della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica. Un’affermazione comune tra le madri argentine è: “sono passata dal preoccuparmi per mio figlio a preoccuparmi per i figli di tutte”.

La partecipazione attiva ha permesso non solo di limitare le conseguenze psicologiche individuali ma ha fatto sì che Las Madres dessero vita, negli anni, a un’università popolare, una casa editrice, una rivista, un caffè letterario e molteplici altri progetti. Anche se come dice una delle fondatrici, Hebe de Bonafini, “la maggior parte delle madri non siano mai andate in terapia”, il loro attivismo le ha portate e impegnarsi in prima persona per la chiusura dei manicomi psichiatrici e organizzare il Congresso Internazionale per la Salute Mentale e Diritti Umani in cui si afferma che “la salute mentale nel quadro della lotta per la difesa dei diritti umani ci invita a recuperare le nuove soggettività del nostro tempo puntando sulle pratiche di gruppo, istituzionali e collettive che riscattano l’essere storico sociale”.

Focalizzarsi sulla storicizzazione della violenza genera una comprensione della situazione che funziona come una difesa dell’Io, evita cioè che una catastrofe sociale diventi una catastrofe psichica.

È interessante notare che le dottoresse Kordon e Edelman hanno riscontrato dei tratti simili nei gruppi spontanei che sono sorti durante la crisi finanziaria estrema del 2001 quando in Argentina i conti correnti vennero congelati, i bancomat limitati, l’inflazione schizzò alle stelle e i risparmi di una vita di molte persone persero improvvisamente di valore. Le assemblee che sorsero nei quartieri, i gruppi organizzati di disoccupati e le fabbriche autogestite dalle lavoratrici permisero di sostenere le persone durante la crisi svolgendo una “funzione proteica”, cioè fornendo un grembo per lo sviluppo di nuovi aspetti della psiche che ancora non si erano costituiti. Il gruppo offre quindi una protezione durante le crisi limitando l’angoscia, il panico, il sentimento di impotenza e permettendo di mantenere i vincoli sociali che sostengono la nostra salute mentale.

Ripartire dal mondo

Nella serie Maid, ispirata alle memorie di Stephanie Land, Donna delle pulizie: Lavoro duro, paga bassa, e la voglia di sopravvivere di una madre, Alex, la protagonista, fugge nel cuore della notte con la sua neonata per sottrarsi a una relazione violenta con il proprio partner. Durante i 10 episodi in cui si sviluppa la trama, Alex si trova a fare i conti con condizioni di lavoro umilianti, con la degradazione dei servizi sociali statunitensi, una famiglia disfunzionale e i propri traumi infantili che rischiano di farla ritornare tra le braccia del suo ex. Un occhio “puramente” clinico e decontestualizzato potrebbe interpretare le sue continue ricadute come il risultato dei suoi modelli di attaccamento infantili, come la ripetizione di un trauma non elaborato, oppure la mancanza di autostima o del senso di autoefficacia così come un sintomo di un disturbo da stress post-traumatico.

L’originalità della serie, però, sta nell’introdurre un elemento contestuale fondamentale. In sovraimpressione, infatti, durante gran parte delle scene appare il bilancio dell’economia di Alex. Man mano che la cifra si avvicina agli zero dollari il suo campo d’azione si limita sempre di più e, per dare da mangiare a sua figlia, diventa sempre più verosimile chiedere aiuto a un padre abusante, alla madre manipolatrice o all’ex compagno violento. Come scriveva Freud già nel 1921, nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io, quando si studia attentamente una situazione concreta i limiti tra i processi intrapsichici e le dinamiche sociali si sfumano: “Nella vita dell’individuo l’altro rappresenta sempre un modello, un oggetto, un amico od un nemico, e sin dall’inizio la psicologia individuale è anche, sotto un certo aspetto, una psicologia sociale”.

Nonostante da più di un secolo la tradizione psicoanalitica abbia messo la questione sociale e collettiva al centro del dibattito, il discorso istituzionale sulla salute mentale continua a ricostruire una fantasia in cui esistono solo sintomi individuali. La crisi economica, i disastri ambientali, la violenza politica o quella domestica si trasformano in fantasmi che rimangono fuori dal setting terapeutico, del reparto psichiatrico e anche dal centro di meditazione. Inoltre, la diagnosi, che dovrebbe essere uno strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale dello specialista, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.

La diagnosi, da strumento utile al processo di cura, diventa invece l’obiettivo finale, un’etichetta che dà senso alla nostra identità o una certificazione per non dover competere con gli alti livelli di rendimento richiesti dal mercato.

Nell’ottobre del 2022, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) si è riunita a Roma per presentare il report intitolato Trasformare la salute mentale per tutti. Nel testo, i ricercatori dell’OMS scrivono che: “una cattiva salute mentale interferisce con la capacità di lavorare, studiare e apprendere nuove competenze. Essa ostacola i risultati scolastici dei bambini e può avere un impatto sulle prospettive occupazionali future”. Il danno economico provocato dalla depressione e l’ansia viene calcolato nell’ordine di mille miliardi di dollari annui a causa dell’assenteismo lavorativo, il presenzialismo e il turnover del personale.

Se, come scrive l’Assemblea Antipsichiatrica in Il capitalismo nuoce gravemente alla salute, ci si concentra sui sintomi perché “occuparsi delle cause non genera profitto” allora la salute mentale si riduce a una tecnica per renderci più adatti, competitive e funzionali a un mondo ingiusto, inquinato e violento. Il rischio è che le politiche di salute mentale promosse dalle istituzioni mediche abbiamo un obiettivo pacificatorio più che curativo. Come recitava uno striscione esposto al presidio di protesta durante la riunione dell’OMS a Roma: “non vogliono che stiamo bene, vogliono che stiamo buonə”. Al nuovo mantra della salute mentale individualista vale la pena rispondere recuperando le pratiche che hanno portato l’Italia al centro del dibattito internazionale e tornare a trasformare la nostra salute mentale trasformando il mondo.

Allucinazione n. 2: l’IA fornirà un governo saggio

Questa allucinazione evoca un futuro prossimo in cui i politici e i burocrati, attingendo alla vasta intelligenza aggregata dei sistemi di IA, sono in grado di “vedere i modelli di bisogno e sviluppare programmi basati su prove” che hanno maggiori benefici per i loro elettori. Questa affermazione proviene da un documento pubblicato dalla fondazione del Boston Consulting Group, ma trova eco in molti thinktank e società di consulenza manageriale. Ed è significativo che proprio queste società – quelle assunte dai governi e da altre aziende per individuare i risparmi sui costi, spesso licenziando un gran numero di lavoratori – siano state le più veloci a salire sul carro dell’IA. PwC (ex PricewaterhouseCoopers) ha appena annunciato un investimento di 1 miliardo di dollari, mentre Bain & Company e Deloitte sarebbero entusiaste di utilizzare questi strumenti per rendere i loro clienti più “efficienti”.

Come per le affermazioni sul clima, è necessario chiedersi: il motivo per cui i politici impongono politiche crudeli e inefficaci è che soffrono di una mancanza di prove? Un’incapacità di “vedere gli schemi”, come suggerisce il documento del BCG? Non capiscono i costi umani dell’affamare l’assistenza sanitaria pubblica in mezzo alle pandemie, o del non investire in alloggi non di mercato quando le tende riempiono i nostri parchi urbani, o dell’approvare nuove infrastrutture per i combustibili fossili mentre le temperature salgono? Hanno bisogno che l’intelligenza artificiale li renda “più intelligenti”, per usare il termine di Schmidt, o sono abbastanza intelligenti da sapere chi finanzierà la loro prossima campagna elettorale o, se si allontanano, finanzieranno i loro rivali?

Sarebbe molto bello se l’intelligenza artificiale fosse davvero in grado di recidere il legame tra il denaro delle aziende e la politica sconsiderata, ma questo legame ha tutto a che fare con il motivo per cui aziende come Google e Microsoft sono state autorizzate a rilasciare i loro chatbot al pubblico nonostante la valanga di avvertimenti e i rischi noti. Schmidt e altri hanno condotto per anni una campagna di lobbying per dire a entrambi i partiti di Washington che se non saranno liberi di andare avanti con l’IA generativa, senza essere gravati da una seria regolamentazione, le potenze occidentali saranno lasciate nella polvere dalla Cina. L’anno scorso, le principali aziende tecnologiche hanno speso la cifra record di 70 milioni di dollari per fare pressione su Washington – più del settore petrolifero e del gas – e questa somma, osserva Bloomberg News, si aggiunge ai milioni spesi “per la loro vasta gamma di gruppi commerciali, organizzazioni non profit e thinktank”.

Eppure, nonostante la loro intima conoscenza di come il denaro plasmi la politica nelle nostre capitali nazionali, quando si ascolta Sam Altman, l’amministratore delegato di OpenAI – creatore di ChatGPT – parlare degli scenari migliori per i suoi prodotti, tutto questo sembra essere dimenticato. Sembra invece che abbia un’allucinazione di un mondo completamente diverso dal nostro, in cui i politici e l’industria prendono decisioni basate sui dati migliori e non metterebbero mai a repentaglio innumerevoli vite per profitto e vantaggio geopolitico. Il che ci porta a un’altra allucinazione.


(Il Tascabile, https://www.iltascabile.com/societa/oltre-la-salute-mentale/, 4 maggio 2023)

di Isia Osuchowska

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(www.libreriadelledonne.it, 3 maggio 2023)

di Antonella Nappi


Nel sito della Libreria delle donne si trovano due articoli scritti da me e Cifoletti, Un’altra resistenza, e uno firmato da molte altre donne, Vogliamo votare contro la guerra, fatto questo su esempio di un altro articolo ancora che era nello stesso sito: Possiamo votare contro la guerra?

Era l’anno passato, mettevamo in evidenza la diversità delle donne dai guerrafondai che conducono guerre di confine e per il governo dei Paesi, quelle per cui uomini vogliono vincere su altri uomini, e alcune donne sembrano appoggiarli per abitudine solidale. La guerra civile tra ucraina e russofoni era arrivata a vedere l’invasione del paese da parte della Russia e chi si riconosceva nel governo di Zelensky rispondeva con le armi.

Noi scriventi ricordavamo come le donne siano state sempre oppresse da governi maschili, da leggi maschili, da principi maschili e ben poco difese. Come le donne abbiano sempre cercato una via di sopravvivenza e fuga dalla violenza per poter essere più libere. Non è dunque la difesa dei governi né quella dei confini, tantomeno il desiderio di vincere su altri con le armi, il loro impegno, bensì quello di difendere la possibilità di vivere per sé stesse e per gli altri. Nella esperienza e nelle azioni, le donne e molti uomini preferiscono operare per conservare la salute, la natura, le città e le ricchezze relazionali conquistate. Preferiscono conservare i beni e i corpi, conservare la responsabilità nell’affrontare i conflitti e ragionarli.

La popolazione italiana si ribellò spontaneamente alla richiesta di Zelensky di entrare in guerra contro la Russia, e così quella europea, ma i nostri governi, subalterni a quello americano, presero ad appoggiare il paese attaccato, senza mantenere neutralità. Non fecero opera di mediazione ma al contrario iniziarono a bombardarci di ideologia guerresca, di ideologia schierata al vincere un nemico e ho l’impressione che abbiano reso mute e impotenti le persone che vorrebbero poter ragionare. Credo siano in parte riusciti a adeguare la popolazione all’aspettativa di qualsiasi possibile disfatta dell’economia e del proprio equilibrio personale, all’evenienza di una catastrofe che dipende dal conflitto russo-ucraino condotto dall’America e dall’Europa per colpire i confini russi e l’oriente tutto. Le nostre alleanze economiche proprio con quegli Stati sono state distrutte, così le nostre sicurezze. Le basi militari americane in Italia e negli Stati che circondano la Russia ci mettono in serio pericolo.

L’iniziativa della Staffetta per la pace, che pacifisti e pacifiste hanno organizzato, e di cui il sito della libreria delle donne dà conto, è un’occasione di alzare lo sguardo e vedere che ci siamo, noi che non vogliamo inviare armi ai paesi in guerra. Dobbiamo risvegliare la speranza che la popolazione possa difendere la vita e la relazionalità pacifica, discutere e contenere i conflitti tra stati e popoli, e non scivolare in una guerra mondiale che colpisce, proprio in Italia, e già sta portandoci anche contro la Cina, per Taiwan (già in quei pressi si esercita la portaerei italiana Cavour).

Spero questa manifestazione riesca bene e spero il piccolo sforzo di iscriversi e raggiungere i sentieri che verranno indicati, dove camminare per un chilometro soltanto, sia alla nostra portata.

La Staffetta per la pacequi l’appello, è stata promossa da Michele Santoro e il suo percorso è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini. L’iniziativa, che unisce su strade pedonali tutte le regioni d’Italia da nord a sud, si svolgerà domenica 7 maggio per lanciare un messaggio di pace e un segnale alla politica. Per aderire è necessario scrivere alla mail: staffetta.pace@gmail.com.


Maggiori dettagli al seguente link.


(www.libreriadelledonne.it, 4 maggio 2023)

di Redazione


«Nel 1988, un anno dopo l’uscita di Aspirina, Isia telefonò o forse scrisse alla Libreria delle donne di Milano, editrice della rivista, per proporci i suoi fumetti. In un attimo apparve a casa mia, lavorava nella redazione grafica di Repubblica che era a due passi, mi disse che si era appena trasferita da Roma, si era separata, sua figlia Sara studiava medicina a Varsavia dove viveva con la nonna scienziata… e mi raccontò da allora il suo nomadismo dalla Polonia a mezzo mondo e le sue molte vite, come recita la lapide qui pubblicata, che ha disegnato a titolo di curriculum nel 2015, in occasione di una mostra di Aspirina. Da subito diventò una collaboratrice fissa della rivista su carta e online, fino a quando nel 2019 prese il nome di Erbacce. Spediva dall’indirizzo mail Foreverhappiness@… Che siano fumetti o illustrazioni, nelle sue mani ogni argomento, dalla fine del PCI a un caso di stupro, dalle proteste delle femministe polacche al militarismo, riesce a farci ridere», ricorda Pat.

Nata il 2 settembre 1941 a Cracovia, nella prima infanzia Isia si trasferisce con la famiglia a Varsavia e ventenne in Italia, dove si sposa e ha una figlia. Vive a Roma, a Milano, nella comunità buddhista di Pomaia, a New York, a Vilnius in Lituania, poi a torna a Varsavia. Fa viaggi con lunghi soggiorni in Tibet e Nepal, in Grecia, negli Stati Uniti e a Istanbul. In realtà tutti questi luoghi sono un continuum di andate e ritorni nella sua vita nomade. Muore nel sonno a Varsavia, nella casa che era stata di sua madre, all’alba di venerdì 28 aprile.

«Ha frequentato con me la scuola di iconografia buddhista tibetana e di tangke a Katmandu dal 1999 al 2004. A Volos in Grecia ha studiato con un maestro per disegnare le icone ortodosse e cristiane. A Istanbul con un maestro sufi ha imparato la calligrafia dei nomi di Allah», racconta l’amica buddhista Pierdionigia.

«Isia si sposta da una tradizione religiosa all’altra, prima monaca buddhista, poi dagli anni ’90 si avvicina al sufismo e diventa allieva di Gabriele Mandel Khan, maestro sufi in Italia. Amica di tutte le tradizioni religiose, buddhista, cristiana, islamica-sufi, alla fine si sentiva spiritualmente più islamica. La pittura dei 99 nomi di Allah era la sua pratica di meditazione: pittura sacra come veicolo, come ricerca di perfezione e spiritualità. Cercava una trasformazione spirituale non attraverso le dottrine, piuttosto utilizzava elementi meditativi che metteva nella pittura. Su una parete del nostro monastero a Graglia, abbiamo due opere di Isia, una tangka e un quadro con calligrafia che rappresenta la resurrezione di Cristo», così la descrive Lama Paljin Rinpoce del Centro Tibetano Mandala, di cui Isia era simpatizzante.

«Oriente. La IV Conferenza mondiale delle donne buddhiste nei suoi disegni, acquarelli e appunti fu un regalo di Isia, un Quaderno da noi pubblicato come dono alle abbonate 1996 di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano che già lei arricchiva con i suoi disegni. Oriente resta il prezioso e profondo resoconto artistico di uno storico scambio tra donne che cercano e sperimentano la libertà femminile nel buddhismo», sono le parole di Clara della Libreria.

«In camera mia ho una tangka dipinta da Isia e una sua icona. Un’altra icona dipinta su una tavola di legno si trova nel corridoio. Isia è presente nella nostra casa e ogni giorno le sue opere ci parlano», questo è il ricordo dell’amica Claudia.

Ricordi di Erbacce

Anna

Isia ci ha mandato un suo lavoro qualche giorno fa da pubblicare: 20 disegni di incroci stradali, piste ciclabili e semafori; da prospettive particolari e con colori vivaci. Ero stupita rispetto alla scelta del soggetto, ma neanche tanto, perché sapevo che per Isia tutto diventava un pretesto per disegnare, poteva trovare interessante anche la segnaletica stradale. Spesso quando sceglieva un soggetto sfornava 10 o 20 disegni sul tema: i nostri ritratti, i tavolini del bar visti dalla sua finestra, i paesaggi a lei cari, le lotte femministe… con i colori accesi delle matite, il segno vivo e quasi sempre accompagnati dalla sua calligrafia inconfondibile.

La sua era proprio fame di disegno, forse si nutriva più di carta e grafite che di acqua e pane.

Quando mi regalò il mio ritratto ero così contenta e le scrissi ringraziandola e lodando la sua vulcanica creatività, mi rispose così: «Per quanto riguarda la creatività ho alcune cose che faccio ogni giorno. Questo diventa “tanto”. La mia regola è che devo praticare. Happiness. Funziona».

Piera

Non è facile per me scegliere qual tra le illustrazioni di Isia per Erbacce o Aspirina siano le mie preferite, mi piacciono tutte. E sono tante. Non si tirava indietro se c’era l’urgenza di un’illustrazione che mancava ad un racconto, con generosità contribuiva alla nostra impresa. Per me Isia era una donna molto originale e spiritosa, mi piacevano i racconti della sua vita sempre in movimento che mi faceva Pat, i messaggi che mandava su WhatsApp in un italiano contaminato da altre lingue. Mi piaceva come coltivava e nutriva il suo talento artistico. Accanto alla conoscenza dell’arte legata alle varie filosofie/religioni spirituali che la spingevano a viaggiare e a vivere in molti paesi c’era un’arte più “profana” che a me piaceva moltissimo. Le illustrazioni per Erbacce sono un segno fortissimo del suo sguardo sulla realtà: il suo segno commentava ironicamente un testo o descriveva la situazione a lei più vicina dal bar sotto casa a Varsavia in lockdown.

Delle calligrafie ho capito che erano la sua ricerca artistica più raffinata e difficile: un foglio e un segno, scrittura, disegno, pensiero.

Manu

Giovedì 27 aprile, Pat mi ha portato il mio ritratto fatto da Isia nel 2020, «Era rimasto solo il tuo» mi dice. Stupendo, vibrante di colore nella busta in cui è stato spedito insieme ai ritratti delle altre Erbacce. Ho sempre percepito le illustrazioni di Isia come familiari, un tratto originario che in qualche maniera conosco da sempre.

Dopo qualche giorno la telefonata di Pat con la notizia e i racconti di tutte le cose che Isia aveva in progetto di fare, adesso, domani, tra un mese, sei mesi.

Ho chiuso la telefonata e sono andata a guardare quella busta, il suo nome dal lato del mittente, con la sua inconfondibile grafia.

Laura

Ho conosciuto Isia nel 2015 a una riunione di redazione di Aspirina, ero molto curiosa e grata: era lei che illustrava Le Sofistiche, i dialoghi tra me e Francesca Maffioli.

Ci siamo messe a parlare di sufismo. Era un tema che appassionava parecchio entrambe. Le altre ci prendevano un po’ in giro per l’argomento, ma io continuavo indefessa a farle domande: non mi era mai capitato di condividere questo genere di discorsi nell’ambito del femminismo. E non mi è mai più successo infatti. Senza interrompere il nostro dialogo uscimmo da casa di Livia e ci dirigemmo insieme verso la stazione, solo io e lei. Ho un’immagine di Isia, col sole e Milano Centrale dietro le sue spalle, mentre mi spiega l’evidenza del fatto che se bevi non puoi meditare o pregare e che quindi chi persegue la via del sufismo ragionevolmente deve seguire i pilastri dell’Islam, tra cui quello di astenersi dall’alcol.

Varie volte mi è tornata in mente, nella mia lotta tra il vizietto di bere e il desiderio di essere santa e sana, la sua eccentricità così sapiente. 


La redazione di Erbacce nella sua newsletter del 2 maggio 2023, Forever Isia, presente sul pianeta Terra fino al 28 aprile 2023, ha dedicato al ricordo di Isia Osuchowska una raccolta di articoli, uno suo e tutti da lei illustrati, di cui vi riportiamo qui i link:

Isia Osuchowska della redazione di Erbacce

Una testarda leggerezza di Margherita Giacobino

Nalla cane femmina di Isia Osuchowska

Le sofistiche in analisi di Francesca Maffioli e Laura Marzi


(Erbacce.org, 2 maggio 2023)

di Marco Cesario


«Sono incredibilmente onorata di ricevere questo premio, penso che ogni generazione abbia il dovere di prendere il testimone e di passarlo a quelle successive». La Napoli multirazziale si stringe intorno a Stella Moris, moglie di Julian Assange, e alla sua vicenda giudiziaria e umana. Lo fa in un ricolmo di etnie provenienti da tutto il mondo, conferendo all’avvocata e difensora dei diritti umani il Premio Pimentel Fonseca, che ha aperto giovedì scorso l’ottava edizione di “Imbavagliati”, il Festival Internazionale di Giornalismo Civile, ideato e diretto da Désirée Klain, che dal 2015 dà voce a quei giornalisti sottoposti a censura e perseguitati nei loro paesi. Durante la stessa cerimonia è stato assegnato anche il Premio Pimentel Fonseca Honoris Causa alla preside Annalisa Savino e all’attivista Fatou Diako.

Un’onorificenza che viene conferita nella città prima in Italia a deliberare in consiglio comunale la cittadinanza onoraria del fondatore di Wikileaks, detenuto da quattro anni in Gran Bretagna. Nel corso dell’incontro la consegna alla Moris della significativa tessera del Sindacato unitario giornalisti della Campania e quindi della Federazione nazionale della stampa (Fnsi) da parte di Claudio Silvestri, consegretario generale aggiunto, con il presidente Vittorio Di Trapani e l’intervento di Giuseppe Giulietti, coordinatore di Articolo21.

Signora Moris, quali sono le condizioni di Julian Assange?

Julian è imprigionato ingiustamente, è detenuto da quattro anni in un carcere di massima sicurezza ma in realtà è privato della libertà dal 2010. Fisicamente è molto provato ma anche la sua salute psichica e mentale si deteriora giorno dopo giorno proprio perché pende su di lui la minaccia dell’estradizione verso lo stato che lo ha privato e vuole privarlo dei suoi diritti, che vuole metterlo in prigione per 175 anni. Tenere Julian in prigione significa inviare un messaggio chiaro al mondo che non è possibile dire la verità.

Come si affronta e come si supera un sopruso umano e giudiziario di questo tipo?

Questo è un caso strettamente politico perché nel momento in cui Julian ha voluto rendere pubblici i crimini compiuti da diversi stati, crimini prontamente insabbiati dagli stessi stati coinvolti, l’onda d’urto delle sue rivelazioni si è rivoltata contro di lui, attraverso accuse politiche volte a provocarne l’arresto e la prigione perpetua. È importante per il pubblico avere la consapevolezza che a volte anche se all’esterno c’è un’apparenza di legalità, questa legalità non è altro che fumo negli occhi creato artificialmente per nascondere la verità. Per questo è fondamentale considerare il caso di Julian come prettamente politico e non farsi distrarre dall’iter e dai dettagli tecnici del processo.

L’Italia lo riconosce come giornalista. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana gli ha attribuito un tesserino. Stessa cosa hanno fatto altre federazioni europee. Questo statuto può aiutare Assange nella sua battaglia per la libertà?

È assolutamente cruciale che la comunità di giornalisti mostri solidarietà a Julian e lo riconosca come giornalista. Ricordiamo che Julian in Australia è stato membro dell’ordine dei giornalisti dal 2007. Gli attacchi rivolti contro di lui, negando il suo ruolo di giornalista, miravano a isolarlo da questa comunità. Il governo degli Stati Uniti ha sempre negato la natura giornalistica del suo lavoro, ma quale governo può decidere chi è giornalista e chi no? Chiaramente Julian è un giornalista ma anche in quanto tale è stato accusato di aver acquisito informazioni provenienti da fonti che non ha voluto svelare e di averle rivelate al grande pubblico. È incoraggiante che ci sia una dimostrazione di unità da parte di decine di paesi nel mondo. Non è assolutamente in discussione che Julian sia un giornalista. Non è solo un giornalista, ma uno dei più importanti giornalisti viventi.


(il manifesto, 30 aprile 2023)

di Sarantis Thanopulos


La morte di Barbara Padovani, psichiatra, per mano di un paziente autore di ripetuti atti di violenza, ha riacceso le polemiche sulla sicurezza e le critiche nei confronti della riforma Basaglia, che, per inciso, con l’assassinio non c’entra nulla.

L’ossessione della sicurezza ha cambiato la qualità e il senso della nostra vita. L’esistenza votata alla sicurezza si deprime. Diventa paranoica per tenersi viva sul piano dell’eccitazione e dell’allerta, visto che non può esserlo su quello del desiderio, delle emozioni e dei sentimenti.

La ricerca della sicurezza ci ha ipnotizzati, nonostante l’evidenza che, oltre a rendere miserabile il nostro vivere, produce contrariamente a quello che ci prefiggiamo, molti più problemi di quanti risolve. Creiamo nuove, ingegnose modalità di adattamento a pericoli reali, potenziali o immaginari. Tuttavia, poiché l’adattarsi alla realtà piuttosto che conoscerla, esplorando le sue diverse possibilità e dimensioni, non ce la rende più vicina e accogliente, ma al contrario lontana e minacciosa, il risultato finale è l’acuirsi del nostro senso di precarietà e di incertezza.

La domanda di sicurezza non produce sicurezza, ma ulteriore domanda di sicurezza. È una delle grandi mistificazioni della nostra epoca, perché prende il posto della prevenzione e della manutenzione. Che non sono equivalenti della «messa in sicurezza». Il sentirsi al sicuro non lo creiamo con un assetto difensivo nei confronti del mondo, ma abitandolo con un senso di libertà che deriva da una intima, attenta relazione con esso, fondata sulla cura. Prendere cura di noi e degli altri, degli ambienti in cui viviamo, degli oggetti che usiamo o costruiamo, è una cosa complessa e di per sé appagante.

Si prevengono i danni delle alluvioni costruendo argini sulle rive del fiume o si evita il logorio del legno impregnandolo di olio che lo protegge dalla pioggia. Si riparano le scarpe risuolandole. Si potano gli alberi per aumentare la qualità del loro prodotto. Si scelgono con attenzione le parole di una dichiarazione d’amore o di una poesia perché esprimano nel miglior modo i sentimenti che li animano. Si sperimentano diverse possibilità espressive sul taccuino di un pittore o di un architetto o sulla tastiera di un pianoforte. Si prende la giusta misura della distanza per godere di un panorama o per fare un salto, o del tempo per coordinarsi nel ballo con il proprio partner. Si valutano, con l’aiuto della prudenza e della moderazione, le conseguenze dei propri gesti e ci si affida alla potenza intuitiva dell’immaginazione per indovinare passaggi che la più potente capacità di misurazione e osservazione non potrebbe inquadrare.

Perché queste modalità di costruire la nostra relazione con ciò che ci fa sentire vivi e dà significato alla nostra esistenza, la cui composizione variabile fa la cura, dovrebbero essere assenti dal campo della salute mentale e dalla prospettiva con cui lo guardano le istituzioni nel loro insieme? Cosa si può aspettare se il campo della sofferenza umana più destabilizzante, quella che più ci interroga sul senso della vita, è lasciata all’incuria?

La sofferenza psichica non è più comprimibile in modo massivo all’interno di recinzioni murarie, non solo perché ciò sarebbe una violenza insopportabile per la società democratica, ma anche perché il suo spazio si è esteso così tanto che invade diffusamente l’intera società e si interseca con il crescente disagio della collettività e della civiltà. L’area dell’intersezione è il luogo dove maggiormente si estrinseca la violenza anonima, la più distruttiva (dalla guerra in Ucraina, all’assassinio di Pisa). Bisogna riformare radicalmente il sistema della salute mentale, fondandolo sulla riforma Basaglia e sull’investimento forte della psicoterapia e del lavoro nella comunità. Usare i farmaci per controllare, silenziare il malessere, è istigazione alla violenza.


(il manifesto, “Verità nascoste”, 29 aprile 2023)

di Roberto Righetto


Il 29 aprile di cent’anni fa nasceva Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini, una delle figure più appartate, misteriose e inclassificabili della letteratura italiana. Poetessa e mistica, oltre che traduttrice e critica letteraria, ci ha lasciato nel 1977 a causa di uno scompenso cardiaco dovuto a una malformazione di cui soffriva dalla nascita. È stato grazie all’editrice Adelphi, che ha mandato in libreria a partire dall’87 le sue opere principali (Gli imperdonabili e Sotto falso nome raccolgono suoi saggi critici, mentre La Tigre Assenza le sue poesie), e alla pubblicazione della corrispondenza con alcuni suoi amici, Margherita Pieracci Harwell e Alessandro Spina in primis, che il pubblico italiano l’ha potuta conoscere più da vicino. Giustamente Enzo Bianchi, introducendo i lavori del convegno che si svolse a Bose nel 1998, ricordò le parole pronunciate dopo la morte da Spina, che lamentò come il lutto per la sua scomparsa fosse stato un lutto di pochi, chiedendosi «anche, con ragione, come mai i cattolici non si accorsero di lei».

Eppure Cristina Campo aveva presentato e commentato opere come I detti e i fatti dei Padri del deserto e i Racconti del pellegrino russo e scritto introduzioni a libri fondamentali quali L’uomo non è solo di Heschel e Attesa di Dio di Simone Weil. Bianchi la definì «filocalica, donna ricreatrice di bellezza, testimone della grande tradizione». Certo, i cattolici italiani non potevano condividerne le riserve sul Concilio, che l’avevano fatta avvicinare a monsignor Lefebvre e al cristianesimo ortodosso: il suo amore per i riti e la liturgia nonché per la carnalità del cristianesimo infatti l’aveva portata a criticare le scelte dei padri conciliari, senza però mai abbandonare la Chiesa cattolica.

All’incontro di Bose (i cui atti furono pubblicati dalla rivista Humanitas edita da Morcelliana) parteciparono anche Mario Luzi e padre Giovanni Pozzi, Giovanni Tesio e Maurizio Ciampa, Pietro Gibellini e Gabriella Caramore, oltre che Mita, la sua amica di sempre con cui aveva condiviso dal 1950 l’amore per Simone Weil. Margherita era volata a Parigi per conoscere la madre della filosofa francese che stava curando l’edizione delle sue opere, mentre Cristina non era riuscita per motivi di salute. Ma l’incontro con la pensatrice si rivelò fondamentale per entrambe e per Cristina ebbe il significato di una riscoperta del cristianesimo.

A Simone l’avvicinavano l’amore per l’assoluto e per gli ultimi, la scoperta di concetti come “ombra”, “attenzione” e “sprezzatura”, la ricerca di una perfezione sempre irraggiungibile nella definizione della propria vocazione. Lo rileva Wanda Tommasi in uno dei saggi del libro Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (pagine 122, euro 12,00), da poco pubblicato da Mimesis a cura di Chiara Zamboni; il libro raccoglie le relazioni tenute il 7 giugno 2022 all’università di Verona a un convegno sul pensiero di Cristina Campo. «Secondo la Campo – dice Tommasi – quella weiliana è una “grande didattica spirituale via negationis”: la Weil opera negativamente, distruggendo tutto ciò che può prendere idolatricamente il posto del vero Dio».

Francesco Nasti da parte sua rileva come Cristina si considerasse, rispetto al pensiero di Simone, «una pianta rampicante intorno alla roccia». E sottolinea come «per la Campo come per la Weil l’attenzione affonda la pienezza del suo significato nella parola greca hypomoné, il cui significato è anche quello di attesa che, insieme all’attenzione, orienta l’occhio e lo spirito dell’individuo alla percezione dei diversi piani della realtà, quello invisibile e quello invisibile». Siamo al centro della concezione della vita di Cristina, che nell’unica intervista rilasciata nella sua esistenza, alla Radiotelevisione svizzera pochi mesi prima della morte, dichiarò: «Credo pochissimo al visibile, credo molto nell’invisibile ed è forse la cosa che m’interessa di più». Il legame strettissimo fra la realtà e l’invisibilità è rimarcato da Antonietta Potente che a sua volta afferma: «Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli».

L’opera della Campo è poi segnata dall’incompiutezza, come segnala Laura Boella. Lei stessa l’aveva detto parlando di sé in terza persona: «Ha scritto poco e avrebbe voluto scrivere ancora meno». Rifiutava il ruolo dell’intellettuale, pur facendosi a volte coinvolgere nei salotti romani e fiorentini, e rifuggiva dal mondo della cultura italiana imbevuto di marxismo e psicoanalisi. Per Boella «il suo contesto o ambiente è quello dell’epoca imperdonabile in cui vivono uomini e donne imperdonabili. Un contesto tremendo, violento e per nulla datato: si tratta della civiltà della perdita, del vuoto, dell’orrore, del cattivo gusto, dell’imminenza della morte, del prezzo pagato per una vocazione».

Era lontana da ogni tipo di engagement e detestava i grattacieli e le nuove chiese, così come le nuove tendenze della pedagogia che voleva educare i bambini come se fossero dei piccoli adulti. Legata a Elémire Zolla e amica di María Zambrano, di quest’ultima condivideva questo giudizio fulmineo: «Io credo nella resurrezione, non in quella dei morti, ma in quella della carne». Allo stesso modo, la Campo individuava nel gesto di Maria Maddalena che cosparge di unguento prezioso i piedi di Gesù la genesi della liturgia. Riferendosi al suo breve scritto Note sopra la liturgia, così commenta Chiara Zamboni: «Non si tratta solo di ungere il corpo di Cristo, ma di esserci con tutta se stessa e mostrare quel gesto. È per questo che il suo gesto fa scandalo: rende sacro un legame intimo e corporeo. Dunque non riguarda solo l’anima, ma anche e soprattutto il corpo. E infatti, là dove il corpo è cancellato, l’anima fa in fretta poi a scomparire».


(Avvenire.it, 29 aprile 2023)

di Stefano Crippa


Squarci d’epoca e di un Paese che non esiste più, il ritratto di un personaggio della storia dello spettacolo e della musica italiana che non ha eguali in un percorso artistico alla costante ricerca della creatività. Milva, l’ultima diva (La nave di Teseo, pp. 288, euro 18) «l’autobiografia di mia madre» come la definisce nel sottotitolo l’autrice Martina Corgnati, curatrice di centinaia di mostre in Italia e all’estero, storica dell’arte e professore non insegnante presso la Scuola dei Beni Culturali dell’Accademia di Brera di Milano, presta il fianco a più chiavi interpretative. Un «lavoro psico-drammatico» – come spiega Giovanni Castaldi nella postfazione del volume, dove l’autrice prende il posto di Milva e la racconta in terza persona. Cinque vite, dall’infanzia agli ultimi giorni dove si pone l’accento sul suo multiforme talento e su una discografia vasta quanto varia. E i rapporti professionali che si intrecciano con quelli privati: da Maurizio Corgnati, padre di Martina e marito di una giovanissima Milva che l’aiuta nella sua maturazione artistica, a Massimo Gallerani. E il percorso che la porta a confrontarsi con Strehler, la scuola del Piccolo, i tour in Giappone e i trionfi tedeschi e francesi. L’incontro con la canzone d’autore, con Battiato e Jannacci.

Nei cinque capitoli, le cinque vite di Milva, Maria Ilva Biolcati – perché il parroco di Goro non volle acconsentire a quel nome senza santa protettrice, c’è il percorso di un’artista dai forti tratti e dalla determinazione ferrea ma che non nasconde le sue fragilità, l’ossessione per l’ordine: «Mia madre – spiega Martina Corgnati – ha sempre avuto un senso dell’ordine molto spaziale, ossessivo. Ma io credo che all’origine si trattasse di un’educazione molto dura impartita dalle suore e dal collegio. Penso che “l’ordine” per lei era diventato uno strumento per controllare l’ansia, e questo da bambina ci sta, da ragazzina anche. E poi da donna che si è trovata di fronte a compiti veramente ardui per una persona tutto sommato piuttosto sola com’era lei, senza un background che le consentisse di avere le spalle coperte. Mia madre non aveva le spalle coperte, e questo spero che emerga del libro». Milva cresce in una grande famiglia, dove il senso della solidarietà è spiccato: «Lei è nata nel 1939, e va ricordato che gli anni prima e dopo la guerra italiani sono difficilissimi. Le nostre realtà erano veramente povere, ai limiti della sussistenza. Noi non veniamo da Oxford, e intendo come Italia non individualmente. Nel 1945 mia madre ha sei anni; c’è appena stata la liberazione e si tratta ora di rimboccarsi le maniche. Ricostruire i valori democratici di un paese per la prima volta dopo decenni, ma anche umani e etici. La famiglia allargata era un espediente, uno strumento di vita per cui era normale venirsi incontro. E lo racconto quando parlo dell’alluvione: mia nonna Noemi accoglieva in casa le cugine di Rovigo, le nipoti. Non c’era problema in questo, se ce n’era si divideva. Questo era il mondo da cui veniamo, certo poi ce ne siamo dimenticati negli ottanta e novanta, in un’era di maggior benessere. Ahimè, non è detto che questo stato di benessere duri per sempre, e non è nemmeno detto che la famiglia nucleare sia un sistema di felicità maggiore. Era una necessità che era diventata una forma di naturalezza». Con Milva l’irrequietezza della ricerca tout court e l’afflato popolare andavano a braccetto senza che mai sembrasse una forzatura: Piazzolla e Amália Rodrigues, Berio, Vangelis. L’ascoltavi prodursi nell’Opera da tre soldi e la stessa emozione la metteva sul palco del festival di Sanremo, frequentato per ben quindici volte, ma senza che mai riuscisse a vincerlo, come lei stessa ricordava prendendosi in giro con garbata ironia. Artisticamente una carriera varia e incredibile, che ha una svolta importante con i due dischi dedicati ai canti della libertà: «Il primo è del 1965 ed è stato voluto fortemente da mio padre: c’erano i canti dei neri d’America, mentre il secondo Canzoni della libertà con gli arrangiamenti di Gino Negri (1975) – non era più con mio padre – è molto più politico. Un lavoro legato al presente, a una cronaca che non era più partigiana e politica e stava diventando piuttosto la cronaca dei primi anni di piombo». Nel 1965 quando arriva al Piccolo con Strehler è tutto in trasformazione. Quel fermento rappresenta la nuova cultura e un altro modo di fare teatro e coesione sociale.

Negli anni ’80 Milva cambia ancora, arrivano la canzone d’autore, Vangelis, Battiato. Ma – era lei stessa a sottolinearlo – la sua vera anima usciva prepotente dal vivo… «Sì, indubbiamente è vero: lei era un animale da palcoscenico dove dava il meglio di sé. Ho cercato di restituire nel libro ciò che era dovuto, da una parte, a Klaus Ebert che era un musicista e che è stato suo produttore e ideatore della discografia tedesca tra fine settanta e inizi ottanta. È lui che l’ha portata da Theodorakis e poi da Vangelis. E poi ho voluto sottolineare l’apporto di Massimo Gallerani con cui lei ha lavorato sugli autori italiani. Battiato è stata una sua idea: Massimo era attento, sentiva tutto, osservava tutto». Battiato è stato una tappa fondamentale nella carriera di Milva, si incontrano a pranzo e lui fa quasi scena muta. Rivelerà anni dopo che stava studiando l’artista, “come un sarto a cui adattare un repertorio adeguato”. «A dire il vero l’ha detto anche di Giuni Russo e Alice che insieme a Milva sono state le “sue donne”, artisticamente parlando. Credo che il rapporto con Battiato per mia madre sia stato illuminante, rasserenante e rassicurante. Lui la portava, quando non spessissimo si incontravano, alla conoscenza di mondi diversi, non solo musicali ma anche di vita. Franco aveva una sensibilità, una finezza di ascolto davvero unica. È l’unico autore che lei ha sempre cercato, anche alla fine. Non a caso con lui ha inciso tre dischi».

Con Enzo Jannacci la frequentazione (professionale) è breve ma intensa: un album, La Rossa (1980) in cui la canzone che intitola il disco è una fotografia perfetta di Milva, donna e artista. «Ho sempre amato Enzo, aveva un’ironia fantastica. C’è un elemento che li avvicinava molto, era la politica. Entrambi dichiaratamente e apertamente di sinistra, provenivano entrambi da un’estrazione sociale non propriamente da comfort. Un’appartenenza condivisa». Nei versi de La Rossa Enzo trasfigura Milva: “venuta su a patate e lenti”: «La bambina della Bassa che spacca tutto con la voce. È un’invenzione poetica e politica». Strehler è fondamentale nel percorso esistenziale e artistico di Milva, con lui arriva alla maturazione definitiva. E poi l’incontro con Milano negli anni che precedono il sessantotto, il Piccolo: «Siamo nel 1965 e tutto è in trasformazione e quel fermento rappresenta la nuova cultura, la nuova Milano e un altro modo di fare teatro e coesione sociale. Sia Giorgio Strehler che Paolo Grassi – ciascuno a suo modo certo – però erano in qualche modo pronti al salto. Forse si auguravano, forse contribuivano a preparare la nuova dimensione». Milva arriva al Piccolo proprio nell’anno in cui registra i Canti della Libertà: «Fortemente voluto da mio padre che la Resistenza partigiana, quella vera, l’ha fatta. Ci sono come dei semi che si mettono in rapporto e che poi germineranno in quello che sarà il Piccolo Teatro negli anni settanta». Anni in cui il rapporto con Strehler si rafforza, Milva non più artista da forgiare ma musa ispiratrice del maestro, protagonista di decine di spettacoli in cui lei sarà punto assoluto di riferimento.

Milva è mai stata realmente felice? «Penso che abbia avuto dei momenti e delle fasi di felicità, sicuramente lo era dopo i concerti, quando aveva successo era una felicità simile all’ebbrezza che ha provato tante volte. Ricordo in Giappone e in Germania la gente che l’applaudiva per un quarto d’ora senza smettere. Ci sono stati uomini di potere importanti che l’amavano e la stimavano. Sandro Pertini si è alzato ad un pranzo in un ristorante, per abbracciarla e farle il baciamano. Un’ammirazione bipartisan: l’amava Helmut Kohl, Willy Brandt ha voluto farsi fotografare con lei. È difficile suggestionare tutta Europa in questo modo: lei era commendatore, cavaliere per la Francia, Germania, Italia: quando riceveva queste onorificenze era felice. Però il problema di mia madre era, e poi domattina cosa facciamo? Faceva fatica ad accettare anche la continuità, la mediocrità della vita che fa parte dell’esistenza di ciascuno di noi».


(il manifesto, 29 aprile 2023)

di Ipazia


Non si può che restare perplessi di fronte alle polemiche suscitate dalle commemorazioni del 25 Aprile. La ricostruzione storica non dovrebbe dare adito a dubbi. La data segna la Liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione dei tedeschi.

La Costituzione italiana è una costituzione antifascista. In essa ritroviamo una sintesi mirabile dei valori delle famiglie politiche, dai democristiani ai liberali, ai socialisti e ai comunisti, che si erano unite nel contrasto al fascismo. Una mediazione “alta” tra principi diversi come raramente se ne vedono in Europa dove i compromessi al più basso denominatore comune rischiano di smarrire per strada le riforme di cui l’Ue necessita.

Il problema non dovrebbe pertanto essere rappresentato dall’interpretazione di un fatto storico ormai accertato, che dovrebbe essere parte della nostra memoria collettiva. La sfida da cogliere è invece riposta nella definizione dell’eredità che ci è stata lasciata dall’antifascismo e della nostra capacità di farla vivere.

L’antifascismo va misurato come affermava Pasolini nel vissuto di una società. Dovremmo chiederci se l’abolizione della violenza non solo fisica ma anche morale quale strumento di potere sia stata debellata. Se nel discorso politico non si alimenti l’odio verso un presunto nemico, peraltro mutevole. Se la libertà di stampa e di pensiero sia pienamente rispettata. Se la tolleranza verso le minoranze e le loro posizioni esista realmente o ci siano costanti tentativi di stigmatizzare il dissenso. Bisognerebbe domandarsi se il discorso razionale prevale sulla demagogia e sull’appello populistico all’istinto e alle emozioni dei popoli. Se il nazionalismo vissuto a livello di patria o di appartenenza al mondo occidentale torni a giustificare posizioni politiche e pregiudizi.

Si hanno motivi fondati per credere che purtroppo un esame onesto della situazione politica e culturale prevalente oggi in Europa porrebbe in evidenza che la mentalità fascista, prima descritta e secondo i parametri indicati, resiste e si è accresciuta nei tempi più recenti, raggiungendo livelli sconcertanti dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.

È stato da alcuni smentito che Pasolini negli anni Settanta avesse previsto che un nuovo fascismo avrebbe finto di contrastare il vecchio, eppure l’affermazione è consona a un sistema di pensiero che l’intellettuale aveva delineato con la sua critica al consumismo e alla omologazione. Nei suoi tanti scritti aveva descritto la dittatura che si stava costruendo attraverso l’uniformità dei modelli, l’edonismo materialista, il linguaggio povero e standardizzato dei mass media, la distruzione della cultura. Un regime subdolo che si insinua nelle case senza farsi notare, senza repressione, al contrario incoraggiando i comportamenti ludici delle persone, il piacere consumistico. A prescindere dall’estetismo pasoliniano che ha reso forse eccessive alcune sue analisi, è tuttavia da riconoscere la lucidità con la quale il poeta aveva intuito sviluppi che si sarebbero mostrati decenni dopo la sua morte.

Ritornando alle celebrazioni del 25 Aprile appare sorprendente che nessuna forza politica di destra come di sinistra si sia voluta cimentare in un onesto esame di coscienza. Tutti hanno imitato chi è in grado di commuoversi a teatro per l’eroe perseguitato dal conformismo sociale e dal potere per poi ritornare, alla fine della rappresentazione teatrale, cieco e ignaro, ai pregiudizi sociali e politici, alla persecuzione dell’innocente di turno (Assange e Naval’nyj).

È un vizio dell’umanità, la scissione della morale. I nazisti ascoltavano Wagner, avevano il senso della bellezza e la cultura, abbracciavano sereni i loro bambini in famiglia dopo aver trucidato gli ebrei nel campo di concentramento. Il paragone va naturalmente inteso con le dovute proporzioni. Oggi dopo aver tutti insieme celebrato il Venticinque Aprile, si ritorna a stigmatizzare il dissenso e le posizioni minoritarie, si inneggia alle vittorie militari degli ucraini in campo di battaglia quale avamposto dell’Occidente, si demonizza l’avversario politico alimentando l’odio, si distrugge la libertà di stampa censurando come disinformazione le posizioni diverse dalla narrativa occidentale, si ricorre alla retorica per far presa sulle emozioni delle persone, si rifiuta il discorso razionale e la ricostruzione storica degli accadimenti con l’arroganza e la presunzione di chi si considera parte di una civiltà superiore.

I molteplici interrogativi che tanti osservatori pongono alla strategia occidentale restano senza risposta. Le élite al potere in Europa si trincerano dietro frasi stereotipate, veri e propri slogan, privi di ogni logica. «La guerra non può finire con la sconfitta dell’Ucraina! Resteremo al fianco dell’Ucraina non importa a quale prezzo! La vittoria sul campo non è vicina né possibile! Ci si augura che il buon senso prevalga e si arrivi alla pace!»… Una commedia surrealista con frasi gettate al vento che farebbero ridere se gli eventi non fossero drammatici.

Una politica antifascista dovrebbe rendere conto alla società civile europea spiegando quali siano i veri obiettivi strategici di una guerra che sta portando alla distruzione dell’Ucraina, alla crisi economica e sociale in Europa, al rischio di allargamento del conflitto e di utilizzo del nucleare tattico.


(Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2023)

di Elisa Belotti


GPA, la lettera a Elly Schlein riaccende il dibattito. Le firmatarie sono attiviste del movimento femminista disseminato su tutto il territorio e comprendente realtà diversificate, dall’Udi ad Arcilesbica, dalla Libreria delle donne di Milano alla Casa delle donne di Pesaro e persino alcuni centri antiviolenzaChiedono a Elly Schlein un incontro per discutere della GPA – la gestazione per altri – e delle misure per contrastarla. True-News.it aveva raccontato il mercato che ruota attorno alla GPA in un pov d’inchiesta. Ma quali sono le motivazioni per cui alcune femministe si schierano contro la gestazione per altri? L’abbiamo chiesto a Silvia Baratella della Libreria delle donne di Milano, firmataria della lettera a Elly Schlein.

La lettera aperta in questione è chiaramente contraria alla GPA. In che modo è una strumentalizzazione del corpo femminile?

Non puoi usare le funzioni fisiologiche di un’altra per realizzare le tue aspirazioni, per quanto legittime. Capisco che dispiaccia non poter avere figli, ma cliniche e mediatori su questo speculano: sfruttano le funzioni e il materiale genetico delle donne, e mercificano bambine e bambini.

Ci sono strategie affinché la GPA possa non essere una via di sfruttamento ma di empowering femminile?

No, non c’è strategia che tenga. Firmando il contratto di GPA la futura madre rinuncia non solo al legame con la creatura che metterà al mondo, ma alle libertà di una cittadina: di movimento, di sottrarsi a pratiche mediche non volute, d’espressione (non può rilasciare dichiarazioni pubbliche non autorizzate), sessuale (i rapporti sono vietati); non può contattare i committenti, ma dev’essere sempre disponibile per loro. E senza queste imposizioni il “rischio d’impresa” è troppo alto, non esiste alternativa. L’autodeterminazione non può ridursi a firmare di rinunciarvi in nome delle leggi di mercato. Così non solo lei perde “power” anziché acquisirlo, ma avallare questi contratti vuol dire che la libertà di ogni donna non è inviolabile, ma facoltativa.

Se si esclude la gestazione per altri per le motivazioni espresse nella lettera, quali richieste fare alla politica per tutelare tutte le famiglie e quindi anche quelle omogenitoriali?

La politica può fare molto riformando subito l’adozione per aprirla a singoli e a coppie non tradizionali, come quelle lesbiche e gay. Ma lesbiche e gay non sono uguali: i figli li fanno le donne. Gli uomini avevano inventato il patriarcato proprio per aggirare questo fatto: secoli di misoginia, patria potestà, cognome paterno, interdizione giuridica delle donne e censura della loro sessualità, tutto per espropriare la maternità. Nella GPA ricompaiono le stesse pretese, ma il patriarcato è finito con il femminismo, non li lasceremo ricominciare. Mille soluzioni sono possibili se invece della coppia riproduttiva si mette al centro la relazione tra madre e creatura, riconoscendo il legame di quest’ultima con le persone con cui la madre sceglie di crescerla: padre genetico, donna amata, amici gay… Ma la madre non si può aggirare. Gli uomini, eterosessuali e gay, devono prenderne atto. La politica anche.


[…]


(TrueNews.it, 28 aprile 2023, con il titolo GPA, la lettera a Elly Schlein riaccende il dibattito: “I bambini non sono merce”)

Video pubblicato nelle stories Instagram di Elena Ceretti Stein


Venerdì 28 aprile, la giovane artista Elena Ceretti Stein è passata in Libreria e ha fatto alcune foto, creando una bella storia Instagram che restituisce il suo sguardo sulla Libreria delle donne. Ce l’ha gentilmente mandata e la condividiamo con grande piacere!

Seguitela su Instagram! @elena.cerettistein
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Romanzo Virtuale: progetto di Francesca Pasini. L’idea nasce dai dialoghi videoregistrati a Quarta Vetrina, il programma d’arte contemporanea della Libreria delle donne di Milano. Quarto capitolo Le immagini che restano con Paola Gaggiotti. Nel video, girato nel 2020, Paola Gaggiotti racconta:“Da bambina ho subito violenza. Non l’ho confidato a nessuno. Mai. Ho due figlie e voglio che lo sappiano da me, ma non da sola. A Quarta vetrina potrò parlare con loro insieme ad altre e altri. Le immagini che restano, sono i disegni delle strade vuote del paese dove abitavo”. Regia di Cristina Rossi, Alessandra Quaglia e Chiara Mori. Introduce Francesca Pasini.

di Doranna Lupi


Si è parlato molto di profezia delle donne negli ultimi due anni, in diversi ambiti, religiosi e non. Le profete hanno una intelligenza del presente che le apre al futuro e ogni tempo ha le sue profete. Occorre riconoscerle e aprirsi al loro messaggio. Nell’inserto Donne e profezia della rivista Viottoli 2/2022 (scaricabile gratuitamente) si trovano i percorsi di ricerca, testimonianze, riflessioni sulla profezia che hanno animato gruppi e singole donne che fanno riferimento al Collegamento donne Comunità di Base e le molte altre, contributi portati come doni all’incontro di Calambrone (Pisa) nel mese di maggio del 2022. Attraverso molteplici relazioni sono stati coinvolti anche altri gruppi, come le Femministe che leggono la Bibbia del Centro culturale Roccafranca di Torino, dove il Gruppo donne Cdb di Pinerolo (To) ha organizzato un ciclo di incontri sulla profezia delle donne, tra l’inverno 2021 e la primavera 2022. Con loro è stata condivisa la scommessa di tenere insieme spiritualità e femminismo, una scommessa che apre alle donne spazi inediti di riconnessione al proprio sentire profondo. (Luisa Bruno, Luciana Bonadio, Carla Galetto, Doranna Lupi)


(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2023)

Madri della Costituzione italiana


di redazione


Non più e non solo i padri costituenti, ma anche e soprattutto le madri costituenti in quanto esse hanno contribuito a rendere la nostra Costituzione espressione di unitarietà e interezza del popolo italiano. Ecco perché parlare di madri costituenti non è solo un doveroso atto di omaggio ma una vera e propria “operazione storica”, per far sì che «esse entrino nel comune sentire, nel patrimonio storico collettivo». Così Salvatore Di Stefano, (docente di Storia), nella piccola ma affollata saletta dei Cobas di Catania, dove, giovedì 19 aprile, si è svolto l’incontro Voce alle madri della Costituzione, organizzato da: Comitato per la difesa della Costituzione, La Città felice, La Ragna-Tela, Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia).

Un’occasione per evidenziare il prezioso contributo delle 21 donne elette nel 1946 all’Assemblea costituente, 9 della Dc, 9 del Pci, 2 del Psiup, 1 del Fronte liberaldemocratico dell’Uomo Qualunque. Donne che così vennero descritte dal cronista di Montecitorio: «le deputatesse non fumano, in genere, e in maggioranza non si truccano e vestono con la più grande semplicità» (Biblioteca del Senato, Le donne della Costituzione, Appendice ottobre 2008).

Durante l’incontro di giovedì, sei di queste donne sono state ricordate, attraverso la lettura di alcuni loro testi, da Ketty Governali, Mati Venuti, Cinzia Insinga, Carmina Daniele, Giusi Milazzo, Giulia De Iorio, Cettina Tiralosi.

Della più giovane deputata dai bei riccioli bruni, Teresa Mattei, sono state ricordate queste parole: «Il mio programma? portare alla Costituzione i problemi delle ragazze italiane perché siano risolti […] perché siano tolte tutte le barriere che limitano l’attività culturale delle donne. Le donne sanno accordarsi in vista di un superiore interesse. La guerra, per esempio: se le mamme saranno al governo come potrà scatenarsi? Alle donne Dio ha commesso la difesa della vita».

Della sartina torinese Rita Montagnana, «Diventai socialista perché sentivo che la società in cui vivevo era ingiusta, matrigna per la maggioranza del popolo. Comprendevo che solo i socialisti difendevano e aiutavano i lavoratori organizzandoli. Quando noi sartine ci mettemmo in sciopero (1909/11) per l’aumento dei salari, furono i socialisti della Camera del Lavoro a guidarci. I socialisti furono gli unici a levarsi contro la guerra che io temevo e odiavo. Per questo mi schierai accanto a loro ed entrai nel Psi nel 1915».

Maria Maddalena Rossi si batté per l’accesso delle donne a carriere, allora precluse, come quella della magistratura, e per il riconoscimento di compiti di direzione nelle carriere professionali.

Quanto a Nilde Iotti, ne sono state ricordate alcune affermazioni: «Meno di un anno è passato dalla prima elezione democratica che ha dato il voto alle donne. Esse hanno forse più degli uomini lo slancio dell’entusiasmo che le spinge a lottare con accanimento contro gli ostacoli, a vedere le miserie e le sofferenze, a preoccuparsi della salute e dell’educazione dei bambini che rappresentano il patrimonio più prezioso della nazione».

Di queste donne Mirella Clausi (La Città Felice) ha sottolineato le vite intense e la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo. Per questo pagarono e furono imprigionate, torturate, deportate. E pur provenendo da diverse estrazioni politiche, sociali e culturali, seppero condividere e fare sintesi in merito a quegli argomenti che mettevano a tema e avevano a cuore, riuscendo a battersi con una sola voce. Non riuscirono, per esempio, a far togliere dall’art. 37 il riferimento alla essenziale funzione familiare della donna, ma fecero aggiungere un inciso importante: quello di assicurare alla madre e al bambino un’accurata e speciale protezione.

Tra le donne elette, alcune fecero parte della Commissione speciale incaricata di redigere la Carta costituzionale. Erano Angelica Gotelli, Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce, Nilde Iotti, Ottavia Penna Buscemi. Tutte laureate in lettere eccetto Teresa Noce che si dichiarava un’autodidatta. Indipendentemente dal diverso orientamento politico, Dc, Pc, Psi, Fronte, Uomo Qualunque, lottarono insieme per sostenere e rivendicare il diritto delle donne ad essere protagoniste della vita politica. Così Filomena Delli Castelli, eletta a trent’anni nella Costituente commentava il giorno in cui le donne si presero la storia: «Eravamo consapevoli che il voto alle donne costituiva una tappa fondamentale […] avevamo finalmente potuto votare e far eleggere le donne. E non saremmo state più considerate solo casalinghe senza voce ma fautrici a pieno titolo della nuova politica italiana».

Perché così poche donne, si domanda Salvatore Di Stefano. Ne era responsabile il fascismo – risponde – che aveva cancellato le donne, le quali però erano ritornate centrali sia durante la guerra nel mondo del lavoro, sia durante la Resistenza come partigiane, staffette, crocerossine, combattenti, insegnanti. E proprio per rafforzare questa consapevolezza Di Stefano propone di intitolare la piazzetta di san Giovanni Li Cuti alle madri costituenti, per mantenere vivo il ricordo del recente passato, spesso sconosciuto ai più.

Anche la scuola è un luogo dove occorre fare memoria. Interviene su questo Pina Palella, presidente provinciale dell’Anpi di Catania, ponendo l’accento sul nesso fortissimo tra scuola e Anpi. Una memoria, dice, in cui gli studenti diventino protagonisti, in cui si veicoli una corretta e giusta informazione. A questo proposito mostra un cofanetto con le biografie delle madri costituenti presentato al 17° Congresso dell’Anpi (Riccione, 2022) che verrà distribuito in tutte le scuole catanesi.

Nel suo intervento Palella ricorda anche il ruolo attivo e combattivo delle donne allorquando a Milano nel 1943 furono creati i G.D.D. (Gruppi di difesa della donna): formazioni pluripartitiche che raccoglievano donne di ogni ceto sociale, fede religiosa e tendenza politica. Il programma d’azione, pubblicato sul foglio del movimento “Noi Donne”, si apriva con l’esortazione «Le donne italiane che hanno sempre avversato il fascismo, che della guerra hanno sentito tutto il peso per i lutti, le case distrutte, i sacrifici e le raddoppiate fatiche, non possono rimanere inerti in questo grave momento».


(https://www.argocatania.it/2023/04/25/madri-della-costituzione-italiana/, 25 aprile 2023)