di Francesca Mannocchi


Cinquantasette delle settantanove vittime del naufragio di Cutro arrivavano dall’Afghanistan. Avevano lasciato il Paese con le loro famiglie. Erano uomini, donne e bambini che continuano a essere offese e oltraggiate anche da morte. Salme che dovrebbero essere riportate in un Afghanistan che però non ha relazioni diplomatiche dirette con l’Italia né con altri Paesi occidentali.

È solo l’ultima, dolorosa evidenza della distanza che c’è tra gli slogan, le frasi a favore di telecamera e i dati di realtà, cioè i numeri.

Il primo: l’Afghanistan è uno dei cinque Paesi che genera più rifugiati al mondo. Sette rifugiati su dieci, nel 2022, provenivano da Siria, Venezuela, Ucraina, Sud Sudan e, appunto, Afghanistan.

Il secondo: le Nazioni Unite stimano che due terzi della popolazione, ovvero 28 milioni di persone, avranno bisogno di assistenza nel 2023, quattro milioni in più rispetto allo scorso anno. Di questi 28 milioni, 19 milioni soffrono di insicurezza alimentare, sei sono a rischio di carestia.

Il terzo: con 4,6 miliardi di dollari, l’appello umanitario delle Nazioni Unite per l’Afghanistan del 2023 è il più alto al mondo. Fondi necessari ma che non arrivano, perché sanzionati e isolati dal resto del mondo, i talebani hanno allontanato i donatori che hanno smesso di fornire prima gli aiuti allo sviluppo e oggi anche quelli d’emergenza. L’appello dello scorso anno per 4,4 miliardi di dollari è stato finanziato solo al 58%, poco più della metà.

Per le famiglie afghane significa non avere da mangiare, scegliere quale figlio sfamare. Per chi può, e ha ancora i mezzi, le possibilità sono due: aspettare aiuti che non arrivano o scegliere la fuga, sperando di arrivare in un luogo che possa garantire loro l’asilo, la protezione internazionale. Un diritto che hanno, o meglio che avrebbero se riuscissero a raggiungere in sicurezza un altro Paese. Cioè quello che provano a fare illegalmente, in assenza di canali legali.

Le punizioni esemplari, gli omicidi mirati

Una delle vittime del naufragio di Cutro era Torpekai Amrkhel. Aveva 42 anni, era una giornalista e stava provando a raggiungere l’Europa con il marito e i figli, prima di morire annegata. I corpi di due dei loro bambini sono stati recuperati, mentre uno dei figli, di sette anni, risulta ancora disperso. Torpekai Amrkhel era stata una voce della radio nazionale afghana, un lavoro con cui aveva cercato di prestare ascolto alle donne del suo Paese e raccontarle, nei loro desideri, nelle loro frustrazioni, nelle contraddizioni che animavano il Paese. Provava a dare visibilità, la stessa che era al centro del suo ultimo progetto prima della fuga, un viaggio fotografico nei mondi femminili afghani. Pensava di riuscire a portarlo a termine, nonostante i talebani. Ma non ce l’ha fatta. Per quelle come lei, che avevano lavorato con le istituzioni occidentali, vivere significava essere ogni giorno esposti al rischio di una punizione esemplare. E Torpekai Amrkhel aveva lavorato per l’Unama, la Missione delle Nazioni Unite per l’Afghanistan. Particolare che rende ancor più tragica la sua morte nelle acque europee. La fuga di Torpekai Amrkhel e della sua famiglia era una fuga dalla paura, dalla povertà ma anche dalle esecuzioni mirate che i talebani hanno messo in atto da quando hanno preso il potere.

Punizioni contro chi ha fatto parte delle forze di sicurezza afghane, chi è stato membro del precedente governo. Colpiscono chi manifesta il dissenso, chi mette in discussione la loro gestione del potere. Persino chi, come Mursal Nabizada, era stata severa e lucida anche nel criticare la gestione del potere di Ashraf Ghani e del parlamento di cui aveva fatto parte.

Mursal Nabizada, originaria di Nangharar, aveva solo 26 anni quando vinse le elezioni. Aveva prestato giuramento in Parlamento nel 2019, era lo specchio di un pezzo di società afgana che si sentiva proiettato a un futuro di costruzione dei diritti, era cresciuta in una stagione in cui – nonostante la guerra, le vittime, gli attentati quotidiani – una generazione tentava di stabilire una cultura dell’emancipazione da opporre a quella dell’oscurantismo. Aveva visto tornare migliaia di ragazzine sui banchi di scuola. C’era tanta strada da fare, ancora. Lo sapeva bene. Ma essere una delle 69 donne in un Parlamento di 250 seggi le dava speranza che passo dopo passo i diritti si sarebbero fatti strada anche in una società così tradizionalista come quella afghana.

Dopo la presa del potere da parte dei talebani era una delle poche donne parlamentari rimaste nel Paese, mentre tutti gli altri cercavano di scappare temendo per la loro incolumità, Nabizada, pur rispettando e comprendendo le scelte delle sue colleghe, aveva scelto di restare. Sia perché abbandonare Kabul senza poter garantire anche ai suoi parenti di andare via le sembrava intollerabile, sia perché era determinata nel trovare una strada per continuare ad aiutare la sua gente.

Nabizada era giovane e piena di speranze, ma non cieca. Conosceva il Paese in cui viveva, sapeva che Kabul non è l’Afghanistan, conosceva le ragioni del consenso dei talebani nelle aree rurali e in parte condivideva le critiche e le insofferenze dei suoi concittadini verso l’inefficienza dei governi precedenti. Le condivideva al punto che, dopo il crollo del governo di Ashraf Ghani, Mursal Nabizada era stata netta. Parlando alla televisione nazionale aveva detto: «Nel precedente governo tutti amavano la propria posizione di potere, nessuno voleva perdere posizione e stipendio e tutti usavano i propri poteri e la propria autorità per favorire sé stessi e non per aiutare la povera gente».

Erano state la corruzione e le lotte intestine a favorire l’ascesa talebana. Non solo ne era consapevole, ma aveva avuto il coraggio di denunciarlo.

Con lo stesso coraggio era rimasta a vivere nell’Afghanistan dei talebani lavorando per un ente di beneficienza. Con lo stesso coraggio ha sfidato l’amministrazione talebana dicendo che anche la loro gestione del potere subiva l’influenza di Paesi esterni, osteggiando la chiusura delle scuole femminili: «Ora le donne sono imprigionate, vivono come sepolte vive in una tomba». Un rimprovero pubblico che non le è stato perdonato.

A metà gennaio è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco davanti casa, insieme alla sua guardia del corpo.

Il ritiro del 2021, le sanzioni e il collasso

La sopravvivenza degli afghani ha a che fare con l’oscurantismo dell’Emirato Islamico ma ha anche a che fare con gli effetti devastanti delle sanzioni economiche che hanno seguito la presa del potere da parte talebana. In più, per negare loro l’accesso ai fondi, l’amministrazione Biden ha poi congelato più di 7 miliardi di dollari di riserve del governo afghano detenute nella Federal Reserve Bank di New York.

Prima dell’agosto del 2021, l’economia afghana dipendeva per il 75% dall’assistenza straniera. Significa che con i fondi internazionali venivano pagati non solo progetti di sviluppo ma anche gli stipendi dei dipendenti. Nei primi mesi di dominio talebano le sanzioni occidentali e le restrizioni bancarie hanno portato rapidamente l’Afghanistan all’isolamento economico. La Banca Centrale Afghana non può più interagire con il sistema bancario internazionale e le istituzioni finanziarie internazionali. I governi donatori, guidati dagli Stati Uniti, hanno incaricato la Banca mondiale di tagliare circa 2 miliardi di dollari di assistenza internazionale esterna che la banca gestiva attraverso l’Afghanistan Reconstructive Trust Fund (ARTF) per pagare gli stipendi di milioni di insegnanti, operatori sanitari e altri lavoratori essenziali, e attraverso progetti finanziati dall’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (IDA). Anche il Fondo monetario internazionale, USAID, e la Banca asiatica di sviluppo (ADB) hanno tagliato i finanziamenti, con la conseguenza che milioni di famiglie dalla sera alla mattina sono state private delle fonti primarie di reddito che avevano garantito loro la sopravvivenza per anni. Nei dodici mesi successivi al ritorno al potere dei talebani, secondo i dati del Programma Alimentare Mondiale, quasi nessuna famiglia, in Afghanistan ha riportato forme di reddito. Milioni di persone senza entrate. Ecco perché la contraddizione della povertà del Paese è tutta nell’immagine dei suoi mercati e delle sue botteghe. Piene di cibo che nessuno può comprare. Spinti dal rapido peggioramento delle condizioni di vita nel Paese, a dicembre 2021 e febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno rilasciato alcune «licenze» che consentono alle organizzazioni internazionali di fornire cibo e prodotti agricoli, sostenere gli ospedali pubblici e pagare gli stipendi di insegnanti e operatori sanitari. Autorizzano inoltre le banche a elaborare transazioni relative a queste attività senza essere punite.

Ma la Banca Centrale afghana resta tagliata fuori dal sistema bancario internazionale, non può accedere alle sue attività in conti esteri, perché le banche centrali degli Stati Uniti e di altri Paesi, e la Banca Mondiale, ancora non riconoscono le credenziali di nessun attuale funzionario bancario. E, secondo i funzionari delle Ong, molti gruppi umanitari, organizzazioni umanitarie e istituti bancari rimangono cauti nel violare le sanzioni statunitensi.

L’effetto è una crisi permanente, un tentativo continuo di tamponare un’emergenza che non diminuisce e non lascia spazio alla ripresa economica del Paese, cioè l’unica possibilità per gli afgani di fuggire dalla povertà che minaccia le loro vite e le destina all’attesa di aiuti esterni che sono sempre di natura emergenziale.

Tradizionalmente, infatti, gli aiuti sono classificati come umanitari o per lo sviluppo. I primi si concentrano sulla risposta alle crisi e sugli sforzi salvavita, mentre i secondi sono progetti a lungo termine e dovrebbero essere orientati a sviluppare l’economia di un Paese per prevenire crisi future.

All’Afghanistan, oggi, sono indirizzati solo aiuti salvavita che oltre a essere largamente insufficienti, servono solo a tamponare una crisi che peggiora di giorno in giorno e non prevedono alcun progetto che possa ripristinare un settore pubblico funzionante, emancipare milioni di persone da una vita condizionata dall’aiuto umanitario.

Sono un palliativo. Necessario, ma pur sempre un palliativo.

L’eredità occidentale

Il mese scorso un’inchiesta del Wall Street Journal ha svelato che più di 7 miliardi di dollari in attrezzature militari fornite dagli Stati Uniti e dagli alleati sarebbero oggi in mano talebana.

Secondo il rapporto, il ritiro improvviso e non coordinato dall’Afghanistan, i problemi di pianificazione e la mancata supervisione dell’assistenza militare hanno non solo contribuito al crollo del governo sostenuto dall’Occidente, ma hanno lasciato nelle mani dei talebani un arsenale che include aerei, missili, dispositivi di comunicazione e dispositivi biometrici. È un pezzo della rovinosa ritirata occidentale.

Oggi i talebani sono un fatto. È un fatto la loro amministrazione. È un fatto il mancato rispetto dei diritti umani. Così come è un fatto che i corridoi umanitari, su cui pure il nostro Paese è impegnato, non siano sufficienti a salvare la vita dei tanti che non resistono più sotto l’Emirato Islamico. I tanti che, sfiniti dalla povertà e dall’oscurantismo, preferiscono rischiare la vita dei loro figli in viaggi lunghi e pericolosi che farli morire di fame in Afghanistan.

La crisi umanitaria afghana riguarda tutto l’Occidente che per vent’anni ha investito miliardi in spese militari e che oggi assiste alle morti in mare di chi non è riuscito a salvare.

I morti in mare di Cutro ci impongono non solo uno sguardo lucido su cosa accada lì, ma soprattutto ci impongono un dilemma. Inghiottire la pillola di collaborare con l’amministrazione talebana per assicurare i servizi minimi a milioni di persone o perseguire la politica delle sanzioni che hanno dimostrato di non piegare la rigidità talebana e, forse, non piegare il consenso di un pezzo di Paese che l’Occidente non ha mai voluto conoscere.


(La Stampa, 15 marzo 2023)

di Alberto Leiss


È proprio vero che la politica (partiti e istituzioni della democrazia rappresentativa) è in una «crisi irreversibile»? Il giudizio senza appello era nell’invito a un incontro della Libreria delle donne di Milano su «Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche». Si diceva, per la verità: «La politica come è stata pensata dagli uomini».
Ma è stata Lia Cigarini – relatrice con Laura Giordano e Daniela Santoro – a prendere le distanze da quella sentenza. La politica è in crisi, certo, ma soprattutto «cambia». E i politici «di professione» fanno fatica a vederlo in tutti quei movimenti associativi che già annunciano nuove «pratiche politiche».

Ci può essere un nesso tra questa vitalità direttamente politica e le istituzioni democratiche?
Per opposizione lo ha indicato Letizia Paolozzi: quel corteo silenzioso a Cutro, con i fiori, una croce fatta di relitti, un linguaggio «vicino al senso della vita», di fronte al rito tardivo e stonato del consiglio dei ministri trincerato poco distante. Oppure gli uomini e le donne che si ritraggono, esodano, disertano dalla guerra di Putin in Russia e anche nell’Ucraina aggredita. Qualcosa a cui saper dare voce, sguardo, attenzione, con l’apertura al mondo che è significata da quell’essere «aperta sulla strada da 45 anni» della Libreria femminista milanese.

Di una vitalità specificamente italiana della «società civile» si è parlato ieri anche alla presentazione, organizzata da Stampa romana, di un libro di due giornaliste del Sole 24 ore, Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto: Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere (Edizioni de Il Sole 24 ore). Una raccolta di storie toccanti e un ricco «manuale» sul «che fare» per la liberazione delle vittime e per sradicare la cultura patriarcale origine della violenza. Un testo rivolto alle donne, che – si è detto – dovrebbero leggere soprattutto gli uomini.

Ed eccomi al titolo: «Diamoci una mossa!».
Sulla scena pubblica si vedono di più gli uomini che reagiscono negativamente al cambiamento aperto dalle donne. Sono coloro che agiscono violenza. Ne parla la cronaca nera.
Ma è nera anche la cronaca dei politici, un po’ in tutto il mondo, che pretendono una rivalsa, attaccano la libertà delle donne, i loro corpi, invocano la restaurazione dell’«ordine» patriarcale. E fanno la guerra.

La reazione positiva è ancora confusa, timida, ambigua. Eppure qualcosa cambia anche nell’universo maschile. La frase – “diamoci una mossa” – la rubo a un altro libro che consiglio a uomini, e a donne. Il titolo è Maschilità smascherata, l’esperienza del gruppo GNAM (Prospero editore).
Lo ha curato Marco Forlani ma è scritto a molte mani maschili. È la storia lunga alcuni decenni di un incontrarsi tra uomini per riflettere, cambiare, liberarsi. GNAM sta per Gruppo Nonviolento di Autocoscienza Maschile, e se la parola «autocoscienza» è molto impegnativa, l’acronimo allude ironicamente all’abitudine di incontrarsi cucinando e mangiando. Tutto nasce nelle pratiche politiche «tra femminismo e pacifismo» e dalla provocatoria nuova libertà delle «ragazze della nostra generazione». Una cosa che mette in crisi il maschilista inconsapevole. Ma se questa crisi fosse invece «un’occasione anche per noi»?

Di gruppi simili ne esistono ormai decine in Italia. Proviamo a vederci e a discutere su come fare di più e di meglio sabato 18 e domenica 19 marzo, a Roma. Sono incontri aperti: chi fosse curioso/a/* può scrivere a: info@maschileplurale.it.

Oppure venire direttamente sabato dalle 14 alla Casa della partecipazione, Municipio Roma II, Via dei Sabelli 88/A, e domenica dalle 9,30 alla Casa del Volontariato di Roma Galilei, Via Galilei, 53.


(il manifesto, 14 marzo 2023)

di Beatrice Campodonico


Ricordiamo Antonietta Berretta, morta il 24 febbraio 2023, con le parole della musicista Beatrice Campodonico alla cerimonia funebre. Di Antonietta Berretta possiamo leggere sul nostro sito l’introduzione all’incontro dell’11 dicembre 2012 Desiderare la musica d’altre.Viaggio tra le compositrici. Alcuni suoi libri si trovano in Libreria delle donne.


Ho conosciuto Antonietta a un concerto dedicato alle compositrici e poi l’anno successivo nel dicembre 1999 siamo diventate colleghe presso il Conservatorio di Novara. Da quel momento è nata una grande amicizia e un lungo percorso artistico insieme in favore della musica delle donne. In uno dei nostri frequenti incontri e conversazioni, Antonietta mi confessò che con la ricerca a favore delle compositrici a cui si stava dedicando, aveva raggiunto uno dei suoi sogni più grandi ovvero coniugare l’impegno civile per la difesa dei diritti delle donne con la musica, altra sua grande passione. In questo modo ha armonizzato le sue più grandi vocazioni.

Antonietta ha dedicato gran parte della sua vita alla riscoperta ma anche scoperta delle compositrici; ha dato loro dignità e voce spendendosi con tutta se stessa organizzando concerti, mostre, incontri, seminari e tutto ciò fosse possibile fare per creare occasioni di ascolto e conoscenza dei loro repertori e della loro musica. Ma il traguardo più grande raggiunto – a mio parere – è l’essere riuscita con una rivoluzione culturale fatta di persuasione, pazienza, tenacia, costanza e ferma convinzione ad appassionare e coinvolgere tutta un’istituzione, il Conservatorio Cantelli di Novara, ovvero, studenti, docenti, personale Ata, la biblioteca. Tantissime sono le cose fatte, ne menzionerò solo alcune: innanzitutto In-audita musica, un progetto multidisciplinare ancora oggi esistente, in cui le musiche delle compositrici vengono incluse nei piani di studio, studiate ed eseguite in varie occasioni; una sezione della biblioteca del conservatorio di Novara (archivio In- audita musica) in cui sono presenti tantissime musiche di compositrici di ogni epoca (credo che sia il più grande e vario archivio di musiche di compositrici esistente in Italia). Ha pubblicato insieme ad altri colleghi, tra cui Pier Giuseppe Gilio e Patrizia Florio, due cataloghi collegati ad altrettante mostre di compositrici del ’600 e ’700. (*) Nel 2009 il progetto In-audita musica ha ricevuto l’importante riconoscimento di “Buona Pratica” dal MIUR.

In tutto questo rimane però singolare la grande umiltà e quasi ritrosia di Antonietta che vedeva nel suo operato una sorta di missione, anteponendo la ricerca a se stessa.

Ma a parte questi aspetti voglio sottolineare come per Antonietta l’aspetto umano anche in questa ricerca fosse alla base di tutto; ciò che ha sempre messo in evidenza è il vissuto di queste musiciste che la storia ha per lo più rinnegato o condannato all’oblio come è accaduto a molte artiste.

Mi sento molto privilegiata per aver incontrato e conosciuto Antonietta, mi ha dato molto e mi ha insegnato ad avere uno sguardo diverso; una ricchezza immensa che mi porterò sempre dentro e che cercherò di trasmettere a mia volta.


Grazie Antonietta !!!


* In-audita musica. Compositrici del ’600 in Europa (Edizioni Et, 2000), e In-audita musica. Compositrici del Settecento in Europa (Torino, Seb 27, 2004).


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2023)

di Antonella Mariani 


La filosofa Valentina Pazé si interroga: lo sfruttamento dei corpi è frutto della logica capitalistica, che fa passare per “altruistico” ciò che invece è al servizio del mercato


Vendere il proprio corpo può essere una scelta di libertà, come il mito della “prostituta felice” suggerisce? E affittare il proprio utero, magari con l’idea di “aiutare” una coppia sterile? O, al contrario, sono espressioni di false libertà, quelle di chi si mette, anche inconsapevolmente, al servizio dello sfruttamento capitalistico dei corpi? A porsi queste domande è una filosofa della politica, che le risposte le ha scritte in un libro uscito nei giorni scorsi da Bollati Boringhieri, Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (192 pagine, 16 euro). Senza tema di fare spoiler, possiamo anticipare le conclusioni, con una frase che Valentina Pazé, docente all’Università di Torino, ha consegnato ad Avvenire al termine di una lunga intervista: «La forma specificamente capitalista di sfruttamento si basa sulla libertà di chi ha poche alternative». Marx dixit quello che la sinistra, oggi, spesso non dice più.

Professoressa Pazé, che una filosofa si occupi di libertà è normale, che prenda in esame la presunta libertà di prostituirsi o di affittare il proprio utero è più originale. Da cosa è nato il suo interesse?

Dalla curiosità che hanno suscitato in me alcuni racconti, letti su vari giornali, di alcune madri surrogate che descrivevano in modo positivo la propria esperienza. All’inizio ho pensato che questi racconti fossero poco credibili. Poi il mio giudizio è cambiato. Ho riflettuto su ciò che già osservava Alain Caillé: la grande capacità del capitalismo di mobilitare il “non utilitario”, come la dedizione, la generosità e l’altruismo, al servizio dell’utilitario. E, per altri versi, il bisogno, da parte di chi è coinvolto in simili transazioni, di raccontare a sé e agli altri una verità diversa da quella dello scambio commerciale.

Insomma, le madri surrogate che dicono di farlo per altruismo sarebbero in realtà manipolate dal capitalismo?

I racconti di chi ha vissuto un’esperienza in prima persona vanno sempre ascoltati con attenzione e con rispetto. Ma senza essere ingenui, cioè considerando il giro di soldi che c’è dietro. Anche nei Paesi in cui è ammessa solo la gravidanza per altri (Gpa) altruistica, come in Gran Bretagna, esistono le cliniche, le agenzie di intermediazione, i consulenti legali: un mondo che non è mosso da altruismo. E le madri surrogate ricevono cospicui rimborsi spese, in realtà veri e propri compensi. Mi pare insomma che dietro il concetto di Gpa solidale si annidi una certa ipocrisia.

Chi fa pressioni per introdurre nel nostro ordinamento almeno la Gpa solidale sostiene che si tratti di un dono. Non è così?

L’articolo 3 della Carta di Nizza (la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 nella città francese, ndr) vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro. Con la “Gpa solidale” si vuole aggirare l’ostacolo. Ma il dono è una cosa seria, gli antropologi che lo hanno studiato ci spiegano che è un modo per costruire relazioni. Qui c’è un dono al servizio del mercato.

Professoressa, è consapevole di nuotare controcorrente rispetto al pensiero mainstream, in particolare a sinistra?

A sinistra – ma non solo – si incorre spesso nell’abbaglio di non vedere il mercato dietro fenomeni di questo tipo. Mi sconcerta il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento, mascherate e giustificate nel nome della libertà. E mi colpisce l’incapacità di vedere l’esistenza di rapporti di subordinazione, di sfruttamento o vero e proprio dominio, quando siano mediati dalla forma giuridica del contratto. Ma esistono anche voci critiche: posso citare grandi pensatori laici e di sinistra come Stefano Rodotà, che denunciava il pericolo della “cannibalizzazione” del corpo da parte del mercato, oppure Luigi Ferrajoli, grande giurista allievo di Norberto Bobbio, per il quale la stella polare della sinistra è l’uguaglianza. Nella gravidanza per altri sono evidenti i rapporti asimmetrici; non a caso la madre surrogata è sempre di ceto sociale inferiore alle coppie paganti. C’è una certa cecità di fronte a questi fenomeni; oggi mi sembra interessante che sia il Papa a spendersi contro la mercificazione universale.

Nel suo saggio argomenta anche contro la presunta libertà di prostituirsi. Un tema molto controverso: sempre più spesso sentiamo testimonianze di “escort felici”…

Anche in questo caso, è giusto ascoltare tutte le testimonianze, con rispetto ma non con ingenuità, confrontandole con tutto quello che sappiamo sul mondo della prostituzione. Ad esempio il numero di donne che vengono uccise o che sviluppano patologie psichiatriche o si suicidano… Se l’invito a mettersi in vendita, veicolato da un certo modello culturale, è stato accolto da donne che interpretano la libertà sessuale in questo modo, le leggi devono però proteggere i soggetti più deboli. Chi finisce a esercitare quell’attività nella stragrande maggioranza dei casi non ha avuto altre possibilità.

E se una donna vende il suo corpo volontariamente?

Questo ha a che fare con l’egemonia del modello neoliberale, che dice che siamo tutti imprenditori di noi stessi e dobbiamo mettere a valore tutto ciò che abbiamo e che siamo. A questo modello si può opporre ciò che diceva Marx, e cioè che gli operai devono lottare per ottenere una legge che limiti la loro libertà di diventare volontariamente schiavi del capitale. Quello che Marx sapeva è che le forme moderne di sfruttamento si basano sulla libertà di chi ha poche alternative. Una disponibilità a farsi sfruttare che si manifesta nella forma estrema della “prostituzione volontaria”, ma non solo; pensiamo ai giovani invitati a lavorare gratis per arricchire il curriculum o alle condizioni di braccianti e rider…


(Avvenire, 9 marzo 2023)

di Alessandra Pigliaru


«Per noi, senza retorica, 8 marzo è ogni giorno». Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – Donne in rete contro la violenza, non ha dubbi nel constatare che, al di là di ogni celebrazione, un sistema complesso come quello dei centri antiviolenza (oltre 80 quelli che fanno capo a D.i.Re) e case rifugio, sia presente e attivo con ostinazione ogni giorno.

Quest’anno la loro attenzione, proprio in virtù dell’impegno quotidiano e consolidato su tutto il territorio, è rivolta anche alla strage di Cutro, ecco perché oggi, come associazione nazionale, i Centri aderiscono alle mobilitazioni «a sostegno del diritto di vivere oltre ogni confine una vita dignitosa. La nostra azione politica – aggiunge Veltri – procederà per continuare a rivendicare e tutelare i diritti di tutte le donne, ma quanto è successo non può essere messo da parte. Se questo è l’esempio di come il governo affronta i temi legati ai diritti umani, dovremo sempre più monitorare, reagire e far sentire la nostra voce».

Dall’inizio del 2023, su 20 donne uccise ben 18 lo sono state in ambito familiare/affettivo; di queste, 11 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Come commenta questi dati?

Lo scorso anno abbiamo visto – nuovamente – come gli omicidi siano costantemente in calo. Non è così per i femminicidi. Questi continuano ad essere costanti nel tempo, poiché non vengono affrontate le vere cause: il diritto al controllo e al possesso della donna da parte del partner, della famiglia. La libertà delle donne, la loro autodeterminazione, il percorso di consapevolezza femminile sempre più diffuso e in crescita è direttamente proporzionale alla volontà di dominio e di controllo di un patriarcato che persiste ancora e reagisce sempre più con efferatezza e violenza.

Sembra una ripetizione, ma fino a quando il fenomeno della violenza maschile sulle donne non verrà affrontato in modo sistemico, per il fenomeno strutturale che è, fino a quando non verrà messo in atto un serio e vasto programma di cambiamento culturale continueremo a contare le donne morte e a chiederci se sono più o meno dell’anno precedente.

A proposito del fenomeno strutturale della violenza maschile contro le donne, i fondi destinati ai vostri Centri sono insufficienti. A che punto è la riflessione istituzionale riguardo i ritardi e le gravi difficoltà che dovete affrontare?

Purtroppo, nulla sembra migliorare con il tempo. I fondi continuano ad essere insufficienti e sono sempre più parcellizzati. Fondi che arrivano in ritardo dallo Stato, Regioni che prendono il loro tempo per l’assegnazione, territori che rimangono indietro, alimentando così – anche in questo ambito – disparità e differenze. Per dare risposte continuative alle donne non è possibile proseguire a lavorare navigando a vista. Inoltre, l’Intesa Stato-Regioni ci lascia ancora perplesse, perché continua a considerarci meri servizi alle donne quando il lavoro culturale e di cambiamento strutturale attraverso azioni di formazione e di animazione territoriale lo facciamo ovunque e ormai da tempo. Per non parlare dei centri aiuto maltrattanti che beneficeranno di fondi con conseguenze anche nel processo di contrasto alla violenza alle donne molto preoccupanti. Serve una serie politica di sostegno alle attività delle organizzazioni del terzo settore che hanno una solida e consolidata esperienza nel contrasto alla violenza maschile alle donne. E serve un serio piano di formazione per un vero cambiamento culturale nelle istituzioni: ancora troppo frequenti i casi di vittimizzazione secondaria che sempre più allontanano le donne dai percorsi di giustizia. Senza la conoscenza del fenomeno e del suo radicamento culturale, combatterlo è impossibile.

Quali sono i progetti che porterete avanti nei prossimi mesi?

D.i.Re si sta muovendo su vari fronti. Abbiamo attivi una serie di fondi per sostenere economicamente le organizzazioni socie e le donne che accolgono. In questo 2023 vogliamo concentrarci particolarmente sui centri antiviolenza più in difficoltà, che spesso operano in contesti svantaggiati. Ci stiamo muovendo molto per supportare i progetti di inserimento lavorativo delle donne, ben sapendo quanto l’autonomia economica sia fondamentale per i loro percorsi di libertà.

Abbiamo attivato l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, per monitorare l’andamento di questo fenomeno che riguarda le istituzioni e le loro risposte alle donne. Continuiamo a migliorare l’accoglienza delle donne migranti e richiedenti asilo, anche formando vari interlocutori sulla metodologia dell’accoglienza e mediazione culturale. I progetti di D.i.Re offrono risposte ai bisogni che leggiamo grazie al grande radicamento nei territori delle organizzazioni nostre socie.


(il manifesto, 8 marzo 2023)

di Monica Ricci Sargentini


In Italia gli uomini sono responsabili della maggior parte dei comportamenti antisociali. I dati, forniti dall’Istat per il 2018, fanno impressione. La popolazione maschile rappresenta «l’85,1% dei condannati, il 92% degli imputati per omicidio, il 98,7% degli autori di stupri, l’83% dei responsabili di incidenti stradali mortali, l’87% dei colpevoli di abusi su minori e il 93,6% degli imputati per pornografia minorile». E ancora: «il 95,5% della popolazione mafiosa, l’87,5% degli imputati per rissa e il 76,1% per furto»; «il 91,7% degli evasori fiscali, l’89,5% degli usurai, il 93,4% degli spacciatori, il 95,7% della popolazione carceraria». Sono cifre incredibili, considerando che le donne rappresentano il 51,3% della popolazione, che hanno un costo spropositato per le casse dello Stato, dalle spese per le forze dell’ordine ai servizi penitenziari, da quelle per i processi a quelle per le cure mediche. Ma al di là dell’aspetto puramente finanziario vanno calcolate anche le centinaia di migliaia di vite perse, oltre alle sofferenze fisiche e psicologiche delle vittime. 
Il costo della virilità è il titolo di un libro scritto da Ginevra Bersani Franceschetti, giovane economista con studi a Parigi, insieme con Lucile Peytavin, una storica dell’economia che ha pubblicato un analogo volume in Francia, per Il Pensiero Scientifico Editore . Lo scopo non è solo quello di denunciare l’indiscutibile propensione maschile alla violenza, ma di provare anche a fare una stima del prezzo che paga la collettività, e cioè «quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne» come recita il sommario del libro. 
Le cifra

Le autrici, con formule matematiche rigorose, sono riuscite a calcolare la differenza tra l’importo speso per i comportamenti anti-sociali messi in atto da un sesso e dall’altro. Il risultato è sorprendente: mettendo insieme la spesa pubblica per le forze dell’ordine e il sistema giudiziario, l’amministrazione penitenziaria, le emergenze e i ricoveri ospedalieri, più i costi umani e sociali della «catena della violenza» maschile, si arriva a 98,78 miliardi di euro, una cifra pari più o meno al 5% del Pil italiano nel 2019. Naturalmente i calcoli tengono presente anche il fatto che gli uomini possano praticare un’attività più delle donne, per esempio la percentuale dell’83% dei responsabili maschili di incidenti mortali è calcolata a parità di tempo e chilometri di guida delle donne. 
La mancanza di dati A rendere complicati i calcoli è la drammatica carenza di dati sulla differenza di sesso nelle statistiche relative ai comportamenti antisociali. Sembra incredibile ma i numeri diffusi dagli organismi statistici sui bilanci del sistema giudiziario, di quello sanitario, dei servizi di emergenza, e così via, sono raramente disaggregati in tal senso. Ad esempio quando l’Istat pubblica una rassegna di 230 pagine sulla criminalità in Italia viene prestata più attenzione alla nazionalità o all’età degli imputati piuttosto che al fatto che siano maschi o femmina. Come se questa fosse una cosa scontata. Per aggirare questo problema le autrici hanno dovuto incrociare i diversi dati tra quelli pubblicati dai ministeri a quelli forniti dai servizi statali incaricati di produrre statistiche. 
Le cause

Qual è la ragione di questa incredibile discrepanza? Le autrici sostengono che i comportamenti anti-sociali degli uomini sono il frutto di una mascolinità tossica dovuta all’educazione che viene loro impartita. La società patriarcale promuove il modello dell’uomo-macho, virile, forte e superiore. Se ai bambini si insegna a sopprimere le emozioni, a mascherare il disagio o la tristezza ed ad utilizzare la violenza come indicatore di potere, i risultati sono quelli che vediamo. Il vocabolario Treccani alla voce virilità scrive: «La qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sé e risoluto, coraggioso, che si manifesta nelle sue azioni». Ma attenzione anche i maschi sono vittime di questa cultura misogina perché sono obbligati ad adeguarsi a un modello di persona fatta di testosterone e sete di dominio. È questa la gabbia in cui sono costretti a vivere. Nel resto del mondo Ovunque nel mondo, come in Italia e in Francia, gli autori di delitti e di violenze sono in grande maggioranza uomini. «Possiamo pensare che, senza una concezione virile delle relazioni internazionali, le guerre e i conflitti sarebbero meno numerosi?» si chiedono le autrici. È venuto il momento di provare, potrebbe nascere un mondo migliore.


(Corriere della Sera, 8 marzo 2023)

di Franca Fortunato


La strage di migranti consumata a pochi metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro (Kr), quando ancora era buio, soffiava forte il vento e il mare in tempesta si gonfiava sempre più, mi ha lasciato molto dolore e rabbia. Dolore per la morte di tante donne, uomini, bambine/i innocenti. Rabbia perché potevano essere salvati e chi doveva e poteva non l’ha fatto. Che c’erano le condizioni per salvare tutti i 180 (68 morti di cui 16 bambini/e, 81 sopravvissuti, gli altri dispersi), oggi lo dicono in tanti, compresa la Capitaneria di Porto a cui era demandato il salvataggio che non c’è stato. Perché non c’è stato? Siano accertate tutte le responsabilità. Verità e giustizia per i morti e per i vivi. Verità e giustizia per quei corpi chiusi nelle bare, per il dolore inconsolabile delle madri, per le lacrime, per lo strazio di chi è sopravvissuta/o ai propri cari, per quel ragazzo partito da solo e mai arrivato. Verità e giustizia per una terra, la Calabria, terra di migranti, di solidarietà, di umanità, di accoglienza dei vivi e dei morti. Nicoletta Parisi di Botricello (Catanzaro), di 80 anni, alle creature piccole, i cui corpi nudi e gonfi d’acqua ci ha restituito il mare, ha aperto la cappella di famiglia. «Ho perso mio marito da poco, eravamo una coppia granitica. Sempre disponibili e solidali verso gli altri. Le immagini del naufragio sono state una pugnalata al cuore. Tra le vittime c’erano tanti bambini. Cosa potevo fare per quelle piccole creature morte in mare senza aver capito il gesto delle loro madri, che era di portarli via da una civiltà crudele? Su questa terra siamo tutti profughi e tutti abbiamo diritto alla Misericordia divina. Ho ripensato a mio zio morto in Russia senza una degna sepoltura. Non volevo che avessero la stessa sorte. Ho messo a disposizione la mia cappella di famiglia. Sono andata da mio marito: non sarai più solo, tanti bambini verranno a farti compagnia». Quanta umanità, quanta Calabria nelle parole di questa donna! Di quelle creature il mare ci ha restituito tutine, giocattoli, una bicicletta, un biberon del neonato chiuso in una piccola bara bianca con sopra un camioncino. Dolore e lacrime di donne che urlano per la disperazione, donne chiuse nelle bare, poche con un nome: Munika Fgrsdi, 35 anni; Marzia Quasimi, 34; Mina Afghanzadeh, 25 anni; Abiden Jafari, 28; Esmat Hydari, 70; Marjam Safari, 17; Shahida Raza, 27. Vite, storie, sogni, speranze di un’umanità dolente, chiuse per sempre nelle bare o nel profondo di quel cimitero che è divenuto il Mediterraneo (26 mila i morti da dieci anni a oggi). Dolore e disperazione nel cuore dei vivi. È questo il “carico residuale” del ministro degli Interni e di un governo che vuole fermare le partenze, criminalizza chi salva vite umane, proibisce più salvataggi, incatena le navi delle Ong nei porti e li manda lontano per ostacolarne i salvataggi. Un’umanità disperata che per il Ministro è colpevole di partire in “condizioni che mettono a rischio la vita dei propri figli”. Figli che le madri tengono stretti a sé per tutto il viaggio, per ripararli dal vento, dalla pioggia, dal mare in tempesta e si straziano al loro pianto per paura, fame e sete. E molte volte muoiono con loro. Chi lascia la propria casa se non ne è costretto? Davanti ai morti di Crotone tutti si addolorano, anche la fortezza Europa che spalanca le porte ad alcuni e alza muri per altri. È di questi giorni la decisione di finanziare, per la prima volta con fondi europei, la costruzione di un muro ai confini del nord Europa. Abbiate rispetto di quei morti, risparmiateci ipocrisie e cinismo e date loro verità e giustizia.


(Il Quotidiano del Sud, 4 marzo 2023)

di Letizia Roscelli


In Iran negli ultimi tre mesi si sono verificati misteriosi avvelenamenti di studentesse.

I funzionari iraniani hanno detto che stanno indagando, ma molti iraniani credono che lo Stato stesso sia dietro questi “attacchi chimici”, per intimidire donne e ragazze e tenerle a casa e fuori dalla scuola.

I primi avvelenamenti sono avvenuti a Qom, il 30 novembre 2022: 18 studentesse della Nour Technical School vennero ricoverate.

A Borujerd, una piccola città nell’Iran occidentale, 194 ragazze sarebbero state avvelenate in una sola settimana.

Il 28 febbraio, 35 studentesse della Khayyam Girls’ School di Pardis sono state ricoverate in ospedale.

Il 1 marzo è stata segnalata un’altra ondata di incidenti in circa 26 scuole del paese con quattro attacchi separati a Teheran.

Foto e video condivisi mostrano l’impatto di questi attacchi diffusi, che hanno provocato 800 avvelenamenti.

Gli attacchi hanno provocato nelle ragazze mal di testa, vertigini, nausea, svenimento e persino perdita del controllo degli arti.

Le ragazze hanno riferito di aver sentito odore di frutta marcia, menta o uova marce prima che i sintomi si manifestassero.

Alcune hanno dovuto rimanere in ospedale per cure prolungate, ammalate per diverse settimane.

Un medico ha detto al Guardian che gli studenti potrebbero essere stati avvelenati con un agente organofosfato debole, che può essere utilizzato nei pesticidi agricoli.

Fatemeh Rezaei, ragazzina di 11 anni, è morta.

Gli attacchi hanno suscitato paura e disperazione: molti genitori hanno tenuto i propri figli a casa da scuola e hanno subito pressioni dalle forze di sicurezza per non parlare di questi incidenti, né sui social media né con i media tradizionali.

Alcuni dicono che le autorità iraniane stiano intimidendo le ragazze, protagoniste delle proteste.

Altri che dietro gli attacchi ci sono estremisti religiosi. Nel 2012, centinaia di studentesse in Afghanistan sono state avvelenate con sintomi simili.

Masih Alinejad, attivista iranina per i diritti umani, ha detto: “In my opinion, this chemical attack is revenge by the Islamic Republic against the brave women who [rejected] the mandatory hijab and shook the ‘Berlin Wall’ of Khamenei. As the Islamic State Iranian regime hates girls and women, I call on women across the globe – especially schoolgirls – to be the voice of Iranian students and call on the leaders of democratic countries to condemn this series of poisonings and isolate Khamenei’s regime.

I call this biological terrorism, and it should be investigated by the UN.”


Fonti e per saperne di più:

https://observers.france24.com/en/middle-east/20230301-do-not-send-your-children-to-school-iranian-schoolgirls-victim-of-mysterious-poisonings

https://www.instagram.com/p/CpJQzi7v3Ia/

https://www.theguardian.com/global-development/2023/feb/27/iranian-authorities-investigate-the-poisoning-of-schoolgirls-said-to-be-revenge-for-hijab-protests

https://twitter.com/Rev_Group_iran/status/1630639284624474122


Le Compromesse – 4/03/2023

di Marina Terragni


Per dare un’idea dello strepitoso casino ingenerato dalla Ley Trans approvata una settimana fa in Spagna basterebbe questo: una cinquantina di machistas di estrema destra, inferociti per i “privilegi” riservati alle donne – quote, percorsi protetti, leggi contro la violenza maschile e così via – hanno anticipato al Mundo che si presenteranno in massa all’ufficio del registro per dichiarare il cambio di sesso e usufruire di queste opportunità: almeno 475 diritti sanciti per le donne, secondo il calcolo di un esperto, che da ora in poi saranno accessibili anche agli uomini. Bastano quattro mesi e ti arriva il documento: auguri, lei è una donna. Non servono perizie, testimonianze, farmaci, chirurgia, niente di niente. Basta la tua volontà, assolutamente insindacabile. Puoi tenerti il tuo corpo, i tuoi genitali, la barba se ce l’hai, e perfino il nome: per comodità potrai restare Pedro o Javier, anche se lo Stato ti riconoscerà donna a tutti gli effetti. Se i machistas mostrano di avere ben compreso la profonda misoginia di questa incredibile Ley approvata con iter accelerato, la stragrande maggioranza degli spagnoli brancola nel buio: basta vedere la faccia stralunata di certi conduttori tv che si rendono conto di quello che è successo solo nel corso di talk fuori tempo massimo. I più credono che si tratti di una norma di civiltà concepita per garantire un’esistenza più sicura e dignitosa ai vari “Agrado”, l’esigua minoranza transessuale. La verità è che qui Agrado e la transessualità non c’entrano niente.

Il femminismo riunito ha duramente lottato contro la Ley Trans e non intende arrendersi, a cominciare dalle prossime scadenze elettorali. Lo spiega Amparo Domingo, rappresentante spagnola della rete globale Women’s Declaration International (WDI) con cui partecipa alla Confluencia Movimiento Feminista di Spagna: «In maggio si voterà per regioni e comuni» dice «ed entro fine anno per le politiche. Il femminismo spagnolo è quasi integralmente di sinistra, ma oggi si sta valutando l’astensione: hashtag #FeminismoNoVotaTraidores. Forse una minoranza tra noi sosterrà il Partito popolare, che intanto sembra voler aprire su temi sensibili come l’aborto e ha già annuncialo un tavolo multidisciplinare di confronto al quale anche noi siamo invitate per formulare una legge alternativa da approvare nei primi 100 giorni di un eventuale governo di centrodestra. I sondaggi vedono un testa a testa tra le due coalizioni, con lieve vantaggio del PP: il nostro non-voto potrebbe essere decisivo». La Ley è stata proposta da Podemos, in particolare dalla ministra dell’Igualdad Irene Montero. Inizialmente il Psoe non la sosteneva. Poi cos’è cambiato? «Sanchez ha messo al primo posto la coalizione. Nel secondo semestre 2023 la presidenza Ue toccherà alla Spagna e lui ci tiene molto, voleva arrivarci senza essere disturbato. Ha chiuso la bocca anche alle donne del suo partito. È andato avanti come un treno. La stampa filogovernativa ha censurato il dibattito. Ci ha dipinto come “vecchie” conservatrici moraliste invidiose della giovinezza e del progressismo di Irene Montero. E non ha raccontato la verità». Qual è la verità? «Per esempio il fatto che anche i minori a partire dai 14 anni potranno decidere di “cambiare sesso”. Dai 16 in totale libertà, dai 14 accompagnati dai genitori o da un tutore: ma se non c’è accordo interverrà un difensore giudiziale a tutelare la dignità del minore. Quindi di fatto dai 14 anni puoi autodeterminare il tuo sesso (self-id). Ma anche a 12 anni puoi rivolgerti al tribunale per avere l’ok se il giudice valuterà che c’è “sufficiente maturità per decidere”. A 12 anni sei in tempo per assumere i bloccanti della pubertà. E quando cominci a prenderli quasi sempre (9 volte su 10) prosegui con gli ormoni cross-sex». Certo. Nella legge è stato aggiunto in corsa un articolo in cui si impegna il ministero della Sanità e l’agenzia dei farmaci a garantire un sufficiente approvvigionamento. Negli ultimi anni in Spagna i casi di supposta disforia tra i minori sono aumentati di oltre il 5000%.»

Nemmeno per i bambini serve diagnosi medica o psicologica? «Assolutamente! Al contrario, ci saranno pesanti sanzioni, fino a 150.000 euro, per gli psicologi che si azzardassero a intraprendere un percorso perché si tratterebbe di “terapia di conversione”. Il presupposto è che da qualche parte nel tuo corpo esiste un’anima sessuata che decide se sei uomo o donna, e questo non può essere messo in discussione. È una forma di culto». A proposito: la chiesa spagnola ha preso qualche posizione? «Non risulta. La chiesa si era opposta con forza al matrimonio omosessuale, ma qui non si è sentita. Forse questa cosa dell’anima tutto sommato piace, è una forma di conversione dell’omosessualità sul modello dell’Iran che è il paese-faro di questa ideologia: se sei gay ti mandano alla forca, se cambi “sesso” tutto ok».

L’Onu ha celebrato la Ley Trans. «Non l’Onu, alcuni isolati esperti dell’Onu. Smentiti dalla relatrice contro la violenza Reem Alsalem, secondo la quale non esiste un diritto umano al self-id». Ora cosa contate di fare?

«Non ci stancheremo di informare perché pochi hanno capito questa legge. E vigileremo sulle conseguenze dell’applicazione che di sicuro creerà situazioni grottesche e ingestibili. La gente si renderà conto. Da tempo questo governo approva leggi in modo incompetente, solo per lisciare il pelo agli attivisti. Un esempio è la cosiddetta legge “Sí es sí” sul consenso sessuale. Noi femministe abbiamo subito detto che avrebbe comportato una riduzione delle pene per gli stupratori e i violenti, e così è stato. Più di 500 condannati per reati sessuali si sono visti ridurre le pene. Ora il Psoe ha promesso di riformare la legge». Nella Ley Trans vedete anche profili di incostituzionalità? «Sì, perché è una legge ordinaria e cambia i termini rispetto alla legge organica sull’Uguaglianza che è una legge superiore. La legge sull’Uguaglianza ha assunto i principi espressi dalla Convenzione Onu per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, e fa riferimento al sesso, mentre la Ley Trans parla di identità sessuale che cancella il sesso biologico». Non identità di genere? «No, il termine che si usa è sempre identità sessuale intesa come “esperienza interiore e individuale del sesso”. Altro profilo di incostituzionalità: l’inversione dell’onere della prova. Se io vengo accusata di essere transfobica non toccherà a chi mi accusa dimostrare che lo sono ma a me dimostrare che non lo sono. Un bavaglio intollerabile. Non ci fermeremo».


(Il Foglio, 2 marzo 2023)

di Linda Chiaramonte


«Vedo un futuro brillante grazie a questa gioventù e alla sua intelligenza. In Iran c’è una società ultramoderna, calata nel ventunesimo secolo, e un governo indegno del paese con una mentalità medievale. La società si è evoluta e scende in strada, il muro di paura è caduto e non si torna più indietro». Sono le parole ottimiste e di speranza pronunciate da Marjane Satrapi, illustratrice, fumettista e regista iraniana, dopo la lectio magistralis The Freedom of mind tenuta pochi giorni fa alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Bologna, al termine del quale ha ricevuto dal Rettore Giovanni Molari il Sigillum Magnum di Ateneo, massima onorificenza accademica. Con l’invito a Satrapi, autrice della graphic novel Persepolis che l’ha resa nota in tutto il mondo, l’Alma Mater si è schierata a fianco agli iraniani che stanno lottando per i loro diritti.

L’ateneo bolognese è stato toccato direttamente da questa ondata di violenta repressione in Iran con la morte dello studente Mehdi Zare Ashkzari dopo le torture subite in carcere. Bologna è il primo ateneo italiano per numero di studenti internazionali e la comunità iraniana rappresenta la più ampia con circa mille iscritti. Solo quest’anno sono più di 260 i nuovi immatricolati, la maggior parte donne.

«Noi avevamo il terrore, non osavamo neanche parlare. Questa generazione, formata da tutte le classi sociali e di tutte le parti del paese, sa di non avere nulla da perdere, rischia di essere uccisa in ogni caso, come Mahsa Amini, in più ha un’idea nuova di cultura democratica. La rivoluzione è partita dalle donne, ma gli uomini sono arrivati subito dopo, dietro di noi, a fianco a noi. È la prima rivoluzione femminista fatta insieme. È un cambiamento radicale che rende la situazione diversa da quella che descrivevo io. Oggi più dell’80% degli iraniani sono alfabetizzati (il 60% sono ragazze), durante la Rivoluzione del ’79 lo erano solo il 40%, inoltre la rivoluzione informatica rende possibile a questa gioventù essere in contatto con i coetanei di tutto il mondo. Mi confronto con loro e vedo quanto siano moderni e non sessisti. Questa generazione a differenza della mia non ha vissuto il trauma della guerra e dell’esilio», ci ha detto ancora Satrapi che da più di trent’anni vive in Europa, prima a Vienna poi dal ’94 a Parigi.

«La democrazia è una cultura e la cultura è un processo che richiede tempo. Nelle prigioni politiche iraniane è rinchiusa una élite intellettuale tale da avere persone sufficienti per formare venticinque governi, la sola cosa che possiamo fare in quanto diaspora è essere la loro voce e diffonderla, andare a manifestare. Al parlamento europeo alcuni tagliano i capelli in segno di solidarietà e sostegno, me ne frego, quello che voglio è che taglino i legami con la Repubblica islamica, è questo che bisogna fare. È uno tsunami, un’onda che va su e giù, parte e non si ferma, non ci sono dubbi che avrà successo. Il regime è un corpo morto che la gente sta spingendo via per fare spazio e pulizia, togliere il cattivo odore e costruire qualcosa di nuovo. Quel giorno arriverà, ne sono sicura. Naturalmente il mio sogno è tornare nel mio paese, ma abbiamo fatto una scelta, quella di partire, più della metà della mia vita l’ho vissuta fuori dall’Iran. Posso dare una mano per far cambiare le cose, ma noi della diaspora dobbiamo avere l’umiltà di dire che abbiamo scelto di andarcene, l’Iran appartiene agli iraniani che ci vivono, possiamo seguirli e aiutarli, ma non scegliere al posto loro». E ha aggiunto: «Sto ancora pensando di documentare questa rivoluzione, ho bisogno di tempo per riflettere, trovo le cose fatte nell’immediato un po’ opportuniste. Prima di raccontare qualcosa bisogna avere il tempo di analizzare, e l’emozione e l’analisi non vanno di pari passo».

Nella sua lunga e affollata lezione a braccio Satrapi ha ripercorso alcune tappe della storia dell’Iran: «Non c’è un altro Stato che abbia fatto più rivoluzioni nell’arco del XXI secolo e tutto il mondo è rimasto muto credendo che gli iraniani meritassero il governo che avevano. In democrazia si ha il diritto di scegliere, ma la gente non merita sempre questi personaggi. Gli italiani meritavano Berlusconi? Meritate Salvini? No. Se gli iraniani potessero scegliere non ci sarebbe una dittatura». Satrapi ha esortato i giovani, «Pensate da soli, spesso le idee della maggioranza possono essere mediocri e stupide, spesso le minoranze sono dalla parte giusta».

A proposito del velo, ancora una volta l’oggetto scatenante della nuova ondata di proteste, ha detto: «Sono contro perché odio dovermi coprire il capo. Quando è diventato obbligatorio, dopo il ’79, ero bambina ed ero a manifestare con mia madre e mio padre, uno dei pochi uomini a farlo. In quegli anni neanche la sinistra all’opposizione ha supportato le donne sostenendo che fosse una battaglia fra classi sociali e non un suo problema, dimenticando che i diritti delle donne sono diritti civili», ma ha anche aggiunto: «ci sono diritti umani che vanno oltre a quello in cui credo io, quando in Francia hanno bandito il velo sono stata contro il divieto. O siamo tutti liberi insieme o non lo siamo, la libertà di uno non può fermare quella di un altro». Ha ricordato anche come proprio il velo abbia dato la possibilità ad una parte della popolazione di portare avanti gli studi, «è l’altro lato della medaglia, molti uomini non avrebbero mai permesso di far studiare le proprie figlie nelle università considerate luoghi di perdizione». E ha concluso, «mi fido dell’intelligenza e della maturità della nostra gente che sta dimostrando cosa sia il coraggio. Non hanno paura di uscire con il rischio di essere arrestati o uccisi».


(Il manifesto, 1° marzo 2023)

di Cristiana Cella


Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo. La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”. Nel buio delle strade succede di tutto e al mattino si trovano i cadaveri. Il 9 febbraio, i Talebani hanno dichiarato di averne raccolti 148 nel corso del mese precedente. Si muore di freddo, di fame, di droga, per mano talebana, per l’aggressione da parte di un criminale, per omicidio, per attacchi suicidi.

La stessa cupa prigione è saldamente installata nella mente degli uomini. Sahar, insegnante, racconta cos’è successo nel suo quartiere a una famiglia che conosce di vista. Un padre, Faiz, ama sua figlia quindicenne (così dice): bella, istruita, allegra, ne è fiero. La sorveglia costantemente: lei è preziosa, il suo migliore affare. La vende in sposa, con suo grande profitto, a un suo collega, un uomo rispettabile, più anziano di lui. Lei, Zahra, invece, ha altri progetti. È innamorata e si vede di nascosto con il suo fidanzato Amid, progettano la fuga. Ora che il padre l’ha promessa, non esce più. Il ragazzo di notte riesce a entrare nella sua stanza, vuole vederla. Sono vicini, si tengono le mani. Faiz, padre che ama sua figlia, controlla. La vita di Zahra gli appartiene, l’affare è già combinato. Tutta la casa controlla, anche i muri, gli scricchiolii, i pavimenti: tutte spie di Faiz. Allarmato, entra nella stanza, Amid scappa dalla finestra. Faiz prende il suo fucile e gli spara, ma ormai il ragazzo è sparito nel buio. Così, si gira, con la furia negli occhi, mentre la figlia gli urla che vuole sposare Amid, solo lui. Non ci pensa molto, riempie il corpo della sua bambina di pallottole. Zahra viene uccisa. Il padre solleva il cadavere, così leggero e lo getta nel cortile. I vicini si affacciano, le donne urlano. Faiz è ancora lì, con il fucile in mano e spinge via con i piedi il corpo della figlia. I vicini, spaventati, denunciano l’omicidio alle autorità. Eccoli, i “giudici”, con il turbante di traverso, armati fino ai denti. Gli occhi accesi da chissà quale delirio. Vedono il corpo della ragazza, nessuno ha osato spostarlo. Entrano in casa dove la madre non smette di singhiozzare. Parlano con Faiz. Ascoltano, annuiscono. I vicini spiano dalle finestre. Escono nel cortile per assistere alla “giustizia talebana”’. Ecco, ora sarà frustato, arrestato, ucciso, si dicono. Se lo porteranno via. Se lo merita. Ma i Talebani si complimentano con lui, gli danno pacche sulle spalle, lo lodano senza ritegno: “Hai fatto il tuo dovere. Ora il tuo onore è salvo e la sharia rispettata. Tua figlia era una puttana”. Giustizia è fatta.

A fine gennaio 2023 l’agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa) ha pubblicato delle linee guida in cui ha riconosciuto che le donne e le ragazze sono, in quanto tali, a rischio di persecuzione sotto il regime dei Talebani e possono quindi beneficiare dello status di rifugiato in Europa. Oggi, in Afghanistan, i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti governati dalla sharia. Giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. I codici cambiano e sono i Talebani a dettarli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Oggi, nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono. Impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate. E la voce delle donne, inascoltata, perde forza e si prosciuga. Sulle leggi che proteggevano le donne i Talebani non si esprimono nemmeno: per loro non sono mai esistite. Basta la sharia. Copre ogni caso sottoposto alla giustizia. La violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica, non è oggetto di alcuna sanzione, è colpa delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. L’impunità nutre gli abusi, si annida nelle case, diventa a poco a poco la regola, un tarlo, una malattia. Il triste potere di annichilire devasta il cervello e l’anima degli uomini. Imprigiona la loro mente più del corpo delle donne.

Chi ha difeso le donne è sotto tiro: avvocate, giudici, procuratrici, vivono nascoste sotto continua minaccia di morte. Sono conosciute e rischiano molto. Non basta impedire loro di lavorare, per i Talebani vanno eliminate. Soprattutto per quei padri e quei mariti che, a causa loro, erano stati imprigionati. Questi uomini sono stati tutti liberati dai Talebani, già nella loro corsa verso Kabul nell’agosto 2021. Ex prigionieri e combattenti hanno saccheggiato le case di donne giudici. E vogliono la loro vendetta. “Pochissime si rivolgono alle corti talebane per i loro problemi – dice Mirwais, avvocato penalista -. Per i nuovi governanti le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”. La stampa non c’è più ma qualche notizia sulla “giustizia talebana” filtra sui social network. Ci sono state donne lapidate in diverse province, in quella di Badakhshan in particolare. A Ghowr una donna si è suicidata per sfuggire a questa crudele esecuzione. Nella provincia di Takhar, 40 giovani sono stati frustati in mezzo alla strada e messi in prigione per non aver osservato le prescrizioni su hijab e barbe. Scendere in strada è come andare in guerra.

L’8 marzo in Afghanistan non c’è nulla da festeggiare. Non c’era nemmeno nei vent’anni passati quando, tranne poche eccezioni, la giustizia per le donne restava una chimera. Ma le militanti afghane che si battono per i diritti delle loro sorelle ci tengono molto a celebrare questa festa. Per loro è sempre stato un giorno importante e lo è ancora. “Serve a ricordarci le vittorie delle donne -dice Gulnaz, militante di Rawa-. Se loro ce l’hanno fatta, ce la faremo anche noi. Ci vorrà molto tempo ma le cose cambieranno. Oggi sappiamo che continueremo a combattere, con le armi della consapevolezza, dell’istruzione, della cura, della resistenza e con la forza della vita stessa. È questa che dobbiamo celebrare oggi”. Rawa e le altre associazioni di donne continuano a lottare. Trovano ogni escamotage per realizzare quello che serve: scuole, rifugi, ambulatori. Tutto segreto, per una vita che non si fa schiacciare. Continuano a inventare e a dare speranza alle donne. Rawa ci sarà l’8 marzo: le militanti arriveranno per l’occasione addirittura da altre province. Nonostante tutto, nei modi più fantasiosi, riusciranno ad affermare la certezza che qualcosa si può sempre fare per arginare l’orrore e nutrire la forza delle donne. Un giorno di coraggio che, ancora, i Talebani e gli altri tagliagole non sono riusciti a devastare.


Con questo contributo a cura di Cristiana Cella del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda), prosegue l’impegno di Altreconomia per tenere la luce accesa sull’Afghanistan


(https://altreconomia.it/l8-marzo-clandestino-delle-donne-afghane-che-resistono-ai-talebani/, 1 marzo 2023)

di Ilaria Sirito e Daniela Santoro


Siamo Alessia, Alice, Arianna, Cristina, Daniela, Emma, Letizia, Ilaria, otto ragazze, studentesse e lavoratrici dai 23 ai 27 anni: insieme siamo Le Compromesse, un gruppo femminista attivo dal 2020, nato come gruppo di studio di testi storici e attuali del femminismo e approdato su Internet con una pagina Instagram e un blog. A dire il vero, tutto è nato da Internet: ci siamo conosciute virtualmente attraverso le reti del femminismo radicale su Facebook e la nostra conoscenza si è approfondita, in questi due anni, grazie ad appuntamenti settimanali su Meet. Così pur vivendo in regioni diverse, siamo riuscite a consolidare il nostro rapporto, fonte di crescita personale e politica, grazie a quanto la società digitalizzata ci offre quotidianamente. Allo stesso tempo però riteniamo che rimanere confinate nella definizione di “femminismo digitale” sia piuttosto riduttivo. La nostra pratica va ben oltre la diffusione di post accattivanti e l’accumulo di followers: i nostri post, i nostri articoli, i nostri modi di comunicare “digitalmente” sono sempre mediati da un confronto interno quotidiano, confronto che ci aiuta a riflettere e a crescere come donne e femministe qui, nella realtà fatta di vissuti quotidiani, concreti, anche apparentemente semplici della vita di tutti i giorni, con i suoi dettagli che il digitale non afferra. Ed è proprio questo il contenuto che vogliamo portare su Internet: il piacere che troviamo l’una nell’altra, la forza che ne deriva.

Dall’esperienza di questa forza e dalla voglia di metterla in gioco nella realtà al di fuori del web si è mosso il nostro incontro con la Libreria delle donne di Milano, con la cui redazione di “Via Dogana” collaboriamo ormai da un anno. Il lavoro con la Libreria si è concretizzato in un ciclo di quattro incontri (“redazioni aperte”) svolti durante il 2022; le riunioni di preparazione agli incontri, a cui hanno partecipato le Compromesse milanesi di nascita o adozione, sono state un susseguirsi di scoperte e ri-scoperte. Così, per noi la scoperta consiste nel trovare, nelle parole delle donne di un’altra generazione, le parole giuste per parlare del presente che viviamo; mentre per le donne della Libreria, la ri-scoperta riguarda temi e urgenze che si credevano sopite, ma in realtà più che mai attuali e richiedenti risposte nuove – che la Libreria e le sue frequentatrici sono sempre desiderose di ricercare, con la passione intellettuale che contraddistingue la loro storia.

L’ultimo incontro del ciclo 2022 tenuto in Libreria riguardava, appunto per citare un tema solo apparentemente superato, il piacere femminile. Così partendo dall’immagine di Luce Irigaray delle nostre labbra che si toccano continuamente, in autonomia, portiamo sulla tavola l’idea del piacere diffuso: e forse dietro questa ricerca e riscoperta del piacere femminile, un piacere che si irradia e si tocca, a partire dalle une e arrivando alle altre, riusciamo a spiegare meglio il sentimento di necessità che si cela dietro la nascita delle Compromesse. L’essenza di quello che Irigaray definisce come piacere diffuso è la relazione, in primis la relazione tra donne. Dunque, in un momento di incertezza come la pandemia, che ha sconvolto le nostre vite e le nostre relazioni, ci siamo cercate e ci siamo trovate e nella pratica della condivisione, nella pratica della parola, abbiamo riscoperto il piacere.

Piacere che è sì individuale, poiché ci deriva da esperienze che soddisfano i nostri desideri di singole donne, ma le cui radici affondano nella dimensione collettiva che abbiamo costruito. Raccontandoci sulla nostra pagina Instagram, vogliamo trasmettere alle nostre coetanee e alle ragazze più giovani la voglia di unirsi, di trovare piacere infrangendo la bolla dell’individualismo, alla ricerca di una libertà che nasce dallo stare insieme e non perde mai di vista la collettività.


(AP autogestione e politica prima, n. 1/2 2023)

di Elisa Messina


«Segretario» o «segretaria» di partito? Elly Schlein, nuova leader del Partito Democratico, non si è mai posta il problema definendosi da subito «la nuova segretaria Pd». Non dovrebbe esserci nulla di strano o anomalo in questa precisazione.

Eppure in molte redazioni di news, all’atto di dare la notizia della sua vittoria, molte dite si sono sollevate dalle tastiere per qualche secondo ponendosi il dubbio: «La chiamiamo segretario o segretaria?» Retropensiero diffuso: «Non è che si offende se scrivo “segretaria”?» . Questione di secondi, eppure…

Pur nella consapevolezza che «segretaria» è la parola giusta da usare il dubbio si insinua lo stesso nelle nostre teste perché c’è un pregiudizio antico che pesa sul modo in cui è intesa la declinazione femminile del sostantivo: in caso di «funzioni di alto livello» (segretario di partito, segretario di Stato…), anche quando queste sono affidate a una donna, si preferisce usare il maschile. Giusto per non confonderla con la segretaria che redige lettere e tiene il calendario degli appuntamenti del manager.

«È la stessa cosa che capita ad altri nomi femminili professionali come “maestra”o “direttrice”: percepite culturalmente in modo diverso: la maestra è solo quella della scuola primaria, non “il maestro” nell’arte o nella musica, la direttrice è quella della scuola, non “il direttore” di giornale o d’orchestra”» spiega la sociolinguista Vera Gheno. «Non è un problema linguistico, ma culturale. Perché una cosa sono le “notazioni” che troviamo all’interno di un vocabolario a proposito delle singole parole e un’altra le “connotazioni”: i femminili professionali subiscono una limitazione di significato che è presente a livello sociale e culturale, è nelle nostre teste, non nella lingua. O almeno lo è stata fino a poco tempo fa perché le donne non avevano accesso a quelle professioni che erano tradizionalmente maschili».

Ma anche adesso che ci sono sempre più direttrici d’orchestra e di giornale, segretarie di sindacato e di partito, lo stereotipo socio-linguistico resta con la percezione di «diminutio» che quei femminili si portano dietro. L’antidoto? Usarli più spesso questi benedetti nomi professionali femminili: «Abituandoci all’uso il pregiudizio, prima o poi, scompare».

Tredici anni fa, quando Guglielmo Epifani, segretario uscente della Cgl, dette il suo endorsment a Susanna Camusso e disse «Vi presento la mia segretaria», l’espressione suonò alquanto imbarazzante tra i presenti. E la stessa Camusso a lungo si è fatta chiamare «segretario». E diciamo pure che nessun giornale o tv all’epoca si pose il minimo dubbio sul fatto di adottare il femminile nei suoi confronti. «Noi, per prime siamo vittime del patriarcato e del sistema di definizioni che ha generato» sottolinea Gheno. «Ma stando sull’esempio Camusso, vale la pena ricordare che quando, a un certo punto, le linguiste le fecero capire che adottare il femminile avrebbe avuto un effetto positivo a livello socio-linguistico proprio per liberare i nomi dalle connotazioni negative, fu lei stessa a decidere di definirsi “segretaria”»

Ecco, la scelta di definirsi. Ogni donna resta libera di farsi chiamare come vuole. Beatrice Venezi, da poco nominata consigliere per la musica dal ministro della cultura Sangiuliano, ribadisce di essere un «direttore d’orchestra». La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni, all’inizio del suo mandato, volle subito smorzare la polemica che si era scatenata dopo la comunicazione di Palazzo Chigi in cui veniva definita ufficialmente «il presidente» del Consiglio: «Mentre voi discutete io penso ai problemi seri, chiamatemi come volete, anche Giorgia» disse sui social per chiudere il caso.

Ma anche questo è un problema serio e la scelta di definirsi, specie per chi riveste ruoli pubblici ha delle conseguenze: «Come vediamo, al bias sulla connotazione delle parole si sovrappone una questione politica», spiega ancora Gheno, «La rivendicazione dell’uso dei femminili professionali è considerata di sinistra mentre le donne di destra rivendicano la declinazione al maschile perché vogliono sottolineare il prestigio che una carica si porta dietro e di conseguenza l’importanza che spetti a una donna. Ignorando, però, che il tema non è linguistico, ma socio-culturale. Una polemica che è ancora vivace in Italia. Anche in Francia e Spagna, in passato c’è stato molto dibattito sul tema, ma diciamo che noi, su questa battaglia per i nomi professionali femminili, siamo ancora indietro. Non si riflette abbastanza sulle conseguenze collettive del proprio uso delle parole: usare i femminili finisce per normalizzare l’idea che in quei ruoli sia normale avere un’alternanza di uomini e donne. Mentre se continuiamo ad usare il maschile, le donne continueranno ad essere percepite in quei ruoli come un’eccezione».


(La ventisettesima Ora – Corriere della Sera, 27 febbraio 2023)

di Anna Foa


Sì, Israele è in pericolo. Il pericolo di perdere il carattere democratico di cui, almeno fino a poco tempo fa, si è fatta vanto: l’unico Stato democratico del Medio Oriente. Ora, certo può anche fare a meno di farsene vanto, dal momento che non è proprio questa l’etichetta che si può attribuire a quei discepoli del rabbino Kahane, espulso dalla Knesset, e certo non sotto un governo di estrema sinistra, per razzismo e negazione del carattere democratico dello Stato, che sono ora ministri del governo Netanyahu e che, invece di darsi un’etichetta democratica, si fanno vanto di essere razzisti, antidemocratici e perfino omofobi.

È davvero impressionante la velocità con cui il governo nato intorno a Netanyahu dalle recenti elezioni sta distruggendo ogni residuo di possibilità di arrivare un giorno o l’altro, per quanto lontano, ad una pacificazione fra ebrei e palestinesi ed insieme, sta minando, con la legge sulla Corte Suprema, le basi democratiche dello Stato. Ormai non si tratta più soltanto, e non era certo poco!, del conflitto tra israeliani e palestinesi. Ciò che si sta distruggendo è ormai la natura stessa dello Stato di Israele, i principi su cui era nato, la sua politica, per quanto complessa e problematica, in particolare dopo il 1967, essa sia stata. 

Dopo l’attentato terroristico del 26 febbraio, il governo ha decretato, come riferisce Haaretz, l’istituzione della pena di morte per i terroristi. Come non ricordare, pensando a questa tragica svolta, l’orgoglio con cui asserivamo l’inesistenza in Israele della pena di morte per i civili, comminata solo ad Adolf Eichman, e ricordavamo come nel Talmud la pena di morte fosse talmente circondata di paletti e regole da risultare inapplicabile. Da oggi in poi, potrebbe non essere più così. Mi direte che questo riguarda solo i terroristi. Ma chi è il terrorista per il governo israeliano di oggi? Chi spara e mette bombe come nell’attentato di Hawara o anche chi, palestinese, sogna ed immagina di avere uno Stato? Le Università israeliane, a cominciare dalla Hebrew University, sono in agitazione perché vengono dal governo segnali di una spinta ad eliminare, come sospetti terroristi, gli studenti palestinesi dalle Università.

Le grandi manifestazioni che, con numeri sempre crescenti, si succedono da otto settimane in Israele contro la riforma giudiziaria portano in piazza non solo le sinistre ma anche moderati e religiosi. Intellettuali e accademici, certo, ma non solo: persone di tutte le categorie e di tutte le età, tutti uniti nel difendere Israele contro questa degenerazione che rischia di diventare la sua rovina e di farlo assomigliare, come scriveva Haaretz, più all’Afganistan che all’Ungheria.

Credo che denunciare ad alta voce questa situazione sia oggi mio dovere imprescindibile: come ebrea, come fautrice dei diritti umani, come persona impegnata nella politica portata avanti da Gariwo per creare solide catene di responsabilità, per prevenire violenze e fenomeni genocidari, per difendere deboli ed oppressi. È il mio un appello a tutti, cittadini israeliani ed ebrei della diaspora, ebrei e non ebrei, a non lasciare distruggere la democrazia in Israele senza levare almeno alta la nostra voce. Il dolore e la preoccupazione per quanto succede rendono forse le mie parole troppo retoriche, troppo urgenti. Ma il momento è grave e l’ora è buia.


(Gariwo la foresta dei giusti, 27 febbraio 2023)

di Franca Fortunato


C’è una storia di un tempo passato che ci parla nel presente della guerra che da un anno infiamma l’Europa e di cui non si vede la fine. La racconta Simone Weil, una delle più grandi pensatrici del Novecento, nella sua tragedia Venezia salva, rimasta incompiuta, che lei scrisse nel 1940 a Vichy dove si era rifugiata con i genitori dopo l’entrata dei tedeschi a Parigi.

La storia narra che nel 1618 Bedmar, ambasciatore di Spagna a Venezia, ordì una congiura per dare Venezia al re di Spagna, allora signore di quasi tutta l’Italia. Egli affidò l’esecuzione del piano a Renaud, gentiluomo francese, e a Pierre, pirata provenzale, che sognavano “onori”, “dominio” e “possesso”.  Gran parte delle truppe mercenarie di guarnigione a Venezia e molti ufficiali, la maggior parte stranieri, al servizio di Venezia, furono coinvolti nella congiura, con promesse di denaro e onori. Il piano era di agire di sorpresa in piena notte, occupare la città, appiccare il fuoco in tutti i quartieri e uccidere tutti coloro che avrebbero tentato di resistere. La notte prescelta era quella della vigilia della Pentecoste. Accadde però che Jaffier, uno dei capi della congiura, la fece fallire denunciandola al Consiglio dei Dieci.

Saint-Réal, che aveva scritto la storia nel 1672, aveva interpretato il gesto di Jaffier come l’azione di un traditore, un vigliacco, un debole, da disprezzare secondo l’immaginario maschile che nella guerra accompagna l’eroe, il guerriero da onorare. «Valori» quali «nazione», «libertà», «democrazia”, «sicurezza nazionale», «difesa dei territori» utilizzati dagli uomini per giustificare le loro guerre «hanno come contenuto solo milioni di cadaveri, orfani, mutilati, disperazione e lacrime». Non ci sono guerre giuste, la guerra è sempre un crimine, è imperio della forza che distrugge, disumanizza, massacra, sradica chi scappa e uccide chi resta, è odio, foriero di nuovi conflitti e nuove guerre. Chi si rifiuta di combattere come gli obiettori di coscienza in Russia e in Ucraina, o le madri che impediscono ai figli di partire o di tornare al fronte, chi fugge o si nasconde per sottarsi alla proscrizione obbligatoria, non è che un vigliacco, un traditore.

È questo immaginario maschile che Jaffier abbandona divenendo per Simone «l’eroe perfetto», disprezzato, di cui il nostro tempo ha bisogno per cacciare la guerra dalla storia prima che una guerra nucleare, complici le donne di potere, cacci l’umanità dalla faccia della terra. Jaffier non si è mosso per tradire i suoi compagni, ma per pietà verso «la splendida città» che, ignara di quello che l’aspetta, le appare in tutta la sua «fragilità». Salvare una città, un paese, un popolo dalla catastrofe non è segno di resa o di debolezza ma di forza e di amore. La guerra in Ucraina non si è voluta evitare, anzi la si è preparata, non si è voluta fermare anzi è divenuta una guerra tra potenze nucleari. Scelta la strada della «resistenza», dell’invio di armi e delle sanzioni, a distanza di un anno non restano che città rase al suolo, milioni di profughi sradicati, centinaia di migliaia di morti di civili e di giovani costretti a combattere contro la loro volontà, legami familiari e parentali distrutti, un bene prezioso perduto per sempre. Non restano che macerie materiali e spirituali e un mondo che si arma per altre guerre e altri massacri. Nessuna pace è «vergognosa», nessuna condizione è inaccettabile per salvare una città, un paese, l’umanità. Ce lo insegna Simone Weil e la sua «Venezia Salva».  


(Il Quotidiano del Sud, 25 febbraio 2023)

di Irène Némirovsky, a cura di Marina Santini e Clara Jourdan


Da Tempesta in giugno, di Irène Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942), edita in Italia da Adelphi nel 2022, pp. 160-161, che racconta l’esodo del giugno 1940 da Parigi, versione dattiloscritta pubblicata in Francia nel 2020 di Suite francese.


Il diciasettenne Huber, esaltato, si sta vantando di aver combattuto, per fermare l’avanzata dell’esercito tedesco verso Parigi, a Moulins.

«Vengo da Moulins. Ho difeso Moulins» disse.

Si aspettava di essere circondato, di ricevere domande, omaggi, conforto, ma vi furono solo sguardi silenziosi. Una donna chiese:

«Ah, sì? Quindi c’è stata una battaglia a Moulins?»

Un’altra donna piangeva. Piangeva e nel contempo mangiava: un singhiozzo, un boccone. Le lacrime le cadevano nel caffellatte:

«Ne è valsa proprio la pena» disse lanciando a Hubert uno sguardo di rimprovero, come se fosse responsabile della battaglia di Moulins. «Se non opponiamo resistenza, non ci faranno niente. Abbiamo perso, dobbiamo soltanto rimanere tranquilli. Se la gente comincia a difendersi il paese sarà messo a ferro e fuoco. Ci ammazzeranno tutti quanti» disse con tono da tragedia, mentre si prendeva una seconda fetta di pane.


(www.libreriadelledonne.it, 24 febbraio 2023)

di Marco Tarquinio


Un anno intero è passato, anzi è finito, anzi è stato finito, letteralmente fatto a pezzi nelle terre orientali d’Europa. Un anno intero di tradimenti, di guerra e di propagande di guerra. Quella russa di Vladimir Putin, innanzitutto, ma non di meno quella d’Occidente. E non si può tacerlo, perché è vero che chi aggredisce ha sempre torto, terribilmente più torto di tutti, ma è altrettanto vero che chi doveva custodire l’aggredito, e non l’ha fatto, non ha ragione.

È ciò che succede quando la politica si suicida e cede il passo alla guerra, che della politica – checché ne dica qualche gran generale del passato e più di un Solone del nostro presente – non è la continuazione, ma l’abdicazione. La guerra è radicale e assassina rinuncia alla politica. E, sì, della politica è il suicidio. Soprattutto oggi, soprattutto nel nostro complicato eppure ancora benedetto pezzo di mondo – temperato, bianco, nordico, istruito, supertecnologico, ma con sempre meno croci e meno lumi. Sì, la guerra è suicidio della politica soprattutto qui, in questo vecchio continente che amiamo e chiamiamo Europa, dove per decenni abbiamo tenuto in piedi e alimentato il più grande e pacifico laboratorio di integrazione delle differenze (e delle storiche inimicizie) e ci siamo illusi, e detti, e ripetuti di aver tutto capito e tutto sistemato, sposando il mercato e lo stato sociale, restando separati ma facendo crescere la sensazione (e la pratica) dell’assenza tra noi (solo tra noi, e tra noi e altri “ricchi”) di confini. E invece eccoci a ballare come mai prima sull’orlo dell’abisso della guerra totale, per una storia di confini armati, etnico-identitari ed esclusivi, tra crudeltà primonovecentesche, incubi digitali e atroci spettri nucleari. E rieccoci, volenti o nolenti, noi europei, tutti iscritti al club degli omicidi-suicidi bellici. Senza scuse, perché non possiamo fingere di non sapere che siamo nell’era in cui le guerre le vincono – almeno per un po’, e col rischio non solo teorico di finire in massa nell’inferno atomico – solo quelli che le tengono ben lontane da casa, le armano guadagnandoci in soldi e dominio e, soprattutto, le fanno con i petti degli altri.

Altri che stavolta sono soprattutto gli ucraini, i più assassinati di tutti e da tutti. Da chi li bersaglia con ferocia da Oriente, ma anche da quelli e quelle (che delusione le troppe donne della politica suicida d’Europa…) che continuano a spiegare che loro, gli ucraini, gente soda e di contadina saggezza, questa guerra la vogliono.

Disperatamente la vogliono. Con tutte le forze la vogliono. E la vogliono fare sino in fondo. E tutti comprendiamo la rabbia e l’orgoglio che animano la resistenza in armi di tanta gente d’Ucraina, ma troppo pochi tra noi – e specialmente tra chi ha potere e dovere – vedono e aiutano a comprendere che il “fino in fondo”, non è il trionfo che non ci sarà per nessuno, né per l’aggressore né per l’aggredito, ma è la vita perduta. La vita di centinaia e centinaia di ucraini, soprattutto giovani, inceneriti ogni giorno, senza tregua, nella fornace atroce dello scontro, che da un anno è veemente e tremendo e per altri otto anni è stato orribile e sordo.

Sì, si sta suicidando l’Europa comunitaria, ridotta a terreno e retrovia di battaglie che non doveva far ingaggiare, a selettivo campo profughi (bianchi e scuri di pelle non sono uguali), a supermarket di armamenti di vecchia e nuova fattura e addirittura, persino con le migliori intenzioni, a sterile e disciplinato battutificio guerrafondaio.

Sì, si sta suicidando la Russia di un non più nuovo ma più arrogante e spietato “zar” che vuol mettere nel cuore di un nuovo ordine globale il suo Russkij Mir, il mondo russo, e che torna ad arruolare i Patriarchi, che imbavaglia e soffoca ogni opposizione anche se non riesce a spezzarne del tutto la voce, che manda al macello e trasforma in macellai i figli più poveri del suo stesso multinazionale popolo e che impedisce persino di vedere ciò che la guerra che ha iniziato di nuovo, e di cui è indubitabilmente primo responsabile, fa anche alla sua gente.

Ne usciremo ancora vivi, se sapremo fermarli e se sapremo fermarci, fermando il massacro. Ne usciremo con l’umiltà di riconoscere la sconfitta che è la guerra. E con l’umiltà di ammettere che le armi non salvano, ma ammazzano e distruggono. Ne usciremo con l’umiltà di chinarci sulle ferite e sui sentimenti delle vittime, tutte, quale che sia la bandiera sotto alla quale vengono schierate a battaglia o trasformate in bersaglio. Ne usciremo se smetteremo di uccidere i morti, secondo il canto straziato di Ungaretti nel cuore crocifisso del Novecento. E smetteremo di ucciderli, i morti, se cominceremo a costruire la pace già rinunciando a esibirli per giustificare ogni azione e ogni maledizione che portano ad accumulare più morti ancora. L’antidoto alla guerra è la politica. Sembra che oggi lo sappiano ricordare e tentare soprattutto gli uomini di Dio, come papa Francesco e il cardinale Zuppi, e quelli senza reggimenti, come il segretario generale dell’Onu Guterres, e quelli senza “blocco”, come il presidente del Brasile Lula. Europa, che cosa farai davvero per la pace, per te stessa e non solo per te stessa?


(Avvenire, 24 febbraio 2023)

di Lea Melandri


In un breve intervallo di tempo si sono dimesse due donne premier – la neozelandese Jacinda Ardern e la scozzese Nicola Sturgeon – e la top manager di YouTube, Susan Wojcicki. Alla sorpresa, sulla stampa ha fatto immediatamente seguito l’affannosa ricerca di ragioni “politiche” – responsabilità troppo pesanti, attese deluse, ecc. – ritenendo evidentemente “non politica” la motivazione che, con profonda sincerità e chiarezza, e quasi con le stesse parole, tutte e tre hanno dichiarato nelle interviste, e cioè il desiderio di dedicare più tempo alla famiglia, ai figli, al marito. A passare in ombra è stato anche l’accenno che entrambe le premier hanno fatto al loro essere “umane”. Nicola Sturgeon ha parlato in modo esplicito della “brutalità della politica”, del desiderio di ritrovare una parte essenziale di sé che aveva dovuto sacrificare, e lo ha fatto con un’immagine che avrebbe dovuto colpire per la sua forza e imprevedibilità: «dedicare un po’ di tempo a Nicola Sturgeon l’essere umano». Ha poi aggiunto che sperava che questa sua scelta non fosse giudicata «egoistica». E non aveva torto. Che altro è il “Sé”, la “persona” nella sua interezza di corpo e pensiero, sentimenti e ragione, contrapposta al “cittadino”, se non quel “privato” attento unicamente ai propri interessi che è rimasto da millenni fuori dalla sfera pubblica? Non dovrebbero essere grate le donne per la loro integrazione in ruoli di potere da cui sono state escluse così a lungo? È fin troppo facile attribuire la loro scelta di abbandonarli a una stanchezza o inadeguatezza derivanti dalla loro “natura”, poco incline a compiti civili di grande portata istituzionale, più difficile chiedersi che cosa si intende per quell’“essere umano” che ora chiede la sua parte di attenzione e di riconoscimento. Se le donne, entrate con fatica nei luoghi del potere, cominciano a non considerarli più un traguardo ambito, ma una gabbia non meno vincolante del ruolo domestico, di mogli e madri, non è forse per quella politica separata dalla vita che mostra oggi in modo evidente il suo declino, la sua violenza, la sua “brutalità”, il suo legame con un dominio che ha confinato nella “natura” esperienze essenziali dell’“umano”? È forse una meraviglia che le donne comincino a “disertare” una politica che ha il suo fondamento nella divisione sessuale del lavoro, nella cancellazione dalla storia delle esperienze che hanno una relazione col corpo, le sue passioni, i suoi limiti, i suoi bisogni – come la sessualità, la maternità, la nascita, l’invecchiamento, la morte, la malattia, la dipendenza – e cioè con la parte dell’umano che la cultura patriarcale ha creduto di essersi lasciata alle spalle, identificata col “femminile”? Che la richiesta di “parità” fosse senza via d’uscita il femminismo lo aveva già capito nel momento in cui ha smesso di parlare di “questione femminile”, di “cittadinanza incompleta delle donne”, di “svantaggio da colmare”, per spostare l’attenzione sull’assoggettamento di un sesso a danno dell’altro che va ben oltre le “discriminazioni”, diventate oggi, a quanto sembra, l’unico ostacolo da tenere sotto controllo e da stigmatizzare. Nel momento in cui sono state messe al centro delle anomale pratiche del femminismo degli anni Settanta le “problematiche del corpo” – la cancellazione della sessualità femminile, la maternità come obbligo procreativo, la riduzione delle donne a “genere” e non “persone”, il confinamento nel ruolo di cura, dato come “naturale” estensione della loro capacità generativa, la colonizzazione dei loro pensieri – avrebbe dovuto essere chiaro che si stava parlando della storia, della cultura e della politica del sesso che ha imposto la sua visione del mondo, e che non si poteva pensare a un cambiamento del rapporto tra uomini e donne che non implicasse prioritariamente una messa in discussione dell’ordine esistente. Nelle sue trasmissioni su Radio Tre, dal novembre 1978 al febbraio 1979, in dialogo con le “Altre”, le giovani femministe, su alcune parole chiave della politica, Rossana Rossanda scriveva:

«La prima contraddizione è dunque per la donna fra tempo della politica e tempo della vita […] sono due esperienze che si sono dissociate […] la donna che fa tradizionalmente politica salta di continuo tra un piano e l’altro, vive tutti e due senza confini ed estraneità». E aggiungeva che era necessaria un’altra idea della politica, in cui non si dovesse «appiattire nella condizione di “lavoratore” o “sfruttato” o “cittadino” la diversità e la ricchezza della singola persona, e dei rapporti irripetibili che intercorrono tra persone reali […] Le femministe dicono che vogliono la persona non solo partecipe ma esposta in tutta se stessa […] La vita delle donne, insomma, è piena di regole, ma queste si incarnano sempre in un volto, un rapporto diretto, un vissuto, in spessori profondi talvolta fino all’inconscio. Spessori che, quando passa al rapporto politico, sembrano dileguarsi nella figura astratta del cittadino astratto […] Le donne sentono che la loro disuguaglianza viene da una cultura antica, introiettata, qui sta il principio della loro oppressione, prima che nelle leggi e più forte della legge […]. Rivoluzionarie o rivoltose. Raramente sono democratiche».

Ma come si può chiamare democrazia un sistema che pur con tutti i cambiamenti avvenuti col tempo, continua ad avere come fondamento quel “principio paterno” che – scrive Bachofen nel Matriarcato – è «vita spirituale che si eleva al di sopra di quella fisica», mentre la maternità farebbe parte della «componente carnale dell’uomo», in rapporto con gli altri esseri viventi e la «terra madre di tutte le cose»?

Da alcuni anni la rete internazionale Non Una Di Meno ha dato alla ricorrenza dell’8 marzo una fisionomia nuova, più radicale: lo sciopero delle donne dalle attività produttive e riproduttive, un accostamento inedito tra realtà che siamo abituati a considerare separatamente, come lo sfruttamento economico, l’ingiustizia sociale e le esperienze legate alla “vita intima”, come la cura e il lavoro domestico, con il carico di violenza che le ha segnate da sempre. Si potrebbe leggere in questa chiave anche l’abbandono di ruoli di potere a cui oggi assistiamo, in quanto non parla di un ripiegamento su posizioni tradizionali, ma di una forma di “rivolta femminile” contro la disumanità di una politica che si è costruita senza di loro e contro di loro.


(Il Riformista,  24 febbraio 2023)

di Maria Luisa Boccia


Il lessico che accompagna la guerra, fatto di aggettivazioni edulcoranti e parafrasi elusive, la dipinge come una necessità ineludibile e perfino eticamente motivata dalla difesa di quei principi di civiltà che il nemico, male assoluto, vuole distruggere. Il pensiero femminista ribalta questi enunciati e rifiuta il dominio della violenza


La guerra si è impadronita velocemente delle menti e questo è il primo grave danno da contrastare.

Mi ha colpito l’insistita ripetizione sul ritorno della guerra in Europa dopo più di settant’anni. Rimuovendo – strumentalmente? – il fatto che la guerra in Europa era tornata dopo l’89. Penso in particolare ai conflitti nell’ex Jugoslavia che hanno coinvolto l’Italia e hanno anticipato molti aspetti delle guerre a base etnico-nazionalista che si sono succedute in diverse aree del mondo, alcune delle quali sono tuttora in corso.

Certo, nei trent’anni trascorsi dalla prima guerra del Golfo (1990-1991) alla guerra in Ucraina (2022) vi è un salto di qualità, se non altro perché mai come ora vi è il rischio che precipiti in guerra nucleare. È sempre più evidente come la guerra in Ucraina sia destinata a durare; ed è difficile che possa concludersi come una guerra convenzionale. Va quindi seriamente considerato che la pace è la sola realistica alternativa al suicidio nucleare dell’umanità.

La prima essenziale condizione per affrontare questo scenario è sottrarsi al fondamentalismo etico, trasformando i complessi problemi strategici geopolitici in una lotta contro il “male assoluto”. Per questo è importante ricordare il recente trentennio di guerre, contrassegnato proprio dal ricorso 
al concetto di «guerra giusta»: dalla dottrina della «guerra preventiva» contro l’Iraq di Saddam, alla «guerra umanitaria» in Kosovo, alla guerra per «liberare le donne» dall’oscurantismo dei talebani in Afghanistan.

Nello “scontro di civiltà” si annullano le differenze di tradizioni, storie, identità politiche che attraversano l’Occidente, tutte emerse nelle guerre del dopo Ottantanove, in particolare nelle guerre dei Balcani. Non può sorprendere che a questa idea omogenea, e a ben vedere ristretta, di Occidente venga contrapposta un’idea di Oriente, altrettanto identitaria e integralista, ristretta alla Russia.

A fronte di questo rinnovato dualismo, basato sulla reciproca costruzione del nemico, sempre più identificato come “male assoluto”, andrebbe opposta la scelta, del tutto estranea alla logica identitaria, della pluralità delle differenze. Solo assumendo la pluralità complessa di cui è intessuta l’Europa, per storia, tradizioni e condizioni attuali, è possibile costruire un’Europa unitaria. Riconoscere la pluralità dei soggetti, delle culture e degli strumenti che consentono la convivenza e la soluzione dei conflitti è l’opposto della loro affermazione autarchica. Si avvale della disponibilità ad aprirsi all’altro, a scambiarsi saperi ed esperienze, a cercare insieme le risposte ai problemi. La prima azione, quindi, è dare una rappresentazione della realtà differente da quella mediatica, talmente pervasiva da stigmatizzare come collusione con il nemico la sola possibilità di un’idea o un giudizio difforme. Parole che sentiamo risuonare costantemente quali nazione, popolo, democrazia, libertà, giustizia sono diventate “parole omicide”, sono talmente gonfie di sangue e di lacrime da essere screditate. Il lavoro sul linguaggio, per Simone Weil, è condizione essenziale per “preservare vite umane”1.

La prima parola di cui recuperare il significato è proprio “guerra”, dal momento che non viene adottata dai soggetti del conflitto. Per Putin l’aggressione all’Ucraina è “un’operazione militare speciale”, per i paesi della NATO si tratta di “aiuti”, solo Zelensky, in nome del popolo aggredito, parla legittimamente di guerra. Si può capire la cautela, sia della Russia che della NATO, volta a evitare l’allargamento del conflitto, con le prevedibili, terribili, conseguenze. Ma non giustifica l’elusione del fatto che “siamo in guerra”, anche noi paesi della NATO, con le nostre motivazioni, i nostri interessi, i nostri costi. È un fatto che, non a caso, comincia a essere nominato, senza però assumerne appieno la portata.

Dovremmo invece essere consapevoli che noi, italiani e italiane, “siamo in guerra”. Nel 1990 Pietro Ingrao lo affermò per motivare il dissenso dal suo gruppo parlamentare nell’intervento alla Camera sulla partecipazione dell’Italia alla guerra del Golfo2. Lo eravamo allora, senza ammetterlo, lo fummo poi nel Kosovo, lo siamo oggi in Ucraina. Allora, come ora, tacere significa rimuovere la questione cruciale della violazione dell’art. 11 della Costituzione.

Ma non si dovrebbero nascondere le scelte politiche dietro altre definizioni. Tutto quello che accade deve essere considerato a partire da questo essenziale fatto: siamo in guerra. Ognuno/a di noi, la coscienza pubblica del paese, deve sapere che cosa stiamo affrontando. Dobbiamo porci la domanda se il ripudio della guerra, enunciato nell’art. 11, è ancora realistico e convincente o se, viceversa, si ritiene che dobbiamo convivere con la guerra, perché è il prezzo da pagare per difendere il nostro sistema di vita, per governare il mondo, secondo i “nostri” principi. Dovremmo valutare se e come rimotivare il ripudio e garantirne il rispetto nelle sedi internazionali. Il confronto verterebbe sui nodi veri, i più crudi, e saremmo tutti e tutte più consapevoli delle scelte politiche fatte e delle loro implicazioni.

Non nominare la guerra serve, invece, a lasciare indefinito, quindi arbitrario quando, se e come (con quali procedure note e verificabili) si può decidere che è necessario ricorrere alla guerra. Serve cioè a tenersi le mani libere.

Dobbiamo quindi considerare il ripudio della guerra un enunciato privo di efficacia politica? Ribadendo così il nesso stringente tra forza, potere e politica e, di conseguenza, accettare il ricorso alle armi come la sola risposta possibile all’aggressione del nemico? Non a caso sulla guerra in Ucraina la critica di impotenza al pacifismo si è spinta fino all’accusa di convivenza con l’aggressore.

Ma è davvero inevitabile il ricorso alla forza, alla potenza distruttiva delle armi? Hannah Arendt è convinta del contrario; se perseguiamo la vittoria, l’affermazione dei nostri valori, con la violenza, «sovvertiamo e distruggiamo, in primo luogo, le nostre stesse istituzioni politiche»3. Detto altrimenti, le guerre, anche quelle ritenute giuste, lungi dal garantire una pace stabile e durevole, sono un modo per negare che la pace sia la condizione stessa della politica e per rendere i periodi di pace degli intervalli nel corso della storia, sempre più brevi, rispetto al succedersi delle guerre.

Perché, mi chiedo, dovremmo combattere il dominio, la violenza e la guerra facendo nostra la sua logica? Non è forse questo il terreno più congeniale al riprodursi del dominio stesso? Non è più efficace «muoversi su un altro piano»4, come ha fatto e continua a fare il femminismo? Non possiamo immaginare e realizzare altre pratiche per una differente politica?

La politica femminista che ho fatto in tanti anni ha inciso sui rapporti di dominio senza ricorrere alla forza, modificando le esperienze e le relazioni umane, conquistando i cuori e le menti ma non esercitando il potere sulle vite.


(1) Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla guerra 1933-1943, Pratiche editrice, Milano 1998, p.58).

(2) Pietro Ingrao, No non si può tacere, dichiarazione di voto alla Camera il 23 agosto 1990, è stata pubblicata, con uno scritto di Giuseppe Dossetti Il dovere di gridare, in numero di copie limitate in occasione dell’ottantesimo compleanno di Ingrao.

(3) Hannah Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano 1971, p. 64.

(4) Carla Lonzi, Manifesto di Rivolta femminile, in Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta


*Estratto dall’introduzione del volume in uscita “Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista”


(CRS – Centro per la Riforma dello Stato, 24 febbraio 2023, https://centroriformastato.it/le-parole-per-dire-la-guerra/)

di Ida Dominijanni


Le tre guerre d’Ucraina, sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky, rischiano di trasformarsi in un regime bellico globale che dovrà decidere a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo. Intanto l’Unione europea ne fa le spese e le democrazie si militarizzano


Solo Vladimir Putin poteva pensare, se davvero come sembra l’ha pensato, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata una passeggiata di qualche settimana. Noi comuni mortali, privi della sua hybris nonché dei suoi servizi di spionaggio farlocchi, quella mattina di un anno fa abbiamo avuto subito chiara una e una sola cosa: che quella lunga fila di carri armati in marcia verso Kiev era un evento di portata enorme; che era arrivato il momento della resa dei conti della storia ricominciata (e non finita, come allora si sostenne), con il 1989; che la guerra stava tornando “nel cuore dell’Europa” per restarci molto a lungo; e che la situazione in cui stavamo precipitando era senza via d’uscita da qualunque punto di vista la si guardasse.

Un anno dopo la situazione rimane bloccata, ma sul terreno giacciono – si stima, per difetto – 300.000 morti, che gridano e grideranno vendetta nei decenni a venire, aggiungendosi alla folla di spettri che ci guardano dal passato della interminabile guerra civile europea dalla quale ci eravamo illusi di essere usciti una volta per tutte nel 1945. E sì, ha ragione Jürgen Habermas quando, scandagliando il “paradigma morale” con cui viene giustificato l’invio delle armi all’Ucraina, ci ricorda che noi europei saremmo tenuti a considerare un imperativo morale non solo punire l’aggressore e solidarizzare con l’aggredito, ma anche rispondere di quei morti dell’una e dell’altra parte.

Un anno, e anche molto meno di un anno, è servito a capire che in Ucraina non si sta combattendo una guerra bensì almeno tre, una dentro l’altra come in una matrioska. C’è la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e di indipendenza dell’Ucraina dalla Russia, c’è la guerra preventiva di Putin contro la NATO e la guerra per procura della NATO contro Putin, c’è la guerra – dichiarata da Putin, sottaciuta dagli USA e dalla Cina – sugli assetti futuri dell’ordine mondiale. Nessuna di queste tre guerre ha una posta in gioco esplicita e definita – il che rende l’impostazione di un negoziato molto ardua, al di là dell’insipienza dei potenti della Terra – perché tutte e tre sono sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky: l’uno vuole che la Russia torni a essere riconosciuta come grande potenza, l’altro vuole che l’Ucraina sia riconosciuta come nazione occidentale a pieno titolo. E non c’è bisogno di scomodare Hegel per sapere che le lotte per il riconoscimento possono essere infinite e diventare spietate. Guerra “esistenziale” si dice infatti ora, per l’uno e l’altro contendente: e sull’esistenza non si negozia.

La prima guerra dunque è impantanata in un crescendo di devastazione sul lato russo, di armamenti sul lato ucraino. La terza, quella che ha per posta in gioco la ridefinizione dell’ordine mondiale, è appena agli inizi, si combatte per ora soprattutto sul piano economico ma può prevedere altre guerre locali, o trasformarsi in un lungo “regime di guerra” che deciderà a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo: ci saranno sorprese, visto che due terzi di mondo si rifiutano di allinearsi alla versione dei fatti atlantista e stanno cogliendo l’occasione della guerra in Ucraina per presentare all’Occidente il conto di due secoli di colonialismo.

La seconda guerra, in compenso, sta già dando i suoi frutti: se l’Europa è il suo teatro, l’Unione europea è la sua posta in gioco. E sul fronte ucraino l’Unione non si è compattata, come predicano ogni giorno i media mainstream: si è deformata, con un evidente spostamento di peso politico dall’asse Germania-Francia-Italia a quello Polonia-Paesi baltici, sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti, che incassano l’indebolimento della Germania, e del Regno Unito, che riconquista manu militari il peso perduto con la Brexit. Il nuovo asse è composto da governi che brillano più per ardore nazionalista che per qualità democratica, è ferocemente antirusso ed è accomunato da politiche di regime della storia e della memoria che per seppellire il totalitarismo comunista chiudono più di un occhio sul totalitarismo nazista. Per l’Unione e per i suoi valori fondativi è una disfatta, che spalanca le porte a quella “Europa delle nazioni” che in casa nostra viene predicata da Giorgia Meloni e che a Strasburgo e Bruxelles si concretizzerà quanto prima in una maggioranza conservatrice. Ma di tutto questo in Italia si parla poco o niente, perché il verbo transatlantico comanda di identificare la causa ucraina con la causa democratica, e tanto basta a sospendere le chiacchiere sui colori, nero compreso, che le democrazie possono prendere.

Sempre in Italia, ma non solo in Italia, un anno e molto meno è bastato per sperimentare un tasso di militarizzazione del dibattito pubblico mai sperimentato prima, nemmeno ai tempi delle guerre contro il terrorismo internazionale. Chi non è allineato alla narrativa mainstream è un traditore dell’Occidente, chi si oppone all’escalation delle armi è un disertore, chi solleva mezzo interrogativo è un ventriloquo di Putin. Del resto, in Germania uno come Habermas, che storicamente è tutt’altro che un pacifista ma oggi osa stilare un appello per un negoziato, viene liquidato come un vecchio signore ingenuo che ha fatto il suo tempo. Questo è lo stato delle democrazie che stiamo armando fino ai denti per sconfiggere gli autocrati. Un anno è bastato perché, per dirla in poesia, si facesse subito sera.


(CRS – Centro per la Riforma dello Stato, 24 febbraio 2023)