di Jessica Chia


«Nella mia dimensione culturale è normale che il Gange, sulle cui sponde sono nata, mi scorra nelle vene come parte di me, così come è naturale sapere che l’Himalaya costituisce la forza di pietra che mi contraddistingue. Io e la mia terra siamo uno. E questo vale per tutti gli esseri umani». È forse partendo da questo tutt’uno che si può entrare nel pensiero dell’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva (Dehradun, 1952), che allo studio e alla salvaguardia del pianeta ha dedicato la sua intera esistenza. Esattamente «cinquant’anni di attivismo» su settanta di età, come ha detto a La 27esimaOra nell’intervista che si è tenuta in occasione dell’uscita del suo nuovo libro. Il volume La vita è maestra. La mia storia di rivoluzione (Piemme, a cura di Manlio Masucci e Cinzia Chitra Piloni) è la prima autobiografia di Shiva, un «testamento culturale» e «un lascito alle future generazioni». Il volume inizia dal racconto della sua famiglia progressista – il nonno Mukhtar Singh fu l’iniziatore delle scuole femminili nei contesti rurali e morì di digiuno durante una protesta per poter fondare la prima università femminile. Cresciuta in simbiosi con la natura, Shiva si laurea in fisica nel 1978 all’Università del Punjab e consegue un dottorato in filosofia all’University of Western Ontario, Canada. Per tutta la vita si dedica a progetti di tutela della biodiversità, della sostenibilità alimentare, del clima e diventa «custode dei semi», che per l’attivista rappresentano «il principio della vita sulla Terra». Motivo per cui fonda Navdanya («nove semi»): un’organizzazione nata per difendere la sovranità alimentare e la biodiversità. Ma soprattutto Shiva, vincitrice nel 1993 del Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo per la pace, e fondatrice della Earth University, è la principale teorica dell’ecofemminismo e si è sempre battuta contro la globalizzazione, le colture intensive, gli Ogm, oltre a promuovere l’empowerment femminile, come lei stessa ha fatto lottando tutta la vita contro il patriarcato: lei, donna indiana che studia, che si separa dal marito, affronta una battaglia legale per ottenere la custodia del figlio, in una società che considera ancora donne e figli proprietà dell’uomo. In questa intervista le abbiamo chiesto il suo punto di vista sui leader mondiali, sul cambiamento climatico, sull’“immigrazione climatica” e sulla nascita del suo pensiero ecofemminista.

Perché la salvaguardia dei semi è così importante per il nostro pianeta? E qual è il significato di “monocultura della mente”?

«Ci hanno voluto far credere che le monocolture producono di più, ma la foresta naturale ha in realtà una produttività ben maggiore. Ho pensato: cosa impedisce alla gente di vedere la ricchezza e la diversità dei sistemi? Cosa li rende ciechi? Poi mi è venuta l’idea che la monocultura della mente non fa vedere la vita, la diversità, la pluralità. Questo è il pregiudizio attraverso cui prende forma l’uniformità della monocultura».

Com’è nato l’ecofemminismo e come si è evoluto?

«Sono stata coinvolta dal movimento Chipko (nato in India per la tutela delle foreste; sono celebri le donne del movimento che nell’Himalaya indiano abbracciarono gli alberi incatenandosi a questi per impedirne l’abbattimento, ndr) e pian piano mi è stato chiaro che sono state le donne a difendere la Terra. Quando mi è stato chiesto di scrivere un libro con Maria Mies, Ecofeminism (1993), raccontai il modo in cui il colonialismo e il commercio coloniale avevano deformato il processo economico dando vita all’estrattivismo: gli uomini venivano risucchiati nelle miniere e nelle piantagioni, e le donne erano lasciate a fare il lavoro di sostentamento della società, che però non veniva chiamato “economia”. Le donne avevano conoscenze su come sostenere i sistemi idrici, quelli alimentari, la comunità e la famiglia, e hanno continuato a farlo. Ecofemminismo è il riconoscimento che la convergenza di capitalismo e patriarcato sono le radici della distruzione del pianeta, del dominio sulle donne e del dominio sulle altre culture e razze. Ecofemminismo è il riconoscimento che facciamo parte di una sola famiglia sulla Terra, dove non ci sono specie, generi e classi privilegiate. Sulla Terra ognuno partecipa alla società della vita: questa è la vera democrazia, che io ho chiamato democrazia della Terra, e che è cresciuta dal mio pensiero ecofemminista pensando alla diversità, e non alle gerarchie, come base dell’uguaglianza».

Nel libro lei cita il G8 di Genova. In quel momento (era il 2001) in Italia il dibattito sul clima raggiunse la massa. Da allora, cos’è cambiato?

«Il dibattito sul clima esiste dal 1992 (con il primo summit della Terra a Rio de Janeiro, ndr) e, per qualche ragione, si pensa che sia appena venuto fuori. La Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici hanno 31 anni, ma siamo di nuovo di fronte a un punto cieco, come se non ci fosse una crisi della biodiversità.

Ricordo bene il G8 di Genova, la grande protesta; prima di allora, c’era stata quella di Seattle. Fu il momento in cui i poteri costituiti pensarono di poter creare monopoli; in realtà capirono che le persone sanno resistere. La violenza contro il ragazzo a Genova (Carlo Giuliani, ucciso a ventitré anni da un carabiniere, ndr) è stata la nuova morte della democrazia: le persone avevano il diritto di protestare, ma quel diritto è stato criminalizzato: è questo quello che abbiamo visto a Genova. Genova è uno spartiacque totale, perché un ragazzo ha dato la sua vita per la libertà e la democrazia. Perché il G8 di allora, e oggi il G20, sono gruppi di persone che si riuniscono e decidono verso quale direzione deve andare il mondo. Se guardiamo a oggi, le persone stanno marciando per la natura, per il lavoro… Ma pensiamo che i leader stiano ascoltando? No, loro pensano di essere immuni alla democrazia».

Poche settimane fa Giorgia Meloni ha incontrato in India Narendra Modi. Cosa pensa di quell’incontro e delle promesse dei leader fatte intorno all’emergenza climatica?

«Penso che l’emergenza climatica significhi scendere tutti dal carrozzone della globalizzazione. Dobbiamo guardare alle emissioni e a come sono aumentate dal 1995 quando l’economia, invece di essere locale e nazionale, è stata globalizzata attraverso il controllo di società multinazionali. La globalizzazione aziendale è una fabbrica di emissioni e distrugge anche i mezzi di sostentamento, la democrazia delle nostre culture. Direi ai due leader: voi, oggi nel 2023, rappresentate una civiltà molto antica. Cercate di conquistare la fiducia dei vostri popoli per difendere la diversità culturale e la biodiversità per affrontare il cambiamento climatico».

Che cos’ha rappresentato per lei l’incontro con Papa Francesco?

«Ho incontrato per la prima volta Papa Francesco durante gli incontri che aveva organizzato (nel 2014) in Vaticano per parlare del superamento di un’economia dell’indifferenza verso un nuovo paradigma economico. Poi di nuovo, via Zoom, per The Economy of Francesco. Quando mi è stato chiesto dell’enciclica (Laudato si’, 2015, ndr) ho detto che è stata scritta dai cattolici, ma avrebbe potuto scriverla un qualsiasi leader spirituale perché distilla il meglio dell’evoluzione e del pensiero umano, la giustizia e la sostenibilità, i diritti della gente e i diritti della Terra che sono interconnessi».

Secondo lei, qual è il cambiamento più urgente da fare per la salute della Terra?

«Stop al cibo industriale, stop alla globalizzazione dei sistemi alimentari. Perché il 50% dei gas serra proviene da un cattivo sistema dell’alimentazione che sta distruggendo anche la biodiversità. Ci si sta concentrando su quattro colture che sono geneticamente modificate, e da cui possono essere raccolte le royalties: mais, canola, soia, cotone. In India abbiamo visto cos’ha fatto il cotone ai nostri contadini. L’Argentina è stata distrutta dalla soia Ogm. È tempo di fermare questo macchinario distruttivo che è stato creato dall’industria chimica usando l’ingegneria genetica. La cosa più urgente da fare è sviluppare la biodiversità, le economie locali, maggiore connessione tra chi mangia e i produttori di cibo, per ricostruire le economie locali attraverso le democrazie locali e con esse la diversità culturale del nostro pianeta».

In Italia, nella tragedia di Cutro hanno perso la vita 91 migranti. L’immigrazione continuerà a crescere anche a causa dei cambiamenti climatici. Quale scenario ci attende?

«La disperazione della migrazione deriva dalla distruzione delle economie e delle ecologie dovuta al sistema globalizzato. Siamo noi a spingere le persone fuori dalle loro case. Come unica famiglia della Terra, dobbiamo iniziare a pensare a come la Terra e i mezzi di sostentamento delle persone stiano venendo distrutti. Questa è la prima cosa da fare perché le persone abbiano la possibilità di stare a casa; abbiamo l’obbligo di trovare modi per accoglierli perché il pianeta è la nostra casa comune. E trovare spazio per le persone che sono state sradicate e sfollate è un dovere umano. Criminalizzare gli sfollati è moralmente ed eticamente sbagliato».


(La 27esima Ora, 26 marzo 2023)

di Marina Terragni 


Il veto della Federazione mondiale di atletica per la partecipazione a gare femminili a chi è nato maschio è giustificato dal fatto che la «biologia ha la meglio sul genere» e «l’equità per le donne viene prima di ogni inclusione». La notizia esplode come una bomba giovedì 23 marzo al termine del consiglio mondiale di World Athletics, federazione internazionale di atletica leggera. La comunica il presidente Sebastian Coe, conferenza stampa in diretta BBC: le donne transgender (nate di sesso maschile) non potranno più partecipare alle gare internazionali di atletica nelle categorie femminili.

Mesi fa il Cio, Comitato Olimpico Internazionale, aveva invitato le federazioni a definire linee guida sulle partecipazioni di atlete transgender alle gare femminili. La decisione di World Athletics è netta: le atlete trans che hanno passato la pubertà sviluppando un corpo maschile non potranno più gareggiare con le donne. Un gruppo di lavoro esaminerà nei dettagli la questione ma Coe, nonostante le polemiche che si scatenano immediatamente, garantisce la linea intransigente con parole precise: la decisione è stata presa «nel migliore interesse dello sport» perché «la biologia ha la meglio sul genere» e l’equità per le donne viene prima di ogni inclusione. Decisione analoga a quella recentemente assunta dalla Fina, federazione internazionale sport acquatici, a cui Coe fa riferimento.

Nel nuoto il dibattito si è aperto a partire dal clamoroso caso dell’americana Lia Thomas nata Will, ultracorpo maschile che ha stravinto tutte le gare stile libero femminili sulle distanze di 200, 500 e 1650 yard battendo i record della categoria. Nelle 200 yard Thomas è passata dal 462° posto nazionale nella categoria maschile al primo posto in quella femminile. Alle avversarie che si erano lamentate per la palese ingiustizia i dirigenti avevano consigliato un supporto psicologico per accettare l’inclusione. Perfino la trans Caitlyn nata Bruce Jenner, ex-campione olimpico, aveva twittato: «La felicità di individuo come Lia non può avere la priorità sull’innegabile fatto biologico che è trans e ha enormi vantaggi fisici».

La tennista Martina Navratilova è stata l’atleta che più si è battuta per la lealtà sportiva insieme a reti globali femministe come Save Women’s Sports. Abbassare il livello di testosterone non basta a rendere gli uomini pari alle donne. Studi scientifici valutano un vantaggio nel nuoto dell’11%: la riduzione del testosterone ha un effetto solo marginale. Linda Blade, ex-campionessa di atletica e educatrice sportiva canadese, ha quantificato l’enorme vantaggio fisico maschile dal 10% al 160% a seconda dello sport. Il corpo di un uomo è infatti dal 20 al 40% più pesante, del 30-60% più potente, ha un 33% in più di potenza esplosiva, è più veloce del 10-15% nella corsa, i calci e i pugni sono del 20% e del 160% più forti, la forza di mischia nel rugby aumenta del 40-60%, l’assorbimento massimo di ossigeno è del 20-40% maggiore. C’è bisogno di dimostrazioni? Perché, come ha detto un’atleta, tanto «odio per la verità e le persone che la dicono?».

Nel suo libro Unsporting Blade propone in alternativa due categorie: una solo femminile (XX) e una maschile aperta in cui possano gareggiare atleti uomini che si identifichino come donne. Altro clamoroso caso di unfairness quello del neozelandese Laurel Hubbard nato Gavin, figlio dell’ex-sindaco di Auckland, autentica schiappa nel sollevamento pesi maschile che dopo la tardiva transizione (a 34 anni) vede le sue performance volare nella categoria femminile fino alla qualificazione alle Olimpiadi di Tokyo. In Italia il caso più discusso è quello dell’atleta paralimpica Valentina Petrillo. Nata Fabrizio, classe 1973 e padre di un figlio, Petrillo ha iniziato la terapia ormonale a 45 anni e ha stravinto le gare di corsa con regolarità, l’ultima volta l’11/12 marzo ai campionati di Ancona arrivando a conseguire otto titoli master: gareggiando con gli uomini non ne aveva conseguito neanche uno. Lo statistico Marco Alciator ha analizzato per Feminist Post le performance di Petrillo confrontando i risultati nella categoria maschile e in quella femminile. «Da atleta non di rilievo» Petrillo è diventata «potenziale partecipante alle Olimpiadi […] Il vantaggio iniquo dell’ordine del 10%». Alciator interpella le atlete danneggiate ad Ancona.

Agnese Rossi: «La competizione deve avvenire con il rispetto della categoria: con atlete dello stesso sesso, non con chi ha mantenuto corpo da uomo». Cristina Sanulli, la più veloce: «Parlo anche a nome della maggior parte delle ragazze che corrono con me: non ci sentiamo alla pari, proprio perché la sua struttura fisica è maschile… ci sentiamo molto discriminate». Ma a Petrillo non basta stravincere e commenta con durezza la decisione della Fidal (Federazione Atletica Italiana) di assegnargli uno spogliatoio riservato dopo la richiesta inoltrata da 30 atlete rappresentate dall’avvocata-atleta Mariuccia Fausta Quilleri. Alla giornalista del Corriere di Bergamo che riporta il disagio delle atlete per il fatto di «condividere la doccia con una persona che, allo stato attuale, ha il corpo di un uomo», Petrillo replica: «Non credo che chi ha scritto quel commento non abbia mai visto dei genitali maschili […] né vedo le donne avendo gravi problemi visivi».

E accusando sui social i suoi critici di nazismo e di xenofobia Petrillo ha annunciato – in anticipo sulla decisione della World Athletics – che «per ragioni di sicurezza e di incolumità personale» non parteciperà ai campionati del mondo master indoor che si aprono oggi in Polonia, a Torun. Resta incredibile che si sia costretti – soprattutto costrette – a “sguainare spade” per dimostrare ciò che è autoevidente: che i corpi maschili, a prescindere da qualunque autopercezione, sono diversi da quelli femminili. Lo dice con semplicità Chelsea Mitchell, già “ragazza più veloce del Connecticut” che con l’inclusione delle atlete trans ha visto sfumare il suo primato: «I maschi hanno enormi vantaggi fisici. I loro corpi sono semplicemente e mediamente più grandi e più forti dei corpi femminili. Per ogni singola ragazza in pista è una cosa ovvia. Ma i funzionari del Connecticut sono determinati a ignorare l’ovvio».


(Avvenire, 26 marzo 2023)

di Francesca Visentin


Una sentenza rivoluzionaria. E una condanna, nel 2014, che portò l’imputato non solo a un risarcimento economico, ma anche morale, con l’acquisto di libri sul pensiero delle donne. Nella vicenda delle ragazze minorenni del quartiere Parioli di Roma, al centro di un giro di prostituzione, Paola Di Nicola Travaglini è la giudice che all’epoca, spazzando via stereotipi anche istituzionali, ribaltò il punto di vista sul caso. E per risarcire una delle minorenni, «vittima» di quegli uomini della «Roma-bene», puntò nella sentenza sulla conoscenza, come forma di libertà. «Com’è possibile risarcire quello che una minorenne ha barattato per denaro dandole altro denaro? Non farei che ripetere la stessa modalità che ha avuto l’imputato con la vittima, rafforzando in entrambi l’idea che tutto sia monetizzabile. Allora ho ritenuto, da giudice, che non fosse il denaro a risarcire quella ragazzina, ma i libri sulla storia delle donne, sul loro pensiero, sulla loro intelligenza, sulla loro capacità».

Alla giudice Paola Di Nicola Travaglini, oggi consigliera in Corte di Cassazione penale e nel tavolo tecnico contro la violenza sulle donne del ministero per le Pari Opportunità, è dedicata la pièce Tutto quello che volevo. Storia di una sentenza di e con Cinzia Spanò, diretta da Roberto Recchia, che da nove anni gira i teatri di tutta Italia. E il 3 maggio sarà al Teatro Sperimentale di Pesaro, il 6 maggio alla Casa Teatro ragazzi e giovani di Torino, il 20 settembre al Teatro Don Bosco di Padova.

Giudice Di Nicola Travaglini, perché la sua sentenza del 2014 diventata esempio a livello internazionale e anche pièce a teatro, è rimasta un caso isolato?

«In quel momento ho spostato l’interesse, anche mediatico, dalle vittime agli aggressori, cercando di fare capire quanto era viziata la lettura del caso e il modello di narrazione di giornali e tivù. Perché la sentenza è rimasta isolata? Bisogna chiederlo ai giudici venuti dopo…».

Nove anni dopo il debutto della pièce a teatro, cosa è cambiato?

«In magistratura è cambiato molto: abbiamo una donna a presiedere la Corte di Cassazione, abbiamo il 54 % di donne in magistratura, abbiamo l’Accademia della Crusca che formalizza la correttezza dell’uso del femminile nelle nostre professioni. Elementi decisivi dal punto di vista simbolico. Adesso abbiamo bisogno del cambiamento che nasce dalla consapevolezza di appartenere a un genere, quello femminile, escluso dall’interpretazione per millenni perché temuto per le sue capacità trasformative. Dobbiamo osare di più. Fino a oggi a Roma dove sono avvenuti i fatti della sentenza, quella pièce sul giro di prostituzione ai Parioli non è stata mai rappresentata».

Sempre ispirata alla sua sentenza, è stata la serie tv Baby con Benedetta Porcaroli, trasmessa su Netflix. Cosa ne pensa?

«È una serie tv che non racconta la prostituzione minorile, a partire dal titolo che vuole evocare la malizia. Una serie che non mostra l’orrore dei clienti che picchiano, che sfruttano quei corpi senza chiedere il permesso di nulla, che li usano come stracci pensando che pagare consenta loro di distruggere tutto. Dei clienti non si parla mai. Baby ci mostra una prostituzione minorile che non esiste, un gioco glamour. Dietro ci sono criminali dai quali non ti liberi più, è l’affare economico più lucroso del mondo e quello che devasta corpi, menti, sogni, identità per sempre. Io tutto questo nella serie tv non l’ho visto».

Oggi la violenza istituzionale e giudiziaria è ancora così radicata?

«È una struttura culturale che porta avanti stereotipi invisibili in cui le donne sono colpevolizzate sempre, anche se vittime. C’è un immediato inconsapevole capovolgimento delle responsabilità da parte di chiunque, giornalisti, magistrati, avvocati, forze di polizia. Perciò è indispensabile avere consapevolezza su quanto accade in modo automatico, bisogna utilizzare tutti gli strumenti per modificare tale modo di procedere».

Qualcosa sta cambiando all’interno della magistratura?

«Stiamo andando avanti a piccoli passi. La scuola superiore di magistratura sta facendo corsi sui pregiudizi giudiziari, ma su base volontaria. È un segnale, anche se non basta. È necessario studiare, approfondire, cambiare l’impostazione radicata nel contesto sociale, un contesto di cui anche la magistratura fa parte».

Cosa accade nelle aule dei tribunali quando si parla di violenza di genere?

«L’Italia nel 2022 è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani proprio perché sottovaluta la violenza che viene praticata in sede giudiziaria nei confronti delle madri vittime di violenza durante separazioni e divorzi. Poi ci sono sentenze della Corte di Cassazione che escludono l’esistenza della Pas, la cosiddetta sindrome da alienazione parentale, che viene utilizzata per togliere i figli alle madri. Ce lo dice anche la Convenzione di Istanbul, la violenza giudiziaria, specie in sede civile, è sempre di più la nuova frontiera della violenza contro le donne. Come uscirne? È fondamentale che i giudici civili si attrezzino culturalmente. La formazione dei giudici civili su questi temi è un problema gigantesco, spesso sottovalutano le violenze e così rischiano di confondere conflitti familiari e violenza, due cose completamente diverse».

Molte donne private dei figli dopo avere denunciato la violenza del partner lamentano giudici che agiscono contro la legge, ma restano intoccabili.

«Tutti i giudici sono tenuti ad applicare le convenzioni internazionali ratificate. Le sentenze ritenute sbagliate vanno impugnate in Corte d’Appello e Corte di Cassazione, sono percorsi processuali lunghi, ma producono effetti. La deliberata non applicazione delle leggi o convenzioni da parte dei giudici può condurre a responsabilità disciplinari. Credo però sia un problema culturale, di mancanza di strumenti culturali, non di volontà».

Parlando di donne, violenza di genere e giustizia, cos’è più urgente oggi?

«È urgente e prioritaria la formazione obbligatoria per legge di tutti i magistrati e operatori che in qualsiasi modo entrano in relazione con casi di donne vittime di violenza».

Si arriverà a una formazione adeguata di chi lavora nei tribunali?

«Sì. Non si può più tollerare la sottovalutazione di quello che è uno dei fenomeni criminali e culturali più diffusi nel mondo».


(La 27esimaOra, 26 marzo 2023)

di Betti Briano


[…]

Ora dovrebbe essere chiaro che le donne che intendono intraprendere la carriera politica e desiderano farlo da protagoniste, non in modo ancillare o da ‘vice’ di qualcuno poiché sentono di potersi esprimere al meglio se investite di responsabilità di direzione e di guida, debbono puntare sulle proprie qualità e, qualora si presenti l’occasione favorevole, farsi avanti mettendo in gioco proprio l’intelligenza e la forza della differenza femminile.


(eredibibliotecadonne.it, 25 marzo 2023 – Vai al blog e leggi l’articolo)

di Vincenzo Mattei


Natascia pesa diligentemente i chicchi di caffè verde nei secchi di plastica alimentari, con il misurino definisce il grammo, la tostatrice è già accesa da un’ora per ottenere il risultato migliore. Versa tutto con cura dentro gli ingranaggi che daranno l’aroma inconfondibile al caffè. Sebbene la macchina sia completamente automatizzata e scandisca tutto al secondo, di tanto in tanto Natascia segue il progredire della tostatura attraverso un piccolo oblò di vetro dal quale si vedono i chicchi cambiare colore e assumere il tipico marrone scuro della bevanda nazionale.

Natascia è di Ponticelli, ha quarantaquattro anni, non aveva mai fatto questo lavoro, per vent’anni ha spacciato cocaina e droghe minori sul territorio napoletano. Sono otto anni che è reclusa nel carcere femminile di Pozzuoli. Il tempo passa, l’aroma del caffè tostato si diffonde nell’ambiente, intanto prepara i contenitori per raccogliere i chicchi tostati e i silos dove verranno stipati.

«La maggior parte delle carcerate di Pozzuoli viene quasi tutta dalla periferia, ma se sono di Ponticelli (un rione di Napoli), dicono “Andiamo a Napoli”, la stessa cosa se vengono da Scampia. Molte che vivono nel quartiere Sanità, qui vicino, non hanno mai attraversato la strada, non sono mai state a piazza Dante che è qua dietro. Così ti accorgi che non escono dai propri quartieri, sembra impossibile ma è la realtà. Vivi là per tutta la tua vita senza mai uscire come se fosse un piccolo villaggio, con le sue regole, le sue leggi e il destino che ti riserva. In molte pensano nel proprio immaginario che l’attività criminale sia l’unica cosa che si può fare, che non c’è alternativa!», afferma Imma Carpiello che ha fondato la cooperativa delle Lazzarelle nel 2010 con lo scopo di cercare il recupero delle detenute attraverso il lavoro.

Quale mezzo migliore se non il caffè? «Lo abbiamo scelto perché è un prodotto tradizionale, a cui ci si affeziona, è tipico napoletano, ed è un prodotto che dà identità», afferma Paola Pizzo, socia delle Lazzarelle dal 2016. La Cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli di comune accordo con le autorità costituite e di cui Paola è responsabile. «È un’impresa tutta al femminile in un settore tipicamente maschile. Abbiamo immaginato qualcosa che fosse realmente qualificante per le donne che lavorano con noi, per andare incontro a un bisogno, non solo di un reddito, ma soprattutto qualcosa che desse delle vere skill e competenze da spendere eventualmente una volta finita la pena», continua Paola.

«Noi diamo uno stipendio normale alle carcerate, con tanto di contributi, questo permette di non pesare sull’economia familiare. Ci sono delle spese, come gli assorbenti e altre necessità, che sono a carico dei loro parenti. Così facendo s’innesca un meccanismo inverso in cui sono le detenute stesse ad aiutare la propria famiglia che spesso versa in condizioni indigenti. Inoltre hanno la possibilità di pagare il debito che hanno con lo stato, sì, perché stare in prigione è come pagare un canone che poi risulta un debito da pagare in piccole rate una volta uscite di galera. Invece le nostre Lazzarelle riescono a mettersi qualcosa da parte, non molto, qualche migliaio di euro, ma comunque una somma discreta per chi deve reinserirsi nella società. Può essere investita nell’affitto di un appartamento e provare a iniziare in maniera indipendente un lavoro invece di ritornare a casa da un marito-padrone dal quale si dipende economicamente», precisa Imma.

Le Lazzarelle sono una piccola realtà e non possono di certo competere con la produzione industriale ma hanno una discreta distribuzione del proprio caffè a livello nazionale. «Abbiamo fatto tanto in questi dodici anni, con le fiere ci siamo fatti conoscere, anche a Napoli eravamo ignorate prima di aprire il bistrot qui alla Galleria Principe Umberto perché ovviamente, stando chiuse in carcere non era facile accorgersi di noi. Facemmo una fiera a Milano e fortunatamente siamo esplosi in Lombardia e in tutto il nord Italia, poi abbiamo i GAS [gruppi di acquisto solidale, Ndr], che per noi sono molto importanti», afferma Imma.

Dal 2020 le Lazzarelle hanno aperto il loro bistrot a pochi passi dal Mann [Museo Archeologico Nazionale Napoli, Ndr], in pieno centro storico, Imma ne descrive l’idea: «Quando abbiamo proposto il progetto ce lo eravamo immaginate già con un punto esterno come sua normale evoluzione, per proseguire il lavoro che facevamo dentro avevamo bisogno di un punto fuori. È stata una coincidenza fortuita trovare questo posto perché ci permette di non essere un progetto periferico e di portare le detenute al centro della città in un posto unico come la Galleria Principe. Circa sei anni fa il Comune di Napoli fece un bando per affidare questi locali e presentammo un progetto, lo vincemmo e avviammo i lavori di ristrutturazione per i quali abbiamo acceso parzialmente un mutuo usufruendo anche dei finanziamenti di due fondazioni. Stare qui e essere all’interno della rete del Mann e avere quindi come interlocutore il museo archeologico, il suo direttore Giulierini che viene a prendere il caffè dove ci sono le detenute, è diventato un processo osmotico».

«Lavorare con le Lazzarelle mi ha aiutato tantissimo perché ero una persona molto depressa, tendevo sempre a stare a letto con psicofarmaci, invece stando qua mi sento di nuovo viva. Grazie a Paola e ai ragazzi del servizio civile e alla mia amica Nunzia ora sto molto meglio, davvero un grandissimo cambiamento, anche perché con le altre persone ero chiusa, adesso no», Natascia lavora alla torrefazione dal 1° febbraio del 2022, riesce a mandare ai suoi due figli ventenni circa 300 euro al mese, un piccolo contributo in una realtà non sempre facile nelle periferie delle grandi città. «I miei familiari mi hanno visto cambiata, mi hanno detto che sono la Natascia di una volta, proprio perché ero caduta in una brutta depressione per i troppi anni di carcere».

Infatti il carcere, visto come sola detenzione, diventa un mezzo punitivo che spesso porta le detenute, una volta terminata la pena, a ritornare sugli stessi passi, a meno che non si agisca sia all’interno della struttura detentiva sia nel territorio. «Le mura chiuse possono portare all’annullamento della persona. Sono originaria di Aversa, ho vissuto in una città in cui il manicomio giudiziario e quello civile erano limitrofi, si passava sotto quelle mura senza rendersi conto di quello che c’era all’interno. E si continua ancora a fare così, quando si cammina a Poggioreale, non ci si pone il problema di chi è all’interno, per questo faccio gli incontri nelle scuole, gli studenti pensano che dentro le prigioni ci siano tutti Totò Riina e invece la maggior parte è la povera gente. Poi insisto sulla stessa cosa da anni: ci vogliono politiche di welfare differenti per evitare la dispersione scolastica, perché molte delle donne che noi incrociamo hanno la quinta elementare e molte intorno ai quarant’anni sono già nonne. Quindi significa che ti trovi di fronte a dei meccanismi che si rigenerano. Se non si vanno a intaccare queste problematiche, se non se ne parla, non se ne uscirà mai», conclude Imma.

Uno dei problemi del Meridione è appunto la mancanza di servizi che possano evitare l’abbandono scolastico, ma non solo. Nel Sud, molto di più che in altre zone d’Italia, le donne sono relegate a un ruolo prettamente domestico, quando diventano madri il loro percorso è scritto, devono rimanere a casa e accudire i figli. In Campania sono poche le scuole pubbliche che hanno la possibilità di tenere i bambini a tempo pieno, il che impedisce alle madri di trovare un lavoro anche part-time che possa renderle indipendenti. «Spesso il marito o il figlio maschio costituiscono l’unica fonte di sostentamento della coppia/famiglia perché le detenute non hanno mai lavorato. Quando i mariti, compagni o figli vengono arrestati, l’unico modo per portare avanti la famiglia è prendere il loro posto. Lo fanno perché hanno bisogno di soldi e non hanno altra opportunità lavorativa», descrive le dinamiche Imma.

«Avevo il marito ergastolano con due figli da mantenere e mandare a scuola, un appartamento, l’avvocato… sono tante le spese, poi quando non c’è il marito che fai? Non c’era alternativa, almeno per me». Natascia ripercorre la sua vita, e continua: «Chiaramente non si può avere una prospettiva per sapere già quello che si farà una volta fuori dal carcere, perché sarà molto difficile prima recuperare la propria libertà, nel senso che esco dopo tanti anni, me metto paura pure de pija’ o purman (il bus). Prima devo riacquistare fiducia in me stessa stando fuori, non commettere più errori, lo devo fare per i miei figli che non devono assolutamente fare la nostra vita! Sono sicura che non mi succederà mai più, e se troverò un lavoro in una torrefazione sarò felice».

Natascia poi ricorda con piacere un evento con le Lazzarelle che l’ha segnata positivamente, con una vena di orgoglio e soddisfazione: «La prima volta che siamo andate con Paola a fare il mercatino, per me era una novità uscire con l’azienda anche solo per lavorare davanti a un supermercato e confrontarsi con altre persone, parlarci, cioè, io lavoro, dopo tanti anni io lavoro, sto uscendo con la mia titolare e vado a fare un mercato, per me era una cosa nuova e bella che non pensavo di poter fare».

Le detenute non hanno l’educazione o la forma mentis volta all’emancipazione imprenditoriale, quindi il lavoro delle Lazzarelle all’interno del carcere di Pozzuoli rappresenta un’alternativa, una diversa prospettiva della vita. «In Campania si riscontra un contesto socioeconomico complicato. In generale noi donne abbiamo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e siamo doppiamente svantaggiate, per cui per una donna che ha scontato la pena non avere delle qualifiche è una tragedia. Abbiamo studiato i bisogni del contesto carcerario femminile e abbiamo immaginato le Lazzarelle come un’impresa femminile che fa caffè, dove il caffè non è lo scopo, ma è il mezzo, loro devono diventare in grado di fare qualsiasi cosa, o tornare a essere in grado di farla. Normalmente la detenzione reprime quelle che sono le loro capacità, quindi si lavora insieme per ricordarsi di quello che si sapeva e si può fare, ma soprattutto ciò che si può imparare a fare per il futuro nella speranza di non tornare più qui dentro ed essere grado di riprendersi la propria vita», precisa Paola.

«C’era questa realtà molto bella all’interno del carcere che dava la possibilità alle donne che sono recluse di poter imparare un lavoro ma anche acquisire delle competenze. Le Lazzarelle danno una speranza di poter ricostruire il proprio futuro nonostante ciò che è successo e gli errori commessi, avere una seconda possibilità, inserirsi nel mondo del lavoro, ti assumono con contratto regolare per un sostegno economico, quando uscirò da questo posto avrò accumulato una piccola somma che mi permetterà di ricominciare la mia vita», ad affermarlo è Anna, che attualmente lavora al bistrot nella Galleria Umberto grazie all’articolo 21, cioè in semilibertà in un contesto lavorativo esterno, dopo aver lavorato nella torrefazione nella casa circondariale.

«Il bistrot per me è stata l’opportunità per tornare in qualche modo a essere libera, sebbene la sera debba rientrare in istituto. Ho imparato nuove cose perché all’interno della torrefazione ci si dedica alla produzione, quindi si scopre come si tosta il caffè e tutta la catena produttiva/industriale, mentre al bistrot ho acquisito un’altra competenza come il contatto con il pubblico, lavorare al bar, servire i tavoli, fare i catering. Con le Lazzarelle ho scoperto il lavoro manuale e di possedere delle abilità che non credevo di avere. All’inizio, devo ammettere, mi sono sentita un po’ in difficoltà e in imbarazzo. Arrivati a una certa età si pensa che non sia possibile fare determinate cose, invece non è così, si scoprono altre capacità, altre situazioni… riscopri te stessa in un percorso di crescita», continua Anna.

Anna non solo lavora al bistrot, ma conta di laurearsi per luglio del 2023 in Economia e Commercio, ha ripreso ad andare a casa dai genitori e a frequentare di nuovo i suoi amici. «Quando entri in un contesto come quello carcerario, pensi che i tuoi amici abbiano cambiato idea su di te, esiste un pregiudizio che porta a farsi una serie di domande. Invece, quando sono tornata a casa, loro sono stati contenti di rivedermi e mi vengono a trovare anche qui al bistrot, questo è stato un ulteriore punto di forza che mi ha fatto capire che sì, è vero, è successo quello che è successo, evidentemente non era poi tutto sbagliato, c’è stata solo una fase molto deleteria nella mia vita e sono anche quello che mi è accaduto, ma c’è anche un tutto prima e un tutto dopo», precisa Anna.

A differenza di molte altre detenute Anna era diplomata in ragioneria e lavorava in amministrazione presso una succursale Fiat di Napoli. Anna non vuole scendere nei particolari, ma «…Uno lotta, si riprende, vuole riprendersi la propria vita, però c’è sempre quella parte che ci divide. Ho fatto sicuramente pace con me stessa, ma non so se l’ho fatta con il mio reato. Penso di avere piena responsabilità del mio crimine, però mi sento in colpa. Ho sempre pensato e continuerò a pensarlo che non sono una persona ignorante, avevo tutti gli strumenti per chiedere aiuto, perché mi sarebbe bastato chiederlo a qualcuno e dire che ero in una situazione psicologica che non riuscivo ad affrontare, ma non l’ho chiesto. Quindi mi assumo appieno la responsabilità del mio errore e ciò mi fa sentire meglio piuttosto che giustificarmi».

Anna esce alle 7.00 del mattino e deve rientrare in carcere alle 10.00 di sera, e su questo punto è non poco contrariata perché aveva ottenuto la semilibertà in periodo di emergenza covid, quindi invece di rientrare in prigione poteva dormire a casa dei suoi genitori e lo ha fatto da fine estate 2022 fino al 7 gennaio 2023. «Già da due anni che con l’articolo 21 faccio lavoro esterno, poi mi è stata data la semilibertà che ho rispettato per cinque mesi senza dare noie con nessuna infrazione o segnalazione. Ora questo passo indietro non ha un senso, è una pugnalata, ci sono dei premi, il premio dovrebbe essere proprio questo di darci una possibilità di rimanere a casa. Il giudice dovrebbe valutare il percorso formativo di reinserimento che la persona sta facendo e potrebbe premiarla confermando la libertà vigilata», afferma sconsolata Anna. È cosciente che esiste un limite edittale della pena che il giudice è tenuto a tenere in considerazione, ma in un contesto di sovraffollamento delle carceri, come è il caso italiano, forse potrebbero essere applicate le norme in maniera più contestuale.

Non aiuta di certo la cosiddetta legge anti-rave approvata dall’attuale governo che «… Ha comportato una serie di restrizioni per le persone con reati ostativi», afferma Paola Pizzo, «Sostanzialmente nessuna di loro due, Natascia e Nunzia, è andata più in permesso premio, quindi hanno perso dei benefici di legge a causa di questo nuovo decreto. Così a Natale non sono andate a casa e stare con i figli come gli altri anni, per una detenuta è la cosa peggiore che possa accadere. Abbiamo avuto dei momenti complicatissimi che sul lavoro si gestiscono ma dal lato emotivo non ci siamo ancora riprese. E poi non abbiamo capito se questa cosa inficia la possibilità di una misura alternativa come la semilibertà o un lavoro esterno come il caso di Anna, stiamo ancora capendo».

Le Lazzarelle hanno presentato il progetto al dipartimento di politiche sociali e giovanili campano per ospitare il servizio civile (SC) che è in auge da circa un anno. «I ragazzi si sono trovati in questo momento di tempesta natalizia, abbiamo sofferto tutti insieme, abbiamo pianto, un pianto collettivo… Sono stati molto bravi a cogliere la sensibilità, a stare vicino a Nunzia e Natascia. Si sono interessati alla legge stessa per cercare di capire e di aiutarle, perché alla fine le vedono per quello che sono, delle donne, che hanno sbagliato sì, ma sono esseri umani. Quindi il SC può aiutare i giovani a comprendere il carcere e quanto possa essere duro, la limitazione della propria libertà è la cosa più orribile che possa capitare, e può creare un po’ di dissuasione nel commettere reati», continua Paola.

Maria Cristina ha ventisette anni e fa il servizio civile alla torrefazione delle Lazzarelle, racconta la sua esperienza: «Non avevo mai messo piede in un centro detentivo, quindi mi ero interrogata a lungo su come potevo reagire dopo l’ingresso in un carcere. Ero cosciente che non avrei saputo dei reati commessi dalle detenute e mi ero posta il problema di come sarebbe stato lavorare con loro nel momento stesso in cui avrei saputo di più delle loro vite. Devo ammettere che poi si è risolto nella maniera più naturale possibile. Bisogna capire come effettivamente funziona il sistema penitenziario italiano con tutte le sue asperità e durezze, ma anche con i piccoli spiragli di speranza. Si capisce come si svolge la vita in una prigione, come loro trascorrono le giornate, il senso del tempo e dello spazio, perché nel carcere è diverso e quindi anche il lavoro assume delle sfumature diverse da quello che ha fuori».

Nunzia, trentaquattro anni e due figli di diciassette e sedici anni, collabora con le Lazzarelle da circa cinque mesi ed è in carcere per lo stesso reato di Natascia. Spiega meglio l’importanza del SC: «Ritorniamo parzialmente al mondo di prima: non abbiamo possibilità di contatto con persone all’esterno, invece stando con loro abbiamo notizie da fuori, se ci dimentichiamo di qualcosa, qualche dinamica, loro ce lo ricordano, sembra una sciocchezza ma è molto importante. Sono ragazzi ed è bello stare con i giovani», conclude Nunzia, poi descrive l’ambiente da cui proviene: «Lo spaccio era un mondo facile, facile per un guadagno economico, facile non fare niente dalla mattina alla sera… Poi magari ci siamo trovati in una situazione più grande di noi ma abbiamo capito che quello è un mondo che oggi non ci appartiene. L’ho capito proprio con le Lazzarelle, perché abbiamo la possibilità di fare per la prima volta un lavoro vero, entriamo in un mondo che noi neanche conosciamo, ci fanno capire che il lavoro è dignitoso e che dobbiamo andare avanti».

«Le Lazzarelle mi hanno anche appoggiato quando mi sono iscritta all’università, Imma mi dà la possibilità di collegarmi per le lezioni qui al bistrot. Sono contente nel seguirti, stai facendo un percorso di crescita e loro ti accompagnano, ti danno tutte le armi e tutti gli strumenti per poter affrontare la tua vita in modo diverso», conclude Anna.

Dal 2010 più di ottanta detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Una goccia nel mare, «Le detenute che vengono a lavorare con noi certo hanno un cambiamento, anche all’interno del carcere, però 3-6 detenute su 180 è un numero irrisorio anche se importante. Posso dire solo una cosa: a livello personale ognuna di loro mi lascia un pezzo, o si porta via un pezzo di me», conclude Imma. Il lavoro intenso delle Lazzarelle è stato riconosciuto a livello nazionale tanto da ricevere l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana dal Capo dello Stato Mattarella il 23 febbraio 2023 (https://caffelazzarelle.jimdofree.com/).


(Alias – Il manifesto, 25 marzo 2023)

di Antonella Mariani 


Professoressa Izzo, cominciamo dal lessico: gravidanza per altri, maternità surrogata o utero in affitto?

«Bisogna chiamare le cose con il loro nome e quindi il termine giusto, anche se più crudo, è utero in affitto. L’ambito della maternità surrogata è sempre commerciale. “Gravidanza per altri” è una forma neutralizzante che cerca di rendere questa pratica socialmente accettabile. Ma anche quella che viene chiamata “solidale” o “altruistica” è una surrogata commerciale che si vergogna: c’è sempre passaggio di denaro».

Francesca Izzo è filosofa, docente universitaria, tra le fondatrici del movimento femminista Se non ora quando? Già deputata del Partito democratico della Sinistra (Pds), lasciò il Pd nel 2017, perché la dirigenza non voleva aprire una discussione seria proprio sull’utero in affitto.

Ieri come oggi: anche ora il Pd evita di pronunciarsi in maniera chiara, nonostante le sollecitazioni in questo senso della componente cattolica e delle femministe. Perché?

Da un sondaggio che abbiamo commissionato risulta che una volta che si spiegano bene i termini della questione, la percentuale di chi è favorevole all’utero in affitto è bassissima.

Una questione di consenso, quindi?

Immagino di sì.

È per questo allora che Elly Schlein è scesa in piazza a Milano per i diritti dei bambini delle coppie arcobaleno ma sulla Gpa non si pronuncia esplicitamente?

Parlando dei diritti di bambini si solleva un moto unanime di solidarietà. Ma è una mistificazione: non ci sono bambini di serie B, come ho sentito dire. Il padre biologico che arriva in Italia con il bambino nato da surrogata, lo iscrive all’anagrafe e da quel momento in poi ha tutti i diritti e le tutele di qualsiasi altro bambino.

E l’altro genitore?

Il genitore intenzionale deve intraprendere la via indicata dalla Cassazione: l’adozione in casi speciali. La stessa procedura che deve seguire un uomo che sposa una donna che da nubile aveva avuto un figlio. Perché per le coppie omosessuali si chiede un trattamento di favore, considerando anche che per avere quel figlio hanno utilizzato una pratica che in Italia è punita come un reato?

Parliamo proprio di questo: il centrodestra è compatto sulla richiesta di una normativa che consideri l’utero in affitto un reato dovunque commesso. In base a che principio?

Guardi, io faccio parte della Coalizione internazionale per rendere reato universale la maternità surrogata (Ciams) sulla base di un principio semplice: consideriamo la maternità surrogata una pratica che ha un fondo di disumanità perché spezza l’unicità del processo riproduttivo umano. Questo processo, che si genera da una singola donna e da un singolo bambino, non replicabili o riproducibili, viene segmentato e diviso in pezzi. È come un assemblaggio per fabbricare bambini secondo le peggiori regole del mercato. Si toglie alla donna che affitta l’utero la sua identità e il bambino diventa una merce. Nel mondo ci sono solo 20 Paesi su 212 che hanno legalizzato la maternità surrogata. Qualcosa vorrà dire… E c’è un altro tema.

Quale tema?

Quello dei diritti: la paternità e la maternità non sono diritti dei singoli. La generazione è l’incontro tra due diversi. E invece la sinistra ha imboccato la via dei diritti, aprendo terreni minati perché si aprono conflitti tra diritti diversi. E d’altra parte c’è una subalternità al progressismo, senza capacità di giudizio collettivo, anche etico. Trovo intollerabili i camuffamenti, i sotterfugi per non affrontare il cuore della questione e parlarsi apertamente. Il progresso tecnico scientifico può indurre a cambiamenti radicali dei fondamenti antropologici e di questo non si parla.


(Avvenire, 22 marzo 2023)

di Ida Dominijanni


“Donne senza uomini”, dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat, vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di Stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, «fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me». Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: «Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno».

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà.

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati Uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia), è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Mahsa Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica.

La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000, ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.

È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana, che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo.

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta.

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del PCI “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria.

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sue connivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo, ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo.

Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine.

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani.

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.


(Italianieuropei.it, 23 febbraio 2023)

di Luca Liverani


Presidio pacifista a Roma in piazza dell’Esquilino, in concomitanza col dibattito alla Camera sul nuovo invio di armi all’Ucraina, discusso il giorno prima al Senato. E in vista dell’intervento della presidente del consiglio Meloni al Consiglio europeo di oggi e domani, che verterà sullo stesso tema. A manifestare c’erano i rappresentanti di Disarmisti esigenti (membri di Ican, la rete per la proibizione delle armi nucleari, premio Nobel per la pace 2017). Con loro anche Per la scuola della Repubblica e Wilpf Italia (la lega internazionale delle donne per la pace e la libertà).

Le organizzazioni ieri hanno manifestato contro il sesto voto del Parlamento sul decreto di aiuti militari a Kiev: «Inviare armi è utile solo a esasperare il conflitto – ha detto Alfonso Navarra, portavoce di Disarmisti esigenti – e danneggia il popolo ucraino, gettando benzina sul fuoco della guerra. Siamo contro l’escalation e per la difesa nonviolenta del popolo ucraino. L’Italia – ha sottolineato – dovrebbe ripudiare la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, come dice l’art. 11 della Costituzione. E papa Francesco ci ricorda che “non esistono guerre giuste”».

Al presidio è stata annunciata la promozione di un referendum popolare contro l’invio di armi all’Ucraina, con una raccolta di firme dopo Pasqua. Le organizzazioni presenti hanno infine ribadito il loro sostegno alla campagna internazionale “Object War” lanciata da War resister international (di cui è testimonial anche Michele Santoro): «Agli obiettori di coscienza e ai disertori russi e ucraini va riconosciuto il diritto di asilo in Europa».


(Avvenire, 23 marzo 2023)

di Stefania Tarantino


Al nono mese di gravidanza, presa dall’ansia che da lì a poco si sarebbero rotte le acque, anelavo disperatamente che qualcun’altra partorisse per me. Il fatto che non fosse possibile e che la mia bambina era lì, senza volto dentro di me e sempre più grande e invadente, mi agitava e mi riportava sempre alla stessa domanda: com’è possibile? Come poteva essere che il mio corpo poteva non solo contenere ma anche espellere una cosa così grande? Ecco, proprio perché non è una cosa, ma una creatura. Ciò significa che si vive anche dentro il suo ritmo, che s’impara a convivere una dentro l’altra sapendo di essere legate da un filo potente. Una carne condivisa, indecidibile come quando il mio piede indugia sulla riva del mare. Nella gravidanza stai sulla riva di te stessa, in bilico tra te e quella creatura ancora sconosciuta. Lo spazio che si apre è non solo fisico, ma anche affettivo, sensoriale, erotico, spirituale. Ci sei tutta dentro. Chiudere ciò che la gravidanza apre, ridurla a una funzione, a un meccanismo riproduttivo, significa perdere un enorme e possente dimensione di libertà. Ritornando all’ansia del parto, quando è arrivato il momento, il mio unico punto d’appoggio è stato il pensiero rivolto a tutte quelle donne che hanno partorito prima di me, a coloro che nei millenni ci hanno messo al mondo con fatica, dolore, difficoltà, derisione, venerazione. Anche io, con loro, ce l’ho fatta! E con loro (e Simone Weil) ho capito anche che l’aiuto, o meglio il sostegno, non è mai la falsa e artificiale (virtuale) liberazione dalla necessità, ma porre tutte quelle condizioni per cui una necessità è trasformata in libertà.


(Facebook, 23 marzo 2023)

di Giovanna Borrelli


Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne dai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Máxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.


(Altreconomia, 22 marzo 2023)

di Clara Jourdan


Mi ha molto colpito la vasta adesione – più di cento tra partiti e associazioni – alla manifestazione di Milano del 18 marzo scorso a favore dei “diritti dei figli e figlie di coppie dello stesso sesso”. Una delle motivazioni più sentite è che non è giusto discriminare i genitori per l’orientamento sessuale. Verissimo! Quello che conta è l’amore. Ma all’origine della mobilitazione c’è la richiesta di registrazione in Italia dei bambini nati all’estero e lì registrati come figli di coppie di uomini. Allora il punto della questione non è l’orientamento sessuale, ma di chi sono figlie le creature di cui si vogliono tutelare i diritti. Per saperlo bisogna distinguere se le coppie dello stesso sesso sono di uomini o di donne, e in questo la differenza è abissale. Se si tratta di coppie di donne, le creature sono figli e figlie di una delle due donne, quella che ha dato loro vita e giustamente vuole che venga riconosciuto anche giuridicamente il legame che hanno con la sua compagna, mamma di fatto. Se invece si tratta di coppie di uomini, forse non tutti sanno che i loro bambini e bambine sono stati comperati, con un contratto di “utero in affitto” detto anche “gravidanza per altri” che in altri paesi è ammesso, perciò sarebbe aberrante considerarli figli loro: gli esseri umani non possono essere oggetto di scambio, da quando è stata abolita la schiavitù.

Queste creature sono state programmate per essere separate alla nascita dalla madre, perché venga loro tolto ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno, come sa chi ha visto un neonato o una neonata: stare con la propria madre, colei con cui si sono formate e nel cui ventre hanno vissuto per nove mesi. Portarle via è un modo crudele per diventare genitori. Assurdo pensare di sistemarlo con i diritti. Come si può credere che il diritto ad avere due padri si possa basare sul privare un bambino o una bambina del suo primo diritto, il legame con la madre? Se si tratta di una privazione per necessità, per la morte o il rifiuto da parte della madre, ben venga l’amore di genitori sostituti. Altrimenti c’è una crudeltà che resta indelebile. Se gli acquirenti sono persone sensibili si porteranno per tutta la vita il senso di colpa per la crudeltà originaria che hanno fatto, e il senso di colpa, specie se di vera e grave colpa, è una mina vagante nelle relazioni. Se poi non sono persone sensibili, continueranno ad aggiungere altre crudeltà alla crudeltà originaria pur di godere al massimo del loro bene prezioso.

Purtroppo il commercio di bambini si sta estendendo, e riconoscere come genitori i committenti (uomini e donne) non farebbe che aumentare questa orribile pratica, come avviene con la prostituzione quando è legalizzata. Allora come proteggere le creature già comperate e portate in Italia? La cosa più giusta sarebbe sottrarle ai compratori, come si fa con i rapitori di bambini, che non vengono considerati accettabili come genitori, e riportarle alla madre, se possibile; se no, darle in adozione a singoli o coppie (di qualunque orientamento sessuale) che possano amarle più liberamente dato che non hanno causato la perdita del loro legame materno. D’altra parte però molti di questi bambini si sono affezionati ai compratori, li considerano genitori, come capita anche in caso di rapimenti, e causerebbe un ulteriore trauma separarli da loro. Bisogna pensare cosa sia meglio davvero per le creature, andrebbe valutato caso per caso, ma da chi? È un problema molto grande, non si può liquidarlo trasformando in diritto uno stato di fatto originato da una violenza.

Comunque una cosa è certa: l’utero in affitto non va introdotto nel nostro ordinamento, neanche con la scorciatoia dell’adozione strumentale, e va abolito in tutti i paesi, così come è stata abolita la schiavitù.


(www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2023)

di Marina Terragni


Avevamo avvisato: i temi biopolitici si sarebbero presi il centro della scena. Elly Schlein avrebbe avuto tutto l’interesse a traccheggiare sino alle europee, limitandosi a qualche bandierina qua e là per non spaccare il partito (mica solo i cattodem: perfino Bettini, Zingaretti, Gualtieri a suo tempo si erano pronunciati contro l’utero in affitto).

Ma per ragioni uguali e contrarie il governo ha deciso di partire in quarta bloccando le trascrizioni degli atti di nascita integrali dei bambini nati per iniziativa di coppie dello stesso sesso – forte della legge 40 e di un paio di sentenze della Cassazione – stoppando l’Europa sulla cosiddetta omogenitorialità transnazionale e proponendo una legge sull’utero in affitto come reato universale. Perché il nome della cosa è quello, utero in affitto o gestazione per altri: faccenda che, vero, riguarda al 70 per cento gli etero e al 30 per cento i gay. Ma quel 30 per cento si spalma – a spanne – sul 5 per cento della popolazione e il 70 sul restante 95 per cento: i numeri vanno letti. Maschi che vogliono i figli delle donne, niente di così diverso dalla prima pietra su cui si è edificato il patriarcato.

Alla manifestazione arcobaleno di Milano la questione scompare dai radar. In Europa Schlein votò contro un emendamento che stigmatizzava l’utero in affitto, dunque la pratica non le dispiace ma ora evita l’argomento. Sul palco quasi solo donne, faccia presentabile della cosiddetta omogenitorialità. I bi-padri mandano avanti loro. Alessandro Zan, incaricato di stendere la nuova proposta di legge sull’omogenitorialità, in un’intervista dichiara addirittura che «l’utero in affitto è una fake news». Si parla solo di “diritti dei bambini”: bene, vediamoli.

Primo diritto di un bambino è non essere separato dalla donna che l’ha partorito che per lui – ma anche per la legge: semper certa – è sua madre. Quasi mai nelle Gpa la gestante è anche madre genetica, l’ovocita è di un’altra donna ma il problema si porrà solo in seguito. La belly-mommy [mamma-pancia, mamma di pancia, Ndr], come la chiamano pucciosamente i committenti, per il neonato è mommy e basta. La creatura ne riconosce odore, temperatura, ritmo del cuore, voce. Se la appoggi sulla belly di mommy si arrampicherà come un freeclimber fino alle mammelle: partorire per credere. Cellule del bambino sopravviveranno nel corpo della gestante per molti anni (microchimerismo materno-fetale). La rottura per soldi di quella relazione che fonda civiltà è una catastrofe per il piccolo umano e anche per la civiltà. Il sincero democratico, ovviamente antispecista, non lo farebbe mai a cani, gatti e lucertole ma per la sua specie – avendo pagato – fa eccezione e si porta a casa il bioprodotto appena sfornato.

Altro diritto del bambino: quello alla verità sulle proprie origini, quel favor veritatis che compare in svariate sentenze. Il mondo è pieno di figli di eterologa alla ricerca delle loro radici, a quanto pare se non ti radichi da qualche parte fatichi a spiccare il tuo volo umano. La verità sullo status filiationis è costitutiva del diritto all’identità personale. Proprio a partire dalle richieste dei nati da queste tecniche, dall’anonimato dei donatori di gameti negli anni Settanta varie legislazioni nazionali si sono via via aperte alla tracciabilità. Ebbene, la richiesta di trascrizione integrale di quegli atti di nascita va in direzione contraria, negando il diritto alla verità sulle origini. Altro che rendere quei bambini più uguali: introduce una disuguaglianza. Per capirci: se una madre single dichiara il falso sulla paternità del figlio viene perseguita per alterazione di stato civile. Ma se un atto di nascita riporta due padri o due madri, falso palese, la cosa dovrebbe essere lecita e non perseguibile, aprendo di fatto una corsia preferenziale in base all’orientamento sessuale in spregio all’art. 3 della Costituzione, che invece ci vuole tutti, genitori e figli, uguali davanti alla legge.

Se poi quella madre single si sposa e vuole che il marito sia riconosciuto come padre del bambino, la strada è l’adozione in casi particolari. “Casi particolari” (Annunziata!) non significa riservata ai gay figli di un Dio minore, ma è la strada per l’adozione di bambini che non si trovino in stato di abbandono: la stessa strada che egualitariamente la Cassazione indica per gli “omogenitori”. Tra l’altro l’istituto è stato recentemente riformato velocizzando le pratiche e riconoscendo un pieno rapporto tra l’adottato e i parenti dell’adottante: ma tutto è ulteriormente migliorabile.

Quanto agli altri diritti: non ne manca uno, dal pediatra (Concita!) alla scuola.

Quindi dove sarebbero le disuguaglianze tra i figli di “omogenitori” e tutti gli altri? Che cosa renderebbe questi figli – che espressione orribile e autolesionista! – “di serie B”? Forse qui si muove un fantasma, la consapevolezza agitante del fatto che siamo una specie bisessuata e che servono entrambi i gameti per riprodursi. Qui agisce il prometeismo di voler cancellare con una norma dal sound transumano un limite di natura, altro che ambientalismo. C’è anche un altro fatto che il diritto e la politica non sanno rappresentare ed è la differenza sessuale nella riproduzione. Dice la costituzionalista Silvia Niccolai: «C’è un’eccedenza femminile. Il corpo delle donne interloquisce in un’altra maniera con le norme e con le leggi». In effetti sulle “due madri” anche la circolare Piantedosi mostra un’esitazione e qualche distinguo – circa i nati all’estero da coppie di donne – su cui è stato richiesto il parere all’avvocatura generale dello Stato. E la sentenza della Cassazione del 30 dicembre scorso si riferisce unicamente ai “due padri”. Nel caso delle coppie di donne l’utero in affitto non c’entra, e converrebbe loro smarcarsi dalle rivendicazioni maschili. Il pari e patta tra donne e uomini sotto l’ombrello dell’omogenitorialità è un dispositivo che serve anzitutto ai maschi che affittano uteri di donne bisognose. Libere di farlo, si sostiene: di sicuro non libere di fare mercato di terzi, le creature. Ma sulla differenza sessuale torneremo.


(Il Foglio Quotidiano, 21 marzo 2023)

di Antonietta Lelario


Questo 8 marzo a Foggia si è realizzata un’affollatissima riunione al salone della CGIL. Una giornata per parlare di pratiche di pace in cui, nella locandina che annuncia la giornata, appare una bambina che scrive War con una bomboletta su un cartello di Stop. Un evento scontato in tempi di guerra?

Una iniziativa che non occorre commentare se non per compiacerci della sua riuscita o per sottolineare con benevolenza la bravura dell’una o dell’altra?

Il fatto interessante su cui invece è necessario tornare è che in quella giornata si è interrotta la grigia normalità e sono riapparsi i segni di quanto in questa città riescono a fare le donne quando fanno cordata. Si era già visto nell’iniziativa su Donne, Vita, Libertà come nella manifestazione contro la guerra in difesa de La bellezza della vita.

Si è visto nella partecipazione appassionata di alcune di noi alle iniziative del Coordinamento Capitanata per la pace, dove abbiamo portato, con forza coinvolgente nei confronti di tutti, il nostro modo di ritrovarci, capirci, organizzarci e una lettura femminile della guerra e delle risposte possibili. “Fare un passo indietro” si chiamava il flash mob realizzato durante la grande manifestazione cittadina, «come ogni madre, ogni maestra insegna ai bambini» ha detto in un’intervista l’artista che lo aveva proposto, Katia Berlantini.

In questo 8 marzo donne di esperienze diverse decidono di nuovo di fare cordata, scegliendo di dare valore politico alle pratiche femminili di pace e trovando una lingua comune per farle vedere. Non enunciazioni di tesi e argomentazioni, come nei dibattiti televisivi, non galleria di opinioni, che lasciano il tempo che trovano, ma racconti di storie femminili e arte per mobilitare la sensibilità che è il primo gradino della politica: quello più vero perché nasce e vive nella nostra quotidianità. La stessa valorizzazione della parola “pratiche” scelta rispetto ad altre, come “costruttrici”, “tessitrici”, la dice lunga su ciò che sta crescendo nella società femminile: il rifiuto di retoriche di ogni genere e di parole diventate insensate perché separate dalle conseguenze e la consapevolezza di non essere più imbrigliate in quelle parole. Abbiamo altra acqua da portare al mulino comune e lo stiamo facendo.

Un altro elemento di discontinuità è stata la folta presenza di uomini. Si è svegliata una curiosità che sembrava addormentata. È caduto il vecchio alibi del “Sono cose di donne”? Si è svelato anche ai loro occhi l’insufficienza dell’attenzione data finora al movimento delle donne? Si aprirà una riflessione degli uomini sulla propria cultura per separare il grano dal loglio, come chiediamo da tempo?

Quello delle donne è un movimento che parla in tanti modi, soprattutto attraverso le pratiche: pratiche artistiche, pratiche di vita, pratiche di intimità col mondo, pratiche in prima persona, pratiche attraverso il corpo, pratiche relazionali, pratiche narrative.

Così ognuna di noi che ha parlato, lo ha fatto attraverso storie di altre donne.

Si sono susseguite la forza simbolica delle barchette e degli aerei di carta di Shamsia Hassani, come il gomitolo di lana di cui ci parla Luisa Muraro, l’orgoglio di essere donna, l’amore per lo sport e il coraggio nell’atleta Elzan Recabi, la pietas politica di Lorena Fornasir, che dalla piazza di Trieste ci ricorda che contro i fili spinati possiamo «fare un ponte di corpi». Una scuola che vuole ancora essere luogo di relazione fra generazioni è apparsa nella lettera agli studenti vittime di un’aggressione fascista della dirigente scolastica Annalisa Savino. A Firenze come a Foggia dove è stata fatta e lì raccontata l’esperienza del Laboratorio Immaginare l’azione contro gli stereotipi, tenuto da Donne in Rete con l’aiuto dell’artista Viola Gesmundo. È una politica fatta seguendo le orme l’una dell’altra come nella poesia Pollicina di Rosa Serra, o interrogata a partire dalle lotte femminili nella nostra terra in anni non lontani. Né lontana appare, agli occhi dell’artista Anna Fiore la lotta di Donne, Vita Libertà che ha fatto rivivere nel suo contributo artistico alla serata.

Attraverso ciò che alcune donne significano per noi, attraverso quello che rappresentano ai nostri occhi è apparsa agli occhi di tutti la varietà di forza femminile che abbiamo a disposizione e la forma che quella forza vuole dare al mondo.

In comune tutte avevamo il desiderio che ci spinge ma anche la consapevolezza che perché cambino le cose il desiderio è parola chiave. Occorre mobilitare quello degli altri, delle altre e mettere in gioco il desiderio di mondo che parla attraverso di noi. Su questo continueremo a discutere nell’incontro del 23 marzo sempre al Salone della CGIL nell’incontro con Lia Cigarini. Lia Cigarini è femminista storica, attiva nella libreria delle donne di Milano, luogo di ispirazione per molte di noi. Di lei recentemente è stato ripubblicata la raccolta dei suoi scritti col titolo appunto de La Politica del desiderio.


Antonietta Lelario fa parte del Circolo La Merlettaia di Foggia


(L’Attacco, 18 marzo 2023)

di Franca Fortunato


Vera Politkovskaja con la giornalista Sara Giudice nel suo libro Una madre edito Rizzoli, da poco in libreria, onora sua madre Anna, la giornalista assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Guarda con i suoi occhi di figlia la madre e racconta di lei affinché il mondo non dimentichi il suo nome, come è avvenuto nel suo Paese, dove era diventata “la pazza di Mosca”. Racconta per ricordare la lezione lasciata a lei e al fratello, «siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi». In un andirivieni tra passato e presente, tra madre e figlia, Vera ci racconta la sua Russia e quella della madre, la sua vita in quella della madre, legate dal filo della guerra. Ieri la seconda guerra in Cecenia (1999-2009) di cui la madre divenne con i suoi reportage testimone della verità, dei crimini e degli orrori, oggi la guerra in Ucraina che ha portato Vera a lasciare il suo Paese, con la figlia Anna: «La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato a essere oggetto di minacce, ancor di morte, questa volta verso mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna».

Una madre, una nonna, una giornalista «testimone viva di quella mattanza in Cecenia», dove partiva per testimoniare, per ascoltare le vittime, per dare parola al dolore. «Io sono come un poeta. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Odiata dal potere, era sola, profondamente sola. «La maggior parte dei colleghi non la capiva o non voleva capirla. Reagiva con sconcerto ai suoi reportage, che spesso venivano apertamente criticati. Per paura o per invidia». Non meraviglia che a distanza di anni «tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta», il suo nome è avvolto dal silenzio, mentre in Occidente sopravvive ancora il ricordo di lei e del suo coraggio. Vera testimonia ciò che è accaduto in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ricorda le proteste contro la guerra, le manifestazioni con «una significativa presenza femminile». «Quasi 22 mila russi sono stati fermati per aver manifestato pacificamente». Ricorda il movimento delle madri dei soldati, nato durante la seconda guerra cecena quando le madri andarono a prendersi i figli vivi o morti e oggi sono scese in piazza per impedire la partenza o il ritorno dei figli in guerra. Pagine commoventi sono dedicate alle ultime ore passate con la madre, alle ultime parole che si sono dette per telefono, allo sconcerto e al dolore alla notizia del suo assassinio. Un dolore che non passa, fatto di amarezza perché, a distanza di anni, se sono stati processati e condannati gli esecutori restano impuniti i mandanti politici: «Non è cambiato nulla. Gli uomini che mia madre ha combattuto con le parole sono ancora lì». L’immagine con cui si chiude il libro ha un grande significato simbolico. Il 6 maggio 2022 la dacia, luogo della memoria familiare, va a fuoco ma dall’incendio si salva solo il giardino dove in estate fioriscono gli iris e le peonie della madre. Un enorme salice, che aveva piantato lei, si ricopre di foglie. Il prato è di nuovo un manto verde, come il ricordo di Anna Politkovskaja rinverdito dalla figlia. Un libro che è un atto d’amore di una figlia verso una madre che ha fatto della verità la sua passione e la sua ragione di vita.


(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2023)

di Riccardo Michelucci 


Nata a Zagabria, contestò il nazionalismo che avrebbero portato alla guerra civile e per questo dal 1993 visse in esilio. Appena tradotta la sua opera principale, “Il museo della resa incondizionata”.


Dubravka Ugrešić, una delle più importanti scrittrici croate contemporanee, è morta oggi a 73 anni ad Amsterdam, costretta all’esilio nel 1993 non dalla guerra dei Balcani ma dalla deriva nazionalista che aveva travolto il suo Paese. Per la sua strenua opposizione al nazionalismo fu a lungo ostracizzata e messa all’indice anche da molti suoi colleghi dell’Università di Zagabria. In esilio avrebbe però prodotto una delle sue opere principali, Il museo della resa incondizionata, che torna adesso anche in traduzione italiana con La nave di Teseo (traduzione di Lara Cerruti; pagine 368, euro 20,00), in cui ammette: «Sì, scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita».

Nata vicino a Zagabria nel 1949 da padre croato e madre bulgara, Dubravka Ugrešić è stata tradotta in oltre venti lingue e si è aggiudicata alcuni dei più prestigiosi premi letterari internazionali proprio mentre nel suo Paese veniva insultata e disprezzata. Non riconoscendosi in quello che è diventato il suo Paese dopo la guerra, ha vissuto per trent’anni tra l’Olanda e gli Stati Uniti ma si sentiva ancora intimamente jugoslava. Più che una cronaca del suo esilio, Il museo della resa incondizionata è un viaggio nella memoria, un contenitore di ricordi, di oggetti e di personaggi che l’autrice ha incontrato dopo aver abbandonato la sua terra d’origine. Un libro che è popolato anche da figure del suo passato, come la madre e le amiche, le cui parabole esistenziali ci restituiscono un campionario delle differenti reazioni alla violenta e improvvisa disgregazione di quel mondo. Per molti cittadini della ex Jugoslavia come lei, la memoria individuale è diventata l’unica forma di memoria collettiva possibile. Gli elementi sparsi e apparentemente senza relazione tra loro che Ugrešić ci racconta sono simili a quelli che compongono l’elenco postmoderno riportato all’inizio del suo libro: sono i reperti in mostra in una vetrina dello zoo di Berlino, recuperati dallo stomaco di un elefante marino morto nel 1961. È un ammasso di oggetti inghiottiti dall’animale durante la sua esistenza, ai quali il visitatore è chiamato a dare un senso, a ricercare legami e possibili coordinate significative.

Partendo da una serie di immagini ritrovate in una borsa di pelle in fondo a un armadio, la scrittrice croata ricostruisce la storia di sua madre raccontando parallelamente anche il suo presente e il suo passato in un libro che è a metà strada tra il diario, il romanzo e il memoir, reso con uno stile aforistico e una narrazione che non segue mai un andamento lineare o cronologico. Quel che è indubbio, però, è che al centro di esso ci sono la memoria e il modo in cui essa viene conservata. «La vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quel che nell’album manca, non è nemmeno mai accaduto». Non a caso Ugrešić riteneva che gli esiliati siano divisi in due gruppi, quelli che possiedono fotografie – e quindi un legame con il passato – e coloro che invece non le hanno. Chi è costretto alla fuga e alla precarietà dell’esilio sa bene che i ricordi possono diventare il bene più prezioso. Lo sapeva anche il criminale di guerra serbo-bosniaco Ratko Mladić, che un giorno telefonò a un suo conoscente di Sarajevo e gli disse di portar via i suoi album di fotografie, sapendo che la sua casa stava per essere bombardata.


(Avvenire, 17 marzo 2023)

di Jessica Chia


Sono sempre state lì e per molto tempo quasi nessuno le ha ricordate. Sono scrittrici – conclamate e non – dimenticate, ma per i loro contemporanei sono state, in base all’epoca, solo delle cortigiane, delle «isteriche» o delle degenerate. Ora molte di queste voci popolano il nuovo saggio della traduttrice e autrice Margherita Giacobino (Torino, 1952), Quello che ho da dire lo dico da sola (Somara!Edizioni) e danno vita a un’antologia di nomi fuori dal canone, un prato in cui si incontrano fiori meravigliosi, erbe urticanti e piante selvatiche: nessuna di loro può lasciare indifferenti. E in ognuna c’è quello che diventerà la sostanza del nostro presente; ci sono pagine di vita, sangue e carne. Pagine di libertà e del suo prezzo: l’esclusione, l’esistenza ai margini, l’eccesso.

Dall’alto a sinistra, in senso orario: Jean Rhys, Carla Lonzi, Patricia Highsmith, Leslie Feinberg, Annemarie Schwarzenbach, Audre Lorde

Giacobino ripercorre un arco temporale che va da Saffo fino al secolo scorso, raccontando vite e opere di donne unite da un indomito bisogno di scrittura. Quasi tutte riscoperte in seguito, e non sempre alle prese con una carriera editoriale, queste donne hanno scritto prima di tutto per sé stesse e per la loro sopravvivenza: «Scrivere un romanzo è un’esperienza terribile, durante la quale spesso cadono i capelli e si cariano i denti. Mi irritano sempre molto quelli che dicono che scrivere fiction è evadere dalla realtà. È tuffarsi nella realtà, ed è un grosso shock per il sistema», scriveva Flannery O’Connor nel 1969 in Mistery and Manners. Occasional Prose.

«Scomode, sessualmente trasgressive, fuorilegge, outsider. Irritanti, sconvenienti, disadattate, pazze, affascinanti, terribili. Eccessive, indigeste, non riducibili in pillole, rivoltose, insofferenti a ogni modello. Tenacemente, meravigliosamente sé stesse. Così sono le autrici di cui parlo». Le pagine iniziali ci accompagnano in un viaggio storico attraverso la nascita della figura delle scrittrici, a cui per secoli «è stato insegnato a ritenersi marginali e parziali, incapaci di comprendere l’astratto, il grande, l’assoluto, l’universale». Portando l’esempio della letteratura inglese, Giacobino cita autrici che hanno scritto 150 anni prima di Jane Austen – la prima scrittrice riconosciuta dalla critica ufficiale – che sembrano essere sparite nel nulla. Come Margaret Cavendish (1623-1673), «una delle più famose – e vilipese – letterate del Seicento inglese», condotta all’isolamento dai suoi contemporanei perché osava scrivere. Oppure Aphra Behn (1640-1689), considerata una cortigiana perché si manteneva col suo lavoro di scrittura.

Dopo l’introduzione storica, Giacobino passa poi a raccontare le «sue donne» dimenticate – che mai come oggi vivono nel presente – raggruppate per temi che le rendono più affini tra loro, come «le guerriere». Di queste fa parte l’americana Audre Lorde (1934-1992), che si autodefiniva «nera, lesbica, guerriera, femminista, madre, poeta»; un’outsider, provocatrice. La sua scrittura si mette in lotta contro razzismo, sessismo, omofobia, classismo e tutte le «distorsioni» della nostra epoca. Ma questo è anche il capitolo della regina dei banditi, l’indiana Phoolan Devi (1963-2001) e della sua incredibile storia – fatta di ingiustizie, violenza, stupri, lotte di classe, povertà, abuso di potere – che fece narrare ad altre mani per via del suo analfabetismo.

Poi ci sono le «svergognate»: è il capitolo, per esempio, dove compare la francese Violette Leduc (1907-1972) che, senza pietà, «scrive proclama, lamenta, grida sé stessa», il suo piacere sessuale e l’eros tra donne – tormentato, come la sua esistenza – e si innamora di Simone de Beauvoir, sua madrina letteraria. Mentre nel capitolo «sui confini dell’identità di genere» trova posto anche Anne Lister (1791-1840), personaggio che sembra appartenere alla nostra epoca, e a cui siamo debitrici per aver introdotto nella narrativa dell’Ottocento (attraverso i suoi diari segreti) il corpo e la sessualità femminile, e per averci lasciato le descrizioni delle sue amanti e del piacere lesbico con una sorprendente modernità.

Poi ci sono le autrici protagoniste di «travestitismo e transgenderismo letterario» (come Patricia Highsmith e Carson McCullers); «le vampire», «le peccatrici punite» (tra cui i personaggi femminili raccontati da autori maschi, cioè le «grandi adultere» dell’Ottocento, un caso per tutti: Madame Bovary), e infine «le figlie delle rivolte» (Valerie Solanas, la donna che nel 1968, a New York, sparò tre colpi di pistola ad Andy Warhol e poi scrisse il Manifesto Scum Carla Lonzi, dal quale secondo Manifesto di rivolta femminile è tratto il titolo di questa raccolta) e «le strade solitarie» (Annemarie Schwarzenbach e Flannery O’Connor).

Non possono bastare poche righe per rendere gli universi di queste autrici, descritti con profonda conoscenza da Giacobino. Ognuna di loro è stata considerata «pazza» per aver scritto, o per averlo fatto in contrasto col suo tempo; ognuna di loro ha avuto qualcosa da dire, e l’ha detto «da sola». Ora lasciamole entrare dalle nostre porte, lasciamole sedere sui banchi delle nostre classi, facciamoci svegliare dai loro sussurri notturni. Per troppo tempo sono state taciute, è ora di lasciarle urlare.


(https://27esimaora.corriere.it/23_marzo_17/scandalose-fuori-canone-anne-lister-carla-lonzi-ecco-scrittrici-dimenticate-margherita-giacobino-600846b2-c17a-11ed-839f-35544f562c09.shtml, 17 marzo 2023)

di Pinella Leocata


Una mostra, un’istallazione e vari interventi per celebrare l’8 marzo e “L’onda luminosa del femminismo”. Questo il nome che le donne de La Ragna-Tela e de La Città felice hanno voluto dare alle loro iniziative volte a fare conoscere e a promuovere le conquiste delle donne e delle femministe nel corso degli ultimi decenni. Il femminismo, dicono, «è un’onda luminosa che irrompe e non si arresta, che s’impenna e dilaga, che ridà senso e gioia alla vita e al mondo». Un approccio diverso da quello vittimista e meramente rivendicativo. «Rivendicare i diritti è importante, a partire dalla parità salariale – dice Mirella Clausi alle studentesse e agli studenti presenti in piazza Università – ma è importante immettere la nostra visione del mondo. Noi donne abbiamo un modo diverso di sentire degli uomini e dobbiamo riuscire a fare mondo con il nostro pensiero e il nostro sapere».

Pensieri che si moltiplicano nei vari interventi dedicati alla lotta delle donne in Iran, Afghanistan e Kurdistan e volti a sollecitare e a pretendere un “addio alle armi”, in Ucraina come in altre parti del mondo. A fare la guerra – denunciano le promotrici – «non è più il patriarcato che hanno conosciuto le nostre nonne e le nostre madri e che non esiste più grazie alle donne. Gli è subentrata la “fratria”, fatta di confraternite maschili, che possono includere anche le sorelle. La fratria fa la guerra e non ascolta la lingua-ragione». E ancora interventi contro chi «vuole cancellare tutte le differenze e rendere il mondo un deserto asessuato di surrogati e robot che sostituiscano la ricchezza delle relazioni di corpi sessuati». «Noi che amiamo la vita – concludono – diciamo no alla mercificazione dei corpi con le più sofisticate tecnologie». E questo significa porre «fine alla pulsione mortifera dell’ultraliberismo».

Intanto sull’istallazione che riproduce un’onda azzurra, opera di Cettina Rovere e Carmina Daniele, “galleggiano” libri, riviste e quotidiani delle origini del femminismo. E di questa lunga storia parla – come spiega Anna Di Salvo – anche la mostra “Storia, documenti e immagini del femminismo in Italia dal 1965 al 2005” che racconta, con cartelli e immagini, le tante conquiste delle donne: la legge sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la legge per la realizzazione degli asili nido indispensabili perché le donne possano dedicarsi anche al lavoro, la legge sull’interruzione della gravidanza, e quella contro la violenza sessuale. E poi le tante manifestazioni per la pace e contro la guerra e le conquiste realizzate da artiste, scienziate, letterate, ambientaliste, filosofe, economiste, pacifiste. E ancora notizie su testi cult del movimento femminista, a partire da “Noi e il nostro corpo” scritto da autrici americane, e “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti. E ancora “La passione secondo G.H.” di Clarice Lispector, “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro, “La politica del desiderio” di Lia Cigarini, “Speculum” di Luce Irigaray. E poi le riviste “Mezzo cielo”, “Noi donne”, “Differenze”, “Diotima”. Tutte tappe di un percorso rivoluzionario, di un’onda lunga e “luminosa”.

La mostra sarà esposta nelle scuole che ne faranno richiesta e nelle sedi delle associazioni che hanno promosso le iniziative di questo 8 marzo insieme a La Ragna-Tela e a La città, e cioè Coordinamento donne Cgil, Udi, Centro donna, e Fare stormo di Misterbianco.


(La Sicilia, 9 marzo 2023)

di Greta Privitera


Marjane Satrapi dice parolacce a raffica. Le dice quando ride, ma anche quando si infervora contro il regime. Le piace soprattutto «Fuck them», che di solito fa seguire ai nomi di chi governa il suo Paese, l’Iran, dal quale manca da ventitré anni. La scrittrice, fumettista e regista, si definisce una «old fart», tradotto gentilmente una «vecchia bacucca». 
Dal suo appartamento parigino fuma sigarette e guarda con ammirazione la nuova generazione di iraniane e iraniani che fanno la rivoluzione. Sei mesi fa veniva uccisa Mahsa Amini, la ventiduenne curda ammazzata di botte per una ciocca di capelli che sfuggiva dal velo, diventata il simbolo di chi lotta per la libertà. Ma 181 giorni dopo quel 16 settembre, il bilancio è drammatico: oltre 20mila gli arresti, quasi 600 le persone uccise, quattro impiccati. Le Guardie della rivoluzione hanno sparato, represso e terrorizzato, e le strade, a poco a poco, si sono svuotate. 
Le proteste continuano soprattutto sui social e sui muri delle città mentre all’estero ci si chiede se Khamenei e i suoi non abbiano già vinto. Nelle ultime ore, però, i profili Instagram degli attivisti e di Satrapi sono invasi da video di manifestazioni per il capodanno persiano, che contano già morti e feriti. L’autrice del capolavoro Persepolis scrive in francese: «Dedicato a tutti quelli che credono che la rivoluzione iraniana sia finita». La rivoluzione, spiega, è uno tsunami. 
Cioè? 
«Prima c’è il terremoto, poi le piccole onde. Sembra che tutto si fermi ma all’improvviso arriva quella di sei metri che spazza via tutto. È fisiologico che dopo essere stati colpiti agli occhi, violentati, messi in prigione, torturati, i giovani siano quasi spariti dalle strade. Ma la paura non basta più, i veli sono abbassati, è la fine del bullo». 
Che cosa intende? 
«Una volta che smetti di temere il bullo, lui perde la sua forza. Se gli tiri un pugno magari ti rompe un dente, ma tu colpirai ancora perché ti sei liberato: stiamo per ricolpire». 
Perché questa rivoluzione è diversa dalle altre? 
«È caduta la cultura patriarcale e misogina. Nel 1979 solo il 40% degli iraniani sapeva leggere e scrivere, oggi più dell’80%, soprattutto donne. Il regime ha creato moltissime scuole per indottrinarci, ma ha fatto male i conti: una volta che sai leggere, leggi quello che vuoi e sei libero». 
La sua generazione sapeva già leggere. 
«Sì, ma avevamo ancora paura. Tutte le generazioni precedenti a questa hanno subito un trauma: lo scià, la rivoluzione del ’79, la guerra contro l’Iraq. La Generazione Z non conosce guerre, né uccisioni di massa. E, soprattutto, ha Internet, la chiave di tutto. Noi conoscevamo il mondo tramite il mercato nero. Questi giovani sono come i coetanei di New York e Parigi. Sfidano il regime ballando su TikTok mentre l’ayatollah è fermo al medioevo e non li capisce. La Repubblica islamica è già finita». 
Personaggi della diaspora, come il principe Reza Ciro Pahalavi e l’attivista Masih Alinejad si dicono disponibili a traghettare l’Iran verso un referendum. Che cosa ne pensa? 
«Aiutare la transizione può essere una buona cosa. Ma i leader futuri non sono fuori, sono nelle prigioni, come Evin. Noi possiamo portare la loro voce all’estero, chiedere di mettere i pasdaran nella lista dei terroristi, dire ai governi occidentali di non fare affari con Khamenei. Ma ricordiamoci che noi abbiamo lasciato il Paese, loro no. Mentre parlo da Parigi, in Iran si prendono pallottole in faccia. Chiunque abbia mire personali faccia un passo indietro». 
C’è qualcosa che ci sfugge da qui? 
«Non mi piace che venga chiamata la rivoluzione delle donne. È sicuramente partita da loro, ma è forte perché è di tutti, è così femminista che non c’entra il genere. Ci sono donne, uomini, operai, studenti, minoranze, ricchi, poveri. In Iran sono stata fermata quasi sempre da guardie femmine». 
Quando? 
«Moltissime volte. Un giorno mi dissero: con le tue calze rosse metti in pericolo l’Islam». 
Ha nuovi progetti? 
«Ho in programma un film, ma non sulla rivoluzione, non voglio sfruttare il momento: è ancora tutto troppo caldo. Quando ho scritto le prime cinquanta pagine di Persepolis le ho rilette e rivisto la stessa rabbia delle guardie della rivoluzione. Mi sono fermata per prendermi la giusta distanza». 
Di questi sei mesi, c’è un’immagine che ha nel cuore? 
«In un video ho visto un vecchio signore di un villaggio curdo che diceva: “Se vuoi essere un vero uomo, sii una donna”».


(Corriere della Sera, 15 marzo 2023, apparso con il titolo «Iran, sei mesi di proteste. Marjane Satrapi: “I leader futuri sono in prigione, a Evin”»)

di Disarmisti Esigenti


UE: MELONI ALLA CAMERA IL 22 MARZO PER COMUNICAZIONI SU CONSIGLIO EUROPEO ED UCRAINA. 

Il PD della Schlein incalzato e stanato sull’atlantismo.

LA SOCIETÀ CIVILE FACCIA INVECE PRESSIONE – VERSO TUTTA LA POLITICA – SULLA SVOLTA PER UN PACIFISMO ESIGENTE E COERENTE


Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il prossimo mercoledì 22 marzo alle 9:30 terrà le comunicazioni alla Camera sul Consiglio europeo in programma a Bruxelles il 23 e il 24. Lo ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio.

Da parte dei commentatori politici l’appuntamento è stato inquadrato come un momento discriminante relativamente alla natura e all’assetto degli equilibri politici vigenti.

Sulla guerra in Ucraina il governo guidato dalla Meloni chiederà chiarezza filo-Kiev e filo-NATO, in particolare al Pd, ora capeggiato dalla nuova segretaria Elly Schlein; ma, a ben vedere, anche agli stessi alleati di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega. 

Da parte di Disarmisti esigenti & partners, e si spera da parte del pacifismo esigente, la pressione dovrà essere in direzione contraria: portare quanto più PD possibile, auspicabilmente tutto, e quanti più deputati in ogni partito, ad abbracciare una posizione che lavori per la pace per il tramite della pace (Questa contraddizione, a lavorarci bene, potrebbe essere approfondita nello stesso schieramento governativo di centro-destra attraversato dal “pacifismo utilitaristico”). 

Per quanto ci riguarda, Disarmisti esigenti & partners, abbiamo tenuto fede all’impegno proclamato nello striscione portato in piazza al corteo di Roma dei 100.000 il 5 novembre: «Riconvochiamoci, quando si vota in Parlamento, per protestare contro l’invio di nuove armi all’esercito ucraino».

Abbiamo infatti organizzato, dedicandoli ad Antonia Sani, e in collaborazione con altre forze nonviolente, presidi e digiuni di coerenza pacifista a Roma il 13 dicembre 2022 e, nel 2023, il 13 gennaio, il 24 gennaio e il 24 febbraio. Ora saremmo alla quinta mobilitazione che porteremo avanti con lo spirito determinato di sempre.

Organizziamo quindi, DE & partners, una conferenza stampa dei digiunatori e dei loro sostenitori – “portavoci del popolo” perché espressioni del sentimento pacifista della maggioranza degli italiani – in Piazza dell’Esquilino dalle ore 11:00 alle 12:00 nel contesto di un presidio che dovrebbe protrarsi dalle ore 8:00 fino alle ore 18:30.  


(Disarmisti Esigenti, 16 marzo 2023)

di Alessandra Sarchi


Sara De Simone è traduttrice e studiosa di Virginia Woolf ma ha deciso di dedicare il suo primo libro al rapporto che Woolf intrattenne nell’arco di cinque anni (1917-1923) con Katherine Mansfield. Quando ci incontriamo a Bologna, in una Salaborsa gremita per la presentazione, le chiedo: cosa l’ha spinta a voler indagare quella che ci era stata trasmessa perlopiù come una rivalità? «La prima idea del libro è nata mentre traducevo, con Nadia Fusini, il carteggio d’amore tra Woolf e Sackville-West. Qualche anno dopo la morte di Mansfield, in una lettera a Vita, Virginia osserva: “Che strane amiche ho avuto, tu e lei”. Una frase tanto breve quanto enigmatica. Mi sono chiesta cosa potessero mai avere in comune Katherine Mansfield e Vita Sackville-West, donne e scrittrici diversissime. Vita è – di fatto, assieme alla sorella Vanessa – la donna più importante nella vita di Virginia, mentre Katherine ci è stata spesso raccontata come una meteora nell’esistenza di Woolf, una collega più invidiata che amata».

«Ma allora perché Virginia mette assieme “l’adorata creatura” e la rivale, accomunandole sotto la definizione di “strane amiche”? Era una frase di nemmeno dieci parole, ma mi sembrò la chiave di un mondo. Quello di una relazione strana, singolare, vivissima, e – come purtroppo accade spesso per le storie di donne – ridotta da molti a un rapporto di mera competizione».

Nessuna come lei si legge come un romanzo ma ha la precisione e la puntualità di una scrittura frutto dello studio accurato dei diari, delle lettere e delle opere, tanto di Mansfield e di Woolf quanto della cerchia di intellettuali e artisti da loro frequentati in quel magico momento che furono gli anni venti del Novecento. Cosa ci rivela la quotidianità di queste due grandissime scrittrici? 
«La mole delle fonti è immensa. Da subito ho capito che non aveva senso scrivere un’altra biografia centrata sulle singole scrittrici. Ce ne sono diverse, e molto valide. Quello che mi interessava era la biografia di una relazione. Dovevo occuparmi di un arco cronologico breve, e certo molto intenso, ma proprio per questo potevo prendermi il lusso di indugiare nei dettagli, di seguire giorno per giorno Katherine e Virginia, non nei grandi eventi, ma in quelli minimi, andando a verificare di pari passo i pensieri e i movimenti dell’una e dell’altra. Ho costruito delle cronologie incrociate: oggi, lunedì, Virginia fa questo, Katherine fa quest’altro. È incredibile quanto, anche nei momenti in cui non si vedevano, le loro vite fossero intrecciate da pensieri e sentimenti comuni. Un giorno leggono lo stesso libro, e ne hanno la stessa opinione. Un altro sono ammalate entrambe, a letto, e fanno considerazioni simili, senza dirselo. Mi ha sempre affascinato il concetto di “amicizia stellare”. Due persone legate da un’amicizia profonda continuano a esserlo anche da lontano. Si rispondono e corrispondono ovunque siano. Woolf sopravviverà a Mansfield di quasi vent’anni, eppure il filo che le aveva unite, fino alla fine, non si spezzerà».

Katherine Mansfield muore a 34 anni di tisi. Eccentrica, esotica, bollata di sentimentalismo spesso dalla stessa Woolf, si potrebbe pensare a lei come a una meteora. Come si colloca invece Mansfield in relazione a Woolf e alla letteratura del ’900? 
«Mansfield è una pioniera del modernismo. Woolf impara molto da lei. Quando s’incontrano, nel 1917, Katherine è più avanti di lei nell’elaborazione di uno stile sperimentale. Certo, anche Virginia sta seguendo quella pista, ma la vicinanza e il confronto con Mansfield la influenzano e ispirano in maniera decisiva. Anche quando Katherine recensisce negativamente il secondo romanzo di Virginia, Notte e giorno, ritenendolo troppo tradizionale, dopo l’iniziale ferita, Woolf non può che riconoscere l’importanza di quel giudizio sincero. È una lezione di amicizia anche questa: Mansfield soffre moltissimo a scrivere quella recensione, ci rimette mano cento volte, eppure alla fine non può che dire la verità. Una verità che farà bene a Woolf e la aiuterà a scrivere il suo primo romanzo sperimentale, La stanza di Jacob».

Parliamo della gelosia o invidia che colpisce soprattutto Virginia nei confronti di Katherine. Si può essere amiche e in competizione? 
«Certo. Non si capisce perché tra uomini tutto questo sia lecito, mentre tra donne le possibilità siano solo due: o sorellanza idilliaca, senza pieghe e senza ambiguità, o velenosa competizione. I rapporti veri sono spesso attraversati da sentimenti contrastanti. Il punto, semmai, è che tenere le donne divise fa comodo a molti. Spesso anche alle donne stesse, che cadono in questo equivoco. Mansfield e Woolf non hanno paura di confrontarsi a viso aperto, e se ce l’hanno la superano, perché l’urgenza di aderire alla vita, per loro, è più forte».

Leggendo il suo libro si ha l’impressione che Woolf abbia messo a fuoco molte delle riflessioni sulla condizione femminile anche grazie al rapporto con Mansfield. Cosa rappresentavano l’una per l’altra
«Erano indubbiamente due donne molto diverse. Per certi aspetti complementari. Katherine è audace, libera, anticonformista. Si fa buttare fuori da un bus perché difende pubblicamente le suffragette, pur non facendo parte del movimento. Si sposa e pianta in asso il marito la sera stessa. Ama follemente una principessa maori. Impavida va al fronte, durante la prima guerra mondiale, per raggiungere un amante scrittore. Vive le passioni dell’anima e del corpo con estremo coraggio. Virginia è più timida, titubante, spaventata. Ma, in fondo, è animata dalla stessa audacia, dalla stessa libertà. Per questo è attratta da Katherine. Katherine è quello che lei non è, ma è anche quello che lei è, in una maniera più evidente, talora eccessiva. Il nodo è qui: Katherine è un’appassionata della verità e la pratica in ogni campo, dall’amore alla scrittura, alla spiritualità, senza riserve. Virginia a volte ne è turbata. Riconosce in lei un movimento quasi feroce, eppure sempre, profondamente, autentico. Non è un caso che, proprio quando Katherine muore, Virginia sia finalmente pronta a immergersi più pienamente nella vita: con i suoi romanzi sperimentali, e con l’amore per una donna».

Entrambe avevano dimestichezza con la malattia che fu vissuta non solo come prigione ma anche come momento di conoscenza. Le considera creature del buio o della luce? 
«Pur nelle loro differenze, sia Woolf che Mansfield sono state spesso raccontate come figure tragiche. Avevo voglia di parlare soprattutto della loro luce: sono donne di un’ironia travolgente, sempre capaci di cogliere l’aspetto comico della vita, sempre pronte a godere del ridicolo (in specie quando riguarda loro stesse). Insieme officiano vere e proprie “riunioni religiose in lode di Shakespeare”, insieme se la ridono di Joyce, leggendo ad alta voce il suo monumentale Ulisse , che tutti additano come un capolavoro, e di cui loro sanno rintracciare pregi e difetti, senza deferenza verso il genio maschile, ma anche senza alcun risentimento».


(Corriere della Sera, 16 marzo 2023)