di Rosella Redaelli


«Ho “tagliato” tante ragazze, alcune sono mie vicine di casa e persino mie nipoti. Lo facevo perché era un requisito culturale e anche per la statura sociale che il mio ruolo mi dava all’interno della comunità. Mi sono però resa conto che le mie azioni hanno causato più danni che benefici. La maggior parte delle ragazze che ho circonciso non sono più tornate a scuola e si sono sposate. Alcune di loro hanno avuto gravi complicazioni durante il parto e continuano a subire traumi. Ho deciso e giurato di non permettere più ad altre ragazze di sperimentare l’atroce atto del taglio». Mary Lesintiyo è un’ex tagliatrice, a lei le famiglie della contea di Samburu (Kenia) affidavano le proprie bambine per la pratica della circoncisione femminile. Una pratica antica, cruenta che può prevedere l’asportazione totale o parziale degli organi genitali esterni, il restringimento della vagina, spesso in condizioni sanitarie precarie e con gravi rischi per la vita delle donne.

La storia di Mary, tagliatrice pentita, è tra quelle raccolte nell’ambito del progetto Be4We dagli operatori di Amref, la più grande organizzazione senza fini di lucro a occuparsi in Africa di tutela della salute materno-infantile, di formazione sanitaria ed empowerment femminile. «Be4We è un progetto sostenuto dall’Unione Europea – spiega Daniela Rana, responsabile per Amref delle attività in Kenya e Uganda – partito nel gennaio 2020 in Kenia dove l’uguaglianza di genere è una promessa largamente incompiuta, dove c’è un alto tasso di mutilazioni genitali femminili». Nelle comunità nomadi di Samburu e Marsabit, nel centro-nord del Paese dove si è focalizzato il progetto, le pratiche di mutilazione genitale femminile si attestano tra l’86% e il 91,7%, i matrimoni combinati sono il 38% a Samburu e l’80% a Marsabit. Si stima che 574mila bambine keniote siano a rischio di subire mutilazioni entro il 2030.

«Poiché questa usanza – prosegue Rana – è radicata nella cultura della disuguaglianza di genere, per combatterla è necessario cambiare le norme culturali e sociali che contribuiscono a perpetuare la violenza. Per farlo abbiamo lavorato a livello comunitario, usando persone chiave come la stessa Mary, ma anche gli anziani, i leader religiosi, gruppi di donne giovani già consapevoli della necessità di cambiare». È un processo lungo, ma che paga nel tempo. Tra i successi che gli operatori di Amref possono raccontare c’è la dichiarazione di stop alle mutilazioni femminili sottoscritta dagli anziani del clan Samburu davanti all’ex presidente Uhuru Kenyatta, ma ci sono anche storie di empowerment femminile come quella di Dokatu Konchora, che ha ottenuto un microcredito, ha avviato un’attività di vendita di capre al mercato di Nairobi e ha costruito la sua casa.

«In questi tre anni – conclude Rana – abbiamo seguito oltre 600 donne, formato operatori sanitari e anche figure legali sensibili alla violenza di genere che possano essere un punto di riferimento per le donne che vogliono denunciare i loro maltrattatori, ma abbiamo anche lavorato perché le donne abbiano un ruolo attivo in politica e in venti si sono presentate alle ultime elezioni con lo slogan Eleggi una donna». Amref lavora anche in Italia perché le migrazioni hanno reso le mutilazioni genitali femminili un problema globale. Secondo gli ultimi dati in Europa vivono più di 600mila donne e ragazze con mutilazioni: in Italia le donne tra i 15 e i 49 anni sottoposte a mutilazioni sono 87.600.

Per loro è nato il progetto P-Act, rete di prevenzione e contrasto delle mutilazioni genitali femminili sulle minori straniere. Nelle quattro città capofila (Roma, Milano, Padova e Torino) sono stati già più di cinquecento gli operatori formati per relazionarsi con donne che hanno subito mutilazioni o violenze di genere. A Roma il 19 aprile è stato siglato un protocollo per attivare una rete specifica per la prevenzione e il contrasto della pratica, in particolare verso le minori. Della rete fanno parte i vertici della Asl Roma 1, l’assessorato alle Politiche Sociali e alla Salute, il direttore del Centro Samifo (Salute migranti forzati), la Società italiana di pediatria e tante realtà che, in ambiti diversi, possono avere un ruolo chiave nella tutela di donne e bambine migranti.


(Corriere della Sera, 15 maggio 2023)

di Mariangela Mianiti


In una città, nella sera che scende fra tetti, antenne, lampioni e insegne, spiccano alcune finestre illuminate. È, quella luce, il confine tra un fuori e un dentro dove può esserci di tutto, rapporti felici o relazioni tossiche, quindi un inferno.

Comincia con questa immagine fortemente simbolica Un altro domani, documentario diretto da Silvio Soldini e scritto dal regista con Cristiana Mainardi. Il sottotitolo, Indagine sulla violenza nelle relazioni affettive, spiega in che cosa si scava, che cos’è, come si entra e come si può uscire da un rapporto violento, prima che sia troppo tardi.

Prima di arrivare a un punto di non ritorno, la relazione violenta semina infiniti segnali. Come riconoscerli? Come far sì che quel percorso si arresti? A queste domande cerca di rispondere Un altro domani con testimonianze di donne, magistrati, forze dell’ordine, autori di violenze che hanno intrapreso una terapia, volontarie del Cadmi (Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano), terapeuti del Cipm (Centro italiano per la Promozione della Mediazione).

Il ritenersi padrone di una donna dentro una relazione, e quindi in diritto di maltrattarla, picchiarla, nasce da una cultura patriarcale secolare. Non la si cambia in pochi anni e non solo in modo repressivo, ma nel frattempo si può agire sui comportamenti. In quest’ottica, nel 2020, è nato il Protocollo Zeus che permette al questore di emettere un ammonimento con cui si intima al soggetto di non reiterare quelle condotte e lo si informa che può sottoporsi a un programma di prevenzione. È qui che si si assiste, dentro e fuori dal carcere, alle sedute degli operatori del CIPM con gli uomini. C’è chi cerca di giustificarsi, chi si tormenta, chi dice che non voleva fare del male, tutti hanno lo sguardo smarrito, si dicono consapevoli di avere sbagliato, di volere cambiare, «Perché finora ho sparso solo merda», «Perché ho un figlio e non voglio perderlo», ma riuscirci significa intraprendere un percorso il cui primo atto è riconoscere la propria parte oscura, la propria violenza, il secondo è imparare a bloccarla sul nascere.

Paolo Giulini, presidente del Cipm, dice: «I nostri non sono interventi terapeutici. Non curiamo nessuna patologia. Lavoriamo con queste persone per renderle consapevoli degli effetti delle loro azioni. Nell’80% dei casi le molestie si fermano, bloccando il rischio di escalazione».

Perché ormai lo sappiamo, e lo conferma anche Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano: «Il problema della violenza sulle donne non è delle donne, ma degli uomini. Sono loro a dover cambiare».

Per contro, anche le donne hanno bisogno di un’alfabetizzazione degli affetti. Alcune testimoni, ex vittime di maltrattamenti, raccontano di aver impiegato anni a riconoscere i segnali allarmanti «Perché lo amavo e lui diceva di amarmi», «Perché speravo di cambiarlo». Altre narrano l’incubo di essere perseguitate da un ex che non picchia, ma si infila nella quotidianità con una pervicacia talmente ossessiva da essere arrivate a sperare che lui le malmenasse per poterlo denunciare, perché qui sta l’altro problema, che le botte reali le vedi e quindi hai una prova, le minacce psicologiche non le puoi dimostrare, e quindi puoi solo sperare che qualcuno ti ascolti. Come dice Cristina Carelli, coordinatrice del Cadmi, «Con la denuncia bisogna costruire un sistema di protezione e consapevolezza attorno alla donna, non basta chiederle di denunciare».

Se è vero che la denuncia da sola non risolve il problema alla radice, non cambia la cultura, può evitare di arrivare a un punto di non ritorno, l’omicidio. Emblematiche sono le storie di Francesca e Giovanna. La prima a cinque anni ha visto il padre ammazzare la madre, alla seconda il marito ha ucciso una figlia, una bambina. Entrambe hanno voluto incontrare tempo dopo l’omicida, per capire se c’erano tracce di pentimento. Hanno trovato solo silenzio, nessuna consapevolezza di ciò che avevano fatto. Chiusi dentro il loro gesto di possesso e di morte.


(il manifesto, 13 maggio 2023)

di Gaia Piccardi


Cos’è l’immagine che ha su WhatsApp?

«Il musico del ritratto di Leonardo da Vinci. Mi sembrava coerente».

Massimiliano Pani, sessant’anni, figlio dell’amore – e del peccato – tra un grande attore sposato (Corrado Pani) e una grandissima cantante (Mina), nato nel ’63 quando il divorzio non c’era, compositore, arrangiatore, produttore.

C’è mai stato un momento in cui la musica non ha rischiato di diventare un mestiere?

«Papà era un primo attore della prosa. In vacanza con lui passavo infinite ore ad assistere alle prove dei suoi spettacoli, da Goldoni a Miller, da Shakespeare a Brecht e Ibsen. Spettacoli che anche solo nel vederli nascere ti tremavano i polsi per quanto era bravo. Ho capito subito che recitare non sarebbe stato il mio lavoro: non mi appassionava. Poi, un giorno, ecco che prova il Peer Gynt, che ha dentro tantissime musiche. Rimango folgorato dalle melodie. Ho sei anni».

Cosa la trapassa, esattamente?

«L’emozione, che può arrivare anche a un bambino a digiuno di tutto. La musica mi è entrata nell’anima e non ne è più uscita. Ho chiesto di studiarla, i miei mi hanno assecondato: in casa, con Mina, se ne ascoltava già tantissima. Mamma ha cominciato a consigliarmi, non solo cose della mia generazione. Da quel momento ho incontrato una ricchezza enorme. I primi amori? Chet Baker, Guccini, il tango di Piazzolla. Alla Basilica, lo studio di registrazione di Milano, mi mettevo in un angolino, mi facevo piccolo piccolo e ascoltavo, come l’apprendista nella bottega rinascimentale. Con Mina si saltava di palo in frasca, senza confini né limiti. Perché la musica non si divide in generi, si divide in bella o brutta».

Il primo 45 giri.

«A sedici anni scrissi con un amico, Valentino Alfano, due brani: Sensazioni e Il Vento. Sperimentavamo in cantina, come tanti ragazzi. Vittorio Buffoli, direttore artistico della Pdu, ascolta i nostri pezzi, non gli dispiacciono, li porta a mamma, che è sempre stata aperta alle collaborazioni con i giovani, vedi Blanco nell’album uscito da poco. Entrambi i brani entrano in Attila, disco del ’79. È iniziata così».

E come è proseguita?

«Con Piero Cassano, che in quegli anni si era separato dai Matia Bazar. Cassano, Mario Robbiani e Celso Valli sono stati la mia formazione. Piero mi vede seduto nell’angolino dello studio: so che vuoi fare l’autore, mi dice, ti do una cassettina di cosette da finire… La nostra collaborazione va avanti ancora oggi. Certo ammetto di avere avuto il vantaggio di imparare da gente che lavorava con Mina, cioè i migliori. Come Gianfranco Zola ragazzino, che al Napoli apprese le punizioni da Maradona. Grande scuola».

Primo 45 giri comprato.

«Due, ma erano cassette. Dark side of the moon dei Pink Floyd e La Casa del Serpente di Ivano Fossati. Li presi con la paghetta settimanale».

Come è fatta una bella canzone?

«Non va spiegata: devono capirla tutti, dal filosofo all’operaio, uomini e donne, grandi e piccoli. Deve far leva su sentimenti universali, trasversali, globali. Deve avere forte la musica, poi arriva il testo. I brani che hanno migliore il testo della melodia sono più poesie che canzoni. Poi c’è chi ha saputo coniugare tutto magistralmente. Battisti, Fossati…».

Una canzone che avrebbe voluto scrivere?

«Penso a Jobim, che è riuscito a scrivere musica raffinatissima arrivata anche alle massaie, connubio tra un altissimo livello musicale e la capacità di toccare la gente comune. Perché una canzone pop, o popolare, può essere alta. Fossati è stato un eccellente scrittore di musica e parole, ad esempio. E poi Giorgio Calabrese, paroliere genovese, un gigante. Ho scritto una ventina di canzoni con lui: quando incontri un fuoriclasse, lo riconosci».

Essendo stato generato da due fuoriclasse, Corrado Pani e Mina, parla con cognizione di causa.

«Mia madre e mio padre sono stati Roger Federer. Cioè hanno fatto sembrare semplici le cose difficilissime. Ma alla base c’è un lavoro enorme, uno studio ininterrotto. Gianni Ferrio, il musicista dietro Studio Uno e Teatro 10, è un altro Federer: il più grande arrangiatore italiano, con competenze e cultura musicale di livello mondiale, bravissimo a mantenere la linea drammaturgica di un brano. Scrivere un pezzo strano è facile; farlo alto e bello, è tutta un’altra storia».

In una vita di incontri straordinari, qual è stato il più straordinario fin qui?

«Mamma».

Troppo facile.

«In assoluto la personalità più affascinante in cui mi sia mai imbattuto. Papà diceva: ho lavorato con tutti i grandissimi ma di fuoriclasse ne ho conosciuti solo due, Carmelo Bene e Mina».

Scusi ma non ha mai avvertito un senso di inadeguatezza al cospetto di questi giganti?

«Detesto i figli d’arte: sono spesso dei piagnoni lamentosi. Per questo motivo ho scelto subito di non fare né l’attore né il cantante: era talmente lampante che non avrei mai avuto la personalità di papà e il genio di mamma, che ho rinunciato subito al confronto. Una battaglia persa. Ho capito immediatamente che non ero di quella pasta lì, impossibile superarli nel loro lavoro, quindi non ci ho mai sofferto. Però lo stimolo a migliorarmi l’ho sempre avuto».

Il talento di Mina, al di là della voce, qual è?

«Saper vedere le cose in anticipo. Mentre parliamo, Mina è prima con Blanco nelle radio e l’album è in vetta negli store digitali. Eppure non ha social e sono quarantacinque anni che non fa concerti e non dà interviste. È agli antipodi delle leggi della comunicazione mainstream. Abbiamo fatto un’indagine di mercato: il suo pubblico va dai 20 ai 35 anni, persone che non l’hanno mai vista dal vivo. Pagano le scelte fatte con coraggio, libertà e coerenza: la gente la segue per questo».

Scelte necessarie per la sua visione, certo, ma anche per il suo benessere psicofisico?

«Sì. Siamo venuti a Lugano perché voleva mandare noi figli alla scuola pubblica: a Roma o Milano non sarebbe stato possibile. La polemica sulle tasse è assurda. Negli anni ’70 le tasse in Italia non le pagava nessuno. Mina è andata in Svizzera per poterle pagare, perché aveva bisogno di sentirsi una persona normale. Chi dice il contrario non ha capito nulla di mia madre».

Quando ha intuito che era ora di ritirarsi?

«Quando ha capito che la tv di qualità eccelsa che faceva stava cambiando. Impossibile mantenere quel livello qualitativo. La Emi le rescinde il contratto? E allora Mina fonda con il padre Giacomo (Mino) una sua etichetta di famiglia, la Pdu, e si concentra solo ed esclusivamente sul produrre dischi come e quando vuole lei. E comincia il lavoro di distruzione della sua immagine. Vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga, si traveste: diventa scimmia, culturista, donna barbuta, papera. Ribalta le leggi dell’industria e va avanti imperterrita per la sua strada, con tutti i rischi che una scelta così controcorrente comporta. Prima che per la voce, Mina ha vinto per la sua intelligenza».

Tutt’altro che artificiale. Ma intelligenza è un concetto largo: le qualità di quella di Mina?

«L’autocritica, l’ironia. Mia madre è la persona meno diva del pianeta. Mi viene in mente Sinatra, che ancora oggi è il più bravo di tutti ma non è riuscito a diventare altro dalla meraviglia di sé stesso. Mina è più forte del suo personaggio. Bevi il caffè insieme, guardi il telegiornale, lei dice una cosa e tu pensi: ma perché non ci ho pensato io? Sento i ragazzini dei talent ripetere: ah, io desidero essere me stesso. Ma tu chi sei? Tutti sanno tutto, nascono già imparati. La cosa brutta dei talent è che sono concepiti al servizio della tv: devono creare ascolto e vendere gli spazi pubblicitari. Non sono al servizio della musica. Ogni tanto, ci trovi anche uno che canta bene. E poi avanti il prossimo, con un meccanismo di una crudeltà assoluta. Ma Billie Eilish, per citare una brava, non è uscita da lì».

Lei, Massimiliano, a chi somiglia?

«Gli occhi azzurri, miei e dei miei due figli, sono di papà. Edoardo è più Mazzini: alto come il nonno, di poche parole, super-ironico tipo Mina. Axel, padre di Alma e Corrado (quindi io sono nonno e Mina bisnonna!), è più ramo Pani: espansivo con chiunque».

Crede nel destino?

«Daniel Barenboim dice che la musica è come il sonno: di giorno non ti serve, ma prova a stare senza. Avrei potuto fare un altro lavoro, non è successo. Credo nei mestieri di famiglia, dal notaio, al panettiere, al musicista. Tornando indietro cercherei di non rifare certi errori: a volte non ho letto nel modo giusto la vita. Ma se rinascessi mi riavvicinerei alla musica, comunque».

Il 23 agosto 1978, all’ultimo concerto di Mina alla Bussoladomani, lei c’era?

«Avevo quindici anni, è stato l’unico concerto di mia madre che ho visto dal vivo».

Cosa ricorda con più vividezza?

«L’impatto della sua personalità sul pubblico: finiva una canzone e la platea esplodeva, faceva un gesto e la gente ammutoliva, stregata dalla sua dimensione emotiva. Si erano tutti, dal primo all’ultimo, consegnati a lei, officiante di un rito collettivo. Impressionante».

Una forma di potere e una possibile fonte di assuefazione. Serviva un’anima evoluta per rinunciare a tutto ciò.

«Sicuramente serviva un’anima libera. Lady Gaga, che trasuda talento da ogni poro, ha visto le cover di mamma ed è impazzita. Liza Minnelli sostiene che Mina sia la più grande cantante del mondo. Mamma ha fatto le sue scelte in coscienza e follia, senza cedere alle lusinghe dell’ego, dell’ambiente e del pensare comune. Non ama i vestiti né i gioielli, non è un’accumulatrice di oggetti: a Lugano vive nello stesso appartamento dal ’77. La verità è che Mina non è una cantante, è un’intellettuale. Ha rinunciato a tutto, anche a una montagna di soldi, con una serenità che tutt’oggi le invidio».


(Corriere della Sera, 13 maggio 2023)

di Vincenzo Mattei


Patrizia cammina sicura nel corridoio del laboratorio Gomitoli della cooperativa sociale Dedalus di Napoli, un fare spigliato, disinvolto ma deciso, il corpo si muove a suo agio come se avesse sempre sfilato. La rottura del timpano per le botte subite dal marito violento sembra solo un ricordo. «Oggi sono una donna libera, non ho più paura. A maggio del 2021 decisi di andare via di casa con i miei figli per tornare dai miei genitori e lo stesso giorno denunciai il mio ex marito per violenza e per minaccia. Da lì è iniziato un processo per ritornare a vivere, oggi se mi giro indietro mi domando da dove sia venuta fuori tutta questa forza. Decisi di intraprendere un percorso con una psicoterapeuta, per farmi aiutare dopo tante umiliazioni. La violenza psicologica riesce a uccidere le persone, chi la subisce dentro è spenta anche se da fuori sembra uguale. Quindi mi rivolsi al centro antiviolenza di Archibugi dove mi consigliarono di andare alla Dedalus», afferma Patrizia (nome di fantasia).

Il pubblico fatto di pachistani, algerini, marocchini, italiani, russi, egiziani… applaude le modelle-madri. Ognuna ha cucito la propria borsa con materiale da riciclo e il proprio abito. Mentre le protagoniste sfilano si sente un audio in cui raccontano la propria storia condensata in una frase significativa della propria vita. «Le cose si imparano anche con la dolcezza. Questa è la mia eredità e cerco di fare lo stesso», è la frase che ha scelto Patrizia. «Dalla mattina alla sera sorrido. Finita la giornata, di sera piango tanto. Oggi dico la mia: basta, ho finito di piangere, io sono forte. Basta!», è la voce dell’egiziana Asma Ghoraby.

«Patrizia ha subito per vent’anni, poi durante il Covid ci sono stati degli eccessi di violenza dovuti alla forzata permanenza in casa, all’ospedale ha capito che non poteva più andare avanti, che era troppo, così si è rivolta al nostro centro», parla Tania, la responsabile del settore antiviolenza di Dedalus.

«Prima eravamo al Centro Direzionale, troppo limitrofi, da sei anni ci siamo trasferiti al Lanificio a Porta Capuana, in un quartiere ad alta densità di migranti, questo posto è simbolico. La cooperativa è venuta qua con l’intento di attivare una rigenerazione urbana di un territorio spesso abbandonato dalle diverse amministrazioni. Quest’area multiculturale ha le scuole con il più altro tasso di bambini che vengono da fuori Italia. Sono soprattutto adolescenti stranieri che hanno bisogno di un sostegno per fare i compiti, perché i genitori spesso sono di seconda generazione o sono venuti qua da piccoli, quindi non parlano italiano e non possono seguirli e aiutarli a casa», spiega Carmen Vicinanza, responsabile della comunicazione di Dedalus e fondatrice del blog femminista «Una donna al giorno».

Dedalus ha diverse attività per gli adolescenti del quartiere e non solo per stranieri. Si spazia dai corsi di fotografia, di pittura, di arti visive, di teatro, hanno una webradio e fanno book crossing per la città in cui i ragazzi leggono testi per strada o nelle piazze napoletane. Il contrasto alla povertà educativa è chiaramente uno dei progetti della cooperativa che fornisce una serie di strumenti e attività per poter garantire la convivenza, l’integrazione e cercare di far uscire delle capacità nascoste.

«Alla sfilata c’erano molte mamme con l’hijab che prima di frequentare il nostro laboratorio di sartoria non socializzavano. La sorella di una delle modelle mi ha raccontato che vive a Napoli da ventun anni e che non usciva mai di casa perché non sapeva cosa fare, non aveva idea di come e dove poter apprendere l’italiano, conosceva solo le nozioni minime per fare la spesa. Due volte a settimana teniamo il corso di educazione ai sentimenti insieme alle mamme che si chiama “Un tè con le ragazze”, così sorseggiando il tè, ci si racconta in una sorta di autocoscienza collettiva per sentirsi meno sole e socializzare. Inoltre, molte di quelle donne che stanno giù in sartoria le abbiamo intercettate durante le lezioni d’italiano dei figli. Così anche loro hanno iniziato a studiare la lingua e poi hanno trovato delle affinità con i nostri laboratori, tanto da parteciparvi. Si parte dai ragazzi, si arriva alle mamme e da lì a tutto il contesto familiare», afferma Carmen.

Attraverso questa dinamica sono uscite delle problematiche rilevanti spesso sottovalutate o non considerate a livello mediatico come i matrimoni combinati e forzati in Italia. «Almeno in Campania, la nostra è stata la prima ricerca. Parlando con delle allieve che facevano parte del nostro centro interculturale, sono fuoriusciti due casi di ragazze promesse in sposa che poi sono sparite, rimpatriate in Pakistan per decisione della famiglia», analizza Carmen. Agire all’interno delle mura domestiche è un percorso tortuoso e complicato, le mura di casa sono insormontabili a meno che non ci sia qualcuno da dentro che apra la porta. «Ci si sposa per commissione perché avere una figlia da maritare diventa un potere contrattuale potentissimo per chi deve prendere il permesso di soggiorno dall’estero».

Infatti esiste un divario immenso per ciò che si vive nel Lanificio, con gli amici e la famiglia. «È uno shock culturale per molti ragazzi e ragazze, perché spesso a casa hanno la mamma che praticamente non esce, magari molto religiosa, e il padre che decide cosa deve fare la figlia, cosa dire, come vestirsi, mentre alla Dedalus incontrano coetanei di diverse nazionalità con cui nascono anche storie d’amore. Quindi proviamo a intervenire cercando di comunicare con le famiglie per ammorbidire alcune posizioni, c’è un progetto in particolare che si chiama “Grazia sotto pressione” in cui prendiamo in carico l’intero nucleo familiare e non la singola persona», conclude Carmen.

Asma Ghoraby è de Il Cairo, è arrivata in Italia nel 2018 per far curare sua figlia di quattro anni al Santobono di Napoli. «Non sapevo fare nulla, mentre ora so cucire i giacchetti e le borse, ho imparato molte cose. All’inizio non avevo nessun amico o amica, poi ho conosciuto delle persone alla sartoria con le quali ci incontriamo anche fuori e ora sono contenta di avere delle amiche con le quali parlare, i primi anni ero proprio triste perché ero sola. La mia storia è abbastanza complicata, perché ho perso mia figlia da qualche mese ma già prima che accadesse avevo deciso di uscire, di non rimanere nel guscio, per imparare qualcosa e magari iniziare a lavorare», Asma prende una pausa, i suoi occhi per un momento sono in un altro luogo. «Ho un’altra figlia, di sedici anni. È importante continuare a vivere, quando mia figlia di otto anni è morta ero a pezzi perché avevo dato tutto per lei. Poi un’amica quando mi ha visto così depressa mi ha detto di venire alla Dedalus. Ti insegnano a cucire, puoi incontrare persone, imparare l’italiano…», un accenno di sorriso per un attimo sembra scacciare le ombre del passato «… per me è stato importantissimo», conclude Asma.

La sartoria di Dedalus è anche un coinvolgimento emotivo e sociale trasversale che agisce in diversi ambiti ed età. «Nel mese di novembre del 2021 iniziai il corso di sartoria, alla vista delle macchine mi brillarono gli occhi, si risvegliò la passione che era stata repressa. Infatti sono cresciuta in un’azienda di borse di pellami di proprietà di mio padre, ero e sono macchinista di pelli. Tutti ovviamente hanno notato la mia dimestichezza e manualità, e giorno dopo giorno sono rinata sempre di più. Poi mi è stata offerta una borsa-lavoro, e mi sono ritrovata a insegnare a cucire a ragazzi e ragazze che venivano al corso», afferma Patrizia commossa.

«Mi chiesero di sostituire l’insegnante Antonella nei giorni in cui lei non poteva, così mi sono ritrovata in un mondo meraviglioso. Ero lì per insegnare qualcosa alle ragazze che mi hanno praticamente resa consapevole del fatto che si può rinascere. Quando veniva Asma per raccontarmi la sua vita mi infondeva fiducia perché si fidava di me, raccontandomi la sua storia aiutava la mia autostima. Mi è successo tante volte con le donne della sartoria, è fantastico perché ti rendi conto come il cucire è l’ultima cosa: lì c’è sorellanza, siamo tutte uguali, c’è affetto, c’è il rispetto, c’è tutto e poi c’è la sartoria!», continua Patrizia.

Mariola, polacca sposata con un tunisino e a Napoli da più di vent’anni è la responsabile di Ciak si cuce, il laboratorio sartoriale in cui le protagoniste sono proprio le madri. «Abbiamo iniziato con l’atelier un anno prima del lockdown, ma solo da due anni è diventato corso di formazione che rilascia un attestato di frequenza spendibile», precisa Mariola. Al momento è in fase di avvio una collaborazione tra Dedalus e l’Università Federico II di Napoli al fine di realizzare borsette a tracolla per gli smartphone. «Molte donne sono arrivate tramite passaparola, qualcuna è venuta direttamente a chiedere delle informazioni, altre tramite i figli che frequentano i nostri lavoratori. Qualcuno è arrivato perché è beneficiario dei nostri progetti, come le donne che sono nelle strutture di antiviolenza o i giovani che si trovano nelle nostre case per minori stranieri non accompagnati», puntualizza Mariola.

Patrizia è una di queste persone, durante la sfilata del 7 marzo organizzata da Dedalus anche i suoi tre figli erano presenti e applaudivano insieme a tutto il pubblico. «Ci occupiamo tantissimo della ricostruzione del rapporto madre-bambino perché una donna che subisce maltrattamenti per anni è nei fatti lesa nella sua capacità genitoriale, non perché non sia una buona madre, ma perché le violenze abbattono l’autostima. Il maltrattante che picchia fisicamente la propria compagna la denigra anche moralmente, molte di queste umiliazioni avvengono davanti ai figli, quindi la donna viene sminuita ai loro occhi. Quando vengono nelle strutture di accoglienza uno dei lavori importanti delle operatrici è quello di ricostruire il rapporto tra madre e figlio, anche quel rapporto di autorevolezza che giustamente un genitore deve avere. Se un bambino piccolo che ha bisogno di cure vede che il suo principale datore di cura, la madre, è svilita, umiliata, costantemente in pericolo, tra virgolette perde fiducia nella sua capacità di proteggerlo, di conseguenza il suo datore di cura smette di essere un adulto di riferimento», Tania prende una pausa, è visibilmente coinvolta dai vari meccanismi di violenza che si instaurano dentro casa.

«Nel centro di accoglienza lavoriamo molto su questo aspetto, Save the Children lo diceva già qualche anno fa che in Italia ci sono 400.000 bambini vittime di violenza assistita. I bambini che vivono all’interno di case dove si consumano i maltrattamenti non c’è bisogno che li vedano, la violenza il bambino la percepisce sulla pelle, perché la madre dopo che è stata picchiata dal compagno e sminuita psicologicamente di certo non gli sorride. Il grande errore che delle volte viene commesso dalle istituzioni è che non capiscono che il maltrattamento non si consuma davanti ai figli, ciò induce le autorità a sottostimare la situazione», conclude Tania.

«Il problema sorge quando lui pensa effettivamente che tu sia diventata la sua preda, quando sa di averti preso, in particolare quando tiene in pugno i tuoi figli. Perché la violenza psicologica è quella più elevata? Perché incomincia proprio da lì, e noi spesso abbiamo difficoltà a vederla perché si inizia con piccole rinunce, in realtà è proprio questo l’inganno», è Giovanna (nome di fantasia) dell’associazione Maddalena di Fuorigrotta, vittima di violenza domestica, che parla davanti a un pubblico prevalentemente femminile al teatro Trianon Viviani di Napoli dove Dedalus e diverse associazioni tengono una conferenza con il titolo «Oltre l’8 marzo» presieduta da Marisa Laurito.

«Inizialmente quest’uomo sembra perfetto: ti comprende, ti sta a fianco, estremamente empatico, fino a che non capisce che è il momento giusto per creare un precedente, un piccolo litigio di cui voi sarete ignare responsabili. L’intento è di far sorgere in voi il senso di colpa. Allora la restrizione inizia dal divieto al caffè con le amiche o dal: “Come mai sei così truccata? Dove devi andare? E con chi?”, mentre noi cerchiamo di rincorrere quello che c’era all’inizio, ma non lo troveremo più, perché quello era l’inganno per poterci soggiogare. La responsabilità non è nostra e il prenderne consapevolezza è difficile, perché ci hanno insegnato che dobbiamo salvare la famiglia a tutti i costi. Infatti, uno degli slogan che abbiamo nei volantini del centro antiviolenza di Fuorigrotta è “Io non tolgo il padre ai figli, tolgo un uomo violento”». Giovanna racconta di come si è resa conto di essere vittima di violenza tramite suo figlio di due anni e mezzo che aveva iniziato a balbettare, a soffrire di enuresi notturna, a non voler frequentare altri bambini. «Il neuropsichiatra della Asl non mi credeva, pensava che esagerassi ma gli raccontai il cambiamento che aveva avuto mio figlio: era un bambino solare, dinamico, estremamente socievole, che in una settimana si era tolto il pannolino, mentre in quel momento avevo un bambino che si svegliava la notte, o meglio rimaneva con questi occhi ghiacciati aperti. Alla fine, decise di tenerlo in osservazione con una psicologa per quattro sedute consecutive, e così è emerso che il problema di mio figlio… era il mio. I figli delle vittime di violenza sono tra virgolette dei disabili non riconosciuti, sono individui che hanno sofferto estremamente», Giovanna prende una pausa di fronte a una platea silente ed empatica.

Giovanna analizza poi il comportamento dei maltrattanti. «I padri che fanno? Una vittimizzazione di secondo livello, forse si prendono gioco dei figli, a tratti strumentalizzandoli. Sono riuscita ad averne l’affidamento esclusivo mentre lui li può vedere soltanto in presenza di altre persone, eppure sapete che cosa ha fatto? Una volta mi permisi di chiedergli di accompagnare insieme a suo padre i bimbi dal barbiere perché avessero un riferimento maschile visto che di solito li portavo io. E cosa fece? Li legò alla sedia rasandogli i capelli a zero con la macchinetta mantenendoli con forza. I bambini quando tornarono da me, il giorno dopo era l’inizio della scuola, non volevano uscire di casa. E questo non lo riesci a spiegare, neanche quando vai in tribunale, la prima cosa che ti dicono, è se sei adeguata, se sei così… se sei capace», conclude disarmata Giovanna.

Tania di Dedalus punta il dito contro certi atteggiamenti dei mass media. «Il grande errore che viene commesso dai media, che forse deriva dal fatto che siano anche loro vittime del patriarcato, è utilizzare a volte dei termini quando si parla di maltrattamenti in ambito domestico che invisibilizzano le vittime. Penso ai casi di femminicidio: “Donna uccisa da un uomo vittima di un raptus”, raptus di cosa? “Il gigante buono che non accettava di essere rifiutato”, no, è un uomo che ha ucciso una donna, un assassino, punto. Oppure: “Il primo colpo di pistola l’ha sparato lei quando ha deciso di lasciarlo”. Questi titoli che acchiappano lettore rendono invisibile la vittima e giustificano lo stupratore, il violentatore, l’assassino! Bisogna cambiare il linguaggio di comunicazione, altrimenti passa un messaggio sbagliato».

«Il tema della violenza in ambito domestico è strettamente connesso al tema delle discriminazioni di genere, e al tema della violenza economica. Partiamo dal presupposto che in Italia il 50% delle donne è disoccupata, il 50% degli/lle italiani/e ritiene che in famiglia il principale soggetto che deve portare risorse economiche è l’uomo, mentre la donna prendersi cura della casa. Questa visione stereotipata dei generi fa parte della struttura della società e in parte comporta che le donne che subiscono maltrattamenti trovino molta più difficoltà nel diventare autonome. Perché le donne non si affrancano da un maltrattamento? Perché spesso non sanno poi come occuparsi economicamente dei bambini. Quindi, l’essere disoccupata o impegnata in un lavoro solo part-time non aiuta, la discriminazione all’interno del lavoro e nella società è strettamente connessa con la violenza», conclude Tania. I centri antiviolenza prendono in carico la vittima per affrontare il percorso di affrancamento sostenendola a livello economico e legale, spesso fornendo un appartamento dove vivere.

«Mi ruppe il timpano e oggi questa lesione fisica è permanente, avverto ancora dolori quando sento un po’ di vento… ma rispetto alle umiliazioni, al chiudersi in casa, a negarti l’amicizia, la famiglia e tutto il resto la menomazione fisica è proprio una passeggiata. Il dolore fisico non è nulla rispetto a quello psicologico, oggi ne sono totalmente fuori. Per me la sfilata del 7 marzo alla Dedalus è stata una rivincita personale, l’ho pubblicata sui miei social come la mia vittoria», sorride fiera Patrizia. «Ho voluto che venisse fuori l’eleganza, la femminilità, l’essere anche provocante, tutte qualità che avevo represso. L’allegria, la spensieratezza, la forza, però decido io, perché purtroppo ancora si sente in giro “Eh, ma quello ti ha guardato, gli hai dato troppa confidenza”, “Perché tu ti sei messa un pantalone così…”, non è giusto. Volevo che queste qualità venissero fuori alla sfilata, tutte me lo hanno confermato e sono felice. Inoltre posso dire che mi sono molto divertita, perché in fondo doveva essere un gioco: facciamo le borse, le gonne, la sfilata e mi sono ritrovata su Rai Tre, una serata meravigliosa, un sogno praticamente».

Patrizia ora sta facendo un tirocinio presso una ditta di tessuti nel napoletano, la sua amica Asma sta studiando per ottenere la borsa-lavoro e sostituirla alla sartoria, a breve Patrizia potrebbe essere assunta in maniera definitiva, un’altra rivincita che si è presa. «Auguro a tutte di venirne fuori, ma incontrare le persone giuste può salvarti, perché la vita non la perde solo chi viene ammazzato, nel vero senso della parola… io non ero solo morta, ero sepolta viva».


(Alias – il manifesto, 13 maggio 2023)


Sognare politicamente. Sognatrici nelle Corti e a confronto con l’Inquisizione


Conduce la filosofa Annarosa Buttarelli


Un progetto di: Scuola di Alta Formazione per Donne di Governo

In collaborazione con: Libreria delle donne di Milano


L’incontro si terrà in presenza dalle 10.30 alle 13.00 presso la Libreria delle donne di Milano, in via Pietro Calvi, 29.
Iscrizioni a questo link: https://forms.gle/Passioneprofetica

Contributo richiesto: € 50 per l’intero ciclo “Le donne pensano: Politica profetica”; € 15 euro per singolo incontro; gratuito per chi possiede la Tessera Accademica (costo annuale della tessera € 70, per info: info@scuoladonnedigoverno.it). Possibilità di partecipazione online.

Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Einaudi 2022. Si può parlare di Resistenza in modo non retorico? Cosa possono dirci oggi le centinaia di donne, che negli anni cruciali della seconda guerra mondiale, si spesero nella lotta al nazifascismo e cercarono di ridurre il danno che ogni guerra porta con sé? Scegliendo la forma narrativa, l’autrice ci immerge nella complessità del passato, tra veri momenti di gioia e altri dolorosamente drammatici, con le voci e le tante fotografie ritrovate negli archivi. Dialogano con l’autrice Mirella Maifreda e Marina Santini.

Per acquistare online La Resistenza delle donne:

https://www.bookdealer.it/goto/9788806253660/607

di Giancarla Codrignani


Nel 1947 la Birmania negoziò l’indipendenza dal Regno Unito in mezzo a lotte nazionaliste feroci: fu ucciso anche il generale Aung San, uno dei leader della trattativa. Lasciava una figlia di due anni alle cure della madre Khin Kyi, ambasciatrice in India, mentre la Birmania nel 1962 avrebbe incominciato a sperimentare la serie dei colpi di stato militari.

Cresciuta, la figlia lavorò per le Nazioni Unite, si innamorò, si sposò e nel 1988 rientrò per assistere la madre. Il paese protestava contro la dittatura di Bo Ne Win e Aung riprese le fila dell’impegno politico del padre e chiese al governo la formazione di un comitato promotore di libere elezioni: diventò immediatamente leader mentre ricominciava la repressione violenta dei militari.

Diventata segretaria della Lega Nazionale per la Democrazia, finì agli arresti, poteva espatriare per non più rientrare (era moglie di uno straniero, causa di esclusione politico-nazionalista); rifiutò. Ormai rappresentava l’opposizione democratica in un paese militarizzato che, tuttavia, aveva fissato per il 1990 le elezioni, vinte dalla Lega; Aung doveva essere premier, ma la giunta revocò i risultati elettorali e la riconsegnò agli arresti domiciliari.

Nel 1991 avviene la designazione al Premio Nobel, ma mentre Aung rifiutava di uscire dal paese, nessuno riusciva – nonostante l’intercessione del segretario Onu e di Giovanni Paolo II – ad andare a trovarla, nemmeno il marito che morì nel 1999.

La segregazione continuò, nonostante il caso della grande lady fosse sempre più internazionale, fino al 2000, anno della consegna della laurea honoris causa dell’Università di Bologna, che poté ricevere di persona. Solo nel 2010 riacquistò la libertà e poté uscire dal Paese e rientrare senza problemi. Fece un viaggio negli USA. Nel 2011 ottenne un seggio in Parlamento.

Nel 2015 le prime elezioni libere diedero la vittoria alla Lega e Aung era in procinto di assumere la carica di prima ministra, ma le fu impedito da un altro blocco voluto dai militari. Le elezioni successive la riportarono in sella. Non stabilmente: i golpe la seguirono. Fu condannata a quattro anni per violazione delle regole anti-virus. Recuperò nel 2021, in elezioni che furono subito contestate con accuse di frode, corruzione, violazione del segreto di Stato: al 31 dicembre 2022 ha accumulato 33 anni di carcerazione.

Fin qui la – necessaria – biografia della politica (leggasi “donna che fa politica”): a parte il fatto che se si fosse trattato di un uomo sarebbe “desaparecido”, questa donna politica perseguitata non porta connotazione di genere, a meno che non si voglia sottolinearne l’immagine. Non si può evitare di ammirare questa orientale anche per il suo carattere: una donna che stabilisce in ordine gerarchico i valori, mettendo al primo posto quello che chiamiamo il dovere: il rientro per rispetto della mamma da assistere, poi l’abbandono del marito ammalato di cancro e che ha rifiutato di rivedere per non danneggiare “la causa” a cui si è votata, quella del suo popolo che ha collocato le proprie aspettative nella sua persona.

Gli orientali hanno una diversa educazione, ma questi atti di eroismo sono “sentiti” da tutti perché le donne dovrebbero strapparsi il cuore solo per la famiglia, non per i loro concittadini e i propri ideali. Comunque possiamo usare il termine eroismo.

Quello che non è eroico è il comportamento degli Stati democratici, che sostengono di fatto la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. La dittatura militare del Myanmar – National Unity Governement, “governo di unità nazionale” –nell’ultimo colpo di stato ha attuato repressioni che hanno causato 11.000 morti, oltre 20.000 carcerati, e “punizioni collettive”, ovvero distruzioni di coltivazioni, allevamenti eccetera. Inoltre ha soppresso il partito di Aung San Suu Kyi. Aveva promesso il rilascio di 2.200 prigionieri politici in maggio, ma fra loro non c’è il nome di Aung.

La condanna a 23 anni che le è stata comminata è condanna a vita: Aung ha settasette anni e la sua non è stata una carriera, ma la personificazione di un simbolo di libertà per il paese birmano in cui gli oppositori si organizzano in clandestinità, aiutati dalla solidarietà sporadica di simpatizzanti e di studiosi che “lamentano” che si tolleri una situazione di estrema illegittimità.

L’Onu la parte sua tenta di farla, ma non può garantire la maggioranza dei voti a sostegno di una risoluzione a cui nessuno – tanto meno i più potenti, gli USA che pure l’hanno firmata – vuole dare seguito. L’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, a guida Indonesia], si dice, non può far nulla perché delibera per consenso ed è divisa. La Cina ha mandato un osservatore nel Nord, dove i Rohingya musulmani costituiscono un altro annoso problema.

Ma mentre combattiamo una guerra e prevediamo di partecipare ad altre, in Birmania, uomini e donne come noi, sono soli.


(Noi Donne, 12 maggio 2023)

di Alessia Dulbecco


Per circa dieci anni ho lavorato all’interno di alcuni Centri Antiviolenza. Ogni giorno incontravo donne che si recavano allo sportello per raccontare episodi di maltrattamento o violenza cercando sostegno per comprendere l’accaduto e trovare le risorse per allontanarsi dalla condizione sperimentata.

Come ricorda la terapeuta Dolores Mosquera nel suo recente volume Libera, la violenza di genere è un fenomeno endemico, strutturato e pervasivo. In Italia, secondo i dati Istat, coinvolge più del 30% delle donne: è facile che nella vostra cerchia di amicizie ce ne sia almeno una che si è dovuta rivolgere a un Cav per affrontare una situazione di questo tipo.

È stato in quel periodo che ho realizzato non solo quanto il fenomeno fosse diffuso, ma soprattutto quanto fosse difficile capire come superarlo o almeno arginarlo a causa di una varietà infinita di espressioni. Nell’arco di dieci anni di lavoro sul campo ho incontrato tantissime donne invischiate in relazioni abusanti; erano italiane e straniere, giovani e meno giovani, con o senza figli, con o senza lavoro e rete sociale, a volte del tutto prive di documenti. Ogni caso era a sé, ovviamente, eppure tutti presentavano delle analogie. Pochissime erano le survivors interessate a denunciare alle autorità quanto subito, alcune per paura di subire ritorsioni che temevano di dover fronteggiare da sole, altre perché avrebbero voluto trovare un modo diverso per affrontare l’accaduto; molte guardavano con preoccupazione l’ingresso dei servizi territoriali, altre riferivano della difficoltà nel narrare quanto subito davanti alle forze dell’ordine, perché venivano sminuite e prese poco sul serio nel loro racconto.

In ragione della loro storia, i Cav sono ancora oggi spazi a cui si accede liberamente, indipendentemente dal fatto che si voglia o meno sporgere denuncia. Tuttavia, il loro operato si colloca in sinergia e in continuità con quello delle istituzioni, che entrano in campo quando è necessario attivare procedure molto delicate, come il trasferimento della persona all’interno di luoghi protetti per garantirne l’incolumità, o quando sono presenti minori, nei confronti dei quali l’attuale ordinamento garantisce (o impone, a seconda del punto di vista) di continuare a incontrare l’altro genitore, in luoghi sicuri e sempre con la presenza di un educatore, almeno fino al momento dell’accertamento di quanto accaduto.

Questo articolo si interroga su un tema delicatissimo, quello che intercorre tra l’abuso in ambito relazionale (che in inglese si definisce intimate partner violence, IPV) e le forme, previste dalla legge, di tutela per le vittime e di pena per gli aggressori.

Per l’opinione comune, assicurare una punizione è l’unico modo per poter risarcire chi ha subito un sopruso. Questo ragionamento vale per tutti i reati contro la persona, ma è ancora più sentito nei confronti di quelli che hanno a che fare con l’IPV. La relazione affettiva, infatti, è vista come ulteriore motivo che dovrebbe spingere a non picchiare o abusare della persona con cui si condivide la vita, ignorando di fatto che è proprio il contatto e l’intima vicinanza ad abbattere quelle barriere che la rendono più probabile. Proprio per queste ragioni la legge 69 del 2019 che ha introdotto il cosiddetto “Codice Rosso” ha ulteriormente inasprito le punizioni per i persecutori e, teoricamente, rafforzato le tutele per le vittime di questi reati.

Secondo la giornalista Sarah Schulman, l’attuale risposta istituzionale alla violenza di genere, basata su logiche punitive, ha finito per sostituire quella che avevano previsto i movimenti femministi, basata sull’attenzione verso le sopravvissute e sulla critica al sistema culturale che autorizza quella stessa violenza.

All’interno dei Cav, infatti, la denuncia viene concepita come il punto di arrivo di un possibile percorso, certamente non come il punto di partenza. La narrazione dominante, invece, ha fatto di questo strumento una sorta di leitmotiv, un tema ricorrente presentato come il rimedio perfetto per diverse ragioni: mette la vittima nella condizione di ottenere un risarcimento del danno subito, porta il maltrattante in prigione, una volta accertate le sue responsabilità, educandolo a non commettere nuovamente il reato. Non solo, per alcuni può fungere da deterrente sociale, affinché altre persone, spaventate dalle ripercussioni penali, non agiscano lo stesso comportamento.

Se consideriamo le statistiche, il numero di femminicidi e i dati che ogni anno i Cav rendono noti, però, dovrebbe essere chiaro a tutti che lo scetticismo delle donne rispetto al sistema dovrebbe quantomeno essere ascoltato. Punire i colpevoli con il carcere o misure alternative non ha limitato i maltrattamenti o la possibilità di una reiterazione degli stessi. In alcuni casi infatti si è giunti a una drammatica escalation di violenza culminata con la morte della donna, che non si è riusciti a proteggere come sarebbe stato necessario.

Appurato il mancato funzionamento delle politiche a contrasto della violenza di genere, viene da chiedersi perché si insista a mantenere inalterato questo modello e, soprattutto, se sia possibile tratteggiare un’alternativa. Come è facile intuire, si tratta di una domanda particolarmente complessa, che non può certamente esaurirsi in un articolo. Per accennare ad una possibile risposta, però, è necessario operare dei distinguo: il primo è tra intenzioni individuali e logiche di sistema, il secondo è tra punizione e responsabilità.

A fornire spunti interessanti per dirimere la prima questione ci ha pensato Schulman che nel suo volume Il conflitto non è abuso ha sottolineato come la legge imponga di risolvere i contenziosi seguendo le sue procedure, necessariamente rigide e strutturate. Il problema è che non sempre le persone coinvolte vogliono o sono nella condizione di potervi aderire pedissequamente.

Come dicevo, è opinione comune tra le operatrici che le donne coinvolte in abusi domestici non ripongano grande fede o interesse nella denuncia, spesso per paura di doversi scontrare con quell’apparato istituzionale di cui temono il funzionamento, troppo farraginoso, lento e schierato per poter rispondere davvero alle loro necessità. Nelle attività che svolgevo con loro emergeva con chiarezza la consapevolezza circa il fatto che non avrebbero ricevuto alcuna giustizia attraverso il ricorso alle forze dell’ordine, che non si sarebbero sentite più tranquille o garantite nei loro diritti, ma che anzi questi avrebbero potuti esser messi in discussione a causa di una cultura dominante che ancora imputa al genere femminile parte della responsabilità delle azioni subite.

Per evitare che quanto esposto possa essere travisato credo sia necessario ribadire con forza un punto: quello che, seguendo il ragionamento di Schulman, intendo sostenere non è che non esistano i ruoli; è necessario riconoscere alle persone coinvolte nella dinamica di violenza status diversi. Ci sarà, cioè, una che ha subito un certo comportamento violento e una che lo ha agito (e, nelle relazioni etero, la connotazione di genere è statisticamente chiara). Quello che intendo dire però, è che spesso non ci sono solo queste due variabili.

L’attuale sistema, basato su logiche punitive, offre risposte che semplificano situazioni complesse, come del resto tutte quelle che prevedono sentimenti e vissuti condivisi tra persone. Non solo: tende a omettere o ignorare il modo in cui, a causa della cultura in cui siamo immersi, guardiamo agli episodi di violenza. Schulman riporta a riguardo un caso interessante: stando alle statistiche, le condanne per stupro a New York, dagli anni novanta ad oggi, si sono drasticamente abbassate passando da più di quindicimila nel 1992 a circa duemila registrate nel 2010. Afferma a tal proposito: «non sappiamo se questo sia connesso alla gentrificazione, che rimuove la gente povera rimpiazzandola con fasce di popolazione in cui tanto i perpetratori quanto le vittime hanno più risorse per sfuggire alla violenza o evitare le condanne».

Il caso riportato dalla scrittrice si riferisce a un paese molto diverso dal nostro, tuttavia le domande che solleva dovrebbero essere ascoltate anche qui: siamo consapevoli dei privilegi che determinate fasce sociali hanno nell’affrontare situazioni di violenza domestica? Non è un caso se i dati ci dicono che le donne che sono costrette a far ricorso alle “case rifugio” – alloggi a indirizzo segreto a cui si accede attraverso procedure molto invasive, che portano la persona a dover rinunciare per un periodo medio lungo al lavoro, agli affetti e a condurre una vita “normale” per poter stare in sicurezza – sono per lo più straniere. Prive di una rete di sostegno e di condizioni economiche più sicure, è facile che siano costrette a entrare in un sistema di protezione che le espone ad alcuni passaggi obbligati, faticosissimi da sostenere sotto il profilo sociale e psicologico.

Cristallizzare il fenomeno della violenza domestica facendo appello a due figure distinte, quella di vittima e di carnefice, presenta alcuni rischi impliciti come quello della polarizzazione. Come ricorda la traduttrice e scrittrice Giusi Palomba nel suo libro La trama alternativa, siamo soliti affidare ai due ruoli caratteristiche facilmente individuabili: la vittima è percepita come pura e innocente, il violento come un “mostro”. Tra i compiti affidati a programmi di sensibilizzazione condotti dai Cav c’è, non a caso, quello di contrastare alcuni stereotipi duri a morire, come l’idea che gli autori di violenza siano tutte persone con disagi mentali o sociali. La povertà, la malattia e l’emarginazione diventano, per il sentire comune, caratteristiche utili per tracciare una linea di confine e far sentire chi non le vive al sicuro, rimuovendo la possibilità che la violenza ci riguardi.

Affidare ai due ruoli un’identità distinta, basata su caratteristiche evidenti, si rivela un’operazione pericolosa non solo perché rischiamo di non essere più in grado di riconoscere il maltrattante quando possiede caratteristiche che lo differenziano dal modello “mostruoso” che abbiamo in mente, ma anche per la tutela stessa delle vittime. Jodi Kantor e Megan Twohey hanno raccontato bene queste dinamiche in Anche io, il volume che ripercorre la storia dell’inchiesta che le giornaliste hanno realizzato sugli abusi sessuali a Hollywood, contribuendo a lanciare il movimento metoo. Come sottolineano a più riprese, la loro indagine ha vissuto, soprattutto nelle fasi iniziali, grandi difficoltà perché per la prima volta venivano messe in discussione le azioni di uomini, come Harvey Weinstein, ritenuti affidabili, seri e rispettabili proprio a causa della posizione ricoperta. Per quanto riguarda invece i rischi subiti dalle vittime, Schulman ci ricorda che, nel 2013, il report della National Coalition of Anti Violence Programs ha segnalato come, nei casi di abusi domestici tra partner LGBTQI, la polizia abbia commesso errori importanti, arrestando la persona sopravvivente anziché quella responsabile della violenza. Afferma l’autrice: «la persona butch, sieropositiva, straniera, senza documenti, razzializzata […] può passare più facilmente come la persona che aggredisce».

La polarizzazione e la semplificazione, pertanto, rischiano di omettere un aspetto importante che è l’orizzonte culturale che consente l’espressione di violenze e abusi nelle relazioni affettive e sessuali.

Secondo Palomba, ciò che le logiche punitive hanno prodotto è stato liquidare un problema sociale senza minimamente mettere in discussione i cardini su cui si sorregge. Per compiere quest’operazione – che ci porta al secondo distinguo – è necessario riflettere sul concetto di responsabilità. Richiamando la domanda posta da bell hooks a Maya Angelou, la scrittrice si chiede se sia possibile «rendere una persona responsabile di un torto commesso e allo stesso tempo rimanere in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi».

Ad oggi, il sistema punta più sulla punizione legale e su un’eventuale rieducazione (spesso impossibile a causa di un sistema carcerario in evidente affaticamento) che non sulla responsabilità. Essa viene al massimo delegata al singolo e fatta coincidere con la punizione ricevuta, ignorando però il peso che determinate pratiche culturali, più o meno esplicite, hanno nel mantenimento delle logiche della violenza contro le donne. Si tratta di una riflessione da non trascurare, soprattutto se consideriamo che negli ambienti che si occupano di IPV la teoria secondo cui la violenza si trasmette da una generazione all’altra è ormai conclamata.

Proprio per provare a interrompere questa catena è necessario ripensare il sistema. Si tratta ovviamente di un obiettivo enorme, che non può essere raggiunto partendo da un piano macro, quanto, piuttosto, da quello micro. Un possibile suggerimento offerto da Palomba, che ha studiato le pratiche di giustizia trasformativa, è quello di introdurre il concetto di accountability, una parola che va oltre il significato di “responsabilità”: «nelle pratiche comunitarie, accountability è comprendere che un dato comportamento ha avuto un effetto su altri esseri umani». Non è solo l’accertamento della responsabilità, quanto piuttosto la volontà di far parte del cambiamento necessario ad evitare che questo comportamento si ripeta in futuro.

Come dicevamo, accountability è un concetto cardine delle teorie di giustizia trasformativa, dove l’enfasi non è posta tanto sulla punizione quanto sulla messa in sicurezza della persona che ha subito violenza e sulla possibilità di spezzare la catena che potrebbe far ripresentare lo stesso problema in un altro momento. È evidente come quest’ideale di giustizia si origini da premesse che sono totalmente diverse da quelle oggi in essere: l’accountability si ricerca infatti nella persona che ha commesso il reato e in quelle, intorno a lei, che lo hanno permesso più o meno consapevolmente, alimentando ad esempio la cultura dello stupro. Essa risponde a un nuovo ideale comunitario, che rafforza il senso di appartenenza tra i suoi abitanti anziché spezzarne i legami, in una logica di condivisione che può andare a beneficio di tutti, in particolare delle donne che non hanno solo bisogno che il loro aggressore finisca in carcere, soprattutto se c’è il rischio che esca pochi mesi dopo più incattivito di prima.


(indiscreto.org, 12 maggio 2023)

Online il numero di VD3 di dicembre 2022, Trovare le parole del piacere femminile, in formato PDF scaricabile.


Alla redazione di questo numero hanno collaborato Vita Cosentino, Clara Jourdan, Traudel Sattler, Marina Santini, Laura Colombo, Laura Giordano, Silvia Baratella, Marta Equi, Giorgia Basch, Daniela Santoro, Emma Ciciulla, Ilaria Sirito


Design Giorgia Basch (Bilderatlas)
In copertina Bibi Tomasi, Vacanza femminista a Carloforte, 1973
Immagine di archivio della Libreria delle donne di Milano.


Buona lettura!

Scarica il PDF del numero di Dicembre 2022


di D.i.Re. – Donne in Rete contro la violenza


Egregia Presidente del Consiglio,

abbiamo appreso dalla stampa che Fratelli d’Italia e Lega si sono astenuti durante la votazione per l’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, strumento internazionale per la tutela dei diritti delle vittime di maltrattamento e violenza. Addirittura, durante la votazione ci sono stati due voti contrari da parte di due esponenti dei partiti italiani che fanno parte della coalizione del Governo da Lei presieduto.

Ancora di più ci preoccupano le dichiarazioni di Carlo Fidanza – capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo – e dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, secondo i quali la Convenzione di Istanbul diventa il cavallo di Troia per imporre l’agenda gender: si tratta di argomentazioni prive di fondamento e che mettono in discussione tutto l’impianto antiviolenza che da anni si sta cercando di costruire e che tentano di allineare l’Italia ai Paesi europei che si stanno distinguendo per il contrasto ai diritti delle donne.

La Convenzione di Istanbul è un trattato internazionale che detta le linee e gli interventi da mettere in campo per contrastare in maniera sistemica e strutturata il fenomeno della violenza contro le donne e indica quali strategie attuare per dare forza alle vittime. Nonostante in Italia il Parlamento abbia autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013, questa è ancora ampiamente disattesa, con ricadute negative sui percorsi di uscita dalla violenza come – ad esempio – la vittimizzazione secondaria delle donne.

D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha già denunciato l’inadeguatezza delle risposte istituzionali in due ricerche qualitative pubblicate nel 2021 e 2022, e anche il Grevio* (2020) e la Commissione [parlamentare] di inchiesta sul Femminicidio della scorsa legislatura hanno messo in luce le criticità che ne rendono difficile l’applicazione, o come nel recente Rapporto delle organizzazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Uno degli ostacoli è la persistente sottocultura che alimenta discriminazioni e violenza e mantiene in essere asimmetrie di potere tra uomini e donne. Non può esserci nessuna evoluzione positiva nella condizione delle donne se quelle che arrivano a ruoli di potere e responsabilità non lavorano per abbattere le discriminazioni sessiste e non si impegnano per garantire la libertà dalla violenza di tutte.

Lei è la prima presidente del Consiglio in Italia, un Paese che conta una donna uccisa ogni tre giorni, che conta milioni di donne vittime di violenza maschile e che si colloca nella classifica sul Gender Gap del World Economic Forum al 63° posto. Che cosa ha intenzione di fare?


(*) GRuppo di Esperte sulla VIOlenza contro le donne e sulla violenza domestica del Consiglio d’Europa


(Direcontrolaviolenza.it, 11 maggio 2023)

di Comitato contro la guerra, Milano


Siamo donne e uomini amanti della Pace, per questo esprimiamo una forte solidarietà con il popolo ucraino e con il popolo russo, i quali, come in tutte le guerre, sono i primi a pagarne le conseguenze. Ora il nostro obiettivo principale è l’immediata cessazione delle ostilità.

Stiamo dalla parte della maggioranza del popolo italiano che è contrario all’invio delle armi in Ucraina e non crede che la guerra si possa fermare con la guerra. Stiamo con la nostra Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza al nazifascismo e ne ricordiamo il suo articolo 11 che recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”.

Riteniamo offensivo che si chiamino in causa i nostri Partigiani a sproposito, solo per legittimare la spinta alla guerra, denigrandone la memoria.

L’Italia e i Paesi dell’Unione Europea si sono piegati al volere degli Stati Uniti, abdicando così a qualsiasi ruolo di possibile mediazione per la cessazione del conflitto. Hanno tralasciato i propri interessi economici e strategici, abbandonando la propria sovranità e si sono invece uniti nel fomentare nonché prolungare questa guerra fratricida.

Quasi tutti i mezzi di informazione non approfondiscono le cause della guerra, mentre tanti statisti nel tempo sono stati consapevoli dei pericoli che avrebbe comportato l’allargamento ad Est della NATO. Pericoli ben compresi anche da Papa Francesco, il quale li espresse con questa frase: “L’abbaiar della NATO alla porta della Russia”. Inoltre gli stessi mezzi d’informazione si prestano a megafono di propagazione dell’odio verso il “nemico”, contribuendo così anche alle vergognose censure verso la letteratura, la musica, l’arte e la cultura russe, riportandoci alla memoria i tristi roghi di libri nella Germania nazista, azioni che in un Paese che si definisce “democratico” non vorremmo mai più vedere.

Questa guerra è iniziata dal colpo di stato del 2014. Da allora Stati Uniti, Unione Europea e NATO hanno speso almeno 100 miliardi di dollari per armare e sostenere l’Ucraina. Prima del 24 febbraio 2022 la popolazione russofona del Donbass, nel silenzio complice dei nostri media, è stata vittima di bombardamenti indiscriminati e di atti criminali, anche da parte di battaglioni militari filonazisti addestrati ed armati dall’Occidente, i quali hanno causato tra le 14 e le 16 mila vittime. Oggi in Ucraina tutta l’opposizione politica è bandita, il collaborazionista delle SS naziste, Stepan Bandera, è divenuto “eroe nazionale” e gli ucraini russofoni sono divenuti cittadini di serie B.

Sulle spalle della NATO, a guida statunitense, pesa la responsabilità di una guerra per procura: il popolo ucraino è mandato al macello.

Siamo consapevoli di ritrovarci in una fase di escalation, la quale continua ad essere fomentata dall’invio di armi sempre più sofisticate e di soldi verso una delle parti in conflitto, volto ad una impossibile sconfitta militare di una superpotenza nucleare, come lo è la Russia: a meno che non si pensi alla fine della vita sul nostro Pianeta. Temiamo che di questo passo esista il rischio concreto di inviare i nostri giovani al fronte o che il nostro Paese divenga un legittimo obiettivo militare: siamo cobelligeranti senza aver dichiarato alcuna guerra ed ospitiamo sul nostro territorio oltre 100 basi militari NATO e statunitensi, con decine di ordigni nucleari presenti in almeno 2 di queste basi.

Le sanzioni sono state presentate da Stati Uniti ed Unione Europea come strumento di pressione per indebolire la Russia e terminare la guerra in poche settimane, cosa che prevedibilmente non è avvenuta, mentre nei fatti sta emergendo che l’obiettivo strategico sia quello di troncare i rapporti energetici e commerciali tra la Russia e l’Unione Europea, così da erigere una nuova cortina di ferro per i prossimi decenni.

L’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia, anche come conseguenza diretta delle sanzioni contro la Russia, si sta rivelando devastante per il nostro Paese, per i lavoratori e per i pensionati, dove già i salari reali nel 2021 sono diminuiti del 2,9% rispetto al 1990 (unico Paese in Europa), mentre nel solo 2022 il potere di acquisto è crollato a fronte di un’inflazione a doppia cifra e ben 11 milioni di italiani non riescono a curarsi. Non ci saranno aumenti salariali che andranno a compensare la corsa dei prezzi, bisognerà arrangiarsi per sopravvivere e nel bilancio dello Stato mancherà il denaro per sanità, scuola e tutti quei servizi già oggi largamente insufficienti, mentre si troveranno le risorse per aumentare al 2% del PIL le spese militari, così come richiesto dall’Alleanza Atlantica.

Oggi è prioritaria la necessità di unirsi in un ampio fronte plurale che sia in grado di far avanzare un forte movimento per la Pace nella direzione di un mondo che sia caratterizzato da rapporti di non ingerenza, di reciproco rispetto e di mutuo beneficio fra Stati, pacifici e in contrapposizione ad un mondo unipolare dove regnano la sopraffazione e la rapina. Mai come in questo momento è giusto gridare:


l’Italia ripudia la guerra

L’ONU PROMUOVA LA TRATTATIVA DI PACE

non un uomo, non un soldo, non un’arma per la guerra

No alla propaganda di guerra

SÌ ad una corretta informazione


Per informazioni e adesioni scrivere a: comitatocontrolaguerramilano@gmail.com


(Verdi Ambiente Società, https://www.vasroma.it/appello-per-la-costituzione-di-un-coordinamento-milanese-per-la-pace/, 9 marzo 2023)

di Anna Di Salvo e Adriana Sbrogiò 


Invito a convegno


Care amiche e cari amici,

con alcune e alcuni delle Città Vicine e dell’associazione Identità e Differenza di Spinea (VE), abbiamo pensato di chiedere alla Libreria delle donne di Milano di poterci incontrare in presenza nel Circolo della rosa per il Convegno annuale delle Città Vicine sabato 3 giugno 2023 pomeriggio (18-20) e domenica 4 giugno mattina (10-13), in via Pietro Calvi 29.


Desideriamo dare seguito e continuità alla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini portata avanti da Identità e Differenza durante i numerosi incontri svoltisi ad Asolo (TV) e a Torreglia (PD). Il 3 e 4 giugno vorremmo approfondire tale pratica, mettendo al centro le questioni più pressanti del nostro presente: la pace, la guerra, la convivenza tra i sessi nelle città, la crisi ambientale, il conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto… con attenzione all’esperienza artistica che si esprime con sguardi al presente, alla natura, a nuovi spazi. Anche a partire da interventi, articoli e interviste pubblicate nel numero speciale della rivista “Autogestione e Politica prima” della MAG di Verona dedicato al convegno delle Città Vicine “Chi ha paura della libertà delle donne?” e nel numero doppio “Mi prenderò cura di te e di me”.


Testi di riferimento per questo convegno: la nuova edizione del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti (Orthotes 2022); il libro di Teresa Lucente Il luogo accanto. Identità e Differenza, una storia di relazioni (Effigi 2020); i quaderni pubblicati nel corso degli anni da Identità e differenza che rendono conto del vivace confronto tra donne e uomini durante gli incontri di Asolo e di Torreglia. Tutti i libri, i quaderni e i numeri della rivista si trovano in Libreria delle donne.


Nei locali del Circolo della rosa verrà esposta la mostra mail-art Donna, vita, libertà a cura dell’associazione La Merlettaia di Foggia e delle Città Vicine, coordinata da Katia Ricci.


La sera del sabato 3 sarà possibile cenare insieme al Circolo: per favore prenotatevi una settimana prima a info@libreriadelledonne.it


Per altre informazioni rivolgetevi a Anna Di Salvo, tel. 333 2083308, email annadisalvo9@gmail.com


(www.libreriadelledonne.it, 11 maggio 2023)

di Judith Butler


Che mondo creiamo mettendo a rischio le opere d’arte, e come può aiutarci l’arte a creare un mondo in grado di contrastare le enormi forze di distruzione? Credo che la soluzione a questo problema stia nel chiamare a raccolta le arti – sia dentro che fuori dai musei, sia di persona che online – per far fronte al negazionismo dilagante e cominciare a immaginare modi per salvare il pianeta. Concordo con la filosofa Anna Longo, che di recente ha scritto: «Nei tempi in cui viviamo […] l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola, impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti: non creatori di nuove maschere per i valori che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».

Di seguito una serie di punti. Primo, lo spettacolo pseudo-situazionista del danneggiamento di opere d’arte dipende dalla capacità dei musei di proteggere l’arte. Pertanto gli attivisti vedono, e promuovono, il museo come un luogo dove l’arte viene tutelata. La loro sarà anche una critica al mercato, ma almeno implicitamente è un plauso ai musei, e costituisce una – pur obsoleta – pratica estetica. Secondo, ci sono buone ragioni per criticare l’elitismo dei musei, perciò più il museo viene integrato nello spazio pubblico, meglio è. Anzi, rendere gratuito l’ingresso ai musei, portare la danza, i film, l’improvvisazione all’interno degli spazi museali, comprese le soglie inutilizzate, le fondamenta e i tetti, va sempre bene, a mio parere. Il museo, se è veramente aperto, può ampliare la sfera pubblica e persino evitarne il completo collasso nel digitale.

Terzo, è giusto sostenere che il mercato distorce il valore dell’arte, e che è quasi impossibile avere esperienza di un’opera al di fuori della cornice del mercato. La mercificazione influenza il nostro modo di vedere, sentire, avere esperienza delle opere d’arte e di installazioni e spettacoli in generale, e talvolta lo impedisce tout court. Resta ancora da capire se il valore di mercato esaurisca completamente il valore di un oggetto. E comunque, un conto è dire che il valore di mercato non esaurisce il valore di un oggetto in tutte le sue accezioni, un altro è concludere che il valore della vita è superiore a quello dell’arte. Saltare a una conclusione così affrettata significa dare per scontato che il valore dell’arte non abbia nulla a che vedere con il valore della vita: al contrario, tra arte e vita possono esserci connessioni profonde, e l’arte – di qualunque tipo, compresi i documentari e la sperimentazione digitale – può aiutarci a immaginare e a concepire una catastrofe climatica di cui, quando non la neghiamo del tutto, troviamo intollerabile il pensiero. Se l’arte è un modo per rendere pensabile l’intollerabile e l’impensabile, allora l’oggetto artistico – oggetto in senso winnicottiano – diventa un’occasione di contemplazione che ci induce a comprendere il legame reciproco tra mondo oggettuale e vita organica, un’interdipendenza simile a quella dei processi vitali nelle biosfere terrestri. Winnicott sosteneva che lo spazio, il tempo, l’oggetto affidabile e ricettivo consentono di sopportare e riflettere su passioni altrimenti intollerabili.

La maggior parte dei suoi esempi comincia con il desiderio di distruggere, un desiderio che risulta intollerabile anche perché, se rivolto alla madre o alla figura di accudimento, il bambino o giovane rischia di distruggere l’Altro da cui dipende la sua vita. Dovrà quindi imparare che il suo desiderio di distruggere in realtà non ha il potere di distruggere. Perdendo tale presunzione di onnipotenza, il bambino riconosce la capacità di sopravvivenza dell’Altro, la sua durevolezza. Naturalmente i gruppi di persone, specie se numerosi, sono diversi dai bambini, eppure non riusciamo a superare la dipendenza dalle vite altrui, né ad ammetterne la profondità. Se l’oggetto legittima la possibilità di provare sentimenti intollerabili – compreso l’odio assassino, il dolore irreparabile –, è perché consente la riorganizzazione del materiale psichico.

Nel caso della psicoanalisi, l’oggetto terapeutico – vale a dire il terapeuta – acconsente a farsi prendere a pugni dal paziente, fino a esserne «mutilato», per dirla con Christopher Bollas. Il consenso a diventare destinatario di rabbia e dolore, persino a essere temporaneamente «mutilato» dal paziente, rientra nel contratto psicoterapeutico. Il paziente riesce a sopportare i sentimenti senza paura che si trasformino in azioni, che provare rabbia o odio corrisponda a commettere un omicidio, o che il dolore logori le persone fino ad assimilarle, nella perdita, a chi hanno perduto. Facendo emergere tale distinzione, l’oggetto rende tollerabili i pensieri di distruzione, desiderio, dolore o invidia: se l’espressione di questi sentimenti è tale da poterla osservare e rifletterci, allora le si può sopravvivere e, idealmente, dare inizio al processo di elaborazione dell’intollerabile.

La catastrofe climatica rappresenta una nuova declinazione dell’intollerabile, ed è per questo che abbiamo bisogno dell’arte, ora più che mai. Stephanie LeMenager, docente di Letteratura e Studi ambientali, scrive del lutto preventivo tipico della cultura del petrolio che definisce la nostra modernità, l’angosciante previsione della perdita del mondo che conosciamo, un mondo che annienta il proprio futuro. In un modo o nell’altro, questo mondo è destinato a scomparire a causa del cambiamento climatico, e noi ne piangiamo la perdita, perché insieme al mondo perdiamo anche i ricordi lì incarnati e, per certi versi, tutte le nostre vite. L’industria petrolifera e i combustibili fossili coincidono ormai con il nostro senso del mondo e al contempo ne costituiscono la fonte di distruzione: vivere in un mondo simile, trarne beneficio rappresenta una distruzione che non riusciamo né a vedere né ad arrestare senza prima elaborarne il lutto – cosa che molti reputano impossibile, perché ormai le nostre vite sono diventate inimmaginabili senza il petrolio.

Secondo LeMenager e Catriona Sandilands, «la melanconia ambientale non è che un meccanismo di negoziazione della perdita e della responsabilità ambientale». Prevediamo la perdita del mondo che conosciamo, la distruzione della terra, ma non possiamo ancora elaborarne il lutto. Come sostiene Sandilands, «l’oggetto della perdita è “indegno di lutto” all’interno di una società incapace di riconoscere gli esseri non umani, gli ambienti naturali e i processi ambientali come oggetti degni di un lutto sincero». Non ci limitiamo a prevedere un lutto che subiremo in futuro, ammesso che vivremo abbastanza da assistere alla completa distruzione del clima e del pianeta: probabilmente non ci saremo già più, perciò viviamo con la prospettiva di quel giorno, o manciata di giorni, la svolta finale e irreversibile. Il vero problema è che continueremo a perdere il pianeta giorno dopo giorno, se non ci rassegniamo a dire addio alla nostra dipendenza dal petrolio.

È una perdita continua, perché siamo nel pieno della catastrofe climatica, costretti a ripensare il significato dell’elaborazione del lutto a fronte di una perdita ancora incompiuta, che, per definizione, non avrà testimoni del suo compimento. L’arte può dare una scossa solo se dimostra e documenta la normalizzazione della distruzione. La normalizzazione del consumo e della produzione di petrolio è un processo di distruzione, e come tale andrebbe presentata. Abbiamo bisogno di forme d’arte che lottino per la vita nel mezzo della distruzione, e al contempo smascherino gli stratagemmi attraverso i quali la rovina si spaccia per progresso o, peggio ancora, per normalità.

La teorica ambientale Heather Davis ha coniato la perfetta definizione di «archivio performativo di presente». «Una testimonianza», scrive Davis, «che documenta non la condizione delle cose perdute, ma il lutto preventivo e il sentimento perturbante di un mondo ormai scomparso». E, aggiungerei, la scomparsa del mondo si verifica proprio mentre cerchiamo di capire come elaborare il lutto quando la perdita è ancora in corso, come resistere alla perdita nel bel mezzo del lutto.


(il manifesto, 10 maggio 2023)

di Emi Monteneri


Il 10 maggio 1924 nasceva a Catania Goliarda Sapienza. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà. Scrittrice e attrice, ha lavorato con Luchino Visconti e Citto Maselli, suo compagno per tredici anni. Per celebrare quello che sarebbe stato il suo novantanovesimo compleanno, proponiamo un estratto dal volume collettaneo “Le personagge sono voci interiori”,

dove Emi Monteneri immagina una intervista impossibile a Goliarda Sapienza, a partire dai luoghi e dalle persone della sua infanzia.

Goliarda non è stato un amore a prima vista. L’ho conosciuta con colpevole ritardo. Inizialmente non riuscivo a superare le prime cinquanta pagine de L’arte della gioia: troppi delitti, troppo dolore. Non capivo. Non ero pronta. Poi l’incontro “vero”, che mi ha ricondotta alla lettura del romanzo, cioè a Modesta, legandomi a lei inesorabilmente. Ma l’esplosione amorosa è avvenuta con Io, Jean Gabin. Goliarda mi parlava, e si raccontava, costringendomi a ripercorrere la sua esistenza, e quindi la sua scrittura dove si ricomponeva un sistema che creava mondo, che creava un nuovo senso di vita. Allora ho dovuto superare un senso di colpa divorante: cosa facevo, cosa leggevo mentre lei si dibatteva tra mille difficoltà? Mi dava angoscia scoprire in me la stessa indifferenza, o ignoranza, che ha contraddistinto persone che la circondavano e che non ne hanno scoperto il giusto valore. Il riconoscimento di disparità agiva in me in modo imprevisto e infantile, ma scoprire le fragilità di colei che sempre più si configurava come una “madre simbolica” me la rendeva affettivamente vicina, anche se il tributo alla sua autorità mi imponeva un doveroso distacco.

È stata proprio la scrittura di Goliarda a consentirmi di riequilibrare le distanze e accostarmi a lei per un confronto sereno.

Oggi mi piace ritrovarla nei luoghi della sua infanzia e percorrerli insieme: la Civita, il cinema Mirone… Dialogo dai toni diversi, ora ciarliero, ora pacato, o muto, quasi interiorizzato, seguendo con pensieri sospesi la sua voce resa unica da quella inflessione catanese che tanto la fece penare all’Accademia d’Arte Drammatica, e che adesso fa eco e si dilata dentro di me. Goliarda, scrittrice, attrice e donna di spettacolo si è sempre rivolta al suo pubblico di lettrici e lettori in un dialogo continuo, come con un pubblico teatrale. Goliarda artista poliedrica ma semplice ed essenziale. 
Alla radice della sua arte sta la ricerca inesausta di “purezza” che conduce alla libertà. Goliarda scrittrice e personaggia, mente e corpo della sua scrittura, che porta in giro e mostra sempre la sua essenza di donna libera, la cui origine siciliana, profondamente radicata, non coincide mai con alcuno stereotipo, che, anzi, irrispettosa, nella vita come nella scrittura, di tutti gli schemi preordinati, rompe e attraversa tutti i modelli stereotipati. Lei “odia” – come si può odiare un nemico, o, ciò che è lo stesso, un ostacolo alla libertà dell’esistenza – tutte le manifestazioni di miseria femminile: vittimismo, rinuncia, dipendenza affettiva e materiale, mansuetudine, e, come fa Virginia Woolf con l’angelo del focolare, semplicemente “le uccide” perché mortifere e indegne della grandezza femminile. Grandezza che lei riconosce alla sua magnifica e inafferrabile madre, la socialista rivoluzionaria Maria Giudice. In tutti i romanzi di Goliarda Sapienza, almeno in quelli che ho letto, individuo una ricerca ed un omaggio continuo alla grandezza materna, a partire da quella della propria madre.

La madre e la galera, argomenti non tanto lontani come potrebbero sembrare, saranno i temi brevemente trattati in questa “intervista impossibile”.

Ma ecco Goliarda mi/ci parla, attraversando il tempo e giungendo a noi con la ricchezza del suo pensiero e dell’amore di vita che trasmettono sempre le sue parole.

Goliarda Sapienza è nata a Catania nel 1924 e morta a Gaeta nel 1996. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà.

A partire dai sedici anni visse a Roma, dove studiò all’Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta recitò come attrice di teatro e di cinema, lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti, Citto Maselli, di cui fu la compagna per tredici anni. Al suo primo romanzo, Lettera aperta (1967), seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L’Università di Rebibbia (1983), Le certezze del dubbio (1987) e, postumi, L’arte della gioia (1998), romanzo di tutta una vita, a cui si dedicò per oltre dieci anni senza trovare alcun editore disposto a pubblicarlo; i racconti Destino coatto (2002), il romanzo Io, Jean Gabin (2010), Il vizio di parlare a me stessa (2011), raccolta significativa di appunti tratti dai suoi numerosi e famosi taccuini.

Intervistatrice: Che bello il tuo nome, Goliarda, bello e raro.

Goliarda: Mi hanno messo nome Goliarda. Mio padre me lo mise, essendo ateo, perché era un nome senza santi. Con questo nome, da bambina, mi sentivo sola: non c’era nessuna Goliarda o Goliardo in tutta Catania e, per me, in tutto il mondo. Cominciai a dire che mi chiamavo Maria: era il nome di mia madre, e quindi non doveva essere un furto troppo rilevante.

I.: Grande famiglia, la tua.

G.: Mio padre, l’avvocato Sapienza, era un socialista con il vizio dell’assistenza. I più lerci delinquenti lui li raccoglieva all’uscita dal carcere e li sistemava o a casa propria o in qualche ufficio così noi avevamo sempre qualche avanzo di galera che puliva i vetri, lucidava le scarpe o accendeva il fuoco. Anche donne. La nostra Tina, per esempio. Aveva una voce dolce e cucinava favolose frittate, ma nella sua giovinezza gloriosa aveva ucciso a colpi di lupara, mentre facevano l’amore, il fidanzato e la sorella. E poi c’era Zoe che di tanto in tanto la sostituiva e di notte si aggirava con un coltellaccio nascosto in seno. Aveva ucciso, a coltellate, la madre e ferito il fidanzato.

I.: E i tuoi fratelli?

G.: Ogni tanto venivano i fascisti a strapazzarli un po’ e papà correva in questura per farli rilasciare, ma quando zoppicando tornavano a casa, trovavano pronto brodo, bollito, e una bella bistecca da mettere sull’occhio nero. Troppe ne ho viste di queste visite.

I.: Il quartiere della Civita, denso di storia e di misteri, ti ha vista attraversarlo spavalda, imitando il passo di Jean Gabin, il tuo eroe. Oggi della Civita, cioè il quartiere di S. Berillo, sventrata nel 1954, resta ben poco.

G.: Quello che non hanno fatto i fascisti, lo hanno fatto i democristiani. La Civita, di notte, quando i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata e nera, e cominciava a risonare di gemiti, grugniti, fiati lunghi di serpenti, meduse e melusine…

I.: Dove abitavi?

G.: In via Pistone. Di notte c’era sempre una scusa per far baldoria. La gente attiva, piena di vita, magra e scattante, insomma, antifascista, dorme poco e non si annoia mai. E se qualcuno del palazzo osava replicare, allora la lama del mio stocco verbale usciva dal legno a graffiare: non viviamo di marcia rendita borghese, noi! Né lasciamo che il Duce o un santo qualsiasi pensi a noi. Prova a vivere libero, e vedrai il tempo che ti resta per dormire.

I.: Come vissuto la tua infanzia? Andavi a scuola?

G.: I miei genitori non volevano che frequentassi la scuola fascista. La mia divisa di piccola italiana è stata bruciata sul terrazzo. Passavo lunghi pomeriggi al Cinema Mirone o all’Arena Bellini. In fondo a casa preferivano sapermi al sicuro dentro un cinema, al riparo dalle incursioni fasciste che devastavano la nostra biblioteca. È lì che ho visto La regina Cristina con Greta Garbo. Lì ho conosciuto Charlot, artista anarchico e libertario, lì ho cominciato a identificarmi in Jean Gabin, l’eroe della Kasbah.

I.: Ti conosco solo attraverso i tuoi libri, in cui esprimi un forte bisogno d’amore.

G.: Senza sale l’organismo muore, e in fondo non è grande danno, ma senza amore si diventa assonnati, fragili, avari, larve d’uomo. Ma non era facile parlarne in famiglia. Tutti a casa mia, anche le donne, erano contrarie a quella parola da donnette. L’unica ad ammettere che l’amore era degno di essere preso in considerazione era mia madre, ma la faceva così complicata! Doveva essere un amore libero da convenzioni, da ricatti psicologici o finanziari… Insomma era meglio stornare il discorso sulla Grecia antica, la politica o la filosofia…

I.: Tua madre, Maria Giudice! Grande intellettuale rivoluzionaria.

G.: Su Maria non mi soffermo perché, come mio padre, è conosciutissima: era stata pure lei in galera per il bene degli oppressi. Studiava, e allora dovevo studiare anch’io per diventare come lei. Ecco la donna che Jean non avrebbe potuto non amare, se l’avesse incontrata. È stato mio fratello Ivanoe che si è preso cura di me in modo materno. La zia Grazia si indignava: Povera figlia, che unghie! Non è possibile che tua madre non te le tagli mai! Diceva. Oh, ma che razza di mutandoni porti? Sembri incinta, povera figlia! È possibile che tua madre… Mia madre chi? Rispondevo. Ivanoe? Ma Ivanoe deve dare tre esami…

I.: Ma come ti vedevi, cosa volevi realizzare da grande?

G.: La mamma mi diceva: potresti diventare medico, avvocato, come tuo padre: preparati a diventare sindacalista come me, per quando il fascismo finirà.

I.: Lei in fondo era la tua difesa da un destino di donna chiusa in casa a fare figli, di una donnetta come diceva lei.

G.: Quando ho saputo che alla mia amica Nica era venuto il sangue e doveva stare a casa ad aspettare un marito, ho avuto orrore. Mi chiedevo se veniva a tutte le femmine. Anche mia madre l’aveva? Mia madre non aveva detto sono donnette che non sanno fare altro che aspettare un marito? E aveva anche detto tu Goliarda, non sei una donnetta. Infatti io non volevo un marito, ma un compagno, come lei…Sarei stata come mia madre e se non aspettavo un marito, il sangue non sarebbe venuto.

I.: Tu hai sempre manifestato distacco nei confronti di figure, legate alla tradizione del sud, che rimandano un’immagine di miseria femminile.

G.: Sono modelli pericolosi per le donne, ma anche per tutta la società. Donne come la signora Bruno, sacco nero sformato che apre la porta di casa con le mani umide di farina, che prega o frigge; o come la madre di Modesta che urla o tace; o come madre Leonora, la superiora del convento, che ricamava e pregava perché abitua all’umiltà e all’obbedienza. Diventerò anch’io una dotta? Domandavo. Pazzerella che sei! A che ti servirebbe se sei una donna? Rispondeva. La donna non può arrivare mai alla sapienza dell’uomo.

I.: Tua madre è stato per te il più straordinario modello di forza femminile. Mi chiedo quanta di questa forza contenga la tua personaggia Modesta.

G: Maria Giudice fa una fugace apparizione in L’arte della gioia, la cito tra le donne di riconosciuta autorità della nostra storia. Modesta ha la forza che conduce alla libertà, è il sogno realizzato di una vita libera.

I.: Ma l’equilibrio psichico di tua madre crollerà.

G.: Pazzia… Le è scoppiata tra le mani proprio quando il suo nemico cadde distrutto. Cadendo lui, si ruppe la tensione per la quale aveva vissuto estraniandosi da se stessa.

I.: L’hai assistita nella sua malattia per tre anni.

G.: Diventai madre di mia madre. Ora provo grande rimorso, ma mi vendicavo facendole vedere come si cura una figlia, lei che occupandosi solo della mia mente, mi aveva trascurata in tutti i modi.

I.: La fine tragica, segnata dalla pazzia, ha contraddistinto donne forti e autorevoli.

G.: Penso a Virginia Woolf suicidatasi dopo avere scritto Orlando: come può stare vicina a quest’atto assurdo tanta freschezza e fantasia gioiosa: cosa l’ha tradita? Io so cosa. Ha pagato il suo osare entrare tra i grandi senza tradire il suo essere donna. Spero di farlo anch’io col tempo. La follia sembrerebbe quasi un porto per tutte le donne che falliscono; allora perché anche per Virginia e per mia madre lo è stato? Probabilmente la loro riuscita non appagava il tribunale antico di donna che le giudicava traditrici per aver osato uscire dai limiti concessi. Per loro era una condanna che le faceva sentire in colpa e le rendeva infelici anche mietendo grandi successi. Quanto a me, probabilmente non diventerò mai pazza, ma disertrice mi sento già.

I.: Sei stata in carcere per un breve periodo. Che avevi fatto?

G.: Ti rispondo come a Giovannella, una piccoletta incinta incontrata a Rebibbia: sai cosa ho fatto per finire qui? Un lungo viaggio in Russia e in Cina che ha spazzato quel poco d’etica che mi era rimasta… Da dodici anni non riuscivo più a pubblicare una riga; per dieci anni ho lavorato a un lungo romanzo e nel frattempo tutto cambiava: amici, situazioni, rapporti. Ero scivolata da ultimo in un ambiente pseudo-libero, pseudo-elegante, e così ho rubato a una di queste pseudo-signore per punirla. O per punirmi? Insomma un bell’acting-out da manuale.

I.: In carcere hai imparato in fretta, suppongo.

G.: Lì sai subito chi sarai nella vita, non ti è concesso crogiolarti nel falso problema di cercare la tua identità. Non c’è differenza fra dentro e fuori. Le donne conosciute sono comuni, come quelle che si incontrano per strada. Il carcere è sempre stato la febbre che rivela la malattia del corpo sociale: continuare ad ignorarlo può farci ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista.

I.: La tua ricerca di verità cosa ti ha fatto scoprire in carcere?

G.: Queste donne conoscono l’arte dell’attenzione all’altro, sanno che dalla condizione di una dipende quella delle altre: attenzione e solidarietà a chi ti è amica, ostruzionismo a chi ti è nemica. Impossibile trovare sfumature in questo consorzio: lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi del profondo. Questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque può imparare il linguaggio primo.

I.: Credi ancora che tenersi stretti al sogno sempre, e sfidare anche la morte per non perderlo mai, come affermi in Io, Jean Gabin, sia l’unica via possibile?

G.: Sento ancora la sua voce: La vita è lotta, ribellione e sperimentazione, di questo ti devi entusiasmare giorno per giorno e ora per ora. Vedi me, sono morto tante volte combattendo, eppure sono qui con te tranquillo a ricordare e gioire delle mie lotte, pronto a rinascere e a ricominciare…

questo è il segreto … da lui solo sgorga quella che comunemente chiamiamo Vita.

I.: Ti ringrazio Goliarda per la tua grandezza che arricchisce tutte e tutti noi e per quel grande amore di vita che trasmettono sempre le tue parole.


Estratto a cura di Emi Monteneri in “Le personagge sono voci interiori” a cura di Gisella Modica. Vita Activa, Trieste, 2016


(Letterate Magazine, 10 maggio 2023)

di Davide Re 


Asse tra Lega e Partito democratico contro la procreazione assistita. Al Comune di Milano, le consigliere comunali Deborah Giovanati (del Carroccio) e la consigliera Roberta Osculati (eletta nelle fila dei dem) hanno presentato un documento congiunto per chiedere all’amministrazione guidata dal sindaco Beppe Sala di fare chiarezza sull’evento “Wish for a baby” (desiderare un bambino), il cui scopo è, scrivono gli organizzatori della manifestazione, «far incontrare gratuitamente i migliori esperti di fertilità di tutto il mondo», ma in pratica per offrire servizi e informazioni sulle varie tecniche di procreazione assistita.

L’evento è in programma nello stesso periodo (sabato 20 e domenica 21 maggio), negli stessi spazi, con le stesse finalità di quello programmato e poi sospeso un anno fa a Milano e per questo le consigliere hanno depositato un ordine del giorno «che invita l’amministrazione comunale a fare chiarezza sulla manifestazione e ad attivarsi con la questura e le forze dell’ordine per evitare che venga pubblicizzata la maternità surrogata, in palese violazione della legge italiana».

«Non possiamo accettare – hanno spiegato Giovanati e Osculati – che vengano surrettiziamente passati contenuti contrari alle norme in vigore nel nostro Paese, che con l’art. 12 della Legge 40/2004 vieta e sanziona qualsiasi forma anche solo di pubblicizzazione della maternità surrogata».

«Noi ci opponiamo totalmente ad una manifestazione che, utilizzando gli strumenti tipici del marketing e della pubblicità più accattivante, propone di fatto una idea di bambini trasformati in merce e del corpo delle donne in contenitore – ha detto la capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, Luana Zanella –. È una grave offesa alle donne. Perciò ho rivolto una interrogazione al ministro della Salute Schillaci per chiedere: iniziative per impedire lo svolgimento della fiera “Wish for a baby”; se l’evento violi la legge sulla fecondazione; se risulta che la fiera abbia usufruito di sovvenzioni dirette e indirette da parte di soggetti pubblici; se non ritenga che la fiera, pubblicizzando il mercato globalizzato di gameti e di embrioni non sponsorizzi di fatto la surrogazione di maternità». “Wish for a baby” è presentato nei siti, ha detto ancora Zanella, come «primo evento gratuito interamente dedicato alla fertilità e alla genitorialità. In realtà è una fiera della maternità in provetta e delle tecniche di procreazione assistita che si è già svolta in altre capitali europee».

Contraria alla manifestazione, definita senza troppi giri di parole: «La fiera della provetta», anche la rete di associazioni femministe e Lgbt, che tra le sue fila annovera realtà come Arcilesbisca e Resistenza Femminista e molte altre: «La pratica dell’utero in affitto consiste nel disporre di corpi di donne per avere bambine e bambini su ordinazione».


(Avvenire, 9 maggio 2023)

di Annalisa Ambrosio


Ci sono vite che vengono raccontate più spesso di altre e quella di Hannah Arendt è certamente tra queste. Forse il suo personaggio letterario è così interessante perché è polifonico e attraversa i generi in maniera libera e anticonvenzionale: europea naturalizzata americana, filosofa che finisce per passare alla storia come reporter, in pochi anni allieva prediletta di Martin Heidegger e pure di Karl Jaspers, è intellettuale e due volte moglie, ha svariate lingue all’attivo e amici famosi sparsi in tutto il mondo. Come materiale è piuttosto ghiotto per desiderare di scriverne, ma anche un ginepraio dal punto di vista storiografico, perché la sua esistenza interseca di continuo la Storia, e di lei si potrebbe dire senza troppa esitazione che – talvolta suo malgrado – si trovava là dove le cose accadevano e, quando non capitava, prendeva un aereo per andarci. Così, infine, se il romanzo di Hildegard E. Keller racconta di nuovo Hannah, il compito principale di ogni recensore è quello di chiedersi che cosa c’era da aggiungere ancora e qual è la qualità essenziale di questo racconto.

Prima di rispondere alla domanda, meglio spiegare brevemente com’è fatto il libro di 508 pagine, che è uscito da poco per Guanda. Intanto si parte dalla fine, perché il primo capitolo prende il titolo di L’ultima estate (trad. di Silvia Albesano), e si ambienta in effetti durante il viaggio per Tegna, meta svizzera della residenza estiva di Hannah Arendt, che poi è morta lo stesso anno a New York di un attacco cardiaco. Da qui, dall’ultimo anno di vita, si saltabecca nel passato e di nuovo nel futuro in un grande slalom che va da Manhattan a Colonia, da Berkeley a Gerusalemme e così via. Nonostante la mobilità sia spaziale sia temporale, il perno del romanzo resta l’estate svizzera, e questo non è un dettaglio da poco perché conferisce alla biografia una specie di stadio parallelo, di tempo non tempo, di calma, di lentezza particolare, come se paradossalmente il punto migliore dal quale osservare una vita come quella di Arendt non fosse il lavoro o l’opera, il segno che ha lasciato nel mondo, la vita activa, ma semmai il suo respiro intimo, il ritiro, la solitudine matura. In fin dei conti è in questo spazio non congestionato dal calendario o dalla corsa del mondo, contemplativo, che un intellettuale si mostra come tale di fronte a sé stesso, cioè sceglie liberamente di dedicare le sue ore a pensare, perché così si sente in vita, o sereno, al riparo dai colpi della fortuna. Oltre a non fare del romanzo un thriller, una simile impostazione scelta da Keller ha significato per lei affrontare una difficoltà tecnica spaventosa: non è semplice rappresentare l’affioramento del pensiero, spingersi a mostrare come ha pensato una persona realmente esistita, e farlo non tanto ripercorrendo il suo ragionamento, quanto invece simulando quel che capita quando flash, intuizioni, considerazioni nuove sorgono negli attimi di pausa, si affacciano da una balaustra apparentemente vuota.

Qui siamo di nuovo a Tegna, è il 1° agosto del 1975: «Alle sue spalle sentiva le auto che sfrecciavano sul ponte e una sorta di crepitio proveniente da Tegna, come fuochi d’artificio. Si riscosse, si sporse in avanti con cautela e aspirò a pieni polmoni la frescura che saliva verso di lei dall’orrido gorgogliante. I fiumi sono fondamentali, cari fiumi. È davvero un grande mistero come un piccolo torrente di montagna possa trasformarsi nel Colorado River. Senza fiumi la terra sarebbe perduta, ma l’orrido della Maggia è davvero unico. Nella sua ultima estate lì, anche Heinrich aveva sgranato gli occhi, quando si era trovato accanto a lei su quel ponte». Non è che un esempio di come Keller, che ora insegna storytelling all’Università di Zurigo, ha scelto di procedere e di gestire il palcoscenico.

Hannah guarda il panorama della valle e la sua meraviglia arriva dai sensi, pensare a tutti i fiumi del mondo è un bisogno che fa tutt’uno col respiro, ma tutti i fiumi del mondo con le loro ragioni si fondono fino a ritornare a coincidere con quell’unica visione dell’orrido davanti ai suoi occhi, perché qualcosa di più carsico affiora, ed è il ricordo di Heinrich. Oltre a essere ragionevolmente credibile e autentica, questa ricostruzione dell’andamento del pensiero ha il vantaggio, per l’autrice, di fare risvegliare visioni nelle visioni, ricordi nei ricordi. Al passato più lontano o più prezioso di Hannah, nel corso del libro, si accede la maggior parte delle volte così, con la tecnica dell’affioramento, casuale e non causale – dopotutto arriviamo a conoscerci abbastanza da comprendere che le figure della nostra mente ricorrono, si riverberano tra loro e non escono mai dal nulla. Anche se a prima vista una simile strategia di racconto potrebbe apparire lenta, una volta compreso il gioco, lo spazio contemplativo diventa confortevole per il lettore perché il più delle volte è caldo, sentimentale, è il luogo privilegiato degli amori presenti e passati di Hannah Arendt, ma anche dei suoi problemi più espressamente filosofici.

Questa descrizione dello stile e del taglio scelto da Keller per affrontare Arendt nel suo primo libro potrebbe indurre a pensare che il testo sia statico, seduto: non è così, non è un genere di romanzo in forma di terra desolata, senza altre persone eccetto la protagonista, è bello anzi notare come sia pieno di dialoghi con amici, mariti, ma anche con estranei o nuovi incontri che tra le pagine finiscono per brillare e diventare qualcosa. Tra questi svettano soprattutto le amicizie femminili, come quella con la poetessa Ingeborg Bachmann o con la giovane Annemarie, una ragazza che Hannah incontra per la prima volta alla redazione del giornale per cui lavora e di cui farà la fortuna, convincendo suo padre a lasciarle frequentare l’Università. Negli scampoli diffusi di abitudine e di mondanità si avverte il piglio pragmatico di Arendt, la sua capacità di tenere insieme le cose, i pensieri e le persone, di istituire cerchie di legami, nonché il suo stile di scrittura e di insegnamento.

Proprio all’insegnamento è dedicata una delle scene più vivide di tutto il libro.

Siamo a Berkeley, nei primi anni Cinquanta, e dopo la presentazione del corso in Political Science un ragazzo chiede alla professoressa Arendt di illustrare per cortesia le modalità d’esame, lei risponde: «Chi vuole un buon voto, nel mio corso, dovrà imparare a pensare, al di là dell’argomento, ma naturalmente possiamo pensare sempre e solo sulla base di contenuti concreti. Sarete voi a proporre gli esempi, non io». Di lì a poco si parlerà di totalitarismo, di comunismo, di lager, di democrazia, ovviamente di Europa e di America. Alla fine, Hannah dirà anche che cosa è strettamente necessario consegnare per superare l’esame, e diventerà un’insegnante piuttosto amata, per quanto divisiva. Tra le richieste più spiazzanti ai suoi studenti, poi, si registra quella di presentarsi in aula portando una poesia.

E proprio la poesia è un’altra grande protagonista di questo romanzo, che prende il titolo da alcuni versi di Hannah stessa: «Quel che siamo e sembriamo / oh, a chi importa. / Quel che facciamo e pensiamo / non toglie il sonno a nessuno». I suoi stessi versi le sovvengono mentre parla alla nuova amica Barbara del legame che aveva maturato con Walter Benjamin, negli anni prima che per lui fosse troppo tardi. È come un problema di matematica o di geometria di cui questi versi rappresentano solo la necessaria premessa senza poi fornire la conclusione e la soluzione, anche perché la poesia è appena iniziata e non finisce qui, come se l’invito di Hannah, nella strategia di Keller, fosse quello di sfidare i lettori ad andarla a cercare, a ritrovare la poesia, a leggerne il finale. È questa la fatica del biografo, prima, dopo e durante la ricerca: scontrarsi con una materia al tempo stesso incandescente e completamente inutile o indifferente, un sacro fuoco di paglia. Andare sempre più vicino al posto in cui brucia una vita, e trovarsi con un pugno di mosche, cioè a toccare con mano che alle fine tutte le vite si assomigliano e si esauriscono nel rapporto evanescente tra «quel che siamo e quel che sembriamo», appunto. Eppure, Keller ha scelto la seconda parte del verso per il titolo del suo libro, forse perché gli altri, per quanto di noi sappiano o abbiano studiato, non possono che limitarsi a dire quello che a loro è apparso.

Tra le pagine sono molto diffuse le citazioni di Arendt, delle sue poesie, degli articoli, dei saggi, delle lettere: sono preceduti e seguiti da un cambio di paragrafo come una piccola riverenza. Sono utili per dare ritmo e aria al testo, ma anche estremamente eloquenti rispetto alle scene raccontate. È evidente che sono stati disseminati con precisione laddove era importante dire qualcosa senza giri di parole, andando dritti alla fonte.

Un’ultima cosa da dire su questa biografia riguarda il suo rapporto con le urgenze del lettore, che hanno sempre un tratto morboso: sentire e vedere l’amore con Martin Heidegger, sentire e vedere il processo a Adolf Eichmann, magari sentire e vedere la paura di una giovane donna ebrea di fronte al Vecchio Continente in fiamme. Keller ha grande riserbo nei confronti degli aspetti più delicati o spettacolari della vita di Arendt, ce li fa arrivare illuminati da una luce circonfusa. Ci sono ma non sono il vettore principale, non sono il compimento di nessuna parabola. È un punto forte del libro che, una volta arrivati alla conclusione, un’illuminazione di altro tipo, più diretta, non ci sia mancata per niente. Abbiamo guadagnato anzi dei ritratti più delicati e altrettanto coinvolgenti, come nei capitoli iniziali dedicati al rapporto di Hannah con sua madre Martha. È un piacere sentirle parlare, vedere una figlia affezionata ma schiva e una mamma innamorata della sua figlia eccezionale. È un conforto, infine, accorgersi che anche per le più grandi personalità vale la regola che «Quel che facciamo o pensiamo», la gran parte delle volte, «non toglie il sonno a nessuno» eccetto che a nostra madre.


(Doppiozero, 9 maggio 2023)

di Naomi Klein


I CEO del settore tecnologico vogliono farci credere che l’IA generativa porterà benefici all’umanità. Si stanno prendendo in giro da soli.


Tra i molti dibattiti che ruotano intorno alla rapida diffusione della cosiddetta intelligenza artificiale, c’è un conflitto relativamente oscuro incentrato sulla parola “allucinazione”.

Questo è il termine scelto da architetti e fautori dell’intelligenza artificiale generativa, per descrivere le risposte del tutto inventate o sbagliate fornite dai chatbot. Come per esempio quando si chiede a un bot la definizione di qualcosa che non esiste e lui, in modo piuttosto convincente, ce ne dà una, completa di note a piè di pagina inventate. «Nessuno del campo ha ancora risolto i problemi di allucinazione», ha dichiarato recentemente a un intervistatore Sundar Pichai, CEO di Google e Alphabet.

È vero, ma perché chiamare gli errori “allucinazioni”? Perché non “spazzatura algoritmica”? O glitch (problema tecnico)? L’allucinazione si riferisce alla misteriosa capacità del cervello umano di percepire fenomeni che non sono presenti, almeno non in termini convenzionali e materialistici. Appropriandosi di una parola comunemente usata in psicologia, nella psichedelia e in varie forme di misticismo, i sostenitori dell’IA, pur riconoscendo la fallibilità delle loro macchine, stanno contemporaneamente alimentando la mitologia più cara al settore: quella secondo cui, costruendo questi grandi modelli linguistici e addestrandoli su tutto ciò che noi umani abbiamo scritto, detto e rappresentato visivamente, i fautori dell’IA stanno mettere al mondo un’intelligenza animata che è sul punto di innescare un salto evolutivo per la nostra specie. Altrimenti come farebbero bot come Bing e Bard a volteggiare nell’etere?

Certamente nel mondo dell’intelligenza artificiale sono in atto allucinazioni distorte, ma non sono i bot ad averle; sono i CEO delle imprese tecnologiche che li hanno scatenati, insieme a una falange di loro fan, a essere in preda ad allucinazioni selvagge, sia individualmente che collettivamente. Definisco l’allucinazione non in senso mistico o psichedelico, ovvero stati di alterazione della mente che possono effettivamente aiutare ad accedere a verità profonde e non percepite in precedenza. No. Queste persone sono semplicemente in trip: vedono, o almeno sostengono di vedere, prove che non ci sono affatto, persino evocando interi mondi che metteranno i loro prodotti al servizio del nostro miglioramento e della nostra istruzione universale.

L’intelligenza artificiale generativa porrà fine alla povertà, ci dicono. Curerà tutte le malattie. Risolverà il cambiamento climatico. Renderà i nostri lavori più significativi ed emozionanti. Scatenerà vite piene di contemplazione e svago, aiutandoci a recuperare l’umanità che abbiamo perso a causa della meccanizzazione del tardo capitalismo. Metterà fine alla solitudine. Renderà i nostri governi razionali e reattivi. Temo che queste siano le vere allucinazioni dell’IA e le abbiamo sentite in continuazione da quando Chat GPT è stato lanciato alla fine dell’anno scorso.

Esiste un mondo in cui l’IA generativa, come strumento potente di ricerca predittiva e come esecutore di compiti noiosi, potrebbe essere davvero utilizzata a beneficio dell’umanità, delle altre specie e della comunità. Ma perché ciò accada, queste tecnologie dovrebbero essere impiegate all’interno di un ordine economico e sociale molto diverso dal nostro, ovvero di un sistema che abbia come scopo la soddisfazione dei bisogni umani e la protezione di tutto l’ecosistema a sostegno della vita. E come sanno bene quelli di noi che al momento non stanno incappando in errori, il nostro sistema attuale non è affatto così. Piuttosto, è costruito per massimizzare il ricavo di ricchezza e profitto, sia dagli esseri umani che dal mondo naturale, una realtà che ci ha portato a quella che potremmo definire la fase tecno-necro del capitalismo. In questa realtà fatta di potere e ricchezza iper-concentrati, l’intelligenza artificiale, lungi dall’essere all’altezza di tutte quelle allucinazioni utopiche, è molto più probabile che diventi un temibile strumento di ulteriore espropriazione e razzia.

Approfondirò il perché di questa situazione. Ma prima è utile riflettere sul perché e a chi siano utili le allucinazioni utopiche sull’IA. Che operazione stanno facendo nella cultura queste storie benevole, nel momento in cui ci imbattiamo in questi nuovi e strani strumenti? Ecco un’ipotesi: si tratta di storie di copertura potenti e allettanti, per quello che potrebbe rivelarsi il furto più grande e ambizioso della storia umana. Perché stiamo assistendo all’appropriazione unilaterale della totalità della conoscenza umana che esiste in forma digitale, raggiungibile da chiunque, da parte delle aziende più ricche della storia (Microsoft, Apple, Google, Meta, Amazon…) per blindarla all’interno di prodotti proprietari, molti dei quali prenderanno di mira direttamente gli esseri umani, che con il lavoro di una vita hanno istruito le macchine senza dare il loro permesso né consenso.

Questo non dovrebbe essere legale. Nel caso di materiale protetto da copyrigh (compreso questo giornale) che, come sappiamo, ha addestrato i modelli, sono state intentate diverse cause per sostenere che si tratta di una pratica chiaramente illegale. Perché, ad esempio, una società a scopo di lucro dovrebbe essere autorizzata a inserire i dipinti, i disegni e le fotografie di artisti viventi in un programma come Stable Diffusion o Dall-E 2, che può generare copie delle opere di quegli stessi artisti, con profitti vanno a tutti tranne che agli autori?

La pittrice e illustratrice Molly Crabapple sta contribuendo a guidare un movimento di artisti che sfidano questo furto. «Le IA generatrive nel campo dell’arte sono addestrate su enormi insiemi di dati, contenenti milioni e milioni di immagini protette da copyright, raccolte senza che i loro creatori ne siano a conoscenza, tanto meno con un compenso o un consenso. Si tratta di fatto del più grande furto d’arte della storia. Perpetrato da aziende dall’apparenza rispettabile, sostenute dal capitale di rischio della Silicon Valley. È una rapina alla luce del sole.», si legge in una nuova lettera aperta di cui lei è una delle autrici.

Il trucco, naturalmente, è che la Silicon Valley è solita chiamare il furto “disruption” [crollo del sistema], e troppo spesso la fa franca. Conosciamo questa mossa: avanzare in un territorio non ancora regolamentato; sostenere che le vecchie regole non si applicano alla nuova tecnologia; urlare che la regolamentazione aiuterà solo la Cina – il tutto mentre hai il tuo solido tornaconto. Quando tutti noi saremo oltre la novità di questi nuovi giocattoli e inizieremo a fare un bilancio dei danni sociali, politici ed economici, la tecnologia sarà già così onnipresente che i tribunali e i politici non potranno che tirarsi indietro. Lo abbiamo visto con la digitalizzazione di libri e opere d’arte di Google. Con la colonizzazione dello spazio di Musk. Con l’assalto di Uber all’attività dei taxi. Con l’attacco di Airbnb al mercato degli affitti. Con la promiscuità di Facebook con i nostri dati. Non chiedete il permesso, dicono i distruttori, chiedete scusa (e oliate le domande con generosi contributi agli ingranaggi delle campagne elettorali).

In The Age of Surveillance Capitalism (“Il capitalismo della sorveglianza”), Shoshana Zuboff descrive minuziosamente il modo in cui Google ha aggirato le norme sulla privacy per fare le mappe di Street View, inviando le sue auto dotate di telecamere a fotografare le vie e gli esterni delle nostre case. Quando sono iniziate le cause in difesa dei diritti alla privacy, Street View era già così onnipresente sui nostri dispositivi (e così bella, e così comoda…) che pochi tribunali sono stati disposti a intervenire, tranne in Germania.

Ora la stessa cosa che è accaduta all’esterno delle nostre case sta accadendo alle nostre parole, alle nostre immagini, alle nostre canzoni, alle nostre intere vite digitali. Oggi tutti vengono sequestrati e utilizzati per addestrare le macchine a simulare il pensiero e la creatività. Queste aziende sanno di essere impegnate in un furto, o perlomeno sanno che è possibile dimostrarlo. Sperano solo che il vecchio copione funzioni ancora una volta, cioè che la portata del furto sia già così grande e che si stia svolgendo con tale rapidità da indurre tribunali e politici ad alzare le mani di fronte alla presunta inevitabilità di tutto questo.

È anche per questo che le allucinazioni su tutte le cose meravigliose che farà l’IA per l’umanità sono così importanti. Perché le loro nobili affermazioni travestono da dono questo furto di massa, e intanto aiutano a razionalizzare gli innegabili pericoli dell’IA.

Ormai la maggior parte di noi ha sentito parlare del sondaggio che ha chiesto a ricercatori e sviluppatori di IA di stimare la probabilità che i sistemi avanzati di IA causino «l’estinzione umana o una grave e permanente riduzione della specie umana». In modo agghiacciante, la risposta media è stata che c’era una probabilità del 10%.

Come si fa a razionalizzare il fatto che si vada a lavorare per realizzare strumenti che comportano tali rischi per l’esistenza? Spesso, la ragione addotta è che questi sistemi presentano anche enormi vantaggi potenziali, solo che questi vantaggi sono, per la maggior parte, allucinazioni. Analizziamo alcuni di dei vantaggi più bizzarri.

Allucinazione n. 1: l’IA risolverà la crisi climatica

Quasi sempre in cima agli elenchi dei vantaggi dell’IA c’è l’affermazione che risolverà in qualche modo la crisi climatica. Lo abbiamo sentito dire da tutti, dal World Economic Forum al Council on Foreign Relations, fino al Boston Consulting Group, che spiega che l’IA «può essere utilizzata per supportare tutte le parti interessate ad adottare un approccio più informato e guidato dai dati per combattere le emissioni di carbonio e costruire una società più verde. Può anche essere impiegata per riequilibrare gli sforzi globali per il clima verso le regioni più a rischio». L’ex CEO di Google, Eric Schmidt, ha riassunto il caso quando ha dichiarato all’Atlantic che vale la pena di correre i rischi dell’IA, perché «se si pensa ai problemi più grandi del mondo, sono tutti molto difficili: il cambiamento climatico, le organizzazioni umane e così via. Quindi, voglio che le persone siano sempre più intelligenti».

Secondo questa logica, l’incapacità di “risolvere” grandi problemi come il cambiamento climatico è dovuta a un deficit di intelligenza. Non importa che persone intelligenti, con tanto di dottorati e premi Nobel, abbiano detto ai nostri governi per decenni che cosa si deve fare per uscire da questo pasticcio: ridurre le emissioni, non estrarre combustibili fossili, affrontare il sovraconsumo dei ricchi e il sottoconsumo dei poveri perché nessuna fonte di energia è esente da costi ecologici.

Questo consiglio molto intelligente è stato ignorato non per un un problema di comprensione, o perché in qualche modo abbiamo bisogno di macchine che pensino per noi. È perché fare ciò che la crisi climatica ci richiede significherebbe bloccare trilioni di dollari di risorse di combustibili fossili e sfidare il modello di crescita basato sul consumo, che è alla base delle nostre economie interconnesse. La crisi climatica non è, infatti, un mistero o un enigma che non abbiamo ancora risolto a causa di dati non sufficientemente robusti. Sappiamo cosa sarebbe necessario, ma non è una soluzione rapida: è un cambio di paradigma. Aspettare che le macchine sfornino una risposta più appetibile e/o redditizia non è una cura per questa crisi, ma un ulteriore sintomo.

Elimina le allucinazioni, e ti sembrerà più probabile che l’IA è introdotta sul mercato in modi che aggravano attivamente la crisi climatica. In primo luogo, i server giganti che rendono possibile la produzione istantanea di saggi e opere d’arte da parte dei chatbot sono una fonte enorme e crescente di emissioni di carbonio. In secondo luogo, dal momento che aziende come Coca-Cola iniziano a fare ingenti investimenti per utilizzare l’intelligenza artificiale generativa per vendere più prodotti, sta diventando fin troppo chiaro che questa nuova tecnologia sarà utilizzata nello stesso modo in cui è stata utilizzata l’ultima generazione di strumenti digitali: ciò che inizia con promesse altisonanti circa la diffusione della libertà e della democrazia finisce per spedirci pubblicità mirate, per indurci a comprare sempre più cose inutili, che producono emissioni di carbonio.

C’è poi un terzo fattore, un po’ più difficile da individuare. Più i nostri canali mediatici vengono inondati da deep-fake (notizie profondamente false) e cloni di vario genere, più abbiamo la sensazione di sprofondare nelle sabbie mobili dell’informazione. Geoffrey Hinton, spesso definito “il padrino dell’IA” perché la rete neurale che ha sviluppato più di dieci anni fa forma gli elementi costitutivi degli attuali modelli linguistici di grandi dimensioni, lo sa bene. Ha appena lasciato un ruolo dirigenziale in Google per poter parlare liberamente dei rischi della tecnologia che ha contribuito a creare, tra cui, come ha dichiarato al New York Times, il rischio che le persone «non siano più in grado di sapere cosa è vero».

Questo è molto importante in relazione all’affermazione secondo cui l’IA aiuterà a combattere la crisi climatica. Perché quando diffidiamo di tutto ciò che leggiamo e vediamo i nostri media come sempre più inquietanti, ci ritroviamo ancora meno attrezzati per risolvere i pressanti problemi collettivi. La crisi di fiducia è precedente a ChatGPT, ovviamente, ma è indubbio che la proliferazione di deep-fake sarà accompagnata da un aumento esponenziale delle culture cospirative già ora fiorenti. Che differenza farà, quindi, se l’intelligenza artificiale si inventerà delle scoperte tecnologiche e scientifiche? Se il tessuto della realtà che condividiamo si sta disfacendo nelle nostre mani, ci troveremo incapaci di rispondere con coerenza.

Allucinazione n. 2: l’IA ci governerà con saggezza

Questa allucinazione evoca un futuro prossimo in cui i politici e i burocrati, attingendo alla vasta intelligenza aggregata dei sistemi di IA, saranno in grado di «vedere i modelli di bisogno e sviluppare programmi basati sull’evidenza» che produrranno maggiori benefici per i loro elettori. Questa affermazione proviene da un documento pubblicato dalla fondazione del Boston Consulting Group, ma trova eco in molti think-tank e società di consulenza manageriale. Ed è significativo che proprio queste società – quelle assunte da governi e aziende per individuare i risparmi sui costi, spesso licenziando un gran numero di lavoratori – siano state le più veloci a salire sul carro dell’IA. PwC (ex PricewaterhouseCoopers) ha appena annunciato un investimento di un miliardo di dollari, mentre Bain & Company e Deloitte sarebbero entusiaste di utilizzare questi strumenti per rendere i loro clienti più “efficienti”.

Come per le affermazioni sul clima, è necessario porsi un interrogativo: il motivo per cui i politici impongono politiche crudeli e inefficaci è che soffrono per mancanza di evidenze? Sarebbe un’incapacità di “vedere gli schemi”, come suggerisce il documento del BCG? Davvero non comprendono i costi umani quando tolgono risorse all’assistenza sanitaria pubblica in mezzo alle pandemie, o quando non investono in edilizia pubblica viste le tende che riempiono i nostri parchi urbani, o quando approvano nuove infrastrutture per i combustibili fossili mentre le temperature salgono? Hanno bisogno che l’intelligenza artificiale li renda “più intelligenti”, per usare il termine di Schmidt, o sono abbastanza intelligenti da sapere chi finanzierà la loro prossima campagna elettorale e che, se si allontanano dalle sue aspettative, finanzierà i loro rivali?

Sarebbe molto bello se l’intelligenza artificiale fosse davvero in grado di recidere il legame tra il denaro delle aziende e la politica sconsiderata, ma questo legame ha completamente a che fare con il motivo per cui aziende come Google e Microsoft sono state autorizzate a rilasciare i loro chatbot al pubblico, nonostante la valanga di avvertimenti e i rischi noti. Schmidt e altri hanno condotto per anni una campagna di lobbying per dire a entrambi i partiti di Washington che se non fossero stati liberi di andare avanti con l’IA generativa, senza essere intralciati da una seria regolamentazione, le potenze occidentali non sarebbero state al passo con la Cina. L’anno scorso, le principali aziende tecnologiche hanno speso la cifra record di 70 milioni di dollari per fare pressione su Washington – più del settore petrolifero e del gas – e questa somma, osserva Bloomberg News, si aggiunge ai milioni spesi «per la loro vasta gamma di gruppi commerciali, organizzazioni non profit e think-tank».

Eppure, nonostante la conoscenza di come il denaro plasmi la politica nelle nostre capitali nazionali, sembra tutto dimenticato quando si ascolta Sam Altman, l’amministratore delegato di OpenAI (produttrice di ChatGPT), parlare degli scenari migliori per i suoi prodotti. Sembra che lui abbia l’allucinazione di un mondo completamente diverso dal nostro, un mondo in cui i politici e l’industria prendono le decisioni migliori basate sui dati e non metterebbero mai a repentaglio vite umane per profitto e vantaggio geopolitico. Il che ci porta a un’altra allucinazione.

Allucinazione n. 3: fidarsi che i giganti tecnologici non distruggano il mondo

Alla domanda se è preoccupato per la frenetica corsa all’oro che ChatGPT ha già scatenato, Altman ha risposto che lo è, ma ha aggiunto fiduciosamente: «Speriamo che tutto si risolva». Dei suoi colleghi amministratori delegati del settore tecnologico – quelli che competono per far emergere i loro chatbot rivali – ha detto: «Penso che gli angeli migliori vinceranno».

Angeli migliori? A Google? Sono abbastanza certa che l’azienda abbia licenziato la maggior parte di loro perché pubblicavano articoli critici sull’IA o denunciavano il razzismo e le molestie sessuali sul posto di lavoro. Altri “angeli migliori” si sono dimessi allarmati, da ultimo Hinton. Questo perché, contrariamente alle allucinazioni delle persone che traggono maggior profitto dall’IA, Google non prende decisioni in base a ciò che è meglio per il mondo, ma in base a ciò che è meglio per gli azionisti di Alphabet, che non vogliono perdersi l’ultima bolla, non quando Microsoft, Meta e Apple sono già tutti dentro.

Allucinazione n. 4: l’intelligenza artificiale ci libererà dal lavoro

Se le benevole allucinazioni della Silicon Valley sembrano plausibili a molti, il motivo è semplice. L’IA generativa si trova attualmente in quella che potremmo definire la fase del finto socialismo. Questo fa parte di una procedura ormai familiare alla Silicon Valley. Per prima cosa, si crea un prodotto attraente (un motore di ricerca, uno strumento di mappatura, un social network, una piattaforma video, un servizio di ride sharing…); lo si mette a disposizione gratuitamente o quasi per alcuni anni, senza un modello di business percorribile («Giocate con i bot», ci dicono, «vedrete che cose divertenti potrete creare!»); si fanno un sacco di dichiarazioni altisonanti sul fatto che lo si sta facendo solo per creare una “piazza cittadina” o un “bene comune dell’informazione” o “per connettere le persone”, il tutto diffondendo la libertà e la democrazia (e non “per cattiveria”). Poi si sta a guardare come la gente si appassiona a questi strumenti gratuiti e i come i propri concorrenti dichiarano bancarotta. Una volta che il campo è libero, si introducono gli annunci mirati, la sorveglianza costante, i contratti con la polizia e i militari, la vendita di dati black-box e tariffe di abbonamento sempre più alte.

Molte vite e settori sono stati decimati da precedenti versioni di questo schema, dai tassisti ai mercati degli affitti ai giornali locali. Con la rivoluzione dell’IA, questo tipo di perdite potrebbe sembrare un errore di arrotondamento: insegnanti, programmatori, artisti visivi, giornalisti, traduttori, musicisti, operatori sanitari e molti altri si troveranno di fronte alla prospettiva di veder sostituito il proprio reddito da un codice difettoso.

Non preoccupatevi, gli appassionati di IA hanno le allucinazioni: sarà meraviglioso. A chi piace lavorare? L’IA generativa non sarà la fine del lavoro, ci dicono, ma solo del “lavoro noioso”, con i chatbot che si occuperanno di tutti i compiti ripetitivi che distruggono l’anima e gli umani che si limiteranno a supervisionarli. Altman, da parte sua, vede un futuro in cui il lavoro «può essere un concetto più ampio, non qualcosa che si deve fare per poter mangiare, ma qualcosa che si fa come espressione creativa e un modo per trovare appagamento e felicità».

Si tratta di una visione entusiasmante di una vita più bella e piacevole, condivisa da molti esponenti della sinistra (tra cui il genero di Karl Marx, Paul Lafargue, che aveva scritto un manifesto intitolato Il diritto all’ozio). Ma noi di sinistra sappiamo anche che se guadagnare denaro non deve più essere l’imperativo della vita, allora ci devono essere altri modi per soddisfare i nostri bisogni naturali di riparo e sostentamento. Un mondo senza lavori di merda significa che l’affitto deve essere gratuito, che l’assistenza sanitaria deve essere gratuita e che ogni persona deve avere diritti economici inalienabili. E allora improvvisamente non si parla più di IA, ma di socialismo.

Perché non viviamo nel mondo razionale e umanista ispirato allo Star Trek dell’allucinazione di Altman. Viviamo sotto il capitalismo e, in questo sistema, l’effetto dell’inondazione del mercato con tecnologie che possono plausibilmente svolgere i compiti di innumerevoli lavoratori non significa che queste persone siano improvvisamente libere di diventare filosofi e artisti. Significa che queste persone si ritroveranno a guardare l’abisso – e gli artisti veri e propri saranno tra i primi a cadere.

Questo è il messaggio della lettera aperta di Crabapple, che invita «gli artisti, gli editori, i giornalisti, i direttori e i leader dei sindacati del giornalismo a prendere un impegno per i valori umani contro l’uso di immagini generative-AI» e a «impegnarsi a sostenere l’arte editoriale fatta dalle persone, non dalle server farm». La lettera, ora firmata da centinaia di artisti, giornalisti e altri, afferma che tutti gli artisti, tranne quelli più elitari, trovano il loro lavoro «a rischio di estinzione». E secondo Hinton, il “padrino dell’IA”, non c’è motivo di credere che la minaccia non si diffonderà. I chatbot «tolgono il lavoro di fatica», ma «potrebbero togliere molto di più».

Crabapple e gli altri firmatari scrivono: «L’arte generativa dell’IA è vampirica, si nutre delle generazioni passate di opere d’arte mentre succhia la linfa vitale dagli artisti viventi». Ma ci sono modi per resistere: possiamo rifiutarci di usare questi prodotti e organizzarci per chiedere che anche i nostri datori di lavoro e i governi li rifiutino. Una lettera di importanti studiosi di etica dell’IA, tra cui Timnit Gebru, licenziata da Google nel 2020 per aver contestato la discriminazione sul posto di lavoro, illustra alcuni strumenti normativi che i governi possono introdurre immediatamente, tra cui la piena trasparenza su quali set di dati vengono utilizzati per addestrare i modelli. I firmatari scrivono: «Non solo dovrebbe essere sempre chiaro quando ci troviamo di fronte a media non-umani, ma le organizzazioni che costruiscono questi sistemi dovrebbero anche essere tenute a documentare e divulgare i dati di addestramento e le architetture dei modelli […] Dovremmo costruire macchine che lavorano per noi, invece di “adattare” la società per renderla leggibile e scrivibile dalle macchine».

Sebbene le aziende tecnologiche vorrebbero farci credere che sia già troppo tardi per ritirare questo prodotto di imitazione di massa che sostituisce l’uomo, ci sono precedenti legali e normativi molto rilevanti che possono essere applicati. Ad esempio, la Federal Trade Commission (FTC) degli Stati Uniti ha costretto Cambridge Analytica ed Everalbum, proprietaria di un’applicazione fotografica, a distruggere interi algoritmi che risultavano essere stati addestrati sulla base di dati e foto di provenienza illecita. Nei suoi primi giorni di vita, l’amministrazione Biden ha fatto molte affermazioni audaci sulla regolamentazione delle grandi tecnologie, compreso un giro di vite sul furto di dati personali per costruire algoritmi proprietari. Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, sarebbe il momento giusto per mantenere queste promesse e scongiurare la prossima serie di licenziamenti di massa prima che si verifichino.

Un mondo di deep fake, loop di mimetismo e peggioramento della disuguaglianza non è inevitabile. È un insieme di scelte politiche. Possiamo regolamentare l’attuale forma di chatbot vampirici e iniziare a costruire un mondo in cui le promesse più eccitanti dell’IA siano qualcosa di più che allucinazioni della Silicon Valley.

Perché abbiamo addestrato le macchine. Tutti noi. Ma non abbiamo mai dato il nostro consenso. Si sono nutrite dell’ingegno, dell’ispirazione e delle rivelazioni collettive dell’umanità (e insieme dei nostri tratti più venali). Questi modelli sono macchine chiuse e predatorie, che divorano e privatizzano le nostre vite individuali e le nostre eredità intellettuali e artistiche collettive. E il loro obiettivo non è mai stato quello di risolvere il cambiamento climatico o di rendere i nostri governi più responsabili o le nostre vite quotidiane più serene. È sempre stato quello di trarre profitto dall’immiserimento di massa che, nel capitalismo, è la conseguenza logica e lampante della sostituzione delle funzioni umane con i bot.

Tutto eccessivamente drammatico? Una resistenza soffocante e di testa rispetto a un’innovazione stimolante? Perché aspettarsi il peggio? Altman ci rassicura: «Nessuno vuole distruggere il mondo». Forse no. Ma come ci dimostrano ogni giorno la crisi climatica e il rischio di estinzione, in continuo peggioramento, un sacco di persone e istituzioni potenti sembrano ben consapevoli che stanno contribuendo a distruggere la stabilità dei sistemi di supporto vitale del mondo, pur di continuare a fare profitti record che credono proteggeranno loro e le loro famiglie dagli effetti peggiori. Altman, come molte creature della Silicon Valley, è lui stesso un prepper. Già nel 2016 si vantava: «Ho armi, oro, ioduro di potassio, antibiotici, batterie, acqua, maschere antigas dell’esercito israeliano e un grande pezzo di terra nel Big Sur dove posso volare».

Sono dell’idea che questa dichiarazione ci dica molto di più su ciò che Altman pensa realmente del futuro che sta contribuendo a scatenare rispetto a tutte le visioni fiorite che sceglie di condividere nelle interviste alla stampa.


Naomi Klein è editorialista e scrittrice del Guardian USA. È autrice dei bestseller No Logo e Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, nonché docente di giustizia climatica e co-direttrice del Centro per la giustizia climatica presso la University of British Columbia.


(theguardian.com, 8 maggio 2023 – articolo originale)


Staffetta dell’umanità

Appello a uomini e donne, alla società civile e ai leader politici contrari all’invio di armi in Ucraina, per dar vita domenica 7 maggio 2023 a una Staffetta dell’umanità che parte da Aosta, Bolzano e Trieste in un percorso che attraversa tutte le regioni d’Italia arrivando a Lampedusa. Una persona per chilometro, con una torcia in mano, camminerà per un chilometro all’unisono con le altre, unendo il paese in un desiderio di pace e di speranza contro la folle corsa alle armi dei governi. Contro la subalternità agli Stati Uniti e per difendere gli interessi degli italiani e dell’Europa. Questo il link dell’appello https://michelesantoro.it/2023/04/appello-ai-cittadini-alla-societa-civile-e-ai-leader-politici/


Alla staffetta hanno partecipato anche Odifreddi, Revelli e il “vescovo comunista” Bettazzi.

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di Melania Mazzucco


Nel gennaio del 1971, sulla rivista Art News, la storica dell’arte Linda Nochlin pubblicò un saggio dal titolo polemico: Perché non ci sono state grandi artiste? Benché l’autrice fosse una femminista, la domanda non era retorica, e nemmeno ironica, a sbeffeggiare la misoginia dominante nel pensiero occidentale. In effetti, fino al XX secolo, non si incontrano pittrici del valore di Giotto, Raffaello, Dürer, Caravaggio, Vermeer o van Gogh. Nochlin dimostrava che la risposta non stava in qualche carenza biologica, intellettuale o di talento. Bensì nelle condizioni materiali in cui le donne vissero e operarono. Il pamphlet, cui fece seguito nel 1976 la mostra Women Artists 1550 – 1950, curata dall’autrice con Ann Sutherland, ha dato l’abbrivio al dibattito sulla disparità di genere in arte e alla rivisitazione dell’arte creata dalle donne: ha stimolato le ricerche che hanno permesso via via la riscoperta di innumerevoli artiste cadute nell’oblio. Le «ignorate, scomparse, rintanate, morte o disperse […], ormai ignare di se stesse», come ha scritto Giorgio Manganelli, in occasione della mostra curata da Lea Vergine nel 1980, L’altra metà dell’avanguardia, che disseppelliva dall’anonimato le protagoniste dei movimenti artistici del XX secolo – da Bice Lazzari a Popova, Marevna, Udal’kova e Carol Rama – anche loro, come le antenate dei secoli precedenti trascurate o relegate a ruoli ancillari.

Tuttavia la questione era nota da più di quattrocento anni. Nel 1568, compilando per la seconda edizione delle Vite quella di suor Plautilla Nelli, monaca domenicana a Firenze e pittrice sua contemporanea, Giorgio Vasari aveva già posto con estrema lucidità la questione. Ammirava le opere della concittadina, ma – da collega e intenditore – non poteva non sottolinearne i limiti. Plautilla «avrebbe fatto cose meravigliose» – scrive – «SE come fanno gli uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali». Sapeva dunque il Vasari che Nelli NON poteva studiare, né conoscere il mondo e la natura, che NON poteva aggiornarsi né muoversi fuori dalle mura del convento in cui era rinchiusa, che NON poteva ideare pittura dalla vita e dal vero, ma doveva utilizzare materiali di repertorio altrui. Quel SE è il presupposto che ha influenzato la visione – e la valutazione – delle opere delle artiste fino a poco tempo fa.

Esiste un affascinante filone della storiografia, detta controfattuale, o storia alternativa. Per illuminare la casualità degli eventi, e destrutturarne i nessi, essa individua, nella storia, dei turning point, o dei punti di divergenza, e pone una domanda molto semplice: WHAT IF? Cosa sarebbe accaduto se suor Plautilla Nelli – o dopo di lei Elisabetta Sirani, Antonella De Rosa, Plautilla Bricci, Giulia Lama, solo per citare alcune italiane – avessero potuto studiare nella bottega di un grande maestro e non del loro (talvolta modesto) padre, se avessero potuto viaggiare per istruzione come qualunque altro pittore, soggiornare in qualche corte, competere sul mercato, ideare vaste composizioni e non quadretti di devozione privata? Se le loro opere fossero state pubbliche, visibili a coloro che poi scrivono le storie della pittura per tramandarle, se le loro invenzioni fossero state imitate, riprese, replicate? Se oggi i loro quadri fossero esposti nei maggiori musei del mondo, visitati da milioni di spettatori, riprodotti su cartoline, manifesti, pubblicità fino a diventare parte del nostro patrimonio collettivo? Ma non è stato così. Provate a chiudere gli occhi e a ricordare a mente l’opera di una pittrice. È improbabile che la memoria ve la proponga come i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla, una Madonna con bambino di Bellini, un nudo di Modigliani… La storia alternativa cambia il passato e lo fa deragliare su un binario diverso solo per ipotesi: non agisce sul presente. Non è quella la strada.

Per poter creare un nuovo canone della storia dell’arte, la cui necessità è denunciata dalla simultanea apparizione di volumi pubblicati in vari paesi dell’occidente, eterogenei per forma e struttura ma sintonici nel fine (fra essi includo anche il mio recente Self portrait. Il museo del mondo delle donne), oggi non possiamo limitarci a riscoprire qualche dimenticata, ridotta a nome di un elenco o a nota a piè di pagina, e a dedicarle una personale. Come pure sempre più spesso accade (solo all’inizio di questo 2023 si contano fra l’altro le mostre di Alice Neel, Faith Ringgold, Berthe Morisot, le espressioniste astratte). Non è più questione di risarcimento, come forse è stato sul finire del Novecento, ma di prospettiva. Dobbiamo trasformare quel SE ipotetico di Vasari in NONOSTANTE. Dobbiamo includere l’avversativa nel nostro sguardo. Soltanto così le esitazioni, i limiti anatomici e culturali, le imitazioni delle opere delle pittrici diventeranno una nuova e altra bellezza.

Allora avremo davvero la possibilità di considerare tutte le artiste per ciò che effettivamente furono – non solo figlie o sorelle d’arte, epigone obbligate di maniere e iconografie altrui; non solo ispiratrici, muse e amanti di geni e maestri acclamati, ma compagne di strada e talvolta -penso alle astrattiste come Rozanova, alle surrealiste, a Meret Oppenheim – perfino precorritrici. Allora forse supereremo il rischio romantico che tuttora ci limita: di far prevalere la biografia tragica, infelice o ribelle dell’artista sulla sua opera. Di innamorarci della vittima della storia e non del lavoro della sua mente e del suo pennello. Quanto il culto di Artemisia o Frida Kahlo devono al processo per stupro o all’incidente in tram e agli amori selvaggi e quanto al modo in cui la prima interpretò le eroine forti e la seconda la sua doppia cultura india e bianca?

Giorgio Vasari però ci dice soprattutto un’altra cosa. Che un uomo del Cinqucento era perfettamente consapevole del vero punto della questione: le donne avrebbero potuto creare come gli uomini, se ne avessero avuto le possibilità. Ciò su cui dobbiamo interrogarci è dunque il fatto che queste possibilità continuarono a essere loro negate, ben oltre il XVI secolo. Impedito l’accesso alle botteghe, e poi alle accademie e alle scuole; ostacolata la formazione; offuscata l’opera dal pregiudizio, e poi dal paternalismo. Questa resistenza è stata secolare, e in alcune parti del mondo è ancora fortissima. Essa testimonia la paura degli uomini detentori del potere, del sapere e del controllo sociale di perdere l’uno e gli altri. Non è questione di estetica, ma di politica. Scrivere il nuovo canone è inverare finalmente il cambiamento.


(Robinson – La Stampa, 6 maggio 2023)