di Juana Gallego


Alle elezioni amministrative di ieri in Spagna la sinistra ha rovinosamente perso – come in Italia, del resto. In particolare si è registrata la bruciante sconfitta di Podemos che in molte regioni arriva quasi a estinguersi. Nelle analisi sul voto spagnolo forse non si dà sufficiente rilievo a due leggi-manifesto di Podemos, e in particolare della ministra transfemminista Irene Montero: la legge “Solo sì è sì”, che ha ridotto le pene per i crimini sessuali, e la Ley Trans, che ha introdotto in Spagna il self-ID, cioè la libera autodeterminazione del “genere” anche per i minorenni senza l’intervento di medici o giudici.

Quanto alla legge “Solo sì è sì”, ha comportato una riduzione delle pene e perfino la scarcerazione per molti criminali sessuali (vedere qui) proprio mentre la Procura della Repubblica dava l’allarme sull’aumento dei reati sessuali commessi da minori su minori, fenomeno che il governo spagnolo – ormai in dirittura d’arrivo: il primo ministro Pedro Sanchez ha anticipato il voto politico a luglio – ritiene di poter arginare puntando su un’educazione sessuale “per tutt*” che intende “democratizzare la sessualità” ed è imperniata sui concetti di “scelta”, “consenso” e, naturalmente “diritti” (“il sesso è un diritto”). Lo spirito del progetto è lo stesso delle due controverse leggi volute da Irene Montero.

Le femministe spagnole lanciano l’allarme: insegnando a bambine e bambini che possono esprimere il loro consenso si agevolano di fatto i predatori sessuali. Parole come “scelta” e “diritti” nascondono prevaricazione e volontà di dominio sui più deboli. Ancora una volta, sulla pelle di bambine e bambini.

Juana Gallego è docente all’Universitat Autònoma di Barcellona, per la quale ha creato il master di Genere e Comunicazione. Anche lei l’anno scorso è stata colpita dalla cancel culture ovvero dalla censura queer (ve ne abbiamo parlato qui), com’è successo a molte altre intellettuali e docenti.

A seguire un suo testo sul Manifesto per l’educazione sessuale per tutt* che verosimilmente entrerà a far parte del programma della sinistra alle nuove elezioni politiche.

(Redazione FeministPost)


Simone de Beauvoir racconta nel suo libro La cerimonia dell’addio che Sartre, nei suoi ultimi anni, viveva solo per firmare manifesti, senza distinguere i diversi tipi o le richieste in essi contenute. Sembra che si alzasse e chiedesse: «Che manifesto c’è da firmare oggi?». Non sappiamo se si tratta di una vendetta dell’autrice de Il secondo sesso nei confronti del compagno di una vita o di una presa di coscienza del fatto che, quando declinano le facoltà mentali, una persona brillante può diventare un automa privo di capacità di discernimento.

Mi viene in mente questo aneddoto perché è appena stato messo in circolazione, promosso da una sedicente e finora sconosciuta Rete per un’educazione sessuale femminista e comunitaria, un Manifesto per un’educazione sessuale per tutt*, a cui hanno appena aderito enti e istituzioni, le cui facoltà mentali assomigliano a quelle di Sartre al termine della sua vita. Se bisogna firmare, allora si firma.

Questo manifesto, che si può trovare anche nella pagina SidaStudi, chiede adesioni collettive o individuali per “democratizzare la sessualità, ed è vincolato in modo sospetto alle linee guida attualmente impartite dall’ONU, dall’OMS, dall’UNICEF e da altre istituzioni per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030 (obiettivi n.4 e n.5). Hanno firmato individualmente molte persone, tra le quali riesco a individuare solo quattro nomi conosciuti, mentre non riconosco nessuna associazione femminista.

Desideri e piaceri

E qual è la rivendicazione perentoria di questo manifesto, spuntato dalla sera alla mattina, senza quasi alcun sostegno da parte di organizzazioni femministe o di persone pubblicamente conosciute? «Aprire una finestra sul campo dei desideri e dei piaceri» con un’educazione sessuale «a tutte le età, per tutt* e per ciascuno».

Ciò che importa sottolineare è il perché proprio ora stia iniziando a diffondersi, tramite manifesti e social network, tanto interesse per l’educazione sessuale di bambini e adolescenti, sulla falsariga della International Technical Guidance on Sexuality Education (ITGSE) promossa dall’ONU, dove si può trovare un vasto repertorio di consigli per l’educazione sessuale per bambini tra i cinque e gli otto anni, tra i nove e i dodici e per adolescenti dai dodici ai quindici anni.

Non è dato sapere come, quando e chi svolgerà le attività di formazione, salvo il fatto che si potrà includere o meno nel curriculum scolastico. E qui salta agli occhi una lacuna importante: chi potrà svolgere questa formazione e da quale prospettiva. Un bel bottino da spartire.

Tra i materiali didattici una proposta sul “sexting positivo”. Sexting è la condivisione di foto e video personali a carattere sessuale, spesso poi usati per ricatti e revenge porn. Fonte qui.

Né misoginia né coeducazione

La Guida (ITGSE), nonostante l’uso di un linguaggio apparentemente neutro, cordiale ed egualitario, svela che i suoi obiettivi sono in linea con la corrente woke e il transgenderismo. Nel glossario infatti si definiscono concetti come transfobia, omofobia, identità di genere ma non concetti come misoginia o coeducazione [scuola mista, ndr], termine mai citato nella Guida. Inoltre, in varie definizioni, si dà per scontato che «il sesso si assegna alla nascita».

Tutti questi indizi ci avvertono del fatto che ci troviamo agli inizi di una nuova Finestra di Overton, che consiste nel «rendere possibile ciò che è impensabile», e che ciò che si pretende di fare è normalizzare le relazioni sessuali intergenerazionali.

Non lo dico in modo più volgare, non vorrei che mi denunciassero, nonostante questa sia la stessa idea che espresse la ministra Irene Montero in Commissione di Uguaglianza (il 21/09/2022) a proposito del fatto che «i bambini, le bambine e * bambin* hanno il diritto ad amare a ad avere relazioni sessuali con chiunque vogliano, ovviamente previo consenso», parole che sembrano uscite dalla ITGSE. Potete vedere il video dell’intervento qui (al minuto 1:57).

Il consenso: la nuova parola feticcio che sembra ignorare che lo stesso si può ottenere in molti modi, o che può essere viziato fin dall’inizio, in base alle relazioni di potere tra gli individui coinvolti.

Ipersessualizzazione e violenza sessuale

Come si legge nel Comunicato di Dofemco (Docenti Femministe per la Coeducazione) sul Manifesto per un’educazione sessuale integrale per tutt*, un insegnamento di questo tipo deve far parte di una coeducazione basata sul principio di uguaglianza tra i sessi nonché sulla protezione e cura dell’infanzia, «ma comporta anche la necessità di adottare un punto di vista critico verso l’ipersessualizzazione e la violenza sessuale camuffate da trasgressioni liberatrici che sostengono e hanno come scopo l’accesso degli adulti al sesso con minorenni».

Parallelamente, vediamo sui social network un proliferare di spettacoli erotici di drag queen ai quali assistono bambini in tenera età. Insomma, c’è una nuova offensiva che, sotto la copertura del “diritto all’ educazione sessuale”, inizia a diffondere sottilmente l’idea della “democratizzazione del sesso”, che non si capisce esattamente che cosa voglia dire.

D’ora in avanti il nuovo mantra, che gli attivisti postmoderni ripeteranno come pappagalli sarà «Il diritto al sesso è un diritto umano di tutt*».

E voglio proprio vedere chi sarà la sfrontata che lo metterà in discussione senza aver paura di essere spedita dritta all’inferno.


(FeministPost, 30 maggio 2023 – Traduzione di @Fede_RRe – Articolo originale: Democratizar la sexualidad o fomentar la pedofilia?, 15 maggio 2023)

di Sheila Jeffreys, a cura di Mara Accettura


In un recente seminario organizzato da Women’s Declaration International nell’ambito della serie di incontri Radical Feminist Perspectives, Sheila Jeffreys – ex-docente di scienze politiche all’Università di Melbourne e tra le fondatrici della rete globale WDI – ha tenuto una relazione sul tema Rad Fem Economic Theory (l’intero incontro è visibile qui).


Jeffrey è partita da un suo testo del 2010, a ridosso della crisi finanziaria globale. Si intitolava “Chi ha cucinato la cena a Adam Smith”, il cui pensiero ometteva completamente il lavoro non retribuito delle donne. L’homo economicus razionale, al centro del pensiero economico tradizionale, abita un mondo maschile di lavoro retribuito in cui le donne non entrano. Il lavoro delle donne è per la maggior parte non pagato e non riconosciuto, non viene quindi misurato nei sistemi tradizionali di accounting tipo il PIL.

Come si affronta questo tema dal punto di vista del femminismo radicale e di quello marxista?

L’analisi di Jeffreys si è incentrata sul diagramma dell’“iceberg” di Maria Mies, femminista marxista ed ecofemminista: l’economia tradizionale non tiene conto di ciò che sta sotto la linea, che è la stragrande maggioranza di ciò che crea l’economia globale: lavoratori a domicilio, settore informale, lavoro non retribuito delle donne, lavoro minorile, lavoro domestici in generale e colonie interne (all’interno della famiglia) ed esterne (create dalla globalizzazione). «La stragrande maggioranza del lavoro delle donne non rientra nell’economia visibile. Sotto la linea c’è anche la natura, bene libero. Il costo della pesca che distrugge l’oceano e gli ecosistemi non si vede, ed è un esempio della distruzione nella creazione dell’economia capitalista. Quello che si vede è sopra la linea, la vendita del pesce».

Negli anni ’80 è diventato chiaro che il lavoro di cura delle donne sovvenzionava non solo lo stipendio dell’uomo ma anche l’accumulazione del capitale. Il lavoro delle donne era oscurato con la costruzione della donna come madre, moglie, casalinga.

Le femministe marxiste e quelle radicali o materialiste affrontano la questione del lavoro non retribuito delle donne in modi molto diversi. Christine Delphy e Diana Leonard, entrambe materialiste, spiegano che le teoriche femministe socialiste o marxiste vedono il lavoro svolto dalle donne per il capitalismo e non per gli uomini. Fra le due cose c’è una differenza sostanziale. Per il femminismo radicale invece il lavoro non retribuito è al servizio diretto degli uomini. Secondo loro sono i capifamiglia maschi a possedere il lavoro delle donne. Non è necessario avere mezzi di produzione. A parte il lavoro domestico ci sono moltissimi altri tipi di funzioni non retribuite che ruotano attorno alle occupazioni dei mariti – fino al lavoro necessario per garantire il loro benessere emotivo, psicofisico e sessuale – che vanno perdute nelle analisi perché varie e intime. Dai compiti di segretariato, di hostess, di fundraising, fino all’organizzazione di occasioni sociali e al fornire sostegno morale come psicoterapeute informali. Per arrivare fino al sesso che le donne non vogliono fare, e che forse dovrebbe essere inteso come forma di lavoro non retribuito, dato che queste attività fuori casa hanno valore monetario.

Diana Russell scrisse: «Perché le donne vanno dagli psicoterapeuti e gli uomini dalle prostitute?» Le donne fanno della casa una casa, sorridono, scusano, incoraggiano, simpatizzano, prestano attenzione, il che dà agli uomini un senso di appartenenza.

L’economia tradizionale quindi ha un problema. «Non dice la verità perché l’uomo economico razionale, alla base del pensiero economico tradizionale maschile, non è alla base di ciò che sta accadendo. Il lavoro non retribuito delle donne non è razionale. Adam Smith disse: “Non è dalla benevolenza del macellaio o del fornaio che ci aspettiamo la cena ma dal loro interesse”. Certo non è nell’interesse delle donne fare tutto questo lavoro retribuito, dice Marilyn Waring. “Se Adam Smith è stato nutrito quotidianamente dalla signora Smith certo lui non l’ha menzionato. Certamente non fu ripagata dall’interesse che aveva nel nutrirlo».

Maria Mies ha parlato del concetto di casalinghizzazione (housewifeization). Con la globalizzazione neoliberista degli ultimi anni del ’900 molti lavori sono stati casalinghizzati. Uomini e donne hanno dovuto fare più di un lavoro, lavori part time, pagati male, senza protezione, camuffati da imprenditoria e self-employment. Che cosa sta succedendo con l’homeworking creato dalla pandemia che ha fatto in modo che molte donne oggi lavorino a casa? Ha questo lavoro uno status superiore?

Jeffreys ha poi parlato del gendering della crisi globale finanziaria, che dimostra che l’homo oeconomicus non è per nulla razionale. Non viene mai detto che il capitalismo finanziario è specificamente maschile. Non ci sono molte donne ai posti top della finanza anche se progressi sono stati fatti, l’FMI ha una donna executive. «Il punto è che gli uomini sono ritenuti responsabili della crisi globale finanziaria e credo che rappresentino non tanto la mascolinità quotidiana ma un’ipermascolinità resa potente dal sessismo aggressivo». Non c’è molta analisi su questo, anche se Linda McDowell ha scritto sulla cultura che impregna il linguaggio della borsa valori: “Alzarsi la gonna” per rivelare la propria posizione. “Averlo duro” per mercato in rialzo. “Palle fuori” per transazione di successo. “Stuprare le carte” per gonfiare le spese. Come possono le donne lavorare in un ambiente del genere? Secondo lei quella cultura in parte può spiegare la crisi. Le donne non possono essere pari nella sfera della finanza perché gli scambi avvengono in arene mascolinizzate tipo golf club, lapdancing club, football club. Gli executives frequentano gli strip club e secondo Jeffreys quando ci sono donne con loro non sanno dove guardare mentre le ragazze mostrano vagina e ano agli uomini. Eppure non rifiutano di andarci perché fa parte del networking, quindi della loro chance di eguaglianza.

Quindi strip club e prostituzione sono una grossa parte di questa cultura della finanza e del business. Ma la finanza non usa solo la prostituzione per affermare l’ipermascolinità. C’è anche l’aspetto del rischio, che è critico per il modo in cui la mascolinità costruisce l’ideologia e le pratiche delle corporation, delle banche, dell’industria della finanza. È un aspetto poco discusso dalla teoria femminista. Il modo in cui il capitalismo è fondamentalmente costruito attraverso la mascolinità nel suo funzionamento è raramente menzionato. Le tre componenti dell’aggressività, della competizione e del risk-taking sono sottolineate in studi maschili come elementi chiave nella costruzione del capitalismo in relazione alla crisi finanziaria globale e l’assunzione di rischio è la componente più implicata. Ci sono studi che spiegano come nasce l’attitudine al rischio nei ragazzi e valutano risultati dannosi come assunzione di droghe, incidenti, pratiche sessuali pericolose. Questi studi analizzano anche il ruolo dello sport agonistico e di avventura tipo bungee jumping e rafting. Molte aziende stimolano il personale a fare networking attraverso questi sport. La mentalità che creano è fondamentale per l’assunzione dei rischi e il modo in cui il capitalismo è stato impostato. Altre ricerche attribuiscono al testosterone la propensione al rischio. Ma una ricerca ha dimostrato che il testosterone non si alza prima di concludere un affare bensì dopo.

Il roid rage (rabbia da steroidi) suggerisce che l’uomo economico razionale non è al comando dell’economia politica internazionale. Ma è anche un tentativo di descrivere in termini di biologia qualcosa che può essere spiegata politicamente e socialmente. Si dice per esempio che le donne non sono molto brave in finanza perché hanno avversione per il rischio a causa della mancanza di testosterone. Ma donne e ragazze non sono addestrate all’assunzione dei rischi e non vengono elogiate per questo. Mascolinità e femminilità sono costruite socialmente e politicamente per adattarsi a posizioni diverse nella gerarchia del dominio maschile. «L’avversione al rischio è molto positiva. All’epoca della crisi finanziaria le donne sono state chiamate a risolvere i problemi perché la loro avversione al rischio è utile all’interno di una economia basata sul correre grandi rischi che possono persino causare la morte».

Anche l’industria del sesso contribuisce all’ipermascolinità dell’industria finanziaria. Negli Usa gli uomini che dovrebbero regolare l’industria finanziaria utilizzano molto questa industria. Esistono dati che riguardano l’uso di pornografia da parte di dirigenti della SEC. Jeffreys ne ha scritto anche in La vagina industriale” e Limperialismo del pene”anche se all’epoca le sue osservazioni non vennero prese in considerazione. A lei interessava il modo in cui il rischio degli uomini si trasformava in onere per le donne. Le donne non erano responsabili del rischio finanziario eppure dovevano subirlo, vedi nell’economia della cura e dell’assistenza. I tagli ai servizi pubblici sono stati compensati dal lavoro delle donne.

Le donne sono un esercito di riserva di manodopera e possono essere messe alla porta quando i governi falliscono. Gli uomini hanno anche sfogato lo stress della perdita del posto di lavoro e mancanza di soldi sulle donne sotto forma di violenza. Nel 2009 diverse ricerche sottolineavano aumento di violenza domestica. Maria Mies dice che «è necessario un cambiamento radicale dell’economia politica internazionale, mentre i liberal dicono che dobbiamo solo farci entrare più donne: se ci fossero più donne, allora gli uomini si comporterebbero meglio, sarebbe meno rischioso e così via. Ma ovviamente i problemi rimangono». Mies dice che il lavoro non retribuito deve essere rispettato e si chiede come sarebbe un’economia in cui la natura sia importante, in cui le donne, i bambini, le persone siano importanti. Un’economia che non si basi sulla colonizzazione e sullo sfruttamento degli altri.

Ciò richiederebbe, ovviamente, la rivalutazione del lavoro non retribuito delle donne, in modo che, in un paradigma alternativo, le attività e i valori degli attori attualmente colonizzati ed emarginati vengano messi al centro perché sono fondamentali per garantire che la vita possa continuare nella sua rigenerazione e pienezza. Finché il lavoro non retribuito, dice l’autrice, non sarà riconosciuto, le politiche economiche nazionali e internazionali potranno continuare a adattarsi strutturalmente e a reagire alle crisi con l’aspettativa che i comportamenti antisociali degli uomini debbano essere rispettati e che le donne siano gli ammortizzatori del sistema.


(FeministPost, 30 maggio 2023)

di Andrea Inzerillo e Mirta Ursula Gariboldi


L’ultimo film di Laura Citarella, Trenque Lauquen, è stato presentato in concorso nella sezione Orizzonti del festival di Venezia 2022 e da allora ha vinto premi in tutto il mondo. Da inizio maggio nelle sale francesi, film del mese per i Cahiers du Cinéma, si prepara all’uscita in Germania. A Palermo il Sicilia Queer Filmfest dedica la prima retrospettiva integrale alla regista e produttrice argentina, talentuosa esponente del gruppo El Pampero Cine. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua idea di cinema per spiegare la dimensione collettiva del suo lavoro ma anche per entrare maggiormente in quelli che sono i temi a lei più cari: l’indipendenza, il femminismo, il mistero. «La prima volta che ho incontrato Mariano Llinás, che era mio professore all’università, mi ha colpito il suo approccio casereccio e sfrenato di pensare alla produzione. Io avevo conosciuto l’industria e lavorato per diversi film e progetti, e mi sentivo sempre un po’ distante dallo schema lavorativo padronale. Mariano aveva creato una forma di lavoro che implicava anche l’amicizia. I film del Pampero Cine devono la loro esistenza al modo in cui vengono prodotti, che è quasi l’unica maniera che conosciamo di fare cinema. Il grado di avventura e sfrontatezza, lo schema rizomatico per cui tutto si espande e si apre da ogni lato non sarebbe possibile se non li producessimo con questa idea di “compagnia”, di gruppo, che ci caratterizza. Se si parte dall’idea che gli oggetti cinematografici non sono merci, se non li si considera come qualcosa da cui trarre profitto, vengono meno moltissimi obblighi e faccende commerciali; e quando non sei in debito con nessuno puoi lavorare con gli attori che vuoi e far durare i film quanto devono durare. Dal punto di vista economico il movimento generato da film di questo tipo è molto ridotto; quindi, per sopravvivere, si cercano altre possibilità, come scrivere sceneggiature per l’industria o tenere corsi all’università o workshop. Ma questa indipendenza e il tentativo di fare film così non sono mai pensati come una tappa verso qualcos’altro – come avviene nella maggior parte dei casi all’interno dell’industria. Il percorso è esso stesso la ricerca di una forma di produzione. Per ogni film bisogna pensare a un nuovo modo di produzione, a una nuova forma di messa in scena – perché la produzione influenzerà ovviamente le possibilità di messa in scena – e questo genererà immagini che saranno anch’esse nuove. Questo spazio di sperimentazione si basa sull’idea che non c’è un punto al quale arrivare, come presuppone l’idea di carriera nel mondo del cinema, che a volte è un po’ frivolo. L’idea è quella di reinventarsi quotidianamente, di costruire formule che non si ripetano da un film all’altro. Col desiderio di perdersi, senza orizzonti, e di trovare i film lungo la strada.

In che modo è nato, e come si è strutturato, il vostro rapporto con il cinema?

Historias extraordinarias [Mariano Llinás, 2008] è stata la madre di tutte le battaglie. Scoprimmo che il cinema poteva diventare un esercizio costante e incessante e fondersi continuamente con la nostra vita: i viaggi cessavano di essere solo viaggi perché portavano sempre a dei film; il piano di lavoro e il trascorrere del tempo con gli amici diventavano improvvisamente sincronizzati. Il tempo comincia ad assumere un valore diverso e i film si fanno mentre accadono molte altre cose (anche mentre si impara a farli). Per quel film abbiamo viaggiato per due mesi facendo sopralluoghi in tutta la provincia di Buenos Aires, conoscendone tutti gli angoli e pensando il film tutti insieme. Historias extraordinarias è stato la conferma del quartetto del Pampero Cine, ovvero Mariano Llinás, Alejo Moguillansky, Agustín Mendilaharzu e io: ognuno a suo modo e secondo il suo mestiere porta questa capacità e questo modo di fare cinema il più lontano possibile. Da quel momento a oggi la reinvenzione è costante, è un lavoro quotidiano in cui si ripensa sé stessi, il cinema e le sue modalità di produzione. È una forma di produzione talmente mediata dalla propria vita che vita e film non sono mai separati. Con Ostende, il mio primo lungometraggio da regista, mi sono resa conto che all’interno di questo stesso schema potevo anche dirigere dei film: non è che chi si occupa di produzione è condannato a fare esclusivamente produzione, direi che anzi è il contrario. Mi sembra che questo gioco tra i due ruoli mi abbia permesso di trovare la mia strada come regista all’interno di questa struttura. Tutti noi del Pampero Cine siamo produttori proprio per questo motivo. Non mi sento meno parte di La flor [Mariano Llinás, 2018] perché ne sono la produttrice: ovviamente ho un rapporto molto più intenso con Trenque Lauquen, perché dirigere un film comporta sempre una grande solitudine e sofferenza personale, ma al di là di questo non percepisco gli altri film del Pampero Cine come meno miei, perché l’esperienza cinematografica ha a che vedere con il fare i film, indipendentemente dal tipo di lavoro che si svolge.

In “Ostende” si trovano già molti elementi che torneranno in “Trenque Lauquen”: al di là di Laura Paredes, che è protagonista di entrambi i film, c’è una stessa capacità di creare suspense con molto poco; la ricerca di libertà e la storia di emancipazione di una donna che mette in discussione le relazioni tra i sessi; il tuo interesse per il cinema di genere.

Sì, in Trenque Lauquen e in Ostende c’è qualcosa che ha a che fare con l’intensità della finzione e con il modo in cui questa prevale sulle relazioni ordinarie. In entrambi i casi le protagoniste mettono in crisi la loro vita quotidiana attraverso le avventure e questo le porta al loro massimo splendore, alla loro massima capacità di piacere e di rapporto con la realtà. In Ostende la protagonista ha un fidanzato convenzionale, una relazione eterosessuale ordinaria senza molti alti e bassi, e in Trenque Lauquen il personaggio è abbastanza simile, solo in un’età diversa. In Ostende c’è l’idea di vivere un’altra vita, esperienze di altro tipo, di considerare la suspense o la finzione come stile di vita e il mondo come spazio della finzione. In Trenque Lauquen tutto questo viene moltiplicato e il film si chiede direttamente quante vite si possano vivere in una sola vita.

“Las poetas visitan a Juana Bignozzi” del 2019, co-diretto con Mercedes Halfon, è forse il tuo film più documentaristico, ma anche quello dove si vede meglio la macchina del cinema, come se il cinema stesso fosse il suo vero tema. Mi fa pensare a “Effetto notte” di François Truffaut: l’energia di un gruppo di persone che fanno cinema, i movimenti tuoi e della tua squadra…

Sì, l’aspetto e la forza dell’essere un gruppo di donne è molto interessante. Juana Bignozzi è morta il giorno in cui Mercedes Halfon è venuta a intervistare me e Verónica Llinás per la prima di La mujer de los perros. Quel giorno mi ha raccontato che era morta una poetessa molto amata dai giovani poeti, un po’ come noi “giovani” cineasti amavamo Hugo Santiago. Due anni dopo mi chiama dicendomi che ne ha ereditato l’opera, che stavano svuotando casa sua e che le sarebbe piaciuto filmare il tutto. E mentre documentavo questa operazione cominciai a capire che stava nascendo un film. Alla fine è sempre una finzione con la scusa del ritratto, o un ritratto con la scusa della finzione. Il film è nato in questo clima di scambio tra donne, e l’incontro tra le cineaste, Mercedes e Juana ha creato un’esperienza autenticamente collettiva, nella quale tutte avevamo messo da parte il timore di trasformarci a vicenda. Durante le riprese del film (e di Trenque Lauquen, perché lavoravo a entrambi contemporaneamente) sono rimasta incinta ed è nata mia figlia Lucía. Ho continuato a girare con lei neonata: la mettevamo per terra e la lasciavamo lì mentre giravamo. La sua presenza creava un tempo differente, e tutte noi ci abbandonavamo a questo tempo. Erano riprese molto dialogate: parlavamo di femminismo e di politica, discutevamo a lungo, e finivamo per filmare pochissimo. Questo flusso faceva sì che ci perdessimo un po’ e che per un momento smettesse di avere importanza di chi fossero le idee. L’importante era rendere visibili le cose e vederle tra tutte noi, non declamare concetti per metterci in mostra o per vincere una discussione. Credo che questa dimensione caratterizzi il film, nel quale appare una zona di ambiguità molto interessante: qualcosa della nostra energia e di questo lavoro tra donne. Sento che se in queste conversazioni avessero partecipato degli uomini la cosa avrebbe potuto essere diversa.

C’è un rapporto diretto tra “Las poetas” e “Trenque Lauquen”: in entrambi compare la dimensione dell’indagine, che è una e più d’una contemporaneamente, perché si tratta di provare a scoprire il mistero di una o più persone. Le domande finiscono allora per trasformarsi costantemente: da «Come si filma una poetessa?» a «Come si filma la poesia?», e quindi: «Si può filmare la poesia?»; «Cosa si può filmare, in generale?»; «Qual è il limite del cinema?».

Quando abbiamo trovato nella libreria di Juana Bignozzi il libro di Aleksandra Kollontaj Amore e rivoluzione: idee di una comunista sessualmente emancipata, per me è stata una rivelazione. La sequenza del libro di Kollontaj è esattamente la stessa nei due film: la voce off di Laura Paredes [in Trenque Lauquen] e quella di Las poetas sono praticamente uguali, ma il senso che lo stesso frammento ha in ognuno dei due film è completamente diverso. Quello che mi sembrava più interessante era l’idea di gruppo in senso politico, qualcosa di totalmente familiare al movimento femminista: il dire «i miei successi non sono miei, ma nostri». La conclusione che si trae alla fine di Las poetas è che l’opera di Juana non è di qualcuno, ma è del mondo e serve al mondo, perché serve per la vita. Come dice Juana, serve per prendere il Palazzo d’Inverno, serve per innamorarsi, per l’amicizia. Allo stesso modo, nel cinema ciò che più conta è l’esperienza comune. In Trenque Lauquen il fatto che i personaggi lavorino insieme, si raccontino storie e condividano avventure fa sì che nasca l’amore, la trasformazione, l’epica e l’avventura, come se nella possibilità di narrare o di avventurarsi comparisse un triangolo amoroso tra la vita, i film e i rapporti tra le persone.

Per il critico spagnolo Carlos Losilla “Trenque Lauquen” è una sorta di remake di “L’avventura” di Antonioni, ad altri potrebbe sembrare una specie di “Twin Peaks” argentino.

Mi azzarderei a dire che è un film sul mistero, anche se potrei cambiare idea. È senza dubbio il mio film più personale: l’ho girato nel paese della mia famiglia, ci recita mio marito, io appaio incinta, compare mia figlia, mio fratello suona il pianoforte. A un certo punto si vede mia nonna. Volevo includere aspetti della mia biografia senza mettere necessariamente me stessa al centro. La cultura autobiografica dell’io che prevale negli ultimi anni e occupa gran parte della scena cinematografica con film d’archivio di famiglia e diari personali mi sembra molto conformista. Trenque Lauquen difende l’idea di diluire il biografico in un racconto: è il film più personale che ho realizzato eppure è al contempo la macchina narrativa più importante alla quale ho lavorato come regista.

Lo si potrebbe anche vedere come un film che sostiene un’altra idea di gravidanza, pensata come un’esperienza catalizzatrice, più che fisica, che modifica la percezione del mondo e dà spazio alla dimensione del mistero.

C’è chiaramente qualcosa in questo film, che non si tematizza e neanche si nomina, ma che è presente. Il film stesso è mutante, i generi o i misteri sono in continua trasformazione, e non c’è niente di più mutante della maternità. Ci sono continui riferimenti anche se la maternità non diventa mai un tema: in questo film essere incinta è una specie di costume di scena, qualcosa che accade alle donne mentre fanno altre cose e non la loro condizione essenziale, quale si è soliti attribuire alle donne quando sono incinte. Credo che l’incontro della maternità con una certa animalità e con un po’ di follia sia uno dei pochi concetti che il film potrebbe stabilire intorno all’idea di essere madre. Tutto questo è certamente il frutto degli stimoli che avevo in quel momento, delle molte letture che mi spingevano a interrogarmi sul rapporto tra cinema e femminismo. Finito il film mi sembra di poter dire, provvisoriamente, che cinema e femminismo debbano pensarsi reciprocamente a partire da figure di finzione e di struttura, più che dai temi. Ma non c’è nulla di definitivo: quel che mi affascina del femminismo è proprio che si muove in continuazione e non è possibile acciuffarlo. Il film fa la stessa cosa: i misteri si muovono così tanto che non si riesce a coglierli. Per me il femminismo è un modo di comportarsi, un modo di pensare, è una forma nella quale mi sento a mio agio, nella quale posso cambiare idea, in cui posso mitigare le mie posizioni, in cui non ho bisogno di chiudere la mia mente perché dare un nome alle cose significa limitarle, e il femminismo è di per sé una forma di illimitatezza, di inclusione, di diversità.

“Trenque Lauquen” mi sembra aver ereditato molto bene l’ultima ondata di femminismo che dall’Argentina si è diffusa in tutto il mondo.

Il film mostra il modo di nominare e intendere il mondo che hanno due uomini, e poi quello alternativo, assai più morbido, misterioso e ambiguo di risolvere i problemi che hanno le donne. Un modo diverso di guardare al conflitto che propone una possibilità del mondo. D’altra parte sono presenti anche forme d’amore meno precise: il trio che si ritrova a vivere insieme con una creatura in soffitta configura una possibilità diversa di pensare all’amore, legata proprio a quanto dice Kollontaj sull’opposizione tra amore e lavoro. E tuttavia quel che più mi interessa ha a che fare con la logica del collettivo, del plurale, che si traduce nel modo di fare cinema e nel modo in cui penso che le strutture di potere possano essere smantellate. In una struttura industriale in cui le cose sono costruite in senso verticale, le differenze di classe e di genere si intensificano. Nell’industria c’è molta disuguaglianza perché è verticistica e incentrata sugli interessi dei capi: qualcuno ci rimette sempre, e se non è una donna è qualcuno di una classe inferiore, uno che non è bianco o che appartiene a un’altra minoranza. L’apparizione di Kollontaj nel film flirta con il femminismo ma introduce un problema meno trattato: perché non entriamo nel femminismo a partire dalle strutture, dalle forme di lavoro, dal parlare al plurale? Il film lavora con molti elementi con cui il femminismo può essere pensato, e credo che una persona che vede Trenque Lauquen possa ritrovarsi a riflettere su questioni femministe quasi senza rendersene conto, perché il film non vuole indottrinare, spiegare o essere pedagogico. È così che il femminismo opera e può davvero trasformare la realtà.


(Il manifesto – Alias , 27 maggio 2023)

di Franca Fortunato


Niente accade per caso, mi sono detta dopo aver letto il libro Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran della scrittrice, giornalista, attivista Masih Alinejad, pensando al movimento “Donna Vita Libertà” seguito alla morte della 22enne curda Mahsa Amini, arrestata e pestata dalla polizia morale perché non portava il velo correttamente. Il libro è l’autobiografia di una delle figlie “ribelli”, invise al potere, della “rivoluzione islamica”, divenuta la voce di «milioni di iraniane che vogliono essere libere di scegliere per sé». La sua è la storia dell’Iran dalla “rivoluzione” a oggi e di una delle figlie delle centomila donne che l’8 marzo 1979 scesero in piazza per manifestare contro l’obbligo dell’hijab rendendosi conto «soltanto dopo il trionfo della rivoluzione di aver rinunciato volontariamente ai propri diritti e portato al governo un regime che imponeva la sottomissione». È la storia delle figlie a cui, come alle loro madri, era stato insegnato a nascondere il proprio corpo, a nascondere le forme femminili perché spingevano gli uomini a peccare. È la storia della figlia adolescente che a sedici anni assaporava il piacere proibito di liberarsi del velo appena fuori casa per poi rimetterselo quando rientrava. «La mia libertà clandestina» la chiamava, libertà che da adulta, convinta che appartenesse a tutte le donne iraniane, portò allo scoperto quando, dall’esilio, con la campagna online “La mia libertà clandestina” invitò le donne irachene a mandarle foto senza velo. «Foto di quando guidiamo a capo scoperto, passeggiamo senza il velo tra i boschi o al mare, stiamo in cima a un albero o nel deserto, dove possiamo respirare liberamente». Era il 2014 e in migliaia risposero con foto e video di quando si toglievano il velo. La resistenza all’obbligo del velo uscì così dalla clandestinità e il mondo intero attraverso facebook poté conoscere un altro Iran, l’Iran delle donne. Donne coraggiose, forti, libere che rischiavano il carcere o 74 frustate per aver infranto la legge.

Le iraniane stavano dicendo al mondo intero «non ho scelto io di mettere l’hijab, e voglio essere libera di scegliere». E questo per i chierici in patria era pericolosissimo. Fino ad allora avevano raccontato che le iraniane erano contente di portare il velo. «Adoravo sentire il vento tra i capelli. Ogni volta che sento il vento soffiare tra i capelli ripenso a quanto tempo sono stati ostaggio dei potenti della Repubblica islamica». Ostaggio che per ogni donna irachena diventa a sette anni con l’obbligo ad osservare la legge sull’hijab anche se non è musulmana. Senza velo non possono studiare, lavorare, farsi vedere in pubblico senza essere arrestate e incarcerate. Il mondo intero parlava delle coraggiose donne irachene. Si aprirono le porte dei mass media. Il regime reagì. A Isfahan venticinque donne vennero aggredite con l’acido in faccia mentre erano in macchina o a passeggio. In migliaia scesero in piazza, la polizia le caricò. Alla campagna delle donne si unirono anche gli uomini non solo iraniani, che mandarono foto con il capo coperto. Nel 2017 il movimento dai social si spostò nelle strade con la campagna “mercoledì bianchi”. «Chiesi a tutte di scendere ogni mercoledì in piazza senza l’hijab o con un velo o uno scialle bianco in segno di protesta all’obbligo del velo. Gli uomini con una maglietta o un bracciale bianco». Le donne mandarono foto e video. Arrivarono minacce, arresti, ma le proteste andarono avanti. «Il futuro dell’Iran dipende dalle ribelli. È per questo che la lotta andrà avanti […], finché non sentiremo tutte il vento tra i capelli». Niente accade per caso nell’Iran delle donne.


(Il Quotidiano del Sud, 27 maggio 2023)

L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta il film documentario Be My Voice

di Nahid Persson Sarvastani  (Svezia, 2021, 90’). Ci sono le donne iraniane che si liberano dal velo e scendono nelle strade. C’è la giornalista iraniana Masih Alinejad, che vive a New York e rilancia nel mondo i loro filmati, seguita da milioni di follower. C’è la regista iraniana Nahid Persson che dalla Svezia mette insieme le loro storie. Una triangolazione potente che ci immerge nella forza delle donne.
Introduce Silvana Ferrari.


María Zambrano accoglie l’inconscio di Freud, ma la sua filosofia è più grande


Conduce la filosofa Annarosa Buttarelli


Un progetto di: Scuola di Alta Formazione per Donne di Governo


In collaborazione con: Libreria delle donne di Milano


Per iscrizioni scrivere a prenotazione@libreriadelledonne.it


Contributo richiesto: € 15 euro per singolo incontro; gratuito per chi possiede la Tessera Accademica (costo annuale della tessera € 70, per info: info@scuoladonnedigoverno.it). Possibilità di partecipazione online.

di Bianca Bottero


Confrontandosi originalmente con una vicenda che lei, giovane donna, ha solo letto nei libri e sentito narrare, Benedetta Tobagi affronta in questo che possiamo definire romanzo/ricerca, due dei topoi che oggi si presentano in modo dirompente, ma sovente distorto, banalizzato, reso, per la troppa enfasi addirittura disturbante: sono il topos del femminismo da un lato e quello della resistenza dall’altro.

Con l’obiettivo, da lei espresso nella recente presentazione del libro il 13 maggio presso la Libreria delle donne di Milano, di «far respirare la storia», Benedetta Tobagi costruisce infatti una sorta di Spoon River al femminile, dove una infinità di donne si affollano, conservando il loro nome e cognome oltre a quello assunto nella resistenza, ma insieme le loro storie di vita, fornite per piccolissimi accenni ma fondamentali a caratterizzarne i moventi, le debolezze, i sentimenti. È uno stuolo femminile che acquista con ciò una concretezza e insieme una sostanza quasi di elemento naturale, mai ideologico, mai banale o ovvio. Né ovvie o banali sono le fotografie, in bianco e nero, piccole, sfocate, che Tobagi ha puntigliosamente cercato e affiancato ai nomi delle donne citate, che sono con volti segnati o ridenti, graziosi o fatali o come si sia; gruppi di donne/natura mi verrebbe da dire, per come si rapportano tra loro, per come, lentamente fioriscono a una vita per loro nuova e insperata di libertà. È così che rileggere nel testo la ricorrente affermazione «Ho fatto quel che dovevo fare» quando, nella fase drammatica del dopo l’8 settembre, migliaia di donne del sud e del nord hanno nascosto, vestito, sfamato i ragazzi soldati, lasciati senza qualsiasi forma di guida da parte dei loro comandanti, fuggiti dalle caserme, lontani da casa, alla mercè della immediata reazione nazista contro i traditori italiani, accende una luce importante su di un mondo, prevalentemente popolare, operaio, contadino, che ha visto e patito le sofferenze della guerra come una sopraffazione, ulteriore rispetto a quella cui da tempo immemorabile sono soggette le classi più umili, ma che non ha comunque smarrito quel dono di umanità che in gran parte lo contraddistingue e che in particolare fa emergere dal misconosciuto, indistinto universo femminile, una formidabile, epica, dignità. È da questa premessa, da questo primo atto di opposizione al sopruso e per la vita, che nasce lo spirito più vivo e vero della futura resistenza delle donne. Che anche in seguito, quando nel centro-nord si costituiranno le formazioni di giovani combattenti, guidate da uomini, si affiancheranno ai gruppi, indossando pantaloni, rompendo i tabù millenari che le volevano in gonne, sfidando anche maldicenze e divieti familiari. E rappresenteranno anche un importantissimo aiuto, col rischio della vita, nel creare collegamenti, nel fornire armi e volantini alle varie bande partigiane, nel dare generosamente cibo, nascondiglio e supporto ai gruppi o ai singoli sbandati.

Ma, come continuamente ripreso e sottolineato da Benedetta Tobagi, pur entro questa gloriosa e anche gioiosa impresa, mai viene meno la convinzione, propria alla millenaria società patriarcale, fortissima in Italia, della ovvia inferiorità femminile. Se solo indicativo è il termine di staffette per le donne che agiscono nei collegamenti, ritenuto più adatto di quello di portaordini utilizzato per gli uomini, più gravi e mortificanti sono le imposizioni di comportamenti e doveri. Così nelle sfilate vittoriose non si vorrà che le donne partecipino, così è giudicato improprio l’abbandono della gonna per indossare i pantaloni, così i mariti rimbrotteranno duramente le mogli per mancanze nei lavori di casa, così lo stesso PCI affonderà le critiche per comportamenti ritenuti troppo liberi… È una situazione alla quale le donne stesse finiscono per assoggettarsi, che addirittura introiettano e alla quale in molti casi tornano a sottomettersi dopo la grande avventura di libertà vissuta nella resistenza.

Ma non tutto è stato solo Libertà: e mi ha fatto sobbalzare in chiusura del libro il ritorno di Tobagi in prima persona, a raccontare un fatto straziante che le pertiene direttamente. È la storia di Virginia Tonelli, una “staffetta”, «…mandata in missione a Trieste dove l’arrestano. Finisce alla Risiera di San Sabba, il lager triestino, l’unico campo di concentramento italiano dotato di forni crematori dove, dopo dieci giorni di torture, a 42 anni viene arsa viva perché si è rifiutata di parlare… Virginia, lo stesso nome della madre di mia madre… Virginia, alias la partigiana Luisa, il nome della mia nonna paterna… con un sorriso che ti regala l’anima, il mio possibile dentro il passato». Benedetta Tobagi, che ha vissuto il trauma dell’uccisione del padre negli anni ’80 da parte di incoscienti “rivoluzionari”, finisce il libro, finora così pacato, in un richiamo appassionato a una spirituale affinità a una donna, una sovversiva, una partigiana comunista dagli occhi ardenti che «trasformava in silenzio l’odio».


(www.libreriadelledonne.it, 24 maggio 2023)

MYSTERIUMDevi, pittura, poesie e canti mantra a cura di Maria Teresa Mandriani. Introduce Pinuccia Barbieri. Interverranno: Carla Tzultrim Freccero, monaca buddista tibetana, Pinuccia Barbieri, Giulia Coccoli, Laura Modini.

di Alberto Leiss


Scrivo qualche ora prima di andare a discutere in un’aula universitaria sul libro di Maria Luisa Boccia Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista (manifestolibri, 2023), di cui ha parlato qui Pasqualina Napoletano. Per ora di questo testo, breve quanto prezioso per riuscire almeno a pensare su un evento – il ritorno della guerra nel mondo, e ora e di nuovo «nel cuore» dell’Europa dopo il troppo rimosso conflitto nella ex Jugoslavia – che sembra annichilire le nostre facoltà mentali, citerò solo un passo, tratto da un articolo del 2003 sulla rivista Via Dogana:

«…tenere conto dell’odio, o meglio dell’aggressività, mi sembra necessario per recuperare la funzione positiva della conflittualità, sganciandola dall’opposizione distruttiva tra amico e nemico. Non vedo altro modo di sfuggire all’alternativa tra una pace impolitica e una politica guerriera. E non vedo come si possa farlo se donne e uomini non mettono in gioco la differenza sessuale, sottraendola a posizioni speculari che troppo ancora la irrigidiscono».

Non commento; mi piacerebbe sapere che interrogativi suscita in chi lo legge. Lo cito perché ha fatto risuonare qualcosa in me oggi, dopo l’impressione che mi hanno fatto le parole di Zelensky, di fronte a quella che sembra la definitiva (?) «conquista» da parte dei mercenari russi delle rovine di Bakhmut. L’intera Ucraina «come Hiroshima».

Considero Putin un politico criminale, ma devo dire che mi è sembrata una frase assurda, inquietante, sbagliata, pronunciata nel luogo – altrettanto assurdamente inquietante e sbagliato, la città distrutta dall’atomica americana – scelto per la riunione di questo bellicoso G7.

Per il resto me la cavo suggerendo di ascoltare anche un altro discorso. Quello di Ida Dominijanni a un recente seminario promosso dall’Alleanza Verdi Sinistra.

Condivido molto una sua prima considerazione: c’è qualcosa di «intollerabile» nel fatto che né la sinistra italiana né quella europea abbiano finora sentito il bisogno di riflettere sul fatto la guerra in Ucraina è anche la prima guerra interna all’ex campo “socialista” ed è legata ai modi in cui quel campo dopo l’89 si è decomposto.

È “anche” questo perché secondo Dominijanni intorno a Kiev si combattono almeno tre conflitti intrecciati. Uno è definito dalla (imprevista) aggressione russa e dalla (imprevista) reazione ucraina per la propria indipendenza. Il secondo è una guerra «preventiva» russa (termine che evoca la analoga posizione americana contro terrorismi e «stati canaglia») contro ulteriori espansioni Nato. La quale Nato è da tempo impegnata contro le mire neoimperialiste russe più o meno reali o presunte. Infine, come dimostrano le conclusioni del citato G7, è una guerra la cui posta in gioco maggiore è la ridefinizione dell’«ordine» mondiale, in una fase in cui il comando unipolare Usa è messo in discussione non solo da Cina e Russia.

Da questo concentrato bellico si diparte una torsione politica e simbolica che sembra azzerare il linguaggio politico soprattutto dalle nostre parti europee. Anche quello di chi si oppone, concentrando molto, forse troppo, sulla questione del mandare o non mandare armi.

Dominijanni cita anche la «ribellione dei maschi giovani alla coscrizione obbligatoria» che emerge in Russia, ma anche in Ucraina. E i due diversi “modelli”, uno nostalgico e l’altro «eroico e democratico», ma entrambi «patriarcali», incarnati dai due nemici che si combattono, Putin e Zelensky.

Osservazioni dalle quali sarebbe interessante ripartire?


(il manifesto 23 maggio 2023)

di Redazione Erbacce – Illustrazione di Piera Bosotti


Dopo aver letto il libro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane* abbiamo voluto conoscere l’autrice, Lucia Tozzi, tale era l’empatia con il suo tono analitico, tagliente e a tratti satirico. In particolare le abbiamo chiesto di approfondire la questione del Museo della Resistenza, in attesa dell’incontro del 31 maggio alle ore 18 al Circolo Combattenti nell’area verde, con glicine e tigli secolari, destinata al museo. Lucia è una studiosa e una pasionaria delle politiche urbane; tra i suoi libri Dopo il turismo e Napoli. Contro il panorama.

Nel tuo libro capovolgi la narrazione euforica di una città, Milano, che negli anni pre- e post-Expo si è trasformata in una metropoli del lusso. La definisci inventata, più che reale, da poteri economici che hanno interessi ben ancorati alla realtà. Quali sono i punti centrali della riflessione?

Il primo punto è il passaggio da una città che nel bene e nel male era fondata sulla produzione di merci, di cultura, di lavoro sociale a una città “attrattiva”, intenta a produrre solo un’immagine capace di attrarre i flussi finanziari e turistici, o gli abitanti a breve termine come expat e studenti. È avvenuto con l’Expo, ed è costato grandi sacrifici alla popolazione più fragile, che è stata espulsa dalla valorizzazione, dalla rendita elevata a metro e obbiettivo della crescita urbana.

Il secondo punto, fondamentale, è l’affossamento del conflitto e della capacità critica, ottenuto attraverso una forma molto profonda di propaganda che nega ogni contraddizione tra questo modello violento di crescita, fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, e la possibilità di assicurare a tutti i cittadini i servizi pubblici, lo spazio pubblico, il diritto di abitare in modo decente.

Come sono state trattate le voci critiche e le forze antagoniste?

Insieme alla propaganda mediatica, è stata cruciale l’elaborazione, a partire dalla giunta Pisapia, di forme di finta partecipazione, di stampo neoliberale, che in modo ricattatorio pretendono forme di “attivazione” dei cittadini che assomigliano molto a un consenso forzato. Sono state create reti claustrofobiche legate al sistema dei bandi, da cui non è facile smarcarsi e in cui è repressa ogni forma di critica anche velata. Di fatto, in questo modo si è avallato, attraverso la sussidiarietà spinta a livelli estremi, un regime di privatizzazione di servizi e spazi allocati a privati e terzo settore, ma spacciati per tutela del bene comune.

Negli ultimi mesi è ripresa la lotta in difesa del glicine e degli alberi secolari di Porta Volta/Garibaldi, in un’area verde gestita dal Circolo combattenti e dal Giardino Lea Garofalo. Lì dovrebbe sorgere la seconda piramide di vetro e cemento degli archistar Herzog & De Meuron, destinata questa volta al Museo della Resistenza, dopo quella di Fondazione Feltrinelli e Microsoft.

Si, quell’area sembrava a un certo punto destinata a rimanere libera, perché il Comune, proprietario, non sapeva bene a chi destinare questa piramide speculare a quella Feltrinelli-Microsoft, che avrebbe dovuto completare il progetto iniziato nel 2015 da Feltrinelli e Coima. Erano andati a vuoto parecchi bandi, e i cittadini che gestivano il Giardino Lea Galofaro hanno cominciato a protestare, chiedendo nel 2019 di lasciare intatta questa area verde, per lasciare riposare lo sguardo in un tessuto urbano così denso. A quel punto, dicembre 2019, il ministro Franceschini annunciò un finanziamento di 15 milioni per sistemare nella piramide il Museo Nazionale della Resistenza, in uno spazio di 2500 metri quadrati. Ne scaturirono molte critiche intelligenti, ricordo in particolare quella del collettivo MiRiconosci? ma anche tantissime altre. Poi con il Covid, e soprattutto con il clima sospeso per la rielezione di Sala nel 2021, un lungo silenzio. Fino a qualche mese fa.

Alcuni consiglieri comunali (in primis Monguzzi) hanno chiesto una piccola revisione della piramide per salvare glicine e tigli, mantenendo la costruzione. Che cosa ne pensi?

Il problema non sono solo il glicine e i tigli: quel progetto non ha più alcun senso, il museo va fatto da qualche altra parte senza consumare suolo, in qualcuno dei tantissimi edifici in disuso presenti in città.

Le contraddizioni sono molte: il Ministero della cultura del governo attuale potrebbe esigere una sezione dedicata alle foibe, per esempio. O approfittare delle critiche e dei conflitti per eliminare del tutto il MdR, non sono ipotesi da sottovalutare.

Al di là delle foibe, la memoria sui fatti del fascismo e della Resistenza è diventata un terreno di battaglia così conteso, e così strategico dal punto di vista simbolico, da ostacolare a volte la stessa ricerca storica. Personalmente credo che il comitato scientifico sia talmente autorevole da offrire una garanzia assoluta contro qualsiasi ipotesi del genere: non riesco a pensare a membri dell’Anpi o dell’Istituto Ferruccio Parri disposti a contrattare versioni edulcorate o alterate della storia di quegli anni. Ma esiste un rischio più che concreto che un governo così attento a contrastare ogni forma di cultura simbolicamente avversa spinga il progetto del Museo della Resistenza solo in funzione della cantierizzazione della piramide, e poi lo faccia fallire ancor prima di vedere la luce. Secondo me un Museo Nazionale della Resistenza non può e non deve nascere in un contesto del genere, in cui governo e opposizione attuano identiche politiche neoliberali e si scontrano solo sul piano simbolico. L’idea di cultura che condividono è in sostanza quella di una vacca da mungere per ricavarne denaro e soft power. Sono certa che oltre a qualche irricevibile proposta di memoria delle foibe potrebbe arrivare la richiesta di progettare il museo come una Resistenza Experience, con tanto di oculus e strutture interattive, o come diceva Battiato “proiettori e raggi laser”. E non sarebbe meno degradante e pericoloso.

L’uso strumentale delle buone cause per assicurarsi il consenso o almeno il silenzio è un fenomeno diffuso a Milano?

Assolutamente sì, un altro esempio terribile oltre al Museo della Resistenza è il caso del progetto di moschea localizzato a via Esterle perché funzionale allo sgombero degli occupanti di una palazzina pubblica: decine di riders, famiglie, persone che difficilmente troveranno altre collocazioni. È il miglior sistema per dividere il fronte dell’opposizione: chi contesta la moschea viene subito tacciato di essere razzista e islamofobo, così come qualsiasi dubbio sul Museo della Resistenza viene messo a tacere come espressione di complicità con la cultura fascista.

I conflitti aperti qui e là, come quello per lo stadio a San Siro, e le proteste degli studenti che non trovano casa, hanno aperto una crepa nella splendente vetrina del Modello Milano; non è più così facile, per le istituzioni e i gruppi finanziari, andare avanti indisturbati. Secondo te l’invenzione di Milano è una bolla che può scoppiare?

Potrebbe, ma dobbiamo essere molto bravi, perché il discorso pubblico tenta continuamente di appropriarsi delle istanze meno aggressive della critica per ricondurle nell’alveo di un discorso conciliatorio, focalizzato sul “si può fare di più, si può fare meglio”. Come se fosse solo un problema di efficienza, di riduzione delle “esternalità negative” e non di cambiare radicalmente la direzione politica. I media che fino a ieri gareggiavano a tessere le lodi del Modello ora rincorrono gli studenti, interrogano personaggi mediatori e cercano di far passare la tesi che il problema del caro affitti esiste, ma si risolve con qualche studentato pubblico-privato e qualche briciola di housing sociale. I politici che da anni governano questa città e hanno spinto con tutte le loro forze per valorizzarne ogni metro quadro, oggi riconoscono che in effetti “lasciare indietro le persone fragili” non è propriamente democratico, ma continuano a scaricare la responsabilità sul governo nazionale o a proporre come soluzione la privatizzazione a oltranza del patrimonio e dei servizi pubblici: stadi, piscine, centri sportivi, biblioteche, addirittura le case popolari, come sta cercando di fare Maran, assessore alla Casa.


*L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023)


(Erbacce.org, 23 maggio 2023)

di Monica Lanfranco


«Un ginecologo cattolico, Adriano Bompiani, disse una volta che le donne sono disposte a tutto per avere un figlio, e disposte a tutto per non averlo. È così. L’ho capito anche pensando a mia madre. Se una donna rifiuta il minuscolo esserino che è entrato dentro di lei senza chiedere il permesso, se lo vive come un alieno ostile che le cresce in seno e prende possesso del suo corpo contro la sua volontà, è disposta a rischiare la vita, a uccidersi e ucciderlo, pur di cacciarlo via da sé. La maternità ha un suo lato oscuro, non è tutta luce. Mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, richiede di fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano. Le femministe sostenevano che l’aborto “esula dal territorio del diritto”, ma è vero anche per la maternità, che la cultura patriarcale non ha mai saputo e voluto pensare, a cui ha eretto un mito fasullo per evitare di riconoscerle importanza e centralità. La cittadinanza, nelle democrazie occidentali, è costruita sul concetto di individuo, che etimologicamente significa che non si divide, ed esclude, quindi, le donne. Il corpo materno infatti si divide, per nove mesi è due in uno, creature distinte in un unico corpo. Il risultato è che una donna non è cittadina, non è soggetto di diritti se non appiattendo la differenza e lasciandosi assimilare al maschio-individuo, svalorizzando il potere di generare e confinandolo nel privato». È un passaggio del libro Una famiglia radicale di Eugenia Roccella: un testo denso, ben scritto e coinvolgente, che ho acquistato a fine gennaio di quest’anno in versione digitale incuriosita dal ritratto uscito a firma di Raffaele Oriani su Repubblica, testata non certo tenera nei confronti di questo governo.

Roccella fu subito criticata da una parte della sinistra e del femminismo per avere detto che “l’aborto è il lato oscuro della maternità”, e per aver altresì detto che abortire è purtroppo un diritto delle donne.

Sia il brano tratto dal libro sia le due affermazioni della ministra di un governo di destra estrema, eppure attivista radicale nonviolenta e femminista (non ha mai rinnegato il suo passato) sono non soltanto condivisibili, ma a pieno titolo parte della riflessione femminista. Roccella provò a spiegare quel “purtroppo” e l’affermazione sull’oscurità della maternità anche sulla tv pubblica a Lucia Annunziata che, in un crescendo disordinato di interruzioni e confusione di ruolo eruppe in una parolaccia e, ormai nel pallone resasi conto della brutta figura, non colse l’assist che la ministra mitemente le offrì. «Vedo che si coinvolge» disse sorridendo Roccella alla collega la quale, invece di ammettere la sua passionalità e quindi in parte poter giustificare la caduta di stile umana e professionale negò recisamente l’evidenza. Peccato allora e peccato anche per quello che è successo a Torino al Salone del libro sabato 20 maggio scorso, perché si è persa un’occasione di confronto e conflitto con, a mio parere, l’unica componente interessante e potenzialmente alleata del movimento delle donne di questo governo, mettendo in scena una brutta pagina di censura e arroganza che nulla hanno a che spartire con il dissenso.

Non so perché Roccella, donna con bagaglio culturale, politico e stile umano assai lontano da quello di molti esponenti del governo ne faccia parte: nella storia recente alcune donne di valore e femministe, quali l’avvocata Tina Lagostena Bassi e la giornalista di Noi donne, (testata storica dell’Udi), Roberta Tatafiore a un certo punto abbandonarono la sinistra per scegliere partiti e giornali di destra. Se vi prenderete due minuti per vedere il video girato al Salone ascolterete la ministra che, più volte, invita al dialogo, offre il microfono ad una giovane che legge indisturbata un documento, dice chiaramente che non vuole che nessuno venga portato via dalle forze dell’ordine, invita a stare dalla parte delle donne contro l’utero in affitto ricordando che, in contemporanea alla contestazione che sta subendo, ci sono gruppi femministi a Milano che manifestano contro la fiera Wish for a baby. Il tutto senza urlare, senza scomporsi, appellandosi alle pratiche della giovinezza che racconta nel libro, dove descrive figure di donne coraggiose del movimento radicale come la madre Wanda Raheli e Adele Faccio, alle quali il femminismo e la sinistra italiana devono molto, così come a Emma Bonino e Adelaide Aglietta. Le persone che hanno impedito alla ministra di presentare il suo libro hanno sbagliato, dal mio punto di vista, e provo a spiegare perché. Quello annunciato non era un comizio, ma appunto la presentazione di un libro, un testo autobiografico, che può interessare o meno ma che racconta uno dei momenti di snodo storico della nascita dei diritti delle donne, la lotta per il divorzio e per la legge 194. Chi per età non ha vissuto quel periodo avrebbe, nella lettura del libro, da imparare una storia che purtroppo non viene raccontata spesso. Impedire ad una autrice, ministra di un governo del quale non condivido quasi nulla, ma che in questa circostanza interveniva per parlare di sé e della sua storia, è quanto di più lontano dalla pratica della relazione femminista della quale Roccella molto parla nel libro.

Abbiamo dimenticato che prima del femminismo e dell’ondata sessantottina, una ragazza senza marito, incinta, era solo una puttana, la vergogna della famiglia. La gravidanza era accolta con lacrime di disperazione, amari pentimenti, minacce di buttare la figlia fuori di casa, scenate violente o patetiche. La madre era spesso costretta ad abbandonare il frutto della colpa, e a lasciarlo crescere in orfanatrofio. I maschi invece potevano scomparire in perfetta tranquillità, ignorando le conseguenze dei propri comportamenti, e potevano rinnegare le responsabilità nel modo più sprezzante e offensivo «chi me lo dice che il figlio è mio, chissà con quanti altri sei stata»… Sono innumerevoli le prese di posizione in cui l’aborto è messo a fuoco come ferita fisica e simbolica, non certo come diritto. In un documento del ’75 un importante collettivo milanese sostiene, per esempio, che l’aborto non rappresenta «una conquista di civiltà, perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza»; e una leader indimenticata come Carla Lonzi sintetizza la questione con rara e semplice efficacia: «L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire». La censura, in particolare, su un libro, ha echi pericolosi legati a doppio filo alla cultura totalitaria: se non sei d’accordo prima leggi il testo, ti prepari, poi intervieni anche duramente, ma a ragion veduta. A Torino questo non è successo, e nel caotico mettere insieme critiche ai dirigenti della regione Piemonte, questione climatica e proclami in difesa della legge 194 (che la ministra sostiene e che difende) la contestazione ha mostrato la sua inefficacia. Dissentire è una parola importante nella pratica di opposizione: nella sua radice c’è l’ascolto, il sentire appunto. Come si può dissentire, onorando il senso dell’agire conflittuale costruttivo, se nemmeno si conosce e si ascolta l’avversaria?


(Micromega, 22 maggio 2023)

di Alessandra Pigliaru


Ieri al Salone del libro di Torino, un gruppo di attiviste del movimento non violento Extinction Rebellion insieme alle femministe di Non Una Di Meno, hanno manifestato il proprio dissenso a Eugenia Roccella, ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità. Nello spazio autonomo di competenza regionale, l’Arena Piemonte, la presenza di Roccella era prevista in qualità di autrice del romanzo Una famiglia radicale (Rubbettino) ma l’incontro programmato per le 13 non si è potuto svolgere perché, dopo le proteste, la ministra ha rinunciato dichiarando: «Per democrazia, a voi sconosciuta, lascio il palco per l’evento di Casa Ugi».

Il punto è stato politico e lo spiegano le attiviste che hanno contestato le dichiarazioni della ministra, e non della scrittrice, Eugenia Roccella in merito all’aborto che «purtroppo» – come ha detto pubblicamente in altra sede – è una delle libertà delle donne». È a partire da questa posizione, antitetica e inconciliabile con chi ritiene che invece l’interruzione volontaria di gravidanza debba restare una libertà e un guadagno di autodeterminazione riguardanti esclusivamente ciascuna, riproduzione compresa, che al Lingotto una quindicina di ragazze si sono fatte avanti con slogan e brevi canzoni, inizialmente dal pubblico, poi sdraiandosi a terra come atto di disobbedienza e resistenza tramite il proprio corpo (alcune di loro in serata sono state identificate dalla Digos).

Di questo corpo fa parte anche la Terra, con il disastro climatico in corso e il reiterato abuso dei territori, infine la tragedia. Ed è con queste evidenze che si comprendono meglio le parole delle attiviste che hanno manifestato, insieme ad altri movimenti, anche fuori dal Salone «per un futuro più vivibile» e che però, chiamate al diretto confronto da Roccella, non hanno risposto, salendo sul palco per leggere un proprio comunicato. Una in particolare, giovanissima, ha preso il microfono e ha letto un testo: «Non possiamo stare a guardare mentre gli spazi ci vengono tolti per dare spazio a posizioni antiabortiste. La priorità è il clima, la regione deve prendere misure concrete per contrastare la crisi climatica». Le ragazze hanno poi detto che «mentre in Emilia-Romagna si contano ancora i morti e i dispersi, i ministri del governo italiano, da giorni, presiedono gli spazi di uno degli eventi culturali più importanti d’Italia. Oggi era il turno di Roccella, ministra che ha più volte dichiarato che “purtroppo l’aborto è un diritto delle donne”. E questo accade qui, nella regione in cui un medico su due si rivela obiettore di coscienza».

Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro (per l’ultimo anno), ha cercato di mediare riconoscendo che «in democrazia le contestazioni sono legittime purché non violente» e invitando al dialogo perché «il gioco democratico tra cittadini e potere è fatto anche di dure critiche. Mi sembrava – ha proseguito Lagioia – che i contestatori non accettassero questo tipo di invito. Anche qui: chi contesta, purché in modo non violento, decide come contestare».

È a questo punto che Augusta Montaruli, deputata di Fdi, ha urlato contro di lui «vergogna, vergogna», causando l’interruzione della mediazione.

In questa vicenda ci sono diversi ordini di problema: il primo è un fatto all’apparenza lessicale ma risulta politico giacché diritti e libertà non sono la stessa cosa. E quando in gennaio Eugenia Roccella ha risposto alla domanda della conduttrice televisiva Serena Bortone «L’aborto fa parte di una delle libertà delle donne?», con quel «Purtroppo sì» ha confermato e rinforzato un processo di legittima e profonda preoccupazione in merito alla 194. Che dei corpi possiamo disporne come desideriamo la si può considerare una libertà, poi un diritto; i piani sono nettamente distinti, talvolta si parlano, come in questo episodio, fino a confondersi. Chi agisce da un ruolo apicale e di potere come quello rivestito da Roccella dovrebbe saperlo, sempre. E anche chi pensa di aprire una contestazione che sia efficace. Qui sta il secondo elemento, il più dolente: non è la democrazia a essere in pericolo. Assistiamo piuttosto a una impotenza paralizzante che preferisce la strada della rottura. Come ha scritto Judith Butler sulle pagine di questo giornale pochi giorni fa, ci sono lutto e perdita e nuove forme di lotta. E sono questioni molto serie.

L’ultimo nodo riguarda l’efficacia dei conflitti che si intendono aprire, che siano più fertili, soprattutto quando l’esito è che chi viene contestato riesca a passare nell’opinione pubblica come una vittima di censura.


(il manifesto, 21 maggio 2023)

di redazione Open


Un’app dove indicare quali faccende di casa si svolgono e quanto tempo si impiega a farle. Questa è l’insolita l’idea del governo spagnolo per scaricare dalle donne il peso mentale e fisico di doversi occupare dell’ambiente domestico. Compito che spesso non viene equamente diviso tra i due membri della coppia. Secondo l’istituto di statistica spagnolo, infatti, solo metà delle famiglie si divide le faccende di casa in pari modo. Nel 46% dei casi sono le donne a fare di più, e solo nel 4% gli uomini. Annunciando la misura, all’inizio di questa settimana, la segretaria di stato spagnola per l’uguaglianza, Ángela Rodríguez, ha affermato, citata dal Guardian, che l’obiettivo era quello di far luce sull’invisibile «carico mentale» che le donne sostengono nello svolgimento delle faccende domestiche.

Le faccende “nascoste”

Rodríguez ha dichiarato, presentando l’app, il cui budget di sviluppo è di 211.750 euro, al comitato dell’Onu per l’eliminazione della discriminazione contro le donne: «Pensiamo che questo sia un esercizio che potrebbe essere utilizzato a casa per condividere le faccende tra figli, figlie, padri, madri o tra coinquilini o compagni di vita, perché la divisione di questi compiti a volte è iniqua», ha detto. Tra questi ci sono anche quelle attività nascoste, che la segretaria di Stato ha illustrato così: «Anche se riordinare la cucina potrebbe richiedere 20 minuti, ha detto, dipende dal fatto che qualcuno si sia prima ricordato di comprare il detersivo per i piatti o di pianificare la lista della spesa».


(open.online, 20 maggio 2023)

di Franca Fortunato


«Ho un carcinoma renale al quarto stadio, da cui non si torna indietro, mi restano mesi da vivere, ma la morte non mi fa paura» è la confessione choc che Michela Murgia ha fatto al Corriere della Sera in un’intervista ad Aldo Cazzullo, parlando del suo ultimo libro Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi edito da Mondadori, da pochi giorni in libreria. Il libro con le sue dodici storie, l’una diversa dall’altra, si apre con il dialogo in terza persona tra lei e l’oncologo che le comunica la diagnosi e le spiega che quel carcinoma non è un nemico da combattere, da distruggere, ma «un complice della sua complessità, una parte disorientante del suo corpo sofisticato […], niente di più di un compagno» che sbaglia. «Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono» e lei non ha «voglia né forze di fare la guerra a sé stessa». A quel tumore (lei) la protagonista dà un nome coreano “I am”, perché «usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le pareva l’unica sostenibile in quel momento». In tutti i racconti le/i protagoniste/i, all’interno dell’anno di pandemia, vivono una crisi soggettiva e per sopravvivere emotivamente trovano soluzioni inedite e impreviste. Tutte/i non hanno un nome ma solo la voce con cui si raccontano. In ogni storia autobiografia e non autobiografia si mescolano e tutte insieme come in un mosaico ci restituiscono l’autrice con le sue idee politiche, le sue lotte, le sue convinzioni, la sua vita dopo la diagnosi, vissuta con la consapevolezza di non avere molto tempo da vivere ma abbastanza per prepararsi e preparare alla sua morte chi le vuole bene. Le tre ciotole da cui prende il titolo il libro, comprate dalla protagonista di una delle storie, sono quelle in cui l’autrice mangia un pungo di riso, qualche pezzo di pesce o di pollo e qualche verdura per tenere a bada gli improvvisi conati di vomito. Nel racconto della moglie che non vuole che il marito venga tenuto in vita dalle macchine c’è lei che dice «posso sopportare molto il dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare». Lei credente in un Dio relazionale a quella donna fa dire «ho passato la vita a fare scelte per il bene di mio marito e alla fine non è stato diverso. Su quel letto in terapia intensiva […], non vedevo più l’uomo che avevo sposato. Non avevo scelta. Non so se Dio mi chiederà conto di aver creduto più alla sua misericordia che alla scienza». La malattia rievoca antiche insofferenze come quella per i piatti, legata ai suoi genitori che «si erano distrutti addosso interi servizi di piatti con una frequenza tale che quando raccoglievamo i cocci dell’ultima lite trovavamo ancora sotto al divano le schegge di quelle precedenti». Nel racconto della donna che odia i bambini ma acconsente a metterne al mondo uno per dare un figlio al suo amico d’infanzia e alla moglie e in quella del professore che dice di essere con sua moglie “in attesa” dopo «una gravidanza prima difficile, poi impossibile e infine surrogata», c’è il pensiero dell’autrice su quella pratica. Lei che conosce la fine della sua storia chiude il libro con il racconto di un rito, che ha inaugurato al suo cinquantesimo compleanno. La protagonista organizza «un pranzo di addio per la sorella morta con i suoi vestiti appesi agli alberi» perché le amiche e gli amici invitati potessero scegliere «il ricordo da portare via» e portarsi, così, «a casa un pezzetto di lei». Alla fine delle storie il libro si rivela il romanzo di una vita vissuta e l’accettazione della morte con serenità, coraggio e dignità.


(Il Quotidiano del Sud, 20 maggio 2023)


Immaginare è fare politica


Conduce la filosofa Annarosa Buttarelli


Un progetto di: Scuola di Alta Formazione per Donne di Governo

In collaborazione con: Libreria delle donne di Milano


ATTENZIONE!! L’incontro si terrà in presenza dalle 14.45 alle 17.15 presso la Libreria delle donne di Milano, in via Pietro Calvi, 29.
Per iscrizioni scrivere a prenotazione@libreriadelledonne.it

Contributo richiesto: € 15 euro per singolo incontro; gratuito per chi possiede la Tessera Accademica (costo annuale della tessera € 70, per info: info@scuoladonnedigoverno.it). Possibilità di partecipazione online.

di Katia Ricci


Dal 23 al 31 maggio presso la Galleria di arte moderna e contemporanea di Palazzo Dogana, in piazza X Settembre n. 22 a Foggia, sarà esposta la mostra di Mail Art Donna Vita Libertà, organizzata dalla Merlettaia di Foggia e dalla Rete delle Città Vicine, che da alcuni anni invitano artisti/e di ogni parte d’Italia a partecipare all’evento di Mail Art su un tema che riguarda l’attualità. La mostra, curata da Katia Ricci allestita da Rosy Daniello e Anna Fiore è itinerante tra le Città Vicine.


Con Arte Postale o mail art si intende lo scambio di manufatti di svariati materiali e tecniche, di piccole dimensioni come cartoline, biglietti e lettere, utilizzando il sistema postale. La nascita ufficiale della mail art si fa risalire al 1962, quando Ray Johnson dette vita alla New York Correspondance School istituzionalizzando lo scambio di opere tramite il mezzo postale, ben presto si diffuse in tutto il mondo e fu in seguito chiamata Mail Art. Gli antecedenti della mail art, però, possono essere rintracciati nei primi esperimenti dei Futuristi e dei Dadaisti.

Chiunque può partecipare all’evento ed entrare a far parte della comunità artistica. È un fenomeno artistico che può raggiungere facilmente un pubblico assai vasto in ogni parte del mondo, creando una stretta relazione tra mittente destinatario e oggetto spedito e permette una riflessione collettiva su un tema attuale. La caratteristica primaria della Mail Art, dunque, è quella di essere uno scambio di idee e creatività non commerciale.

È un’arte che si sottrae ai meccanismi e alle lusinghe del mercato artistico e del sistema dell’arte per salvaguardare la propria funzione originaria: usare un linguaggio creativo per comunicare con altri esseri umani o con le divinità. Associazioni come La Merlettaia di Foggia e la Rete delle Città Vicine, che hanno tra le proprie pratiche politiche la comunicazione e la relazione interpersonale, da anni si servono della mail art per affrontare in modo creativo una questione che è stata al centro dei loro interessi e delle loro attività.

Oggi che tutti siamo costantemente connessi con i mezzi digitali, l’arte postale potrebbe sembrare un mezzo superato. Invece, proprio per l’uso a volte invasivo del web, un messaggio su carta assume un grande valore emotivo, perché è qualcosa che esiste e si può toccare, e dà anche sensazioni fisiche. È pur vero che l’uso del web facilita la diffusione di tale pratica grazie alla posta elettronica che, abolendo le distanze spaziali e temporali, ha modificato e arricchito il concetto di Arte Postale. Molti, infatti, non ne disdegnano l’impiego a fini artistici. Secondo altri, invece, il ricorso alla posta elettronica procurerebbe una perdita di valore.

Donna Vita Libertà, in curdo Jinjiyanazadî, è il titolo della mail art del 2023, dedicata a Carla Bertola, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine. Tre parole che negli ultimi due anni sono risuonate in tantissime piazze europee e del mondo, gridate da donne e uomini, giovani e anziani, a partire da ogni angolo dell’Iran, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne. Ogni donna e uomo è consapevole di mettere a rischio la propria vita pur di abbattere l’insopportabile regime di quella Repubblica islamica che, perseguitando le donne, schiaccia la vita, la giustizia e la libertà di tutti. Per questo lo slogan è stato accolto, ripreso e passato di bocca in bocca come un canto che non accenna a spegnersi, ma che infiamma menti e cuoriLiberté, Égalite, Fraternité urlavano i francesi nel 1789, ma mentre quelle parole di fatto si rivolgevano solo agli uomini e per questo sono finite nel sangue e nell’orrore, Donna Vita Libertà apre a un mondo nuovo, in cui la pace non è una parola ormai consumata, ma il pilastro di una società improntata ai valori materni, modello di civiltà per donne e uomini, che, dice Paola Cavallari, «[…] metta al centro il corpo, le emozioni, i desideri, che si fondi su una riflessione senza pregiudizi per ridisegnare la vita quotidiana, che dia valore alle relazioni e ci porti a costruire legami, che ci insegni a gestire il conflitto […]» senza soprusi e violenze.

Il volto della rivolta iraniana è quello di Mahsa Amini, la giovane di origine curda uccisa dalla cosiddetta polizia morale, colpevole di aver lasciato scoperta una ciocca di capelli.

Il tema della mail art ha catalizzato l’interesse di molte artiste e artisti, ma anche di donne e uomini, non artisti, che hanno voluto cimentarsi in questo tipo di comunicazione creativa per esprimere la propria solidarietà e sostegno per la lotta delle donne iraniane e lo sdegno per il modo in cui un regime cieco e crudele cerca di soffocarla. Ha partecipato con una cartolina anche Maryam Aeenmehr, un’iraniana che vive in Italia.

Speranza, ammirazione per il coraggio e la lotta delle donne e degli uomini sono espresse nelle cartoline di Maryam Aeenmehr, Rossana Bucci, Stefania Piccirilli, Antida Tammaro, Rosanna Macrillò, Rossella Sferlazzo, Michela Di Conza, Rosaria Campanella, Anna Fiore, Sergia Sambo, Claudio Gavina, Roberta Iarussi, Luciana Talozzi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Mariangela Magnelli, Marina Penzo, Oronzo Liuzzi, Maria Paola Quattrone, Emilia Metta, Ornella Cicuto, Daniela Tzekova.

Denuncia, sdegno, dolore nelle opere di Maria Bonaduce, Isabella Branella, Monica Carbosiero, Laboratorio Selvaggiastro (che presenta anche una poesia, Dama d’argento, di Andrea Colonna), Rosalba Casmiro, Ruggero Maggi, Wanda Delli Carri, Maria Iofalo, Michela Cassa, Ino Conserva e Amalia Mancini, Gianni De Maso, Antonio Fortarezza, Enrico Straccini.

Riflessione sulla lingua nelle cartoline di Maurizio Sacchet.

Bruno Cassaglia e Rosy Daniello rappresentano dei puzzle per indicare che la libertà è un bene fragile e prezioso da ricostruire. Un tenero cuore, offerto come ex-voto per la libertà, nelle opere di Nando Granito con la nipote Francesca e di Nicola Liberatore. Un mondo a forma di cuore, ispirato da una mappa di inizio ’700, è la cartolina di Donatella Franchi. Soffioni, simbolo di libertà e speranza, nella cartolina di Donata Glori.

Certezza che la libertà si può costruire con le relazioni in primis tra donne e con un percorso di crescita e consapevolezza nelle cartoline di Cornelia Rosiello, Adele Longo, Clelia Mori, Cettina Tiralosi, Anna Di Salvo.


(l’Attacco di Foggia, 19 maggio 2023)

di Rita Rapisardi


Rilanciamo questo prezioso articolo interessante per l’approccio, il taglio e le dettagliate informazioni.

Teniamo però a puntualizzare che, per fortuna, l’Intesa Stato-Regioni del 14/9/2022 sui centri per il trattamento dei maltrattanti (CUAV, Centri per uomini autori di violenza) prevede una netta separazione di questi dai centri antiviolenza, a differenza di quanto affermato da un’intervistata.

Infatti, l’articolo 3 dell’Intesa, ai commi 5 e 6 precisa:

«5. Al fine di assicurare la sicurezza delle vittime, nei C.U.A.V. si esclude in ogni caso l’applicazione di qualsiasi tecnica di mediazione tra l’autore di violenza e la vittima, e, nel caso in cui si realizzino attività che coinvolgono le vittime, come il “contatto partner”, si assicura la separatezza dei programmi e degli ambienti.

«6. Se lo stesso soggetto gestore si occupa sia di vittime di violenza che di autori di comportamenti violenti, è necessario che le strutture siano separate e distanti e che non siano gli stessi operatori/operatrici a seguire vittima e autore.»

La redazione del sito


«Il maschio violento non è un malato, ma è figlio sano del patriarcato», dice un noto slogan femminista. La violenza sulle donne non è una malattia, eppure da qualche anno l’approccio sembra essere proprio quello della cura. È stata la Convenzione di Istanbul nel 2013 a parlare di istituire programmi rivolti agli autori di violenza.

In Italia è nel 2019, con la nascita del Codice Rosso, che si legifera sul trattamento psicologico per i condannati e sulla possibilità di sospensione della pena per i reati di: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo e atti persecutori. Prima della legge, i corsi potevano essere consigliati dagli assistenti sociali, dalle forze dell’ordine (su ammonimento) o partecipati in modo volontario. Il fine a breve termine è l’interruzione della violenza e la sicurezza delle vittime. Il disegno ampio è il cambiamento culturale.

Il tema è controverso: da un lato, c’è chi considera questa una prevenzione a ulteriore violenza; dall’altro, chi la vede come una scorciatoia per uno sconto di pena. La Convenzione di Istanbul promuove i corsi, ma non entra nelle questioni giudiziarie, mentre la legge italiana, approvata durante il governo gialloverde, sì. Su questo non tutti erano d’accordo, neppure alla Commissione Femminicidi. Parte del mondo femminista e dei centri antiviolenza non si pone in modo acritico, ma manifesta alcune perplessità. «Trattare la violenza come disagio psicologico mette da parte il fattore culturale del fenomeno – spiega Antonella Veltri, presidente di D.i.Re., presente sul territorio con 106 centri antiviolenza – I numeri non possono essere spiegati come un problema individuale». Il rischio è anche quello di un modello familiare limitato: il suggerimento che si possa aggiustare la violenza nella coppia. Su questo la legge impone che la donna sia avvertita del percorso di rieducazione: «C’è il rischio di alimentare il sogno del cambiamento che molte donne che accogliamo hanno. Un tentativo di mediazione familiare». L’intesa Stato-Regioni, poi, non è abbastanza restrittiva su alcuni aspetti, come ad esempio non collocare i due centri nella stessa sede.

Di buono c’è che gli uomini sono chiamati alla responsabilità. Il diniego è altissimo nei casi di violenza sulle donne: mentre un rapinatore capisce il reato, l’uomo violento no. La privazione della libertà e le condanne aumentano poi l’idea di essere perseguitato ingiustamente. Anche i corsi sono accolti con riluttanza: «Un trattamento deve partire dalla volontà della persona, non per imposizione», fanno notare le voci femministe. Che ricordano il duplice femminicidio di luglio scorso a Vicenza, dove l’assassino, dopo un percorso e la sospensione della pena, ha ucciso ex compagna, Lidija Miljkovic, e fidanzata, Gabriela Serrano.

Anche giudici e forze dell’ordine considerano il rifiuto un sintomo di pericolosità maggiore. «Bisogna intervenire in modo professionale e preparato, sapendo che l’uomo maltrattante non è né fragile né malato – spiega il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, attento al tema – ha bisogno di un percorso culturale, comprendere che deve rispettare la libertà di scelta della donna. Bisogna assolutamente evitare atteggiamenti giustificazionisti».

«Gli studi evidenziano che in certe situazioni il diniego può avere un beneficio favorendo la partecipazione ad un programma trattamentale», spiega la dott.ssa Georgia Zara, esperta sul trattamento dei sex-offenders. «La partecipazione ad un trattamento riduce il rischio di ricaduta criminale; mentre il rischio aumenta maggiormente nei casi di interruzione, rispetto ai casi di chi neanche inizia».

Gli uomini che accedono sono sposati, con figli minorenni e occupati stabilmente in varie professioni. Il discorso sui figli è centrale: nelle cause di affido, i padri possono usare la partecipazione ai corsi come un patentino di cambiamento, come forma di controllo della donna o rivalsa sui figli e per rivederli dopo una prima interdizione.

Purtroppo in Italia non esistono studi ad hoc. L’unico è stato condotto dal Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) all’interno del carcere di Bollate: su 250 casi in dieci anni, sette le recidive; mentre su 350 imputati prima della condanna definitiva, tre recidive. «In Paesi come Canada e Inghilterra la ricerca è sostenuta da importanti finanziamenti che permettono di fare studi che coinvolgono migliaia di partecipanti e i cui risultati sono statisticamente significativi», dice Zara.

Nonostante la legge, non vi è una definizione univoca dei percorsi, che possono seguire modelli e orientamenti diversi e non esistono linee guida nazionali. Le domande per accedere dopo il 2019 sono aumentate di molto, spesso evase dagli stessi avvocati, ma è difficile soddisfare tutte. Per questo a maggio 2022 è stanziato un fondo di otto milioni per la creazione e il finanziamento dei centri, ora pochi e mal distribuiti. I corsi, secondo la legge, sono a carico dei maltrattanti e c’è chi vorrebbe eliminare la barriera economica o introdurre fasce di contribuzione.


(Il manifesto, 19 maggio 2023)

di Pierrick Naud


Nonostante le buone intenzioni, atti criminali 


Rappresentazioni ingenue hanno per lungo tempo dotato l’adozione internazionale di molte virtù. Sul piano storico, questa attività prende avvio alla fine degli anni ’60. La risonanza mediatica delle guerre del Vietnam (1955-1975) e del Biafra (1967-1970) contribuisce infatti all’emergere di una nuova etica umanitaria. I paesi del Sud sono considerati pieni di orfani. Adottare non significa solo offrire una famiglia a un bambino che non ne ha una; significa anche salvare un essere umano sofferente e, in sostanza, offrire un po’ della ricchezza dell’Occidente ai diseredati. Secondo Sébastien Roux, ricercatore del Centro nazionale per la ricerca scientifica (Cnrs), diversi altri fattori contribuiscono all’esplosione del fenomeno: «La rivoluzione dei trasporti, la fine degli imperi coloniali, l’assenza di politiche sociali e sanitarie efficaci in molti paesi del Sud». La pratica si diffonde in tutta Europa, in particolare in Svezia, che ha il più alto tasso di adozioni pro capite al mondo1. Dagli anni sessanta, le adozioni internazionali nel paese scandinavo hanno riguardato circa 60.000 bambini, soprattutto da Corea del Sud, India e Colombia. Il Centro svedese per le adozioni, fondato nel 1972 da genitori adottivi in collaborazione con lo Stato, è diventato uno dei più grandi al mondo. A dimostrazione dell’importanza dell’adozione nella cultura svedese, nel paese sono stati pubblicati più di trecento libri sull’argomento, molti dei quali rivolti ai bambini2. La Francia, dal canto suo, diventa il secondo paese destinatario, quanto a numero di bambini adottati, dopo gli Stati uniti. Il picco è stato raggiunto nel 2005, con 4.136 visti di «adozione» rilasciati dal Quai d’Orsay [sede del Ministero degli Affari Esteri, NdR], rispetto ai 935 del 1980. Ma su entrambe le sponde dell’Atlantico una serie di scandali contribuisce via via a offuscare la reputazione di un mondo caratterizzato da buoni sentimenti e promesse di salvezza. Già nel 1975, la rivista cilena Vea allertava circa l’esistenza di una «misteriosa organizzazione che adotta i bambini nati da madri non sposate e li spedisce in Europa», un fatto che inquietava le autorità responsabili del rilascio dei passaporti, preoccupate per il numero di bambini cileni che lasciava il paese. L’articolo attribuiva il ruolo di perno ad Anna Maria Elmgren3. Cittadina svedese, stabilitasi a Santiago alla fine degli anni 1960 e sposata con un carabinero, ha acquisito familiarità con le procedure di adozione locali aiutando la sorella a trovare un bambino in Cile4. In seguito, ha organizzato circa duemila adozioni come rappresentante locale dell’associazione svedese Adoptionscentrum tra il 1973 e il 1990. Nel 2003, un’inchiesta della giornalista cilena Ana María Olivares rivela che Elmgren si avvaleva di una vasta rete di assistenti sociali, insegnanti e giudici che le segnalavano i bambini e facilitavano il processo di adozione. Esmeralda Quezada, assistente sociale della città di Concepción, poi promossa alla carica di presidente del tribunale minorile, informava Elmgren non appena risultavano disponibili bambini. Venivano esercitate pressioni sulle madri povere che cercavano un aiuto economico o un asilo nido, e sulle madri single. Ma poteva trattarsi anche di bambini che camminavano da soli per strada, come nel caso di due fratelli arrestati dai carabineros per vagabondaggio: il padre, che li aveva affidati a una tata mentre lavorava, non era stato contattato e i suoi figli erano stati dati in adozione. Il loro fascicolo indicava che erano nati fuori dal matrimonio, il che permetteva di fare a meno del consenso del padre. Secondo il rapporto di una commissione d’inchiesta formata nel 2018 dalla Camera bassa del Parlamento cileno, «è un fatto accertato: in Cile centinaia di bambini sono stati sottratti ai loro genitori per essere adottati all’estero5» durante la dittatura del generale Augusto Pinochet. Il metodo più comune era quello di far credere alla madre che il figlio fosse morto e che il corpo fosse stato donato alla scienza, evitando così le denunce. Durante la dittatura, quasi 22.000 bambini furono adottati e inviati in 25 paesi, tra cui Stati uniti, Francia e Italia.


«Siete stati rapiti»


Fredrik Danberg, figlio adottivo del funzionario di una grande banca scandinava, è cresciuto a Båstad, una prospera regione della Svezia. Ha 45 anni. Per tutta l’infanzia, a lui e a suo fratello gemello era stato detto che la loro madre biologica, una donna cilena, li aveva dati in adozione perché erano malati e lei era povera. Sostenuti da attivisti per i diritti degli adottati, hanno finalmente trovato la sorella su Facebook e lei li ha aiutati a contattare la loro madre naturale. Il primo incontro è avvenuto tramite schermi: lei parlava spagnolo, loro parlavano svedese, con un interprete. Quando i bambini avevano due mesi, racconta la donna, avevano dovuto portarli in ospedale a Santiago per curare un eczema facciale. Pensava che le fossero stati portati via per essere curati, ma non le erano mai stati restituiti. Il personale dell’ospedale le aveva poi detto che i gemelli erano morti. La donna aveva chiesto di vedere i corpi, invano. Il padre alla fine si era rassegnato alla morte dei figli, ma lei li aveva cercati ovunque. Non aveva mai firmato alcun documento di adozione. «Siete stati rapiti», ha assicurato ai figli. In Francia, il settore delle adozioni internazionali non si è mai ripreso completamente dall’episodio dell’Arche de Zoé. Il 25 ottobre 2007, sei membri di quest’associazione vengono arrestati in Ciad mentre cercano di imbarcare 103 bambini coperti da false bende e attaccati a flebo. Per le famiglie che li attendono in Francia, sono vittime della carestia nel Darfur, una regione del Sudan occidentale. L’indagine condotta dalla polizia locale stabilisce che si tratta in realtà di bambini di nazionalità ciadiana, con genitori in gran parte viventi, e legalmente non adottabili. La vicenda assume i contorni di una crisi diplomatica tra Parigi e N’Djamena, quando il presidente ciadiano Idriss Déby Itno denuncia il «traffico di esseri umani» da parte dell’ex potenza coloniale, con la complicità di parti terze senza scrupoli. Condannati in Ciad e poi rimpatriati in Francia per scontare la pena, i protagonisti francesi vengono deferiti al tribunale penale di Parigi per «favoreggiamento del soggiorno illegale di minori stranieri in Francia», «frode» ed «esercizio illegale dell’attività di intermediazione con finalità di adozione». Il 12 febbraio 2013, il Tribunale correzionale di Parigi condanna il presidente dell’Arche de Zoé, Éric Breteau, e la sua compagna Émilie Lelouch, a tre anni di carcere, di cui uno sospeso.

Disastri naturali, guerre, cambiamenti politici – soprattutto quelli molto mediatizzati in Occidente – hanno portato a vere e proprie corse agli “orfani” stranieri. I contesti caotici nei quali si verificavano questi eventi hanno inevitabilmente favorito comportamenti opportunistici. In Romania, dopo il rovesciamento di Nicolae Ceauşescu nel 1989, i canali televisivi europei trasmettono in prima serata immagini di bambini malnutriti incatenati ai letti in collegi insalubri. L’emozione porta all’apertura di un «mercato»: decine di migliaia di bambini vengono esfiltrati dalla Romania negli anni 1990, prima che il paese arrivi a vietare le agenzie di adozione internazionale nel 2001. Dal canto suo, la politica del figlio unico adottata da Pechino nel 1979 suscita in Occidente la fantasia di bambine abbandonate in massa dalle famiglie. Con l’integrazione della Cina nell’economia globale, all’inizio degli anni 2000, gli orfanotrofi cinesi aderiscono al sistema di adozione internazionale e diventano i primi fornitori di bambini. Nonostante la ratifica da parte di Pechino, nel 2005, della Convenzione dell’Aia sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale – il testo di riferimento in materia di regolamentazione dell’adozione internazionale –, le reti di trafficanti prosperano6.

Nel 2005, dieci persone vengono condannate dalla giustizia cinese per traffico di esseri umani nella provincia di Hunan per aver venduto bambini – per 370 euro – a orfanotrofi che poi li offrivano ad agenzie di adozione occidentali per 1.000-5.000 euro. Ma nessuna organizzazione in Europa o negli Stati uniti è stata sanzionata per aver acquistato quegli stessi bambini. Haiti: dopo il terremoto del 2010 che aveva provocato oltre 200.000 morti, le agenzie di adozione private si precipitano sull’isola. Un’organizzazione battista statunitense viene bloccata al confine con la Repubblica dominicana mentre trasporta trentatré bambini senza autorizzazione né documenti ufficiali7.

Questi scandali hanno fatto precipitare l’adozione internazionale in una crisi morale profonda8. Nel 2019 sono arrivati sul territorio francese solo 421 bambini, con un calo del 90% rispetto al 2005. I tentativi di regolamentare il settore per placare le preoccupazioni non sono riusciti a ripristinare la fiducia e il processo di adozione è ora visto con sospetto. Per moralizzare le pratiche, il Vietnam, ad esempio, consente ora l’adozione internazionale solo di bambini con «bisogni specifici», cioè affetti da patologie. Sulla carta, la pratica è conforme alla Convenzione dell’Aia, in quanto favorisce la permanenza dei bambini nel loro ambiente d’origine e autorizza la mobilità internazionale per motivi umanitari. Nel frattempo, nella pratica, osserva il sociologo Sébastien Roux, «la preoccupazione etica alla base della Convenzione dell’Aia è stata dirottata verso una politica nazionalistica che distribuisce i bambini in base al loro stato di salute, mandando di fatto i meno desiderabili al di là dei confini simbolici e politici della comunità nazionale».


Maternità surrogata in India e Ucraina


In Francia, le organizzazioni incaricate di accompagnare l’adozione incoraggiano i futuri genitori a elaborare un progetto compatibile con questi profili di bambini e a prepararli ad affrontare il risvegliarsi di «traumi» psicologici legati all’abbandono. Pur moralizzandosi, il settore dell’adozione internazionale scoraggia così molte vocazioni genitoriali. Mentre il lato oscuro dell’adozione sta finalmente venendo alla luce, una nuova pratica vi si sostituisce: la gestazione per altri (o maternità surrogata). Questa offre alle coppie occidentali ciò che l’adozione non permette: un neonato, di solito bianco, con i geni dei genitori o comunque di loro scelta. In genere, una donatrice di ovuli bianca viene selezionata per il suo aspetto e gli embrioni fecondati vengono impiantati in una madre surrogata indiana o ucraina, scelta per le tariffe competitive – e per il fatto di appartenere a un paese la cui legislazione favorevole garantisce pieni diritti ai genitori intenzionali. I clienti della gestazione, d’altronde, certamente non hanno la sensazione di aver salvato un bambino, ma in cambio non rischiano di essere accusati di aver rubato il figlio di qualcun altro. Ma la storia sembra ripetersi. La surrogazione di maternità è già macchiata dalle accuse di madri che hanno frainteso i contratti (redatti in inglese indipendentemente dal paese di origine), di frode… I primi figli nati da questa pratica hanno già iniziato a denunciarla9. Dal 2011, la conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato (Hcch), un’istituzione intergovernativa nella quale sono presenti 90 Stati e l’Unione europea, riunisce ogni anno avvocati e professionisti sulla base di una constatazione: «La maternità surrogata è diventata un mercato globale, che pone una serie di difficoltà, soprattutto quando le parti coinvolte si trovano in paesi diversi». Il loro obiettivo: elaborare norme internazionali volte a «regolamentare la maternità surrogata transnazionale, e facilitare il riconoscimento reciproco delle filiazioni risultanti da contratti di maternità surrogata»10. Riusciranno a legittimare un commercio già criticato? Gli scandali passati e futuri, così come la mobilitazione di associazioni femministe, potrebbero avere la meglio su questo nuovo “mercato”, così come alla fine hanno fatto sfiorire l’adozione internazionale.


(1) Adoptions in Sweden, Adoptionscentrum, www.adoptionscentrum.se

(2) Tobias Hübinette, Sverige som adoptionsland och adopterade som migranter, Välfaïd, vol. 7, n° 2, Solna (Svezia), 2007.

(3) Wolrad Klapp, Escandaloso tráfico de guaguas chilenas, Vea, n° 1883, Santiago del Cile, 14 agosto 1975.

(4) Denuncia di Elmgren contro il canale televisivo cileno Chilevisión, rivolta alla Corte d’appello di Santiago, 8 maggio 2018.

(5) Rapporto della commissione speciale di inchiesta sugli atti degli organismi dello Stato, in relazione con eventuali irregolarità nei processi di adozione e registrazione di minori, e di controllo della loro uscita dal territorio, Camera dei deputati, Santiago del Cile, 2018.

(6) Pang Jiaoming, The Orphans of Shao, Women’s Rights in China, New York, 2014.

(7) Kathryn Joyce, The Child Catchers: Rescue, Trafficking, and the Gospel of Adoption, Public Affairs, New York, 2013.

(8) Sébastien Roux, Sang d’encre. Enquête sur la fin de l’adoption internationale, Vendémiaire, Parigi, 2022. Da qui sono tratte le informazioni di questo paragrafo.

(9) Jessica Kern, What happens when you learn that you were born through commercial surrogacy?, testimonianza del sito militante «Legalize surrogacy: why not?», www.legalize

surrogacywhynot.com

(10) Claire de La Hougue, GPA: Que s’est-il dit à la conférence de La Haye?, Gènéthique, 17 aprile 2018, www.genethique.org (Traduzione di Marianna De Dominicis). Dopo aver raggiunto il suo apice negli anni 1970, l’adozione internazionale attraversa una profonda crisi morale. Dal Ciad al Cile, dalla Francia alla Svezia, numerosi scandali hanno screditato una pratica che a lungo è stata percepita come un atto di generosità. Sulle rovine di questo settore ne sta emergendo un altro: la maternità surrogata, con il rischio di un’accresciuta mercificazione dei viventi.


KAJSA EKIS EKMAN *

(*) Giornalista. Autrice di Being and Being Bought: Prostitution, Surrogacy and the Split Self, Spinifex Press, Little River (Australia), 2013.


(Le Monde Diplomatique, 3 maggio 2023. Il manifesto, 18 maggio 2023)

di Anna Menale


Quando Stefano Feltri mi ha proposto di raccontare la mia esperienza da giovane femminista per la sua newsletter, mi è venuta in mente una conversazione di poco tempo fa con una mia amica. Parlavamo, appunto, di come ci fossimo avvicinate al femminismo.

Da donna, ho sempre vissuto quelle esperienze che, purtroppo, tutte possono comprendere (i fischi per strada, l’essere considerata “meno brava”, e così via).

Vivere in provincia ha sicuramente influito, tanto da rendere il femminismo parte integrante delle mie giornate, delle mie riflessioni, e da farmi scegliere di basare il mio lavoro su questo. 

Il motivo è semplice: in provincia, a parer mio, si respira ancora di più la ristrettezza del sistema (certo, anche nelle città è così, il sistema è patriarcale ovunque, ma in provincia ci si muove in spazi piccoli, con una rete di conoscenze limitata, le informazioni girano velocemente, è tutto più asfissiante). Nella mia adolescenza ho avuto modo di riscontrarlo. Senza riuscire a starmene in silenzio.

Cose da donne

Al liceo una ragazza del mio paese inviò delle foto private al suo fidanzato del tempo, e lui le fece girare ovunque. Quasi nessuno pose l’attenzione su di lui, nessuno pensò a quanto fosse grave la sua azione, ma si soffermarono su di lei: per inviargli quelle foto, doveva essere sicuramente una poco di buono. Era sempre un “lei non avrebbe dovuto farlo” e mai un “lui non avrebbe dovuto farle girare”. Il revenge porn è diventato un reato molto tempo dopo, nel 2019, con l’articolo 612 del Codice Penale.

Al quinto anno – quando tutti si sentono in dovere di dirti cosa fare dopo, per il tuo futuro – una volta un conoscente mi consigliò di insegnare alle elementari perché, testuali parole, «quello della maestra è un lavoro per donne, poi puoi prenderti cura facilmente dei figli e stare a casa più tempo».

Gli schemi sono sempre gli stessi. La donna è madre, il suo lavoro è un di più (perché è l’uomo che deve portare i soldi a casa e “mantenere la famiglia”), all’università ci vanno perlopiù i figli maschi. E se una ragazza indossa una minigonna è sicuramente poco seria. Ancora oggi, quando esco per prendere l’autobus, perdo il conto della quantità di uomini di mezza età che mi bussano con l’auto e mi urlano frasi infelici. 

Io mi sono sentita sbagliata, spesso, per il mio essere donna. Mi sono sentita sbagliata per avere le mestruazioni.

Come quando una volta, alle medie, mi vennero in classe e io avevo dei jeans chiari: le prese in giro ricevute in quel momento le ho trascinate con me per anni. E anche quando il mio corpo iniziava a cambiare, non è andata meglio. Per gli altri era strano, e me lo facevano notare in continuazione con commenti sgradevoli e cattivi. Anche per questo credo sia importante l’educazione sessuale nelle scuole. 

Per fortuna, però, nella mia famiglia mi è sempre stato ricordato quanto fosse importante l’emancipazione.

Mia nonna era femminista senza neanche sapere di esserlo. E a lei devo tantissimo. Perché mi ha fatto capire che, a quella realtà, la realtà che vivono tutte le donne, avrei dovuto ribellarmi. 

Il mio percorso da giornalista è iniziato proprio tra i banchi di scuola, con articoli per il giornalino scolastico un po’ sulla letteratura (l’altra mia passione; guardavo con gli occhi pieni di euforia la prof raccontare la letteratura inglese) e un po’ sulla violenza di genere, come quello che scrissi sul trattamento riservato alle vittime di stupro durante i processi. Leggevo tanti libri e la mia autrice preferita era Virginia Woolf (le ho poi dedicato un capitolo della mia tesi di laurea triennale). 

A giugno mi sono iscritta a Twitter: volevo un mio spazio, un posto soltanto mio in cui scrivere di femminismo e poter esprimere le mie idee, confrontarmi con altre donne e raccontare storie.

La mia attività sui social mi stimola ogni giorno perché mi fa capire che abbiamo ancora bisogno di un attivismo forte, che non si limiti a quello dei social, ma che veda i social come strumento di connessione.

Le reazioni di chi ha letto i miei scritti sono state varie: ci sono stati apprezzamenti, confronti costruttivi con altre femministe, donne e ragazze più giovani che mi hanno scritto per raccontarmi di cose che hanno vissuto in prima persona, ma anche commenti negativi.

C’è chi crede che le donne non subiscano alcuna forma di discriminazione. E che il sistema le favorisca, addirittura. Ma di certo non è così. Le vicende che accadono in Italia lo provano.


[…]


(Appunti, newsletter di Stefano Feltri, 17 maggio 2023)

Helene StapinskiMistero a Matera, Antonio Mandese Editore, 2022. Nel 1892 Vita Gallitelli, trisavola italiana dell’autrice, parte per l’America. Lascia la miseria della Basilicata e un misterioso delitto in famiglia che ha fatto scalpore. La giornalista Helene Stapinski decide di far luce sulle memorie familiari e si mette in gioco con anni di ricerche e viaggi in Sud Italia. Ne uscirà trasformata. Dialogano con l’autrice Lucia Tilde Ingrosso, giornalista e scrittrice e Catherine Salbashian, editor del libro, bestseller negli Usa. Introduce Renata Sarfati.

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