di Roberto Righetto
Il 29 aprile di cent’anni fa nasceva Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini, una delle figure più appartate, misteriose e inclassificabili della letteratura italiana. Poetessa e mistica, oltre che traduttrice e critica letteraria, ci ha lasciato nel 1977 a causa di uno scompenso cardiaco dovuto a una malformazione di cui soffriva dalla nascita. È stato grazie all’editrice Adelphi, che ha mandato in libreria a partire dall’87 le sue opere principali (Gli imperdonabili e Sotto falso nome raccolgono suoi saggi critici, mentre La Tigre Assenza le sue poesie), e alla pubblicazione della corrispondenza con alcuni suoi amici, Margherita Pieracci Harwell e Alessandro Spina in primis, che il pubblico italiano l’ha potuta conoscere più da vicino. Giustamente Enzo Bianchi, introducendo i lavori del convegno che si svolse a Bose nel 1998, ricordò le parole pronunciate dopo la morte da Spina, che lamentò come il lutto per la sua scomparsa fosse stato un lutto di pochi, chiedendosi «anche, con ragione, come mai i cattolici non si accorsero di lei».
Eppure Cristina Campo aveva presentato e commentato opere come I detti e i fatti dei Padri del deserto e i Racconti del pellegrino russo e scritto introduzioni a libri fondamentali quali L’uomo non è solo di Heschel e Attesa di Dio di Simone Weil. Bianchi la definì «filocalica, donna ricreatrice di bellezza, testimone della grande tradizione». Certo, i cattolici italiani non potevano condividerne le riserve sul Concilio, che l’avevano fatta avvicinare a monsignor Lefebvre e al cristianesimo ortodosso: il suo amore per i riti e la liturgia nonché per la carnalità del cristianesimo infatti l’aveva portata a criticare le scelte dei padri conciliari, senza però mai abbandonare la Chiesa cattolica.
All’incontro di Bose (i cui atti furono pubblicati dalla rivista Humanitas edita da Morcelliana) parteciparono anche Mario Luzi e padre Giovanni Pozzi, Giovanni Tesio e Maurizio Ciampa, Pietro Gibellini e Gabriella Caramore, oltre che Mita, la sua amica di sempre con cui aveva condiviso dal 1950 l’amore per Simone Weil. Margherita era volata a Parigi per conoscere la madre della filosofa francese che stava curando l’edizione delle sue opere, mentre Cristina non era riuscita per motivi di salute. Ma l’incontro con la pensatrice si rivelò fondamentale per entrambe e per Cristina ebbe il significato di una riscoperta del cristianesimo.
A Simone l’avvicinavano l’amore per l’assoluto e per gli ultimi, la scoperta di concetti come “ombra”, “attenzione” e “sprezzatura”, la ricerca di una perfezione sempre irraggiungibile nella definizione della propria vocazione. Lo rileva Wanda Tommasi in uno dei saggi del libro Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (pagine 122, euro 12,00), da poco pubblicato da Mimesis a cura di Chiara Zamboni; il libro raccoglie le relazioni tenute il 7 giugno 2022 all’università di Verona a un convegno sul pensiero di Cristina Campo. «Secondo la Campo – dice Tommasi – quella weiliana è una “grande didattica spirituale via negationis”: la Weil opera negativamente, distruggendo tutto ciò che può prendere idolatricamente il posto del vero Dio».
Francesco Nasti da parte sua rileva come Cristina si considerasse, rispetto al pensiero di Simone, «una pianta rampicante intorno alla roccia». E sottolinea come «per la Campo come per la Weil l’attenzione affonda la pienezza del suo significato nella parola greca hypomoné, il cui significato è anche quello di attesa che, insieme all’attenzione, orienta l’occhio e lo spirito dell’individuo alla percezione dei diversi piani della realtà, quello invisibile e quello invisibile». Siamo al centro della concezione della vita di Cristina, che nell’unica intervista rilasciata nella sua esistenza, alla Radiotelevisione svizzera pochi mesi prima della morte, dichiarò: «Credo pochissimo al visibile, credo molto nell’invisibile ed è forse la cosa che m’interessa di più». Il legame strettissimo fra la realtà e l’invisibilità è rimarcato da Antonietta Potente che a sua volta afferma: «Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli».
L’opera della Campo è poi segnata dall’incompiutezza, come segnala Laura Boella. Lei stessa l’aveva detto parlando di sé in terza persona: «Ha scritto poco e avrebbe voluto scrivere ancora meno». Rifiutava il ruolo dell’intellettuale, pur facendosi a volte coinvolgere nei salotti romani e fiorentini, e rifuggiva dal mondo della cultura italiana imbevuto di marxismo e psicoanalisi. Per Boella «il suo contesto o ambiente è quello dell’epoca imperdonabile in cui vivono uomini e donne imperdonabili. Un contesto tremendo, violento e per nulla datato: si tratta della civiltà della perdita, del vuoto, dell’orrore, del cattivo gusto, dell’imminenza della morte, del prezzo pagato per una vocazione».
Era lontana da ogni tipo di engagement e detestava i grattacieli e le nuove chiese, così come le nuove tendenze della pedagogia che voleva educare i bambini come se fossero dei piccoli adulti. Legata a Elémire Zolla e amica di María Zambrano, di quest’ultima condivideva questo giudizio fulmineo: «Io credo nella resurrezione, non in quella dei morti, ma in quella della carne». Allo stesso modo, la Campo individuava nel gesto di Maria Maddalena che cosparge di unguento prezioso i piedi di Gesù la genesi della liturgia. Riferendosi al suo breve scritto Note sopra la liturgia, così commenta Chiara Zamboni: «Non si tratta solo di ungere il corpo di Cristo, ma di esserci con tutta se stessa e mostrare quel gesto. È per questo che il suo gesto fa scandalo: rende sacro un legame intimo e corporeo. Dunque non riguarda solo l’anima, ma anche e soprattutto il corpo. E infatti, là dove il corpo è cancellato, l’anima fa in fretta poi a scomparire».
(Avvenire.it, 29 aprile 2023)
di Stefano Crippa
Squarci d’epoca e di un Paese che non esiste più, il ritratto di un personaggio della storia dello spettacolo e della musica italiana che non ha eguali in un percorso artistico alla costante ricerca della creatività. Milva, l’ultima diva (La nave di Teseo, pp. 288, euro 18) «l’autobiografia di mia madre» come la definisce nel sottotitolo l’autrice Martina Corgnati, curatrice di centinaia di mostre in Italia e all’estero, storica dell’arte e professore non insegnante presso la Scuola dei Beni Culturali dell’Accademia di Brera di Milano, presta il fianco a più chiavi interpretative. Un «lavoro psico-drammatico» – come spiega Giovanni Castaldi nella postfazione del volume, dove l’autrice prende il posto di Milva e la racconta in terza persona. Cinque vite, dall’infanzia agli ultimi giorni dove si pone l’accento sul suo multiforme talento e su una discografia vasta quanto varia. E i rapporti professionali che si intrecciano con quelli privati: da Maurizio Corgnati, padre di Martina e marito di una giovanissima Milva che l’aiuta nella sua maturazione artistica, a Massimo Gallerani. E il percorso che la porta a confrontarsi con Strehler, la scuola del Piccolo, i tour in Giappone e i trionfi tedeschi e francesi. L’incontro con la canzone d’autore, con Battiato e Jannacci.
Nei cinque capitoli, le cinque vite di Milva, Maria Ilva Biolcati – perché il parroco di Goro non volle acconsentire a quel nome senza santa protettrice, c’è il percorso di un’artista dai forti tratti e dalla determinazione ferrea ma che non nasconde le sue fragilità, l’ossessione per l’ordine: «Mia madre – spiega Martina Corgnati – ha sempre avuto un senso dell’ordine molto spaziale, ossessivo. Ma io credo che all’origine si trattasse di un’educazione molto dura impartita dalle suore e dal collegio. Penso che “l’ordine” per lei era diventato uno strumento per controllare l’ansia, e questo da bambina ci sta, da ragazzina anche. E poi da donna che si è trovata di fronte a compiti veramente ardui per una persona tutto sommato piuttosto sola com’era lei, senza un background che le consentisse di avere le spalle coperte. Mia madre non aveva le spalle coperte, e questo spero che emerga del libro». Milva cresce in una grande famiglia, dove il senso della solidarietà è spiccato: «Lei è nata nel 1939, e va ricordato che gli anni prima e dopo la guerra italiani sono difficilissimi. Le nostre realtà erano veramente povere, ai limiti della sussistenza. Noi non veniamo da Oxford, e intendo come Italia non individualmente. Nel 1945 mia madre ha sei anni; c’è appena stata la liberazione e si tratta ora di rimboccarsi le maniche. Ricostruire i valori democratici di un paese per la prima volta dopo decenni, ma anche umani e etici. La famiglia allargata era un espediente, uno strumento di vita per cui era normale venirsi incontro. E lo racconto quando parlo dell’alluvione: mia nonna Noemi accoglieva in casa le cugine di Rovigo, le nipoti. Non c’era problema in questo, se ce n’era si divideva. Questo era il mondo da cui veniamo, certo poi ce ne siamo dimenticati negli ottanta e novanta, in un’era di maggior benessere. Ahimè, non è detto che questo stato di benessere duri per sempre, e non è nemmeno detto che la famiglia nucleare sia un sistema di felicità maggiore. Era una necessità che era diventata una forma di naturalezza». Con Milva l’irrequietezza della ricerca tout court e l’afflato popolare andavano a braccetto senza che mai sembrasse una forzatura: Piazzolla e Amália Rodrigues, Berio, Vangelis. L’ascoltavi prodursi nell’Opera da tre soldi e la stessa emozione la metteva sul palco del festival di Sanremo, frequentato per ben quindici volte, ma senza che mai riuscisse a vincerlo, come lei stessa ricordava prendendosi in giro con garbata ironia. Artisticamente una carriera varia e incredibile, che ha una svolta importante con i due dischi dedicati ai canti della libertà: «Il primo è del 1965 ed è stato voluto fortemente da mio padre: c’erano i canti dei neri d’America, mentre il secondo Canzoni della libertà con gli arrangiamenti di Gino Negri (1975) – non era più con mio padre – è molto più politico. Un lavoro legato al presente, a una cronaca che non era più partigiana e politica e stava diventando piuttosto la cronaca dei primi anni di piombo». Nel 1965 quando arriva al Piccolo con Strehler è tutto in trasformazione. Quel fermento rappresenta la nuova cultura e un altro modo di fare teatro e coesione sociale.
Negli anni ’80 Milva cambia ancora, arrivano la canzone d’autore, Vangelis, Battiato. Ma – era lei stessa a sottolinearlo – la sua vera anima usciva prepotente dal vivo… «Sì, indubbiamente è vero: lei era un animale da palcoscenico dove dava il meglio di sé. Ho cercato di restituire nel libro ciò che era dovuto, da una parte, a Klaus Ebert che era un musicista e che è stato suo produttore e ideatore della discografia tedesca tra fine settanta e inizi ottanta. È lui che l’ha portata da Theodorakis e poi da Vangelis. E poi ho voluto sottolineare l’apporto di Massimo Gallerani con cui lei ha lavorato sugli autori italiani. Battiato è stata una sua idea: Massimo era attento, sentiva tutto, osservava tutto». Battiato è stato una tappa fondamentale nella carriera di Milva, si incontrano a pranzo e lui fa quasi scena muta. Rivelerà anni dopo che stava studiando l’artista, “come un sarto a cui adattare un repertorio adeguato”. «A dire il vero l’ha detto anche di Giuni Russo e Alice che insieme a Milva sono state le “sue donne”, artisticamente parlando. Credo che il rapporto con Battiato per mia madre sia stato illuminante, rasserenante e rassicurante. Lui la portava, quando non spessissimo si incontravano, alla conoscenza di mondi diversi, non solo musicali ma anche di vita. Franco aveva una sensibilità, una finezza di ascolto davvero unica. È l’unico autore che lei ha sempre cercato, anche alla fine. Non a caso con lui ha inciso tre dischi».
Con Enzo Jannacci la frequentazione (professionale) è breve ma intensa: un album, La Rossa (1980) in cui la canzone che intitola il disco è una fotografia perfetta di Milva, donna e artista. «Ho sempre amato Enzo, aveva un’ironia fantastica. C’è un elemento che li avvicinava molto, era la politica. Entrambi dichiaratamente e apertamente di sinistra, provenivano entrambi da un’estrazione sociale non propriamente da comfort. Un’appartenenza condivisa». Nei versi de La Rossa Enzo trasfigura Milva: “venuta su a patate e lenti”: «La bambina della Bassa che spacca tutto con la voce. È un’invenzione poetica e politica». Strehler è fondamentale nel percorso esistenziale e artistico di Milva, con lui arriva alla maturazione definitiva. E poi l’incontro con Milano negli anni che precedono il sessantotto, il Piccolo: «Siamo nel 1965 e tutto è in trasformazione e quel fermento rappresenta la nuova cultura, la nuova Milano e un altro modo di fare teatro e coesione sociale. Sia Giorgio Strehler che Paolo Grassi – ciascuno a suo modo certo – però erano in qualche modo pronti al salto. Forse si auguravano, forse contribuivano a preparare la nuova dimensione». Milva arriva al Piccolo proprio nell’anno in cui registra i Canti della Libertà: «Fortemente voluto da mio padre che la Resistenza partigiana, quella vera, l’ha fatta. Ci sono come dei semi che si mettono in rapporto e che poi germineranno in quello che sarà il Piccolo Teatro negli anni settanta». Anni in cui il rapporto con Strehler si rafforza, Milva non più artista da forgiare ma musa ispiratrice del maestro, protagonista di decine di spettacoli in cui lei sarà punto assoluto di riferimento.
Milva è mai stata realmente felice? «Penso che abbia avuto dei momenti e delle fasi di felicità, sicuramente lo era dopo i concerti, quando aveva successo era una felicità simile all’ebbrezza che ha provato tante volte. Ricordo in Giappone e in Germania la gente che l’applaudiva per un quarto d’ora senza smettere. Ci sono stati uomini di potere importanti che l’amavano e la stimavano. Sandro Pertini si è alzato ad un pranzo in un ristorante, per abbracciarla e farle il baciamano. Un’ammirazione bipartisan: l’amava Helmut Kohl, Willy Brandt ha voluto farsi fotografare con lei. È difficile suggestionare tutta Europa in questo modo: lei era commendatore, cavaliere per la Francia, Germania, Italia: quando riceveva queste onorificenze era felice. Però il problema di mia madre era, e poi domattina cosa facciamo? Faceva fatica ad accettare anche la continuità, la mediocrità della vita che fa parte dell’esistenza di ciascuno di noi».
(il manifesto, 29 aprile 2023)
di Ipazia
Non si può che restare perplessi di fronte alle polemiche suscitate dalle commemorazioni del 25 Aprile. La ricostruzione storica non dovrebbe dare adito a dubbi. La data segna la Liberazione dell’Italia dal regime fascista e dall’occupazione dei tedeschi.
La Costituzione italiana è una costituzione antifascista. In essa ritroviamo una sintesi mirabile dei valori delle famiglie politiche, dai democristiani ai liberali, ai socialisti e ai comunisti, che si erano unite nel contrasto al fascismo. Una mediazione “alta” tra principi diversi come raramente se ne vedono in Europa dove i compromessi al più basso denominatore comune rischiano di smarrire per strada le riforme di cui l’Ue necessita.
Il problema non dovrebbe pertanto essere rappresentato dall’interpretazione di un fatto storico ormai accertato, che dovrebbe essere parte della nostra memoria collettiva. La sfida da cogliere è invece riposta nella definizione dell’eredità che ci è stata lasciata dall’antifascismo e della nostra capacità di farla vivere.
L’antifascismo va misurato come affermava Pasolini nel vissuto di una società. Dovremmo chiederci se l’abolizione della violenza non solo fisica ma anche morale quale strumento di potere sia stata debellata. Se nel discorso politico non si alimenti l’odio verso un presunto nemico, peraltro mutevole. Se la libertà di stampa e di pensiero sia pienamente rispettata. Se la tolleranza verso le minoranze e le loro posizioni esista realmente o ci siano costanti tentativi di stigmatizzare il dissenso. Bisognerebbe domandarsi se il discorso razionale prevale sulla demagogia e sull’appello populistico all’istinto e alle emozioni dei popoli. Se il nazionalismo vissuto a livello di patria o di appartenenza al mondo occidentale torni a giustificare posizioni politiche e pregiudizi.
Si hanno motivi fondati per credere che purtroppo un esame onesto della situazione politica e culturale prevalente oggi in Europa porrebbe in evidenza che la mentalità fascista, prima descritta e secondo i parametri indicati, resiste e si è accresciuta nei tempi più recenti, raggiungendo livelli sconcertanti dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.
È stato da alcuni smentito che Pasolini negli anni Settanta avesse previsto che un nuovo fascismo avrebbe finto di contrastare il vecchio, eppure l’affermazione è consona a un sistema di pensiero che l’intellettuale aveva delineato con la sua critica al consumismo e alla omologazione. Nei suoi tanti scritti aveva descritto la dittatura che si stava costruendo attraverso l’uniformità dei modelli, l’edonismo materialista, il linguaggio povero e standardizzato dei mass media, la distruzione della cultura. Un regime subdolo che si insinua nelle case senza farsi notare, senza repressione, al contrario incoraggiando i comportamenti ludici delle persone, il piacere consumistico. A prescindere dall’estetismo pasoliniano che ha reso forse eccessive alcune sue analisi, è tuttavia da riconoscere la lucidità con la quale il poeta aveva intuito sviluppi che si sarebbero mostrati decenni dopo la sua morte.
Ritornando alle celebrazioni del 25 Aprile appare sorprendente che nessuna forza politica di destra come di sinistra si sia voluta cimentare in un onesto esame di coscienza. Tutti hanno imitato chi è in grado di commuoversi a teatro per l’eroe perseguitato dal conformismo sociale e dal potere per poi ritornare, alla fine della rappresentazione teatrale, cieco e ignaro, ai pregiudizi sociali e politici, alla persecuzione dell’innocente di turno (Assange e Naval’nyj).
È un vizio dell’umanità, la scissione della morale. I nazisti ascoltavano Wagner, avevano il senso della bellezza e la cultura, abbracciavano sereni i loro bambini in famiglia dopo aver trucidato gli ebrei nel campo di concentramento. Il paragone va naturalmente inteso con le dovute proporzioni. Oggi dopo aver tutti insieme celebrato il Venticinque Aprile, si ritorna a stigmatizzare il dissenso e le posizioni minoritarie, si inneggia alle vittorie militari degli ucraini in campo di battaglia quale avamposto dell’Occidente, si demonizza l’avversario politico alimentando l’odio, si distrugge la libertà di stampa censurando come disinformazione le posizioni diverse dalla narrativa occidentale, si ricorre alla retorica per far presa sulle emozioni delle persone, si rifiuta il discorso razionale e la ricostruzione storica degli accadimenti con l’arroganza e la presunzione di chi si considera parte di una civiltà superiore.
I molteplici interrogativi che tanti osservatori pongono alla strategia occidentale restano senza risposta. Le élite al potere in Europa si trincerano dietro frasi stereotipate, veri e propri slogan, privi di ogni logica. «La guerra non può finire con la sconfitta dell’Ucraina! Resteremo al fianco dell’Ucraina non importa a quale prezzo! La vittoria sul campo non è vicina né possibile! Ci si augura che il buon senso prevalga e si arrivi alla pace!»… Una commedia surrealista con frasi gettate al vento che farebbero ridere se gli eventi non fossero drammatici.
Una politica antifascista dovrebbe rendere conto alla società civile europea spiegando quali siano i veri obiettivi strategici di una guerra che sta portando alla distruzione dell’Ucraina, alla crisi economica e sociale in Europa, al rischio di allargamento del conflitto e di utilizzo del nucleare tattico.
(Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2023)
di Elisa Belotti
GPA, la lettera a Elly Schlein riaccende il dibattito. Le firmatarie sono attiviste del movimento femminista disseminato su tutto il territorio e comprendente realtà diversificate, dall’Udi ad Arcilesbica, dalla Libreria delle donne di Milano alla Casa delle donne di Pesaro e persino alcuni centri antiviolenza. Chiedono a Elly Schlein un incontro per discutere della GPA – la gestazione per altri – e delle misure per contrastarla. True-News.it aveva raccontato il mercato che ruota attorno alla GPA in un pov d’inchiesta. Ma quali sono le motivazioni per cui alcune femministe si schierano contro la gestazione per altri? L’abbiamo chiesto a Silvia Baratella della Libreria delle donne di Milano, firmataria della lettera a Elly Schlein.
La lettera aperta in questione è chiaramente contraria alla GPA. In che modo è una strumentalizzazione del corpo femminile?
Non puoi usare le funzioni fisiologiche di un’altra per realizzare le tue aspirazioni, per quanto legittime. Capisco che dispiaccia non poter avere figli, ma cliniche e mediatori su questo speculano: sfruttano le funzioni e il materiale genetico delle donne, e mercificano bambine e bambini.
Ci sono strategie affinché la GPA possa non essere una via di sfruttamento ma di empowering femminile?
No, non c’è strategia che tenga. Firmando il contratto di GPA la futura madre rinuncia non solo al legame con la creatura che metterà al mondo, ma alle libertà di una cittadina: di movimento, di sottrarsi a pratiche mediche non volute, d’espressione (non può rilasciare dichiarazioni pubbliche non autorizzate), sessuale (i rapporti sono vietati); non può contattare i committenti, ma dev’essere sempre disponibile per loro. E senza queste imposizioni il “rischio d’impresa” è troppo alto, non esiste alternativa. L’autodeterminazione non può ridursi a firmare di rinunciarvi in nome delle leggi di mercato. Così non solo lei perde “power” anziché acquisirlo, ma avallare questi contratti vuol dire che la libertà di ogni donna non è inviolabile, ma facoltativa.
Se si esclude la gestazione per altri per le motivazioni espresse nella lettera, quali richieste fare alla politica per tutelare tutte le famiglie e quindi anche quelle omogenitoriali?
La politica può fare molto riformando subito l’adozione per aprirla a singoli e a coppie non tradizionali, come quelle lesbiche e gay. Ma lesbiche e gay non sono uguali: i figli li fanno le donne. Gli uomini avevano inventato il patriarcato proprio per aggirare questo fatto: secoli di misoginia, patria potestà, cognome paterno, interdizione giuridica delle donne e censura della loro sessualità, tutto per espropriare la maternità. Nella GPA ricompaiono le stesse pretese, ma il patriarcato è finito con il femminismo, non li lasceremo ricominciare. Mille soluzioni sono possibili se invece della coppia riproduttiva si mette al centro la relazione tra madre e creatura, riconoscendo il legame di quest’ultima con le persone con cui la madre sceglie di crescerla: padre genetico, donna amata, amici gay… Ma la madre non si può aggirare. Gli uomini, eterosessuali e gay, devono prenderne atto. La politica anche.
[…]
(TrueNews.it, 28 aprile 2023, con il titolo GPA, la lettera a Elly Schlein riaccende il dibattito: “I bambini non sono merce”)
Video pubblicato nelle stories Instagram di Elena Ceretti Stein
Venerdì 28 aprile, la giovane artista Elena Ceretti Stein è passata in Libreria e ha fatto alcune foto, creando una bella storia Instagram che restituisce il suo sguardo sulla Libreria delle donne. Ce l’ha gentilmente mandata e la condividiamo con grande piacere!
Seguitela su Instagram! @elena.cerettistein
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di Doranna Lupi
Si è parlato molto di profezia delle donne negli ultimi due anni, in diversi ambiti, religiosi e non. Le profete hanno una intelligenza del presente che le apre al futuro e ogni tempo ha le sue profete. Occorre riconoscerle e aprirsi al loro messaggio. Nell’inserto Donne e profezia della rivista Viottoli 2/2022 (scaricabile gratuitamente) si trovano i percorsi di ricerca, testimonianze, riflessioni sulla profezia che hanno animato gruppi e singole donne che fanno riferimento al Collegamento donne Comunità di Base e le molte altre, contributi portati come doni all’incontro di Calambrone (Pisa) nel mese di maggio del 2022. Attraverso molteplici relazioni sono stati coinvolti anche altri gruppi, come le Femministe che leggono la Bibbia del Centro culturale Roccafranca di Torino, dove il Gruppo donne Cdb di Pinerolo (To) ha organizzato un ciclo di incontri sulla profezia delle donne, tra l’inverno 2021 e la primavera 2022. Con loro è stata condivisa la scommessa di tenere insieme spiritualità e femminismo, una scommessa che apre alle donne spazi inediti di riconnessione al proprio sentire profondo. (Luisa Bruno, Luciana Bonadio, Carla Galetto, Doranna Lupi)
(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2023)
Madri della Costituzione italiana
di redazione
Non più e non solo i padri costituenti, ma anche e soprattutto le madri costituenti in quanto esse hanno contribuito a rendere la nostra Costituzione espressione di unitarietà e interezza del popolo italiano. Ecco perché parlare di madri costituenti non è solo un doveroso atto di omaggio ma una vera e propria “operazione storica”, per far sì che «esse entrino nel comune sentire, nel patrimonio storico collettivo». Così Salvatore Di Stefano, (docente di Storia), nella piccola ma affollata saletta dei Cobas di Catania, dove, giovedì 19 aprile, si è svolto l’incontro Voce alle madri della Costituzione, organizzato da: Comitato per la difesa della Costituzione, La Città felice, La Ragna-Tela, Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia).
Un’occasione per evidenziare il prezioso contributo delle 21 donne elette nel 1946 all’Assemblea costituente, 9 della Dc, 9 del Pci, 2 del Psiup, 1 del Fronte liberaldemocratico dell’Uomo Qualunque. Donne che così vennero descritte dal cronista di Montecitorio: «le deputatesse non fumano, in genere, e in maggioranza non si truccano e vestono con la più grande semplicità» (Biblioteca del Senato, Le donne della Costituzione, Appendice ottobre 2008).
Durante l’incontro di giovedì, sei di queste donne sono state ricordate, attraverso la lettura di alcuni loro testi, da Ketty Governali, Mati Venuti, Cinzia Insinga, Carmina Daniele, Giusi Milazzo, Giulia De Iorio, Cettina Tiralosi.
Della più giovane deputata dai bei riccioli bruni, Teresa Mattei, sono state ricordate queste parole: «Il mio programma? portare alla Costituzione i problemi delle ragazze italiane perché siano risolti […] perché siano tolte tutte le barriere che limitano l’attività culturale delle donne. Le donne sanno accordarsi in vista di un superiore interesse. La guerra, per esempio: se le mamme saranno al governo come potrà scatenarsi? Alle donne Dio ha commesso la difesa della vita».
Della sartina torinese Rita Montagnana, «Diventai socialista perché sentivo che la società in cui vivevo era ingiusta, matrigna per la maggioranza del popolo. Comprendevo che solo i socialisti difendevano e aiutavano i lavoratori organizzandoli. Quando noi sartine ci mettemmo in sciopero (1909/11) per l’aumento dei salari, furono i socialisti della Camera del Lavoro a guidarci. I socialisti furono gli unici a levarsi contro la guerra che io temevo e odiavo. Per questo mi schierai accanto a loro ed entrai nel Psi nel 1915».
Maria Maddalena Rossi si batté per l’accesso delle donne a carriere, allora precluse, come quella della magistratura, e per il riconoscimento di compiti di direzione nelle carriere professionali.
Quanto a Nilde Iotti, ne sono state ricordate alcune affermazioni: «Meno di un anno è passato dalla prima elezione democratica che ha dato il voto alle donne. Esse hanno forse più degli uomini lo slancio dell’entusiasmo che le spinge a lottare con accanimento contro gli ostacoli, a vedere le miserie e le sofferenze, a preoccuparsi della salute e dell’educazione dei bambini che rappresentano il patrimonio più prezioso della nazione».
Di queste donne Mirella Clausi (La Città Felice) ha sottolineato le vite intense e la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo. Per questo pagarono e furono imprigionate, torturate, deportate. E pur provenendo da diverse estrazioni politiche, sociali e culturali, seppero condividere e fare sintesi in merito a quegli argomenti che mettevano a tema e avevano a cuore, riuscendo a battersi con una sola voce. Non riuscirono, per esempio, a far togliere dall’art. 37 il riferimento alla essenziale funzione familiare della donna, ma fecero aggiungere un inciso importante: quello di assicurare alla madre e al bambino un’accurata e speciale protezione.
Tra le donne elette, alcune fecero parte della Commissione speciale incaricata di redigere la Carta costituzionale. Erano Angelica Gotelli, Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce, Nilde Iotti, Ottavia Penna Buscemi. Tutte laureate in lettere eccetto Teresa Noce che si dichiarava un’autodidatta. Indipendentemente dal diverso orientamento politico, Dc, Pc, Psi, Fronte, Uomo Qualunque, lottarono insieme per sostenere e rivendicare il diritto delle donne ad essere protagoniste della vita politica. Così Filomena Delli Castelli, eletta a trent’anni nella Costituente commentava il giorno in cui le donne si presero la storia: «Eravamo consapevoli che il voto alle donne costituiva una tappa fondamentale […] avevamo finalmente potuto votare e far eleggere le donne. E non saremmo state più considerate solo casalinghe senza voce ma fautrici a pieno titolo della nuova politica italiana».
Perché così poche donne, si domanda Salvatore Di Stefano. Ne era responsabile il fascismo – risponde – che aveva cancellato le donne, le quali però erano ritornate centrali sia durante la guerra nel mondo del lavoro, sia durante la Resistenza come partigiane, staffette, crocerossine, combattenti, insegnanti. E proprio per rafforzare questa consapevolezza Di Stefano propone di intitolare la piazzetta di san Giovanni Li Cuti alle madri costituenti, per mantenere vivo il ricordo del recente passato, spesso sconosciuto ai più.
Anche la scuola è un luogo dove occorre fare memoria. Interviene su questo Pina Palella, presidente provinciale dell’Anpi di Catania, ponendo l’accento sul nesso fortissimo tra scuola e Anpi. Una memoria, dice, in cui gli studenti diventino protagonisti, in cui si veicoli una corretta e giusta informazione. A questo proposito mostra un cofanetto con le biografie delle madri costituenti presentato al 17° Congresso dell’Anpi (Riccione, 2022) che verrà distribuito in tutte le scuole catanesi.
Nel suo intervento Palella ricorda anche il ruolo attivo e combattivo delle donne allorquando a Milano nel 1943 furono creati i G.D.D. (Gruppi di difesa della donna): formazioni pluripartitiche che raccoglievano donne di ogni ceto sociale, fede religiosa e tendenza politica. Il programma d’azione, pubblicato sul foglio del movimento “Noi Donne”, si apriva con l’esortazione «Le donne italiane che hanno sempre avversato il fascismo, che della guerra hanno sentito tutto il peso per i lutti, le case distrutte, i sacrifici e le raddoppiate fatiche, non possono rimanere inerti in questo grave momento».
(https://www.argocatania.it/2023/04/25/madri-della-costituzione-italiana/, 25 aprile 2023)
di Katia Ricci
La mostra di Clelia Mori, dedicata a Genoeffa Cocconi Cervi, ha come primo e immediato effetto quello di togliere questa donna dall’invisibilità a cui la narrazione della cultura patriarcale l’ha relegata; il secondo è quello di accendere una luce sulla relazione tra madre e figlio/a, sulla necessità di dare nuovo senso alla maternità. Senza di lei, senza il suo consenso dato per sette volte più tre (una figlia morta precocemente e due figlie), senza la madre di Genoeffa e la madre della madre nella lunga sequenza del continuum materno, non ci sarebbe stata la storia dei “sette fratelli Cervi”. E, dunque è da lei che bisogna cominciare, non dare per scontato il suo essere madre, considerandolo qualcosa di puramente fattuale. È questa l’operazione che Clelia Mori compie, conferendole una luce particolare, prima ancora di raccontare la vicenda di una donna, le sue azioni, le caratteristiche della sua persona, il contesto in cui ha vissuto e che ha contribuito a costruire. È Genoeffa una madre a cui sono stati uccisi contemporaneamente sette figli.
Inimmaginabile il dolore più grande che si possa provare moltiplicato per sette.
Nelle dieci carte di 1 metro x 1,50 su fondi colorati, tra cui l’oro per metterne in evidenza la preziosità, emerge il disegno a matita della donna a figura intera, un non-finito, tratta da una fotografia di Genoeffa seduta e circondata da tutta la sua numerosa famiglia, marito e figli, in parte seduti, in parte in piedi. Un’altra fotografia la ritrae a mezzobusto. In entrambe, le uniche pervenuteci, appare austera, frontale, immobile nel suo vestito nero, come era abitudine diffusa da Nord a Sud nel mondo contadino. Le carte hanno i segni di piegature come se l’artista le avesse trovate in un cassetto, quasi nascoste e le avesse dispiegate per dare finalmente a Genoeffa il posto che merita nella storia e darle il suo valore simbolico. Anche il non-finito contribuisce a conferire all’operazione il significato di ricerca del rimosso che ha colpito le donne, nel caso specifico Genoeffa, e farle esistere come soggetti sul palcoscenico della storia. Gli scarni documenti, le testimonianze del marito che le sopravvisse, tratteggiano la figura di una “resdora”, la reggitrice dell’azienda familiare, impegnata nel lavoro produttivo e riproduttivo, dedita non solo a fare e crescere figli, ma a occuparsi dell’economia e dell’organizzazione dell’impresa familiare, Tutto ruotava intorno a lei, centro e perno del suo mondo. Anche in un sistema patriarcale come il suo, Genoeffa viveva il suo essere donna e madre per affermare il senso di civiltà che metteva a disposizione della società umana. Per questo nel “resto del tempo” leggeva l’amata Bibbia e i classici della letteratura, insegnando ai figli, ai quali li leggeva insieme alle favole, la giustizia, la dignità, il valore di sé in rapporto agli altri e il prendersi cura del mondo. Tutte cose ritenute pericolose, anzi sovversive dell’ordine costituito in un periodo di totalitarismo, come è stato il fascismo.
La sua giornata era lunga e faticosa: infinite ed estenuanti operazioni la tenevano sveglia fino a notte, dalla cura dei figli, alla preparazione del cibo, all’allevamento del pollame, alla filatura e tessitura, alla confezione di abiti, come racconta il marito.
Ma non è su questi aspetti, pur fondamentali per la vita di quella comunità che si sofferma l’artista, quanto proprio sul valore intrinseco di essere donna. Clelia la disegna frontale, ieratica con appena una leggera increspatura all’angolo della bocca, un sorriso appena accennato per esprimere quasi la soddisfazione di quello che è e ha fatto. Un’icona bizantina, una sovrana. Nei disegni di proposito Clelia non fa riferimento ai figli perché è a lei che vuole restituire tutto il suo valore. La maternità per una donna è una possibilità, una scelta, non è un destino a cui non è possibile sottrarsi. Nell’Annunciazione, l’ultima parola è di Maria. È un momento quello prima di pronunciare il suo sì in cui è sospesa la salvezza del mondo.
Genoeffa ha cercato di rendere migliore il suo mondo, ma il suo cuore ha ceduto di fronte all’insensatezza crudele e alla violenza dei fascisti che, dopo averle ucciso i figli, imprigionato il marito, avevano distrutto nuovamente la casa che con Alcide, una volta liberato, e tutti i nipoti era riuscita a ricostruire. Genoeffa non ha retto di fronte all’ingiustizia e ai soprusi, lei che si ribellava all’obbligo per le donne dei mezzadri di fare il bucato per il padrone, che protestava perché il padrone non riparava il tetto della sua camera, che si batteva perché fossero aboliti i confini dei campi in modo che ognuno potesse prendere dalla terra che coltivava quanto serviva al proprio sostentamento. Una figura di donna, quella che tratteggia Clelia, animata dallo stesso amore per la giustizia, la solidarietà e la libertà per il quale ancora oggi nel mondo si battono tante donne mettendo a rischio la propria vita.
(DeA – Donne e Altri, 23 aprile 2023)
di Antonella Baccaro
A che punto siamo con le relazioni amorose a valle della scossa generata dalla pandemia?
La segregazione imposta dal Covid, ricorderete, aveva prodotto un fiorire dei contatti on line, caratterizzati da una grande prudenza e diffidenza. L’inclinazione a rinchiudersi in casa, facendosi bastare il quotidiano e sé stessi, aveva messo in crisi lo sviluppo dei rapporti sorti sulle piattaforme.
Per fortuna oggi questa tendenza sembra essere stata invertita: la voglia di vedersi, toccarsi, condividere è tornata.
Ma nuove forme di relazione starebbero prendendo piede. A suggerirlo è il rapporto annuale di Tinder, nota app di incontri, che individua come trend crescente quello che definisce come “situationship”, cioè qualcosa a metà tra una relazione ufficiale e un’amicizia, insomma una relazione d’amore libera da definizioni o regole. Che potrebbe considerarsi come l’altra faccia, quella romantica, della “friendship with benefit” (amicizia con risvolti sessuali).
Su Tinder le menzioni di questo status sono aumentate del 49 per cento nel 2022. Un utente su dieci sostiene di essere alla ricerca di una “situationship” come formula per vivere al meglio un rapporto.
Il fenomeno è stato descritto sul settimanale Time, in un articolo della sessuologa Myisha Battle, dal titolo Le situazioni sono il futuro degli incontri. Non è una cosa brutta.
A preferire questo status sarebbero i più giovani, desiderosi di incontrare propri simili senza troppe pressioni. Banditi perciò tutti i discorsi a lungo termine, le condivisioni di case e cose e soprattutto le domande come «ma noi cosa siamo adesso?». Una modalità, secondo Battle, che permetterebbe alla coppia di concentrarsi più sul presente e le emozioni che sul futuro e la progettualità.
Sarò giurassica rispetto all’universo di Tinder, ma applicando le vecchie e care categorie che hanno sempre consentito a noi donne di navigare nell’indeterminatezza dei partner, a me sembra che questa tendenza segnali la definitiva vittoria del modello relazionale maschile, di stampo liberista, sul nostro, più propenso a un “mercato regolato”.
Le “zone grigie” non sono per tutti, avverte la sessuologa. Soprattutto quando rischiano di essere per sempre.
(iodonna.it, 23 aprile 2023)
di Massimo Lizzi
Esistono dubbi retorici sulla opposizione alla gestazione per altri. Le firme benevole verso la gpa evitano di dichiararsi apertamente favorevoli. Assumono l’atteggiamento possibilista, a tratti terzista. Definiscono un campo segnato dalla contrapposizione di pro e contro e rappresentano sé stesse come una posizione di ragionevole equilibrio. Che esercita il dubbio, l’apertura, l’ascolto invece delle certezze, la chiusura, l’asserzione. Questo atteggiamento è poco convincente.
Le certezze sono definitive. In quanto tali hanno poco da aggiungere ed è normale che siano ripetitive. I dubbi, al contrario, dovrebbero appartenere al pensiero in evoluzione. Che ad ogni pronunciamento dice cose nuove. Se anche i dubbi, come le certezze, si ripetono, c’è qualcosa che non va. Allora, i dubbi sono fatti con domande sbagliate, che girano in tondo o portano in un vicolo cieco. Oppure i dubbi sono solo la forma retorica di certezze uguali e contrarie.
Come mai si preferiscono i dubbi retorici alle certezze? Possono essere accolti meglio dalle persone indecise. Le quali vogliono farsi un’opinione per conto loro, senza farsi condizionare da risposte già pronte. Sono più prudenti, per evitare il conflitto, se ci si sente minoranza o poco forti nelle proprie tesi, poiché le posizioni sfumate non si fanno mettere a fuoco come le posizioni colorate.
Poi, i dubbi retorici sulla opposizione alla gestazione per altri hanno un terzo motivo. Sebbene, la maggioranza della società sia contraria, c’è una tendenza che va per conto suo verso la gpa. Le tecnologie che consentono di taylorizzare la riproduzione umana. La logica del mercato e del profitto, che guadagna dal commercio di bambini. Il desiderio di avere figli geneticamente propri da parte delle coppie che non possono averli. Data la tendenza mossa dai tre fattori, per affermare la gestazione per altri, non occorre sostenerla con un esplicito sì. Basta non contrastarla e rimanere nel limbo del dubbio. Viceversa, per riuscire a fermarla, il fronte contrario ha bisogno di essere assertivo.
massimolizzi.it (blog), 23 aprile 2023
Sull’argomento vedi anche La sinistra in Europa è contro l’utero in affitto, 13 aprile 2023
di Luciana Tavernini
Perché conoscere o rileggere la poesia di Antonia Pozzi?
Che cosa può dire a noi oggi la vita e l’opera di una giovane donna degli anni Trenta del secolo scorso?
Come si può restituire verità all’esistenza femminile in una biografia?
Per rispondere mi baso sulla preziosa biografia critica, scritta da Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, che giunge alla terza edizione completamente riscritta e ampliata grazie a nuove scoperte, e corredata da un nuovo apparato fotografico, comprensivo di fotografie della stessa Pozzi.
Infatti Graziella Bernabò da trent’anni si occupa della poeta e fotografa milanese, morta suicida appena ventiseienne. Con Onorina Dino, che nel 1980 ha creato e a lungo custodito l’Archivio Pozzi di Pasturo (trasferito nel 2014 presso il Centro Internazionale Insubrico dell’Università degli Studi di Varese), ha svolto un accurato lavoro sui testi, che ha portato alla pubblicazione integrale degli scritti di Antonia Pozzi: lettere diari e soprattutto poesie, depurate dalla deprecabile censura del padre, che voleva consegnarne un’immagine corrispondente alla visione convenzionale della donna tipica di una certa chiusa borghesia dell’epoca.
Il metodo di Bernabò per costruire biografie, utilizzato anche in quella accurata ed emozionante su Elsa Morante La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura (Carocci 2012), intreccia strettamente l’opera con la vita e con la storia. Muovendosi tra empatia e distanza, quindi con l’opportuna immedesimazione e con un uso rinnovato delle categorie interpretative rispetto alla biografia tradizionale, ma evitando una proiezione personale superficiale e destoricizzante, ricostruisce il contesto relazionale, non solo maschile, in cui si è svolta la vita dell’autrice. Basandosi su testimonianze dirette e su documenti, che continua a incrementare nel passaggio da un’edizione all’altra, riesce a offrirci uno spaccato dell’epoca e a farci apprezzare l’originalità e la modernità della sua opera poetica.
Antonia Pozzi, infatti, anticipa la poesia del corpo di autrici fondamentali del secondo Novecento come Rosselli e Merini, Sexton e Plath. A volte il corpo entra in modo diretto, ad esempio in Canto della mia nudità, scritta nel 1929 a soli diciassette anni, in cui la poeta si rivolge con il «tu» a un ipotetico spettatore, forse l’uomo amato, ma in qualche modo anche a sé stessa, perché è lei che guarda con fierezza il proprio corpo nudo. Si tratta di una poesia audace, in cui compare il corpo vivo e desiderante, anche se il contenuto dirompente è disciplinato dal perfetto uso dell’endecasillabo.
In varie poesie degli anni successivi subentrano i motivi della voce e del corpo negati. Per esempio, ne La porta che si chiude, del 1931, troviamo il tema delle parole, della voce soffocata, in relazione all’impossibilità di esprimersi liberamente nel mondo. Ne Il porto c’è l’eco del Battello ebbro di Rimbaud, ma totalmente rivisitato al femminile: la figura della nave sfasciata e svuotata del suo carico, affidata a immagini energiche, esprime con inedito vigore l’anima e il corpo di una donna annientata non soltanto per la forzata rinuncia a un amore e a una speranza di maternità ma soprattutto perché deprivata del proprio più veritiero sé.
Nonostante gli impedimenti esterni – l’ambiente familiare alto-borghese di stampo fascista e l’ambiente intellettuale che all’interno dell’Università Statale di Milano si riferiva al filosofo Banfi, che rifiutava il valore del sentire ed era del tutto chiuso alla creatività femminile – Antonia Pozzi rimase fedele alla sua autenticità di vita, che esprimeva nella sua poesia, dove trovava la più vera libertà.
La sua è soprattutto poesia della relazione con la totalità dell’esistente, non solo con le persone di tutti i ceti sociali con cui lei entrava in contatto, ma anche con la natura, con i luoghi, con gli animali, e perfino con le cose, come ci propone anche María Zambrano, che coglie il continuum tra la percezione della natura e la pietas, come capacità di trattare con l’altro.
Partendo da esperienze personali, Pozzi riesce a esprimere con grande respiro le profondità del cuore e, a un certo punto, anche le tragedie della guerra e la miseria dei ceti sociali più svantaggiati.
Nel 1937 avviene per lei una svolta significativa nella vita, nella fotografia e nella poesia. Dopo un lungo soggiorno in Germania, Antonia Pozzi ritorna in Italia sconvolta dal clima di aggressività e di guerra che vi ha trovato. In questo periodo conosce Dino Formaggio, uno studente lavoratore a sua volta allievo di Banfi, e con lui inizia a frequentare i quartieri operai di piazzale Corvetto e di Porto di Mare, dove trova una desolante miseria.
Il suo rifiuto della guerra, già presente in due poesie del 1935, Le donne e Notturno, in cui la guerra di Etiopia non era considerata nell’ottica della retorica fascista bensì in quanto apportatrice di morte, si fa più netto, a tratti deflagrante, in alcune poesie del 1937. In Voce di donna Antonia si cala con un’adesione assoluta in una donna il cui marito è partito per la guerra. Ogni elemento della poesia fa pensare con molta concretezza al mondo contadino di Pasturo. Le immagini che si snodano nel testo sono robuste e trovano il loro culmine nelle «salvie rosse» che sbocciano nel cuore, quasi a gridare l’amore e il dolore della sposa del soldato: fiori metaforici ma anche molto carnali, come quelli presenti in tante altre liriche di Antonia Pozzi: fiori espressionistici che non trovano l’analogo nella poesia italiana degli anni Trenta, ma semmai in quelli dipinti negli anni 1918-1932 dalla pittrice statunitense Georgia O’Keeffe, peraltro a lei sconosciuta. La condanna più esplicita e forte della guerra si trova però nella poesia La terra, un testo potente nella sua commistione di realismo e visionarietà, che si riferisce ai massacri delle guerre sino-giapponese e di Spagna. Qui il rifiuto della guerra, fermo e assoluto, nasce prima di tutto da un dolore concreto e fisico, che Antonia sente nella propria carne e condivide con le donne di Pasturo, accorse ad ascoltare il vecchio gobbo, un mendicante indovino della Valsassina, da lei anche fotografato, che diventa una sorta di ancestrale profeta a cui sono affidati quei terribili annunci di morte.
Importanti sono poi le poesie del 1938, suo ultimo anno di vita, che si riferiscono ai sobborghi di Milano Sud, dove Antonia non andava a fare dall’alto una distaccata carità ma si immergeva fino in fondo in quella realtà con una profonda sofferenza, con un’empatia non nuova in lei, come dimostrano Filosofia, che scrisse a soli 17 anni, La disgrazia, del 1931, e Le Strade, del 1932, in cui si riscontra un’attenzione, che potremmo definire weiliana, al mondo dei meno fortunati. Ma in alcune poesie del 1938 la sua denuncia si fa ancora più diretta e tagliente: lo si vede in particolare in Via dei Cinquecento, che si riferisce alla casa degli sfrattati, situata nell’omonima strada. È una poesia d’amore per Dino Formaggio, ma lei non rinuncia a rappresentare con un linguaggio graffiante la realtà che trovava in quel luogo di dolore, in antitesi con la visione edulcorata che delle classi popolari offriva il fascismo.
Bernabò ha scritto, in modo chiaro e avvincente, una biografia che fa crescere la comprensione della poesia e della figura di Pozzi, grazie non solo alla sua specifica attività di ricerca sull’autrice, al dialogo con la critica più recente su di lei e all’impegno in diverse attività di diffusione in vari ambiti, collaborando a convegni, film e spettacoli teatrali, ma in particolare grazie al suo peculiare interesse rispetto all’originale contributo femminile alla visione del mondo attraverso la letteratura. In questo modo sa presentarci gli ostacoli frapposti alla libera espressione di una donna, mostrandoci nel contempo la forza con cui Antonia Pozzi seppe mantenersi fedele alla propria esperienza e ai propri ideali nell’epoca difficile in cui visse. Così ci aiuta a riconoscere ciò che oggi permane e ciò che è mutato nella società e nel modo con cui le donne affermano il loro modo di esistere, anche grazie al diffondersi via via più ampio della conoscenza dell’opera e della vita di Antonia Pozzi.
Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Áncora, Milano 2022, 350 pagine, 26 euro
(Leggere Donna, n. 198 / gennaio-febbraio-marzo 2023, pp. 31-33
Nelle assurde discussioni attorno alla vicenda del Dalai Lama che chiede a un bambino di succhiargli la lingua c’è un grande assente: il bambino. Stiamo tutti a guardarci l’ombelico, autoflaggellandoci per il “nostro sguardo colonialista” che proietterebbe su un’innocente “pratica culturale” interpretazioni “occidentali” e tutt’al più ci concentriamo sul Dalai Lama, questa figura che in Occidente ha sempre affascinato, considerato una specie di papa povero e perseguitato, saggio ed ecumenico. Ma se provassimo a concentrarci sul bambino forse le nostre paturnie su pratiche culturali, sguardi e interpretazioni svanirebbero in un baleno. Quel bambino è infatti palesemente a disagio perché, pratica culturale o meno (la cosa è del tutto irrilevante), quella richiesta la percepisce come una violazione del suo corpo e della sua sfera personale.
Quando io ero bambina, siamo nella Sicilia degli anni Ottanta, era tipico (tipico, che non significa né giusto né accettabile) che i bambini venissero toccati, abbracciati, baciati dagli adulti (e dagli anziani in particolare) senza che potessero rifiutarsi (chi fa un ci lu duni u’ baciddu a lu ziu, lu nonnu, lu…). Sarebbe stata una mancanza di rispetto, e poi i bambini sono bambini (leggi: devono obbedire, non hanno una personalità piena e dunque neanche piena autonomia e diritti ecc.). Era una “pratica culturale” diffusissima, che io odiavo e alla quale cercavo di sottrarmi ogni volta che potevo. Non ne avevo piena consapevolezza allora, ma avvertivo già che si trattasse di una forma di violenza, di sopruso del più forte (fisicamente ma anche e soprattutto in termini di autorità) sul più debole.
Questa vera e propria ossessione relativista che da qualche tempo ci ha preso ci impedisce di vedere che l’umanità e le diverse culture sono molto più simili di quanto non pensiamo. Alcuni universali, specie quelli legati ai rapporti familiari, adulti-bambini, uomini-donne li ritroviamo tali e quali in ogni angolo del pianeta, e se li osservassimo con la giusta distanza noteremmo che le differenze che ci ostiniamo a ingigantire sono solo variazioni sul tema. E anziché continuare ad autoflagellarci per espiare le nostre secolari colpe riusciremmo forse a esprimere un minimo di solidarietà a quel bambino che invece abbiamo lasciato da solo di fronte all’autorità prepotente di un uomo anziano e di potere.
(MicroMega, 17 aprile 2023)
di Disarmisti Esigenti
Noi “Disarmisti Esigenti” rivolgiamo un appello affinché la manifestazione di protesta e di proposta che indiciamo per il 26 aprile 2023 (anche anniversario della catastrofe di Chernobyl) veda la partecipazione di numerose/i attiviste/i.
L’augurio è che essi sappiano denunciare in modo efficace come questa Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, organizzata dal governo italiano, costituisca una grave offesa a quanti, civili e militari, del popolo ucraino e del popolo russo, perdono la vita, gli affetti più cari; ed evidenziare lo sfregio che da essa viene riservato a chi viene violentato nella sua coscienza di obiettore alla guerra.
Primo: non distruggere!
Subito il cessate il fuoco!
Subito stop all’invio di armi!
Subito un tavolo negoziale che solo porterà ad un accordo su quei fazzoletti di terra che rischiano di essere la causa della distruzione dell’intero pianeta.
Dalle ore 10:00 alle ore 13:00 invitiamo le forze ecopacifiste a manifestare e a dialogare davanti alla Farnesina portando ciascuna il proprio approccio e i propri contenuti specifici: l’unione che funziona è quella plurale che converge nella concretezza dell’opposizione!
L’appuntamento preciso è al Giardino dei Giusti della diplomazia, viale dei Giusti della Farnesina, angolo Piazzale della Farnesina.
Dalle ore 11:00 alle ore 12:00 terremo una conferenza stampa, noi digiunatrici/digiunatori, alla sesta tappa della coerenza ecopacifista inaugurata al corteo del 5 novembre, per proporre la nostra strada per raggiungere la pace.
Il digiuno è dedicato alla scomparsa Antonia Sani, in vita già presidente di WILPF Italia.
Evitiamo l’escalation che può persino sfociare in catastrofe atomica!
7 maggio 2023 “Staffetta per l’umanità” da Aosta a Lampedusa
Camminare insieme, unire l’Italia contro la guerra, riaccendere la speranza
Appello di Michele Santoro di Servizio Pubblico e personalità pacifiste contro l’invio delle armi all’Ucraina
Ai cittadini
alla società civile
ai leader politici
per una “Staffetta per l’umanità” da Aosta a Lampedusa.
Dopo più di un anno di guerra in Ucraina e centinaia di migliaia di morti, mettere fine al massacro, cessare il fuoco e dare inizio a una trattativa restano parole proibite. Si prepara, invece, una resa dei conti dagli esiti imprevedibili con l’uso di proiettili a uranio impoverito e il rischio di utilizzo di armi nucleari tattiche.
I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa a armi di distruzione sempre più potenti.
Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di miliardi di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. L’intera Ucraina è rasa al suolo, un macigno si abbatte sull’Europa politica, aumentando le disuguaglianze, peggiorando le condizioni di vita dei lavoratori, flagellando le famiglie con l’aumento dei beni alimentari, della benzina, dell’energia e delle rate dei mutui.
Putin è il responsabile dell’invasione ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti a difendersi, contribuisce all’escalation e trasforma un conflitto locale in una guerra mondiale strisciante.
Dalla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione viene ripetuta la menzogna dell’Occidente che si batte per estendere la democrazia al resto del mondo. Dimenticando l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e il Kossovo.
Si vuole imporre l’idea che non esista altro modo di porre fine alla guerra se non la vittoria militare di uno dei due contendenti e che l’Italia non possa far altro che continuare a inviare armi, limitandosi a invocare una soluzione diplomatica dai contorni indefiniti.
Noi pensiamo che l’Italia debba manifestare in ogni modo la sua solidarietà al popolo ucraino abbandonando, però, qualunque partecipazione alle operazioni belliche. Vogliamo tornare ad essere il più grande Paese pacifista del mondo, motore di una azione per la Pace e non ruota di scorta in una guerra.
Sappiamo che sono in moltissimi a condividere la nostra rabbia nel vedere sottratta alle nuove generazioni l’idea stessa di futuro, mentre si diffonde la sfiducia in una politica privilegio di pochi e il governo si mostra sempre più subalterno agli Stati Uniti e incapace di difendere gli interessi degli italiani e dell’Europa.
Ma siccome chi non è rappresentato e non costituisce una forza viene spinto a credere di non poter più incidere nella vita della Nazione, seguendo l’esempio del Movimento in Francia, vi chiediamo di reagire alla sfiducia, di usare il cammino come strumento di Pace, di costruire insieme una staffetta dell’umanità che parta da Aosta, Bolzano e Trieste fino a Lampedusa.
Questo appello è rivolto a chi sente il bisogno di fare qualcosa contro l’orrore della violenza delle armi e ha voglia di gridare basta.
Sembra impossibile che i senza partito, i disorganizzati, riescano in un’impresa così difficile. Ma se ciascuno di voi offrirà il suo contributo e se i leader e le organizzazioni che si sono pronunciati contro l’invio di armi daranno una mano, tutti insieme potremo farcela.
(seguono firme)
Al momento, la notizia della “Staffetta dell’Umanità, da Aosta a Lampedusa”, lanciata da un appello di Michele Santoro, Servizio pubblico e personalità pacifiste (questo il link originale: https://michelesantoro.it/2023/04/appello-ai-cittadini-alla-societa-civile-e-ai-leader-politici/), è stata riportata dai Disarmisti esigenti sui due siti web che la coalizione, membro ICAN, gestisce.
La data del 7 maggio è stata lanciata il 19 aprile, in una conferenza stampa, che ha fornito altri dettagli per un percorso tracciato per 4.000 km, prevedendo l’impegno di almeno una persona a kilometro (all’unisono i partecipanti dovrebbero spostarsi con una fiaccola da una “base” all’altra).
L’appello di convocazione, che vede la convergenza di personalità di diverse posizioni, chiede «l’aiuto di leader e organizzazioni che si sono pronunciati contro l’invio di armi».
http://www.disarmistiesigenti.org/2023/04/18/staffettaperlumanita/
https://disarmistiobiettori.webnode.it/l/primonondistruggere/
(Disarmistiobiettori.webnode.it, 18 aprile 2023)
di Antonella Nappi*
La formazione politica maschile, per un aspetto è non dire ciò che si prova personalmente davanti ad argomenti vari. Anteporre le necessità di altri così da fare da scudo e tenere al segreto la verità del sentimento proprio, anche a sé stessi. Lo fanno anche le donne in politica. Entrambi anche nella vita personale.
Le lotte per gli altri le bandimmo proprio nelle prime riunioni femministe della fine anni sessanta. È radicale la pratica politica femminista, quando ci riesce! Le lotte per gli altri sono la grande finzione che tutto permette di sé stesse a nostra insaputa.
Dire le lotte che sono proprie è la pratica politica delle donne. Troppo ci hanno tacitate e interpretate e condizionate perché non sia lungo l’esercizio di aprirsi a dire quello che davvero si sente, di più per chi fa politica, per chi insegue un investimento personale ed è stato abituato a difenderlo invece di ragionarlo e mostrarlo. È una lunga resistenza quella femminista di cercare la verità nelle molte distorsioni e alfine nelle razionalizzazioni che nascondono il vero.
Il non parlare di sé e per sé soltanto, far diventare arma intellettuale questo pensiero verso chi si oppone, invece di interrogarlo, ha lo scopo di raggiungere ciò che desideri. Non vuoi si capisca e tu persino vorresti non vedere che stai facendo proprio questo. O peggio: pensi sia proprio giusto quello che fai (Trump). È la politica maschile.
Ma non solo questo: c’è nella politica degli uomini anche del buono: sapere, verità, capacità. C’è materiale da imparare e usare. Stiamo però alla rivoluzione femminista ancora da perseguire.
Le donne valorizzano la diversità femminile che c’è! Quella vera, e questa muta gli uomini e il mondo. Non siamo ancora apparse in tutto il nostro patrimonio positivo, noi donne. E per dargli forza dobbiamo persistere nel rifiutare di farci sommergere dai mille problemi che ci sono ma non devono travolgerci e travolgere la verità del fatto che i sessi sono due. Sono due davanti a tutti i fatti del mondo e chi ha la forza di dirli con parole ed esperienza femminile lo faccia.
Nel caso delle battaglie di liberazione sessuale ogni variazione di intendimento sessuale c’è, in biologia e nel desiderio; ma c’è perché la polarizzazione in natura ha dato continuità alla vita. E questo si è prestato a mille azioni e pensieri di dominio. Questo fatto della bipolarità sessuale ci limita nella procreazione e anche ci conforta nell’impegno relazionale tra noi e con gli uomini.
Tutte le azioni di dominio ci danno reazioni da indagare, verità da cercare e affermare. Documentare le variazioni e non nasconderle, indagare quelle biologiche e quelle del desiderio per nominarle è importante, spetta a quei soggetti che le vivono e vanno aiutati ad avere il coraggio di dirsi invece che nascondersi in uno o nell’altro sesso per Legge, così da scomparire. La rivoluzione vuole verità e coraggio.
(*) sociologa e femminista Università di Milano
(Avvenire – Scripta Manent, 20 aprile 2023)
di Federica Taddei
Difficile non farsi contagiare dalla vitalità straripante di Simonetta Sciandivasci, anni trentasette, giornalista delle pagine culturali di uno dei quotidiani di nobile tradizione come La Stampa. E soprattutto autrice di un libro-antologia dal titolo I figli che non voglio pubblicato da Mondadori.
Intanto, perché questo titolo perentorio? Simonetta Sciandivasci risponde sorridendo: «Sì, in effetti lo sembra, perché ho questo modo un po’ sbruffone di porre le cose, ma invece sia il libro che il titolo sono il frutto di molti esami di coscienza e di confronto con colleghi e amici. E con centinaia, forse migliaia di donne che hanno scritto al giornale per quattro mesi sul tema, quando l’ho proposto».
Dalla rubrica “Caro Istat”, Simonetta ha tratto alcune lettere, inserite nel libro a testimoniare la varietà di opinioni e di motivazioni che conducono tutte allo stesso punto: non vogliamo figli. Una conclusione che contraddice una cultura “maternale”, il peso del cattolicesimo, concetti ricorrenti come “la benedizione di un figlio”, “un figlio come espressione di sé…”.
«A questo punto della mia vita – continua l’autrice – mi sono posta il problema e ho risposto che no, la mia esistenza non si completa con quella di un figlio, così ho posto la domanda ai lettori in un dibattito durato mesi. Come si legge, alcune donne si dicono felici di entrare nella minoranza senza figli, calcolata del 5%, della popolazione italiana, i famosi sessanta milioni». Dagli ultimi dati Istat in Italia, nel 2022 risulta che il 33,2% della popolazione vive da solo, mentre si è creato una famiglia il 31,2%; il 45,4% di donne è senza figli, di cui il 17,4% child free, cioè ha scelto decisamente la non maternità, mentre per le altre, determinanti possono essere problemi sociali, mancanza di lavoro, di strutture per l’infanzia o altro.
I figli che non voglio è un libro corale: a cominciare dalla impaginazione, dalla partecipata prefazione del vicedirettore de La Stampa Andrea Malaguti, alla descrizione della pre-riunione redazionale in cui “Sciandi”, come dicono i colleghi, enuncia la propria decisione di non avere figli, frase buttata lì, che, in quanto estranea al momento, diventa improvviso oggetto di interesse comune, segno del grado di coinvolgimento che può suscitare nel pubblico.
Chiediamo: è libro che si rivolge a un pubblico solo di donne? «Macché! Anche di uomini, alcuni anche grandi di età. Questo l’ho verificato però nelle presentazioni in libreria, sui social ho sperimentato l’odio e la violenza verso la mia persona, accusata di tradire il mio stesso sesso. Nelle librerie è stato diverso: ricordo una coppia di anziani che non avevano avuto o voluto figli, che invece chiedevano perché non potersi occupare dei figli degli altri: “Voglio essere ‘generativo’”, diceva lui, e questo mi è sembrato molto bello».
E qui emerge il grande tema delle adozioni, delle difficoltà che si incontrano, di quanti, magari aiutati dallo Stato, sarebbero in grado di crescere i molti bambini che riempiono orfanotrofi e istituti. Secondo i dati dell’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie i bambini dichiarati adottabili si attestano stabilmente a circa mille ogni anno mentre le famiglie che hanno presentato domanda di adozione nazionale sono ovviamente molte di più: nel 2021 sono state oltre ottomila (Italiaindati). Come un fiume in piena tutto quanto ruota intorno alla nascita, alla vita di un bambino, alle sue possibilità determinate dalla provenienza, entrano nel discorso, perfino la sorte del piccolo Enea, lasciato nella culla per la vita della clinica Mangiagalli. «In fondo – dice Sciandivasci – con un gesto di fiducia, di chi è convinto che sia possibile l’umana solidarietà: quella madre lascia in un luogo sicuro, caldo, un bambino che pensava di non riuscire a crescere», come ha lasciato scritto.
E tornando al libro: «Il mondo non è pronto ad accogliere la pluralità del concetto di maternità, perché lo legge solo come processo individuale» così sottolinea Carlotta Vagnoli, trentacinque anni, fiorentina, attivista e scrittrice, una delle donne sollecitate a scrivere sul tema. A lei fa eco Flavia Gasperetti, ricercatrice, traduttrice, autrice (Madri e no. Ragioni e percorsi di una non maternità, Marsilio), la prima in Italia a dire che esistono donne felici di non aver mai pensato alla maternità. Donne non impensierite dalla solitudine, dall’anzianità, dalle spese da non condividere… Oppure, come si legge nel libro, donne che rifiutano luoghi comuni sul fatto di fare figli “per farsi aiutare da anziani, per veder continuare la specie…”.
Nel libro parlano venti donne e sei uomini, le donne sono quasi tutte scrittrici, autrici, cineaste. La domanda è: sono donne che rivolgono al proprio lavoro il senso materno? La “creatura” da proteggere è quel tipo di realizzazione personale? «Non mi pare che nessuna di loro viva la scrittura o l’arte in questo modo. Per quel che mi riguarda non credo assolutamente in una sostituzione di questo tipo, sarebbe folle. Il lavoro realizza o impensierisce o tormenta, ma è altro», risponde Sciandivasci.
Tra le testimonianze, c’è anche quella struggente, di una giovanissima persona transgender. «Sì, Alec Trenta, ventitré anni, autore di una graphic novel, Barba. Storia di come sono nato due volte (Laterza) dove ha messo su carta il problema “figli”. In realtà Alec era Lisa e prima di accedere alla transizione completa la endocrinologa gli ha proposto di congelare i suoi ovuli per pensare, un giorno di potere essere padre».
E comunque Alec è l’unico a parlare del corpo. Nelle pagine scritte dagli uomini, scrittori, giornalisti, autori (Daniele Mencarelli, Raffaele Notaro, Francesco di Taranto, Gianluca Nicoletti) la paternità non viene nominata come esito di un rapporto d’amore, ma quasi come di un fatto razionale, come raccontare una vita d’altri. Unica eccezione, lo scrittore cinquantasettenne Marco Franzoso (“Il bambino indaco”) rimasto solo con il figlio di otto mesi, che ha cresciuto lasciando il lavoro. Lì la vicinanza anche fisica con il piccolo si sente.
Infine, il libro è come se rappresentasse un volo ad ali spiegate sui grandi temi di cinquant’anni di femminismo, da Luisa Muraro a Betty Friedan, da Barbara Duden ad Adrienne Rich, Elisabeth Badinter… È così? «Sì» dice sorridendo Simonetta Sciandivasci e non teme il confronto con quella pesantissima, conflittuale, e un po’ astratta discussione frutto dei tempi in cui forse per avere ascolto bisognava “essere contro”. «Non mi interessa teorizzare – continua – ho usato volutamente un tono leggero, ma non superficiale per affrontare un argomento così delicato per noi, per dire che non siamo “donne sbagliate”. Recentemente Ferdinando Camon sul quotidiano Avvenire ha lamentato il fatto che nessuno più vuole fare figli perché siamo tutti infelici, ma la felicità non si misura dai figli, io sono fiduciosa nel futuro, desidero il contributo degli altri, io voglio solo essere me stessa».
(Left.it, 17 aprile 2023)
Titolo: Dove non mi hai portata
Autrice: Maria Grazia Calandrone
Editore: Einaudi
Anno: 2022
Curiosità: candidato Premio Strega 2023
Stelle: 5 su 5
Pagine: 247
In due parole: l’indagine, colma di amore, empatia e comprensione, sui propri genitori di una figlia abbandonata
Se in “Splendi come vita” Maria Grazia Calandrone ha raccontato il suo complesso rapporto con la madre adottiva che ha vissuto con dolore il suo essere madre in seconda per così dire, qui racconta invece la ricerca da lei fatta sulle circostanze e gli accadimenti, che hanno spinto i suoi genitori biologici ad abbandonarla prima e a suicidarsi poi. Ripercorre la vita della madre, il suo matrimonio infelice, l’incontro con il padre, la loro relazione, la gravidanza, la denuncia per adulterio, la fuga di entrambi per provare a rifarsi una vita, le mille difficoltà vissute a Milano e la decisione finale: uccidersi assicurandosi prima che la loro piccola figlia vada in buone mani. È un racconto commosso e commovente, pieno di amore verso Lucia e Giuseppe (così si chiamano la madre e il padre), di bisogno di comprensione e anche di riconciliazione. Ed è quello che succede, la prova dell’amore di Lucia e di Giuseppe sta nel fatto che nel buio della morte, Maria Grazia non l’hanno portata, l’hanno lasciata alla vita che vita era. Io l’ho trovato bellissimo.
(Arieccome.blogspot.com – Non siamo creature mansuete, 16 aprile 2023)
di Giorgio Vincenzi
Elvira Guerra, Ida Nomi, Marina Zanetti, Rosetta Gagliardi, Isaline Crivelli Massazza, Rosetta Pirola Mangiarotti, Hilde Prekop sono nomi che oggi non dicono molto. Eppure dai primi del Novecento e fino agli anni Quaranta hanno vinto tanto nello sport a livello nazionale e internazionale. Donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere. A raccontare le storie di queste donne ci ha pensato Caterina Caparello nel libro Testarde. Storie di atlete italiane dimenticate (Ed. Caosfera, euro 14).
Caparello, perché testarde?
Sono atlete vissute in un periodo molto preciso, dai primi del Novecento agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Di conseguenza ci troviamo davanti a delle donne che non avevano alcun tipo di diritto, ma solo moltissimi doveri. Tra questi, il dover essere collocate all’interno di ruoli obbligatori prestabiliti: mogli e madri esemplari. Il loro essere testarde, quindi, non nasce solo dalla voglia di «uscire dagli schemi» e di provare, per pochissimo tempo, ad alleggerire il peso della loro condizione, ma si rendono conto di come lo sport sia una piccola chiave che apre una porticina, quella di poter praticare ciò che amano: tirare di scherma, correre, giocare a tennis, nuotare, allenare, andare a cavallo o sciare. L’essere testarde non è altro che una consapevolezza di sé stesse e di poter essere di più.
Qual è l’esempio più eclatante? E quello al limite dell’eroismo?
Tutte queste atlete sono esempi eclatanti. Sicuramente c’è stata qualcuna più esposta e in prima linea delle altre come Marina Zanetti, la prima commissaria tecnica. Lei, che è stata velocista e cestista prima e allenatrice poi, è dovuta scendere a parecchi compromessi pur di salvare la Federazione atletica femminile che, nel 1929, sarebbe passata sotto l’egida della neonata Fidal (Federazione italiana di atletica leggera) inglobata nella sezione maschile e quindi destinata a sparire lentamente. Si assunse tante responsabilità, creò le cosiddette «Olimpiadi della Grazia» nel 1931, ovvero la manifestazione internazionale dedicata allo sport femminile – dove convocò anche Ondina Valla, prima medaglia d’oro italiana – per poi essere mandata via dalla Federazione nel 1933. Inoltre, non parlerei di eroismo ma, al contrario, di normalità. Tutte queste donne non fanno altro che cercare di rendere lo sport un bisogno naturale e normale, che va oltre la sola e propagandistica funzione agevolatrice del parto. Come scrive di suo pugno nel 1929 Isaline Crivelli Massazza, sciatrice e golfista, «lo sport per me fa parte dei doveri verso sé stessi».
Raccontare di loro non è solo un modo per tirarle fuori dall’oblio, ma anche dimostrare come tenacia e passione sono le chiavi dell’autodeterminazione…
L’autodeterminazione femminile è una lotta continua che si sta intraprendendo anche ai giorni nostri. È necessaria. La tenacia e la passione di queste atlete mostrano tanti aspetti della società in cui vivono. E spesso tenacia e passione non bastano. Accanto a loro ci sono infatti anche altre figure importanti: sorelle, fratelli, madri e padri che credono in loro e tifano per loro. Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare il periodo storico in cui agiscono e soprattutto ciò che la società dell’epoca si aspetta da loro. Sicuramente non possono esimersi, ma riescono comunque a rendere lo sport un amore esclusivo.
Un esempio sono le piccole ginnaste pavesi…
Ho provato a raccontare la storia di queste dodici piccole atlete, dove la più giovane aveva solo undici anni, attraverso gli occhi di «mamma» Maria, la custode della palestra della Ginnastica Pavese. Ho immaginato quest’ultima, ex ginnasta anche lei, guidarle verso un traguardo storico: la vittoria della prima medaglia per le donne italiane, un argento, ad Amsterdam nel 1928.
Lei le definisce donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere e diverse…
Assolutamente. Lo sport è un atto di libertà. La consapevolezza di riuscire a praticarlo, nonostante l’ipocrisia e la falsità di cui sono circondate, specie durante i momenti di vittoria in cui si ritrovavano a stringere mani e sorridere a persone che non le avevano mai minimamente considerate, se non delle semplicissime donne, è ciò che le rende anche diverse. Una diversità che riescono ad assaporare sul campo, perché si trovano quasi separate da quel loro mondo reale così sbagliato e chiuso. Un mondo che le vuole omologate e senza la possibilità di poter essere proprio libere e diverse. Praticare sport è il momento in cui si sentono delle persone, perché la società in sé le considera solo in un determinato modo e ruolo.
Il corpo delle donne è stato usato per tanti anni per limitare la loro voglia di esprimersi nello sport…
Limitarlo e, allo stesso tempo, esporlo. Come nel caso della nuotatrice Hilde Prekop, campionessa italiana e oro nel 1932. Di lei e del suo corpo se ne servì la propaganda fascista che, da un lato, la fotografava in costume da bagno, con le gambe in bella mostra e la didascalia incitante le donne a nuotare per aiutare la loro fertilità, dall’altro lato i quotidiani di stampo cattolico che la accusavano di mostrare troppo, e spesso, il suo corpo che doveva rimanere, invece, nascosto. Da qui, possiamo notare non solo una mercificazione, ma anche una strumentalizzazione che, ipocritamente, la portava a ritrovarsi in mezzo ai due fuochi. Dove la colpa rimaneva esclusivamente la sua.
Oggi le donne che fanno sport subiscono ancora gravi disparità di genere?
Basta la parola «professionismo». Come ho anche riportato nell’introduzione del libro, a febbraio 2022, per la prima volta, le calciatrici sono diventate «professioniste» di fronte alla legge, grazie anche alle battaglie della capitana della Nazionale italiana, Sara Gama, sempre in prima linea. Il mancato professionismo, a causa della legge 91 del 1981 (la cosiddetta legge sul professionismo sportivo), è ancora un grande ostacolo alla parità di genere nello sport. Per questa legge, tutte le atlete sono considerate delle «dilettanti» e ciò comporta una fortissima mancanza di quei diritti fondamentali che delle lavoratrici meriterebbero: pensione, maternità, sanità ecc. Perché queste donne lavorano. L’unica eccezione riguarda l’arruolamento nei gruppi sportivi militari previo concorso pubblico: le atlete come Sofia Goggia, facente parte delle Fiamme Gialle, sono giustamente tutelate e percepiscono uno stipendio. Ma le pallavoliste come Paola Egonu? Le cestiste come Cecilia Zandalasini? No, e sono anche considerate dalla legge delle dilettanti. Per le calciatrici il passo avanti è stato fatto, adesso mancano tutte le altre.
(Alias – Il Manifesto, 15 aprile 2023)
di Chiara Valerio
Come tutti, in fondo, sappiamo, e come dichiarava il personaggio di un film qualche anno fa «esistono le grandi verità, le grandi bugie e le piccole bugie, e poi esistono le statistiche». Il saggio di Sara Chaney* srotola la storia dei nostri rapporti con i dati e con essi la tensione e il tentativo di misurare il mondo per trarne, si direbbe dopo aver letto questo magnifico saggio, non tanto informazioni quanto desideri e intenzioni. Il fine di queste campagne di misurazione di corpi e abitudini, abitudini e natalità, eccezioni e mortalità, malattie e curvatura degli archi sopracciliari o misura dell’angolo nel quale iscrivere il corpo umano è in effetti identificare una norma umana. Un uomo medio. Una donna media. E, stabiliti i campioni dell’umanità, segnare le distanze da essi. E cominciare a chiamare chi è semplicemente diverso a sé, diverso, e a questa diversità attribuire una sfumatura di pericolo, stranezza, sospetto, diffidenza, e alla fine paura.
«La scienza della normalità creata da questi ricercatori, dunque, è anche la storia di come intere comunità siano state alterizzate e definite in opposizione agli standard occidentali che fissavano il “giusto” modo di essere». Prima degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’umanità tutta non aveva formulato tale domanda, che subito, appunto, è diventata un desiderio. Sara Chaney – ricercatrice presso il Queen Mary Center di Londra, questo è il suo primo libro tradotto in italiano – per dimostrare quanto l’idea della norma sia sentimentalmente radicata in noi e sia praticata parte da quel periodo della sua vita – e della nostra – nel quale è difficile stare bene con sé stessi: la terribile adolescenza. Tutti abbiamo goduto, ma soprattutto sofferto del nostro aspetto, dei nostri abiti, dei nostri modi, tutti abbiamo misurato e ci siamo sentiti misurati. Chaney parte da sé stessa per dichiarare il punto di vista dal quale parte e cioè una donna bianca eterosessuale cresciuta nella provincia britannica con possibilità di accesso agli studi superiori. Possiamo arrivare all’università – laddove esista – solo accettando che non lo siamo noi. Chaney spazia, nel suo studio, dalla disabilità alla moda prêt-à-porter, svelando in questo caso, per esempio che «i mercati di massa ci hanno regalato la semplicità degli abiti confezionati in serie, con i quali sono i consumatori a doversi adattare a ciò che indossano, e non il contrario». Il campione della definizione della normalità è ovviamente britannico. Dico ovviamente perché è chiaro che gli imperi coloniali tutti, e in special modo un impero che si muoveva economicamente sui mari e diffondeva quella macchina economica chiamata Compagnia delle Indie, hanno la necessità di stabilire una norma e di segnare una distanza. Il campione è Sir Francis Galton che oltre ad essere cugino di Charles Darwin, importante meteorologo ed esploratore e aver inventato un abile dispositivo in matematica – cercate su Google Macchina di Galton – era anche convinto che l’eugenetica fosse la via per una umanità più vicina alla perfezione e dunque alla bontà e, con molte sue congetture ha posto un freno a ciò che oggi chiamiamo medicina di genere. Galton pensava che l’uomo bianco eterosessuale fosse la misura del mondo. «Galton e i suoi colleghi scienziati eliminavano i dati che consideravano irregolari prima ancora di calcolare le norme». I bambini – con la loro irritante tendenza a crescere di anno in anno – rappresentavano da tempo un problema per gli studiosi di statistica. E così anche le donne. Galton “trasformò” i dati sulle donne per poterli confrontare direttamente con quelli sugli uomini: per esempio, fu necessario aumentare le altezze femminili mediante un’equazione ideata da Galton stesso finché i dati continuassero a rientrare in una curva a campana. Tali modifiche non erano soltanto una strategia per il confronto statistico. Si tradussero anche in un vero e proprio standard: gli uomini rappresentavano la normalità biologica alla quale bisognava adeguare i dati femminili. E ovviamente gli uomini bianchi rappresentavano la norma con la quale le altre razze dovevano essere confrontate. Così a leggere Chaney si capisce chiaramente anche un’altra cosa, che, visto dove e come siamo oggi, il più grande romanzo d’invenzione dell’Ottocento è stata la statistica, altro che eroi ed eroine tragici o comici, altro che battaglie in campo aperto e trame nei salotti, la più grande invenzione narrativa – più tragica che comica – è stato l’Occidente come centro di gravità permanente del mondo, e il maschio bianco come centro del centro di gravità. Chaney non giudica, racconta, non cancella e non nega, accumula. E soprattutto conforta: possiamo abbandonare il grande racconto statistico e, anche con le statistiche, farne un altro. Meno “normale” per tutti.
(*) Sarah Chaney, Sono normale?, Bollati Boringhieri, traduzione di Bianca Bertola, pagg. 274, euro 27,00
(la Repubblica – Robinson libri, 15 aprile 2023)
di Anna Louie Sussman
Youngmi ha avuto un’infanzia difficile. È un’infermiera di 25 anni nata in una famiglia povera a Daegu, una delle città più conservatrici della Corea del Sud. La madre se ne andò di casa per scappare dai maltrattamenti del marito, lasciando Youngmi e la sorella, ancora piccole, con lui e la nonna paterna. A otto anni la sorella cominciò a perdere i capelli per lo stress. Crescendo, Youngmi era sempre depressa, spaventata dal futuro. Nella società coreana – dove dalle donne ci si aspetta deferenza verso la figura paterna e il rispetto di rigidi standard di bellezza – si sentiva una vittima, ossessionata dai torti che il padre le faceva e obbligata a curare il suo aspetto per piacere agli uomini. Anche se da apprendista infermiera non guadagnava molto, ogni stagione si rifaceva il guardaroba, spendendo soldi in abiti di scarsa qualità. Si truccava religiosamente. «Non potevo uscire senza trucco. Mi vergognavo», dice. «Sentivo la pressione di dover essere bella e desiderabile, fisicamente o sessualmente». Nel 2018, scorrendo i post su Twitter, Youngmi vide il filmato di una protesta per le strade di Seoul. In un paese in cui i casi di femminicidio, revenge porn e violenza nelle relazioni di coppia sono molto frequenti, una serie di reati sessuali con telecamere nascoste, commessi quasi tutti da uomini, erano stati sanzionati con semplici multe e sospensioni della pena, o addirittura archiviati: senza fare nulla. Solo una donna di venticinque anni, che aveva scattato di nascosto una foto a un modello nudo in una scuola d’arte e l’aveva postata su internet, era stata condannata a dieci mesi di carcere e a seguire una terapia per gli autori di violenza sessuale. Le proteste su Twitter erano una reazione a questa sfacciata ipocrisia. Youngmi rimase colpita da tutta quella solidarietà, ma c’era una cosa che la lasciava perplessa: molte manifestanti si erano rasate la testa davanti alla telecamera. Seguendo altri account femministi su Twitter, Youngmi capì che si trattava di un modo per non adeguarsi alle aspettative estetiche imposte alle donne, le stesse che hanno portato il paese in testa alle classifiche mondiali per il consumo di prodotti di bellezza e il ricorso alla chirurgia plastica. Cominciava a rendersi conto che «per gli uomini non è così: non sentono la pressione di rifarsi il guardaroba ogni stagione o di truccarsi».
L’autonomia prima di tutto
Qualche tempo dopo, si è rasata anche lei la testa e ha smesso di truccarsi, unendosi al movimento Sfuggiamo al corsetto, di cui facevano parte molte giovani sudcoreane. Diventato popolare nel 2018, il movimento era animato da ragazze che rifiutavano pubblicamente gli standard di bellezza, e per questo portavano i capelli corti e non si truccavano (Youngmi era in buona compagnia: in un sondaggio del 2019, il 24% delle donne tra i venti e i trent’anni diceva di aver ridotto la spesa in prodotti di bellezza; molte dichiaravano di non sentirne più l’esigenza).
Da lì Youngmi è approdata al 4B, un movimento in grande crescita. Il nome 4B è l’abbreviazione di quattro parole che in coreano cominciano tutte per bi, cioè “no”: il primo no, bihon, è il rifiuto del matrimonio eterosessuale; bichulsan è il rifiuto della maternità; biyeonae è il no al corteggiamento e bisekseu no ai rapporti eterosessuali. Il 4B è sia una presa di posizione ideologica sia uno stile di vita, e molte donne con cui ho parlato estendono il no a quasi tutti gli uomini, prendendo le distanze anche dagli amici. Attraverso le chat aperte di KakaoTalk (l’app di messaggistica più diffusa in Corea del Sud), Youngmi è entrata in contatto con altre femministe di Daegu, dove viveva con la madre quando frequentava la scuola per infermieri, e ha cominciato a incontrarle (“È facilissimo riconoscersi con i capelli corti”, dice). Ha smesso di vedere le amiche delle medie e delle superiori, che parlavano sempre di trucchi, vestiti e ragazzi. A novembre, quando ci vediamo in un caffè di Seoul, dove abita da due anni, Youngmi è senza trucco e indossa jeans larghi con una felpa bianca. I capelli le sono ricresciuti e li tiene legati in una coda di cavallo, perché si è stancata delle domande dei colleghi sui capelli corti, ma li nasconde sotto un cappellino da baseball bianco. Il femminismo, mi dice, l’ha aiutata a capire che il problema è il patriarcato, non lei, e che «le cose brutte che ti succedono nella vita non sono colpa tua». Per Youngmi e tante altre che condividono gli stessi princìpi, il 4B, o «praticare il bihon», è l’unico modo per vivere in autonomia. Ai loro occhi, gli uomini sudcoreani sono irrecuperabili e la cultura del paese è irrimediabilmente patriarcale, spesso perfino misogina. Secondo uno studio del 2016 del ministero per la parità di genere e la famiglia, nel 41,5% delle coppie ci sono stati episodi violenti, una percentuale molto più alta della media mondiale, pari al 30%. Le sostenitrici del 4B sperano di cambiare la società – attraverso le manifestazioni e l’attivismo online, e offrendo un modello di vita alternativo alle altre donne – ma non stanno cercando di cambiare gli uomini, che considerano i loro oppressori. È troppo presto per dire se il movimento riuscirà a sopravvivere e a prosperare. Certo è che le sue idee e le sue azioni hanno già avuto un impatto sui dibattiti online, sulla politica e, soprattutto, sulla vita delle donne sudcoreane. «Praticare il bihon significa eliminare i rischi legati al matrimonio o alle relazioni eterosessuali», mi spiega Yeowon, un’impiegata di ventisei anni, sulla terrazza di un bar di Busan, una città sulla costa meridionale. Parliamo davanti a caffè e pasticcini; ci sono anche la fidanzata di Yeowon e un’altra amica: tutte e tre portano pantaloni neri larghi, felpa nera e capelli corti. I rischi a cui allude Yeowon possono sembrare familiari – sacrificare la carriera per badare ai figli e alla casa, oltre alla violenza fisica – ma n Corea, dice, il matrimonio rappresenta una minaccia esistenziale. Un tempo Minji, un’attivista del 4B di Daegu, voleva sposarsi, «perché, insomma, tutti vogliono sposarsi». Sapendo quello che sa oggi, però – per esempio che la violenza domestica è così comune – ha cambiato idea. Minji ha 27 anni, probabilmente è eterosessuale e in passato le sono piaciuti dei ragazzi, ma «volevano che li trattassi come dei re». Oggi non si fa problemi a boicottare gli uomini della sua generazione, che a suo dire sono poco meglio di suo padre, egoista e violento. Anche molte ragazze estranee al movimento confermano che non potrebbero frequentare o sposare un uomo coreano. Sooyeon, un’insegnante di poco più di trent’anni, racconta: «Quando parlo con i miei amici maschi penso sempre “Forse non troverò mai un uomo coreano”… molti, anche quelli della mia generazione, si aspettano che la moglie mantenga un ruolo profondamente tradizionale». Quasi a conferma delle sue parole, un recente sondaggio di un’agenzia matrimoniale mostra che le donne preferiscono non sposarsi per via della divisione dei lavori domestici, mentre per gli uomini il deterrente è il “femminismo”.
Rapporti guastati
Non è chiaro quanto il 4B sia diffuso o popolare, perché in parte raccoglie adesioni online e nel corso degli anni è cambiato. Nato tra il 2015 e il 2016, da semplice stile di vita contrario al matrimonio si è trasformato in un boicottaggio degli uomini e del lavoro riproduttivo in generale. Secondo un articolo le attiviste sarebbero 50mila, altri ridimensionano la cifra a meno di cinquemila. La storia delle origini del 4B è altrettanto incerta, anche se è possibile delinearne i contorni. Dopo anni di crisi finanziarie in cui i giovani avevano dovuto fare i conti con l’aumento del costo degli alloggi e con una concorrenza serrata per l’ingresso nelle università e nel mondo del lavoro, i rapporti tra uomini e donne si sono guastati. Dal 2013 il tasso d’iscrizione all’università delle donne coreane ha superato quello degli uomini; oggi quasi tre quarti delle ragazze sono iscritte a corsi d’istruzione superiore, mentre tra i ragazzi non si arriva ai due terzi. In passato ci si aspettava che le donne smettessero di lavorare dopo il matrimonio o la maternità. Oggi i giovani considerano le loro coetanee delle concorrenti per posti di lavoro che continuano a diminuire (diversi studiosi con cui ho parlato spiegano che la Corea è etnicamente omogenea, perciò il genere è la principale linea di frattura della società). Nei forum online e sui social network, molti uomini arrabbiati hanno cominciato a chiamare le laureate kimchinyeo o “donne kimchi”, per indicare lo «stereotipo della coreana egoista, vanitosa, ossessionata da sé stessa mentre sfrutta il partner», ha scritto la studiosa femminista Euisol Jeong nella sua tesi di dottorato sul “femminismo troll”. Tra il 2014 e il 2015 in Corea del Sud si era formata una comunità violentemente misogina e antifemminista, chiamata Ilbe. Chi ne faceva parte sosteneva che le donne stavano pretendendo altri diritti e privilegi quando già avevano l’esenzione dal servizio militare obbligatorio. Agli occhi della comunità Ilbe, l’intera popolazione femminile era opportunista e superficiale. In rete molte coreane avevano reagito con metodi tipicamente misogini come il trolling (interventi provocatori sui social network), la presa in giro e il linguaggio offensivo. Megalia, uno dei più importanti siti femministi all’epoca, aveva coniato il termine hannamchung, “insetto maschio coreano”, per rappresentare l’uomo sudcoreano come «brutto, sessista e fissato con il sesso a pagamento», scrive Jeong. Nel 2016 un giovane massacrò a coltellate una ragazza in un bagno pubblico di Seoul, confessando successivamente alla polizia di averla uccisa perché le donne lo avevano sempre ignorato. Nonostante questa dichiarazione, la polizia si rifiutò di considerare l’omicidio un crimine d’odio. Infuriate, le donne si sfogarono in massa sui forum e sulle chat femministe. Questa ondata di femminismo digitale attirò persone di ogni estrazione, anche di ragazze come Minji e Youngmi, segnando una differenza dal femminismo coreano tradizionale, confinato quasi sempre nelle università, nelle associazioni finanziate dallo stato e in altri spazi di nicchia. Nel dicembre 2016, mentre il tasso di fecondità in Corea del Sud si aggirava intorno a 1,2 nascite per donna (oggi è 0,78, il più basso del mondo), il governo pubblicava una “Mappa nazionale delle nascite” che mostrava il numero di donne in età riproduttiva in ogni municipalità, spiegando cosa ci si aspettava da loro (nel marzo 2022 il presidente Yoon Suk-yeol ha vinto le elezioni dando al femminismo la colpa per il basso tasso di nascite, con la promessa di abolire il ministero per la parità di genere e la famiglia). Le donne si indignarono, osservando che il governo le stava trattando come “capi di bestiame”; su Twitter un’utente pubblicò una falsa mappa che mostrava la distribuzione degli uomini coreani con disfunzioni sessuali. La risposta di molte di queste “femministe digitali” fu boicottare il lavoro riproduttivo chiesto dallo stato, concludendo che il modo più sicuro di evitare la gravidanza era evitare gli uomini. Attraverso questi gruppi online si diffuse lo slogan del 4B, che poi sarebbe diventato un movimento. Le rappresaglie e le minacce subite rafforzano la convinzione, all’interno del 4B, che la Corea del Sud sia ancora un luogo in cui le donne devono avere paura. Dopo aver partecipato a una manifestazione femminista, Yeowon ha visto la sua foto pubblicata su un sito Ilbe ed è stata molestata e minacciata su internet per settimane. Non le interessa frequentare altre donne, ma crede nel lesbismo politico. Youngmi dice che degli uomini hanno provato ad aggredirla fisicamente per la strada tre o quattro volte. Ricorda anche che una sera lei e alcune amiche, tutte coni capelli corti, stavano cenando in un ristorante giapponese a Daegu: per tutta la serata, il gestore e i suoi amici hanno simulato conati di vomito e rivolto gestacci verso il loro tavolo. Quando incontro Minji in un bar nei pressi della stazione centrale, mi confida di essere preoccupata che qualcuno posti una sua foto online perché porta i capelli corti e sta parlando apertamente di femminismo. «Lo sciopero delle nascite sta uccidendo la Corea del Sud», scrive sul New York Times Hawon Jung, autrice di Flowers of fire (Fiori di fuoco), sul movimento #metoo in Corea del Sud. Secondo un sondaggio del 2022, il 65% delle donne sudcoreane, contro il 48% degli uomini, non vuole figli e rifiuta il matrimonio e le pressioni annesse. Per tre anni consecutivi il paese ha registrato il più basso tasso di fecondità al mondo e il numero dei morti ha superato quello delle nascite dieci anni prima del previsto. «Circa metà delle città, delle contee e dei distretti del paese rischia di sparire a causa dello spopolamento; asili nido e scuole dell’infanzia si trasformano in case di cura per anziani, le cliniche ostetriche chiudono è aprono pompe funebri». Per Chung Hyunback, ministra della parità di genere e della famiglia del precedente governo di Seoul intervistata da Jung, la colpa è “della cultura patriarcale”. Altre donne che intervisto mi chiedono di usare degli pseudonimi per motivi di sicurezza. Rinunciare alle relazioni a lungo termine con gli uomini ha anche altre conseguenze. La Corea del Sud ha il più grande divario retributivo di genere del mondo ricco: le donne guadagnano il 34,6% in meno degli uomini, e subiscono ancora discriminazioni sul lavoro, cosa di cui il movimento è consapevole. Un Tweet del 2018, più volte condiviso, incoraggiava le donne del 4B a risparmiare i soldi che di solito spendevano in vestiti per sostenere uno stile di vita indipendente ed evitare di diventare «nonne senza un centesimo in tasca e il guardaroba pieno». Le donne del 4B «lavorano duramente perché sanno che non ci sarà un uomo o un marito a mantenerle», dice Jeong, la studiosa che ha scritto la tesi di dottorato sul femminismo troll, sottolineando che ci sono attiviste che fanno due o tre lavori contemporaneamente. Youngmi e la fidanzata vivono a circa un’ora di metropolitana dal centro di Seoul, nella zona sud, dove gli affitti sono più abbordabili. Yeowon mi spiega che il suo piccolo monolocale, il massimo che può permettersi al momento, è in un quartiere poco sicuro vicino a un mercato dove spesso gli uomini ubriachi si ritrovano dopo la chiusura dei bar. La sua compagna, che lavora nel settore informatico, recentemente si è trasferita perché nell’ultimo appartamento c’erano gli scarafaggi. Youngmi e le sue amiche hanno creato una mappa delle aziende a Daegu a conduzione femminile per assicurarsi che i loro soldi vadano a sostegno di altre donne. «L’economia è un tema molto importante per noi», dicono. Altri gruppi legati al movimento organizzano eventi con esperti per insegnare alle donne a risparmiare e a investire. Alcune iscritte a una comunità online chiamata With (acronimo di women in the hell, donne all’inferno, dove l’inferno è la Corea) si concentrano solo sull’economia: postano offerte di lavoro, indicazioni su quali banche offrono i tassi d’interesse migliori e altri consigli finanziari. Han, un’insegnante di matematica che ha aperto un servizio di tutoraggio a Daegu, è convinta che più le donne diventeranno forti economicamente, più crescerà la loro forza politica, e che per realizzare questo processo servirà una ventina d’anni. L’interesse per la finanza è dettato dall’urgenza di mantenersi, ma anche dalla prospettiva a lungo termine d’indebolire il patriarcato diffondendo i princìpi del 4B. «Quando le donne saranno più influenti economicamente, allora forse i partiti le ascolteranno», osserva Han. «Ma, fino a quel momento, la mia sensazione è che le donne continueranno a essere sfruttate; i loro corpi saranno usati per la riproduzione».
Divisioni interne
A minacciare il futuro del movimento 4B non sono solo le reazioni politiche negative e le difficoltà economiche. Come ogni movimento sociale, il 4B ha le sue spaccature interne: le donne possono essere amiche degli uomini? O di altre donne che vogliono continuare a frequentare gli uomini? Il lesbismo è necessario per costruire un mondo senza uomini, oppure è un elemento che privatizza le relazioni, distrugge la solidarietà femminista e sessualizza le donne? Ad alcune militanti, inoltre, non piace che il movimento si focalizzi sulle donne cisgender escludendo le trans. Molti gruppi online chiedono a chi vuole farne parte d’identificarsi con una foto che attesti il sesso. Minji mi spiega che una delle comunità femministe di cui fa parte le ha chiesto d’inviare un video del suo pomo d’Adamo per verificare che non era nata maschio. Ma, al di là dalla loro posizione su questi temi, per le attiviste 4B che ho incontrato divergenze simili influiscono poco sull’impegno personale a vivere separate dagli uomini. In un movimento nato dalla rabbia, cosa succede quando questa svanisce o quando altre preoccupazioni diventano prioritarie? Yeowon definisce le sue amiche “femministe selettive”: non si truccano quando devono incontrarsi ma non sono ancora pronte a rinunciare ai vantaggi che derivano dall’essere attraenti in senso convenzionale. «Non riescono a rinunciare al potere della femminilità», riflette. «Ci sono femministe che dicono: “Io sono una femminista, odio gli uomini ma voglio anche essere, insomma… appetibile”». Yeowon e le sue amiche mi descrivono dei video pubblicati su YouTube da donne ex bihon che raccontano di aver visto la luce e di essere tornate eterosessuali. Per il momento, è certo che il messaggio del 4B, a prescindere da come venga praticato o da quanto le sue sostenitrici lo sentano loro, ha dato un rifugio alle donne sudcoreane. Taekyung, ventiquattro anni, sta facendo un master in letteratura tedesca all’università di Ewha, un ateneo per ragazze con un solido movimento femminista e un rispettato dipartimento di studi di genere. In una bellissima giornata d’autunno mi porta orgogliosa in giro per il campus, che risale alla fine dell’ottocento, e mi mostra il negozio di souvenir e la zona dove le studenti socializzano e a volte si riposano. Cerca di evitare gli uomini fin dalle superiori: una volta, lavorando a una ricerca sull’Ilbe, ha visto dei siti web dove alcuni uomini avevano postato le foto di loro familiari nude e discutevano di come evitate condanne in caso di stupro. Dopo il liceo è andata all’università delle donne di Sungshun. Non crede alle etichette sull’orientamento sessuale e non le interessa frequentare altre donne, ma crede nel lesbismo politico come un modo per vivere separata dagli uomini, insistendo su “politico” più che su “lesbismo”. «Nel lesbismo politico posso essere semplicemente una persona, un essere umano. Mi sento in un posto sicuro», mi dice mentre beviamo un latte di patate dolci nella caffetteria del campus. La cosa più importante, per lei, è l’assenza degli uomini. «Quando dico “posto sicuro”, intendo sempre un posto per le donne».
(Internazionale, 14 aprile 2023)
di Donatella Borghesi
Sei favorevole o contrario alla gravidanza per altri, detta più volgarmente “utero in affitto”? La domanda la facciamo insistentemente a noi stessi e agli altri, tanto che in questi ultimi mesi ha infiammato le discussioni e diviso la politica e il mondo delle donne. E se lasciassimo da parte le contrapposizioni e cominciassimo ad analizzare la cosa da un diverso punto di vista? È la scelta della filosofa Rosella Prezzo, che nel suo Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti (edito da Moretti&Vitali), ripercorre con uno stile narrativo il pensiero che ha accompagnato nei secoli il tema della nascita, rovesciando il paradigma tra “mettere al mondo” e “venire al mondo”. L’autrice sarà alla Libreria delle Ragazze di Grosseto venerdì 14 aprile, in via Fanti 11a/b alle 17.30, e lo presenterà in dialogo con la filosofa della differenza Annarosa Buttarelli.
Fin dal titolo ha messo al centro della sua riflessione la nascita e non la maternità, come ci si sarebbe aspettati in un dibattito così caldo come quello attuale…
«La nascita è un evento a doppia faccia, riguarda la madre che partorisce e il figlio che nasce. Riguarda tutte e tutti, veniamo al mondo da un corpo di donna ma quel venire al mondo definisce l’essenza dell’essere umano. Da tempo mi occupo del tema, ho sentito però oggi l’urgenza di scriverne perché ci sta sfuggendo proprio questa essenza dell’umano, siamo come ciechi, in un periodo in cui la scena della nascita è affollata da tanti soggetti, tutti dominati dalla tecnologia riproduttiva. Ovuli, gameti, embrioni trovano collocazione in donne di vario tipo: donanti, riceventi, ospitanti. Ma nella nascita sta scomparendo proprio la madre».
Lei dimostra con il riferimento ai miti – tra i tanti citati, Atena che nasce dalla testa di Zeus – che la fantasia di nascere in assenza di madre domina la cultura occidentale, fino ad arrivare al progetto mai abbandonato dell’utero artificiale e ai casi di transgender come l’americano Thomas Beatie, nato Tracy, che si è tenuto l’utero, ed è comparso sulle copertine di tutto il mondo con il pancione di otto mesi.
«La riproduzione assistita l’hanno inventata i miti classici, l’homo solus che espropria la “madre certa”, fino ad arrivare alla nascita fuori dal corpo… E ora che l’arcaico si è saldato al contemporaneo, vediamo che nell’epoca della riproduzione tecnica la nascita sembra aver perso valore, significato. Perché la dimensione biologica dell’umano e dei suoi limiti ci sembrano arretrati. Fantastichiamo di post-umano, e da madre-Natura siamo passati a madre-Macchina. Il progetto dell’utero artificiale, su cui si continua a investire, sembra infatti soddisfare a due utopie: quella per la donna di sgravarsi della maternità e quella per l’uomo di riappropriarsi della nascita. L’interrogativo che ci dobbiamo porre è: qual è l’umano che ci viene incontro dal futuro».
In questa riproduzione diventata produzione che ne è del corpo e soprattutto del desiderio?
«È una procreazione senza sessualità, senza i corpi. Il corpo viene ridotto agli elementi biologici basici, agli ovuli e ai gameti, appunto, che sono trattati secondo una logica finanziaria e di mercato, sono bio-beni da far fruttare. E con la scissione totale tra procreazione e gravidanza, per avere un figlio basta un utero qualsiasi in vendita. Che ne è del desiderio, mi chiede? È un grande interrogativo, ma possiamo dire che il desiderio in questo processo così artificiale di genitorialità si manifesta in modo autoreferenziale, si confonde con la libertà individuale, diventa impropriamente diritto».
Torniamo al venire al mondo, proprio da un punto di vista filosofico.
«Sì, ne parlo come di un’esperienza condivisa, producendo un altro rovesciamento di paradigma. La finitudine umana, l’esperienza-limite, non è più la morte che condanna alla propria fine, come abbiamo pensato per secoli, ma è – come dicono Hannah Arendt e María Zambrano – la nascita, la vita, che promette la possibilità di un inizio. Perché il comune venire al mondo è la matrice relazionale dell’umano, siamo “comuni natali” e non “comuni mortali”. E riprendo le voci delle donne, scrittrici, artiste, femministe, che sul tema hanno riflettuto, decostruendo anche la mitizzazione della maternità, che è stata funzionale al patriarcato, come ha fatto Adrienne Rich. Sapendo però che la nascita è l’unica esperienza che tutti gli esseri umani necessariamente condividono».
ROSELLA PREZZO. Filosofa, saggista e traduttrice, ha fatto parte di riviste storiche come “aut-aut” e “Lapis”. Studiosa della filosofa spagnola María Zambrano (Pensare in un’altra luce, Raffaello Cortina), è autrice di Veli d’Occidente, le trasformazioni di un simbolo (Moretti&Vitali).
ANNAROSA BUTTARELLI. Filosofa della differenza, ha fatto parte della comunità filosofica Diotima all’Università di Verona. Tra i fondatori del Festivaletteratura di Mantova, dirige la Scuola di Alta Formazione per donne di governo. Autrice, tra gli altri, di Sovrane. L’autorità femminile al governo (il Saggiatore).
(Il Tirreno, 13 aprile 2023)