di Marco Tarquinio


Tornano a farsi sentire lettori che cercano il dialogo sulla capitale questione del ripudio o dell’accettazione della guerra, della sua logica e della sua pratica. E che lo fanno a partire dalla tragedia d’Ucraina, conflitto di tipo primonovecentesco che continua a straziare in questo terzo decennio del XXI secolo il cuore orientale d’Europa e che ha un colpevole principale, il presidente russo Putin, e diversi correi. Molti congiurano a far più grave questo scontro armato. E la congiura prevede pure supponenti silenzi sui referendum anti-armi e pro-salute, che i professori Mastruzzo e Tutino ricordano, spiegano e brevemente e caldeggiano nelle loro lettere. Avviene snobbando o sminuendo la coraggiosa resistenza pacifista russa, il cui vessillo è oggi tenuto alto da Grigorij Javlinskij, leader del partito Jabloko. Ma se le armi sono l’unico modo per battersi, è “logico” dare più spazio agli attacchi di gruppi armati neonazisti russi che alle iniziative dei liberal nonviolenti anti-Putin… Ma la congiura avviene anche con le continue e assordanti propagande pro-escalation, straparlando e inseguendo una vittoria schiaccia-ucraini (a Mosca) e scaccia-Putin e spacca-Russia (a Kiev, e un po’ si può capire, e in mezzo Occidente). Ripeto, perciò, ancora una volta ciò che constato, dico e scrivo da molti anni: tutta la storia che abbiamo vergato col sangue dal 1945 in poi dimostra che le vittorie belliche non esistono più, esistono solo le sconfitte dei popoli che subiscono le guerre e l’incancrenirsi delle guerre stesse che, lo dico con rispetto ma con decisione al signor Signorini, continuano a produrre disastri sulla pelle dei «più deboli» anche quando vengono dichiarate finite. Corea, Vietnam, Congo, Sudan, Corno d’Africa, Israele e Palestina, Libano, Afghanistan, Iraq, Siria, Caucaso, Balcani, Africa Subsahariana, Libia… L’elenco dei popoli e dei territori piagati dal bellicismo è lungo e potrebbe esserlo assai di più, proprio come l’elenco delle ferite mai richiuse: stragi, distruzioni, stupri, persecuzioni per motivi religiosi, politici, etnico-linguistici, miseria, sradicamenti e diaspore, calcoli e azzardi cinici di governi e di speculatori… Al lettore che mi rimprovera, vorrei far notare che documentare, condividere e denunciare tutto questo non è solo «vedere l’oltre» di ciò che sta accadendo anche in Ucraina, ma è vedere per davvero il «qui e ora» della guerra. Una guerra che stanno perdendo disastrosamente tutti coloro che la conducono e la subiscono: l’umanità investita da questa «folle» e «sacrilega» (papa Francesco) tempesta assassina i russi mandati a invadere da Putin e gli ucraini, schierati da Zelensky a resistere in armi e di armi riempiti dall’America e dall’Europa che anche noi siamo. Siamo a quasi sedici mesi di nuovi massacri di persone, città e ambiente e il cerchio di morte e di sofferenza si allarga e travolge confini definiti intoccabili e trasformati in tragiche linee di battaglia. Tutto ciò dovrebbe aiutarci a capire. A Bruxelles, a Mosca, a Kiev e altrove. Eppure continua a pesare il partito della “guerra dei mondi”.

Anche un uomo pacato come Mario Draghi, al pari di altri esperti e potenti, invoca ora la vittoria militare totale della “parte giusta” ucraina. E l’Europarlamento stabilisce addirittura che produrre armi e munizioni è attività necessaria nella ripresa post-Covid e per il futuro della Next Generation Eu, la «prossima generazione» della Ue. Confermo di essere in fermo e dolente disaccordo con entrambi. Sono sostanzialmente d’accordo, invece, con Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, che tra l’aggressiva Russia e l’Ucraina (oggi sostenuta, ma ieri non aiutata a dovere quando la politica poteva ancora evitare la guerra) vede profilarsi, e come male minore un po’ spera, quel «pareggio confuso» che Draghi giudica invece una sconfitta. Credo anch’io che sarebbe bene se venisse sancito presto un «pareggio », anche se inizialmente un po’ «confuso» dal punto di vista dei torti (dell’aggressore) e delle ragioni (dell’aggredito), perché questo significherebbe il cessate-il-fuoco e lo stop alla corsa sempre più forsennata verso la “sconfitta al quadrato” che si sta realizzando e che, in aggiunta agli orrori che continuano a indignarci, minaccia di precipitare il mondo in incubi già visti (disgregazioni di Stati) o che non vogliamo né vedere né pensare (uso di armi di distruzione di massa). I buoni cambi di regime avvengono solo per via civile e chi pensa che viaggino in carro armato prende atroci cantonate. Proprio come Putin e certi suoi avversari…

Ogni vittima di più, perciò, è intollerabilmente di troppo. E bisogna stare accanto a chi vuol tagliare gli artigli a quanti, nelle cerchie del potere moscovita, spingono per un’ancora più feroce «guerra d’attrito» russa e a chi s’entusiasma per la controffensiva ucraina (altre decine di migliaia di morti) e prevede e quasi reclama gli “scarponi a terra” dei soldati di un «volenteroso» (ricordate l’Iraq?) gruppo di Paesi Nato. L’Europa e l’Italia si sveglino! E lavorino finalmente per contribuire ad allargare il sentiero di pace aperto dalla missione voluta dal Papa e affidata al cardinale Zuppi. Missione che continua e che, se Dio vuole e se coscienza e ragione dei potenti (e dei prepotenti) torneranno a farsi sentire, riuscirà a dare frutto.


(Avvenire, 11 giugno 2023, pubblicato con il titolo “Scelte belliche, quesiti silenziati. L’urgente ‘pareggio’”)

di Telmo Plevani


L’andamento è quello un giallo filosofico e scientifico. Testi densi e meditati differenti sono integrati non da normali illustrazioni, ma da disegni giocosi, per affrontare uno dei temi da sempre più ostici nella scienza: come si è evoluta la coscienza in natura. Due note filosofe israeliane della biologia, di formazione scientifica, Simona Ginsburg ed Eva Jablonka, intrecciano le loro competenze con la matita ironica di Anna Zeligowski, artista e medico, in questo libro originale (un oggetto anche esteticamente pregevole), Figure della mente. La coscienza attraverso la lente dell’evoluzione, pubblicato da Raffaello Cortina, la cui tesi sfida molti stereotipi. Benché quella umana sia speciale, secondo le autrici la coscienza è una proprietà antica e diffusa tra gli animali poiché coincide con la capacità di orientarsi in un territorio nuovo e complesso per procurarsi cibo e trovare un partner. Ogni breve capitolo o quadro delle cinque sezioni del libro termina con più domande che risposte e va a comporre una sorta di mandala teorico. Abbiamo chiesto a Eva Jablonka di scioglierne qualche filo per noi.

Nel libro parlate di organismi che non sono coscienti, ad esempio batteri e piante, e che tuttavia sono le forme di vita di maggiore successo sulla Terra. Siete sicure che essere coscienti serva a qualcosa?

C’è modo e modo di avere successo nell’evoluzione. Gli organismi unicellulari hanno, in termini numerici, più successo di quelli multicellulari, ma la multicellularità si è evoluta molte volte. La sua domanda è una delle più impegnative sulla coscienza: qual è la sua funzione? Secondo noi, è quella di creare un nuovo regno di obiettivi. Consente all’organismo di prendere decisioni flessibili e dipendenti dal contesto, raggiungendo obiettivi che altrimenti non sarebbero affatto riconosciuti come tali. La femmina di pavone sceglie il maschio con la coda più lunga e i motivi più colorati, simmetrici e luminosi. La sua capacità di discriminare, che è possibile secondo noi solo quando l’animale è cosciente, ha portato all’evoluzione di modelli complessi e diversi nel corpo maschile.

Quindi la pavonessa è cosciente. Esplorare il mondo consapevolmente, scrivete, è una meravigliosa danza di curiosità, gioia e sofferenza. Perché essere senzienti ed essere coscienti sono sinonimi?

Perché gli aspetti affettivi e cognitivi sono sfaccettature diverse di ciò che significa essere coscienti o senzienti. Un essere senziente è un agente autonomo che ha esperienze private, soggettive e coerenti. Tra queste: percepire il mondo (vedere il rosso, annusare il gelsomino); sentire (dolore, piacere, gioia, fame, postura del corpo e movimenti); e in alcuni animali anche avere esperienze di realtà virtuali (rivivere il passato, sperimentando ricompense o punizioni anticipate). Gli esseri senzienti si preoccupano della loro esistenza e si impegnano in comportamenti atti a raggiungere i loro obiettivi di sopravvivenza.

D’accordo, però un animale potrebbe avere un abbozzo di coscienza senza con ciò avere anche un vero e proprio senso del sé.

Un animale, anche relativamente semplice come una mosca, percepisce il mondo in continua trasformazione e lo valuta: deve esserci qualcosa come un “centro dell’io” da cui discernere gli aspetti del mondo. Un animale deve anche distinguere tra gli effetti che il mondo ha su di lui che sono indipendenti dalle sue azioni e quelli che invece dipendono dalla sua azione.

Voi fate coincidere l’emergere della coscienza con la comparsa, nell’evoluzione, di una particolare forma di apprendimento associativo aperto e illimitato: che cosa significa?

Si tratta di un marcatore evolutivo, come quando diciamo che il requisito per una forma di vita minimale è la presenza di un sistema ereditario illimitato, ovvero di un lungo polimero che si replica. Il marcatore della coscienza minima richiede che tutte le proprietà che la maggior parte degli scienziati e dei filosofi attribuisce alla coscienza siano presenti.

Dunque, quando nasce la coscienza nell’evoluzione?

Pensiamo che la coscienza sia apparsa più di una volta: negli artropodi e nei vertebrati circa 540 milioni di anni fa durante il Cambriano; e nei polpi, calamari e seppie 250 milioni di anni dopo. Lo sappiamo grazie alle prove fossili e alle inferenze genealogiche che mostrano che le strutture cerebrali che permettono un apprendimento associativo illimitato e aperto erano presenti negli artropodi e nei vertebrati durante il Cambriano e nei cefalopodi tempo dopo.

Quindi le piante non sono coscienti. State sfidando la fiorente letteratura sull’intelligenza delle piante?

No, comportamento intelligente e coscienza non sono sinonimi. Tutte le creature viventi, inclusi i batteri, mostrano intelligenza: tutte possono apprendere, percepire, reagire in modo adattativo, comunicare, riparare i danni e così via. Noi condividiamo l’entusiasmo per l’intelligenza delle piante. Sono esseri viventi straordinari, ma non manifestano un apprendimento associativo aperto, e quindi allo stato attuale delle conoscenze non possiamo affermare che siano senzienti.

Altri animali hanno immaginazione, sogni, memoria, capacità di ingannare. L’unicità umana si assottiglia sempre più. Cosa c’è di speciale nella coscienza di Homo sapiens? E in quella di Neanderthal?

A fare una grande differenza sono i nostri sistemi simbolici, che includono la capacità linguistica. Il sistema simbolico non solo ha aggiunto molte capacità intellettuali a quelle ancestrali, ma ha anche alterato il nostro profilo emotivo e la memoria percettiva. Noi supponiamo che i Neanderthal fossero abbastanza simili ai Sapiens che vivevano all’epoca. Se trovassimo un bambino neanderthaliano e lo crescessimo nella nostra società, lo considereremmo umano. Quanto vorremmo avere una macchina del tempo e incontrarli, per saperne di più sulle somiglianze cognitive ed emotive e sulle sottili differenze tra noi e loro.

Domanda inevitabile al tempo di ChatGpt: un’intelligenza artificiale capace di apprendere diventerà mai cosciente?

ChatGpt e i programmi di intelligenza artificiale più avanzati sono consapevoli quanto il programma su cui gira il nostro cellulare. Sono programmi, addestrati su enormi quantità di dati, e i programmi non sono coscienti. Possono indurci a pensare che lo siano, quando i loro risultati sono simili ai nostri, ma non lo sono. Nessuno si illuda che gli algoritmi di traduzione dal cinese all’italiano, ad esempio, capiscano ciò che traducono. I programmi sono costruiti per eseguire operazioni in base ai loro algoritmi e ai dati di input forniti. Non hanno comprensione, nessun sentimento, nessun interesse personale e quindi nessuna coscienza. La coscienza poi richiede hardware e interazioni con il mondo.

Va bene, allora aggiungiamo un corpo: robotico. Sarà mai senziente e cosciente?

Non è impossibile in linea di principio, ma molto più difficile di quanto la maggior parte delle persone pensi, per tre ragioni. In primo luogo, la macchina deve essere in grado di apprendere in modo aperto sul mondo e sulle proprie azioni che cambiano il mondo, il quale a sua volta poi la cambia. In secondo luogo, l’implementazione di apprendimento aperto in un robot andrebbe realizzata con materiali “morbidi”, sensibili a un’ampia gamma di condizioni ambientali. In terzo luogo, potrebbe essere necessario che il robot abbia uno sviluppo morfologico e comportamentale, come tutti gli animali. Sebbene non possiamo essere sicuri che una tale macchina sarà cosciente, il principio di cautela richiederà che la trattiamo come tale: come se percepisse, valutasse e agisse dalla propria prospettiva per promuovere il proprio benessere privato.

Nelle ultime immagini del libro scrivete che occorre prepararsi a intelligenze coscienti cyborg immerse in realtà virtuali: dobbiamo preoccuparci?

Certo, sempre. Ogni salto tecnologico può essere utilizzato in modo improprio, portando a maggiori disuguaglianze, manipolazioni, sfruttamenti. In un mondo dominato dalle idee capitaliste, dove la crescita economica sembra essere il valore supremo, in un mondo in cui molti leader promuovono attivamente l’egoismo, il razzismo e il sessismo, è necessario preoccuparsi del modo in cui ci troveremo immersi in realtà virtuali che possono essere controllate da manipolatori.

Nel libro, i disegni e le metafore visive di Anna Zeligowski non hanno solo un valore estetico, ma contribuiscono all’interpretazione della parte scientifica.

Sì, pensiamo che abbiano un valore epistemico. L’arte ci permette di impegnarci nel “libero gioco dell’immaginazione”, come diceva Immanuel Kant. Permette l’esplorazione, la gioia giocosa, l’apertura di nuovi orizzonti di comprensione. Allo stesso tempo, i giudizi estetici sono condivisi dalla comunità, quindi consentono anche la comunicazione. L’arte di Anna apre la mente.

La coscienza come corrente di un fiume, farfalla, centro di un vortice. Che ruolo ha la metafora nella ricerca scientifica?

Non possiamo pensare senza metafore, e non possiamo creare nuovi significati senza di esse. La filosofa Evelyn Fox Keller ha sottolineato il ruolo essenziale delle metafore nello sviluppo dei concetti scientifici: «In quale altro modo cercare la comprensione del nuovo, del non ancora intelligibile, se non confrontandolo con ciò che è già familiare?». Certo, le metafore possono essere fuorvianti. Dicevano Arturo Rosenblueth e Norbert Wiener: «Il prezzo della metafora è l’eterna vigilanza».

Nella vostra teoria c’è una componente “gladiatoria” – la guerra della natura, la sofferenza, la paura – solitamente associata al maschile. Ha un rilievo il fatto che siate tre donne o non c’è connessione con la costruzione della vostra ipotesi sulla coscienza?

C’è un aspetto gladiatorio nell’evoluzione, ma la cooperazione è altrettanto importante. Abbiamo scritto sull’evoluzione della gioia, sull’aiuto che le madri hanno ottenuto dal resto del gruppo per crescere i loro piccoli, sulla comunicazione e la condivisione di informazioni. Avremmo dovuto sottolineare di più questo punto, ha ragione. Durante la stesura del libro abbiamo discusso degli stereotipi di genere. Anna è particolarmente sensibile a questi, ha un gran numero di immagini sulle donne, la loro forza e fragilità, i loro ruoli sociali, le loro lotte e solidarietà. Spesso ci siamo chieste come il fatto di essere donne avrebbe influito sulla lettura del nostro libro. Immagino che lo scopriremo!


(La Lettura – Il Corriere della Sera, 11 giugno 2023)

Domenica 11 giugno 2023, ore 10.30-13.00
Invito alla redazione aperta di Via Dogana Tre

Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano

Orientarsi con l’amore

La posizione storica delle donne di essere allo stesso tempo partecipi ed estranee al sistema simbolico dominante ha offerto e offre a chi ha a cuore la politica e il mondo in cui viviamo la possibilità di concepire nuovi orientamenti per il vivere comune. Sono orientamenti che non nascono a tavolino, bensì scaturiscono da pratiche sperimentate, da relazioni con altre e altri e con autrici di riferimento. Si pongono in rottura con gli assi del potere proponendo al suo posto un registro legato a Eros nella vita associata.


In questo incontro poniamo all’attenzione e alla riflessione due pratiche orientanti per il presente: l’amicizia politica e l’amore come forza politica.


Introducono la discussione Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.

Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.

È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.



Appuntamento: domenica 11 giugno 2023 ore 10.30 presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29,

Milano, tel. 02 70006265.

di Franca Fortunato


La scienziata di fama internazionale, attivista, scrittrice, ricercatrice, Vandana Shiva nella sua autobiografia, La vita è maestra. La mia storia di rivoluzione (Piemme), attraverso il racconto della sua straordinaria vita, ci porta dentro l’antica civiltà indiana della cultura della Madre Terra che sin da bambina ha conosciuto nel giardino della fattoria materna e nella foresta di cui il padre era guardiano. Una vita la sua radicata nell’amore e nella gratitudine verso sua madre, i cui «insegnamenti si sono insinuati» nella sua mente e nel suo cuore «come l’acqua nella terra» e l’hanno orientata lungo il sentiero della sua vita. «Il rispetto che ho sviluppato per la vita, coincide con il rispetto per Madre Natura». «Io mi sento parte della civiltà indiana in cui la Terra intera è intesa e vissuta come una famiglia», «tutte le culture indigene sono basate sulla relazione e sul sentirsi parte della Terra». «Se mi volgo alla bambina che ero provo tenerezza, come se osservassi i primi passi inconsapevoli di un piccolo essere umano che già si muoveva nel sentiero della Grande Madre. Un sentiero che mi avrebbe portato» come racconta passo dopo passo, «a diventare un’attivista e custode dei semi: il principio stesso della vita». Un sentiero lungo quarant’anni, anni di studio, di ricerca, di lotte, di pensieri, di idee che hanno camminato nel mondo insieme a lei, dandole un’autorità riconosciuta. Lungo quel sentiero ha incontrato le straordinarie donne del movimento Chipko, nato per difendere dalla distruzione le foreste che «sono nostra madre e ci danno l’acqua, la terra e l’aria pulita». A loro deve la decisione di dedicare la sua vita allo studio e «di metterlo al servizio della comunità e della Madre Terra», avviando il suo centro di ricerca “partecipativa” nelle stalle della fattoria della madre, come lei le aveva proposto in vita. Conoscenza, ricerca, e azione non sono mai state separate nella sua vita. Per difendere i piccoli agricoltori dall’ avidità senza limiti delle multinazionali dell’industria agricola dell’ingegneria genetica (OGM), che hanno brevettato e privatizzato un bene comune come i semi, ha fondato la “Banca dei semi” con sede a Firenze, gestita dalle comunità agricole, dove arrivano semi da tutto il mondo. Una banca dove depositare, conservare, custodire migliaia di semi, da scambiare ad ogni stagione di semina e salvare così la biodiversità, fondamento di vita per la terra e ogni essere vivente. Da una vita combatte contro le multinazionali del “cartello dei veleni”, Bayer, Monsanto e Microsoft, responsabili per il 40% dell’emissione di gas serra e del 70% della distruzione del suolo, dell’acqua e della biodiversità – altro che buttare vernice lavabile sui muri o nelle fontane! –. Per formare coscienze al rispetto della natura ha fondato l’“Università della Terra”, rivolta alle nuove generazioni a cui dedica la sua autobiografia. «Attraverso il racconto della mia esperienza spero che molte menti giovani possano approcciare la vita in modo diverso e più consapevole e possano, mescolando i miei pensieri ai loro, dare forma a un futuro migliore. A un futuro che non è garantito che ci sarà per questo pianeta. Un futuro, un tempo in cui l’essere umano non voglia più piegare la natura ai suoi favori, ma umilmente e fraternamente si disponga ad ascoltarne le voci sagge e intime e ad apprendere le regole del fluire insieme, della condivisione e dell’interdipendenza. Per una crescita armonica di tutti gli esseri viventi». Un’autobiografia scritta per «dire che ci sono tante battaglie da affrontare che devono e possono essere vinte. Per il nostro futuro, quello dei nostri figli, quello del pianeta e di tutte le forme di vita che lo abitano». Grazie Vandana Shiva.


(Il Quotidiano del Sud, 10 giugno 2023)

Fabia Del Giudice, Smart smog. Evidenze scientifiche sui rischi della telefonia mobile e dell’internet delle cose. Edizioni Sì, 2021. L’esposizione ai campi elettromagnetici artificiali è aumentata in modo vertiginoso. Va tutto bene? Parliamo di effetti biologico-sanitari, di disturbi psichici da dipendenza e di una patologia ambientale detta elettrosensibilità. Ne discutono Laura Masiero, architetta presidente di  A.P.P.L.E. (Associazione per la Prevenzione e Lotta all’Elettrosmog), e Antonella Nappi del gruppo di donne Difendiamo la salute.

di Stefania Tarantino


Ritrovarci per capire insieme come aprire una strada che ci consenta di uscire dall’aporia in cui la storia ci imprigiona e ci soffoca. Ritrovarci per non perdere la bussola in questo grande e pesante disorientamento. Questa storia continua a essere forgiata malamente da uomini e donne di potere che, a livello nazionale e internazionale, minacciano, con le loro scelte, fino a metterle in pratica, catastrofi e guerre. Continuamente minacciate e minacciati da riferimenti al nucleare, questa storia ci fa vivere dentro una impasse totale: come uscirne? Cosa possiamo fare? Come i nostri pensieri possono trovare una traduzione politica capace di dire ciò che non va bene e che ci fa orrore fino a produrre effetti sulla realtà che ci circonda? Come dare voce alle nostre priorità che fanno tutt’uno con il nostro amore per il mondo? Abbiamo bisogno di tessere insieme strategie, prese di parole e posizionamenti netti. In un momento che avrebbe dovuto essere di transizione, ci ritroviamo nel “vecchio”, nella conservazione di uno status quo che assume nuove maschere di facciata. Abbiamo bisogno di disegnare qualcosa d’altro che fuoriesca da questo ordine sempre più mortifero e violento e che continua a muoversi nel circolo vizioso dell’amico/nemico. Il femminismo ci ha insegnato tante cose e seppur queste cose stentino a volte ad arrivare all’orecchio dei più (penso al mercato che fa del femminismo un brand tra gli altri), ci sono alcuni uomini che invece hanno capito l’enorme posta in gioco del femminismo e che non lo riducono ma, anzi, lo fanno agire nelle loro pratiche attraverso gli elementi portanti della relazionalità, della cura e del partire da sé. Con questi uomini continuiamo a confrontarci per capire come tracciare nuovi orizzonti di fronte alle tante istanze che questo nostro tempo ci mette davanti. Abbiamo imparato che c’è sempre una terza via e che si tratta di imparare a pensare diversamente e a concepire un’altra idea di libertà, non di mercato, non individualista. Il filo che ci unisce rappresenta la stoffa di un sentimento comune che è da sempre la sorgente che alimenta la nostra politica che non conosce indifferenza nei riguardi di alcuna forma di vita. Il momento attuale è complesso e pericoloso e ci investe su più fronti. La degradazione è la parola chiave e deriva dalla violenza continua cui siamo sottoposte, fisicamente e spiritualmente. Degradazione della natura, della nostra anima, degradazione dei corpi, dei discorsi e delle relazioni. Penso che trovare un posizionamento politico che parta dalla nostra fiducia in ciò che abbiamo fatto, in ciò che facciamo e in ciò che faremo, sia la nostra unica possibilità per raccogliere i frutti maturi del nostro amore per il reale e per tentare di illuminare le tenebre che oscurano la vita di tutti i giorni. Insieme, donne e uomini senza potere ma con un enorme amore della vita e custodi del senso della realtà, procediamo per aprire nuovi cammini che possano dare voce a un modo differente di “stare” al mondo e di relazionarci a ciò che è nella coerenza e nel desiderio di ciò che vorremmo che fosse.


(www.libreriadelledonne.it, 7 giugno 2023)

di Stefania Tarantino


«Trame di nascita», un volume di Rosella Prezzo edito da Moretti & Vitali. Tra miti, filosofie, immagini e racconti, un libro che indaga la «perdita d’aura» della maternità. Atena, Orione, Dioniso, Adone Afrodite e altri: figure mitiche «senza madre». Filosofe come Hannah Arendt e María Zambrano hanno ripensato la scena dell’origine


Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti (Moretti & Vitali, pp. 128, euro 14) è il titolo dell’ultimo libro di Rosella Prezzo che indaga, in una ricostruzione storico-filosofica, la perdita d’aura della nascita e della maternità. Diviso in quattro sezioni narrative è un libro importante e necessario per riflettere sullo statuto della nascita e della maternità nell’ordine simbolico che permea la nostra società, in un momento di grande confusione e opposte visioni di fronte ai nuovi scenari aperti dalla riproduzione umana. Nell’avvincente ricostruzione dell’autrice, si parte dalla scena originaria, dall’incontro «mancato» di Adamo ed Eva. Mancato perché il loro incontro non darà luogo ad alcuna relazione ma, al contrario, a un solipsismo mentale che relegherà Eva nell’insignificanza, in una secondarietà senza alcuna possibilità di riscatto. Eppure, in questo racconto dell’origine tutto ci fa capire che è solo con la presenza di Eva che Adamo può parlare.

Riflettendo sulle contraddizioni che attraversano i testi fondativi della nostra tradizione, Prezzo si sofferma anche sulla figura ebraica di Lilith che, a differenza di Eva, si ribella a Adamo e, proprio per questo, diverrà figura oscura e demoniaca. Nel suo non voler stare “sotto” all’uomo, Lilith sarà identificata alla perversione stessa, a una sanguisuga delle energie sessuali maschili. Ma il cuore di tutto l’impianto argomentativo è rappresentato dalla divisione tra mortali terrestri e immortali che fin dall’antichità segnerà l’immaginario simbolico della nostra venuta al mondo. La mancata accettazione della nostra mortalità è la cartina di tornasole del nostro modo di pensare la nascita. Se infatti qualcuno dovesse pensare che l’evento della nascita, completamente slegato dalla figura materna, sia qualcosa che fa parte solo della nostra contemporaneità, rimarrebbe deluso e stupito.

Da Atena a Dioniso, da Esculapio a Orione, da Adone ad Afrodite, il sogno maschile di creazione e di gestazione, appare in tutta la sua portata. Tutte queste figure mitiche nascono, letteralmente, “senza madre”. L’onnipotenza maschile sarà rafforzata da quel passaggio dal mito al logos che farà della filosofia il sapere e la conoscenza di tutte quelle essenze che stanno in alto e che sanciscono il primato della contemplazione, del sapere metafisico che nulla ha a che fare con le donne e, soprattutto, con il loro corpo. In questo modo l’autrice mette in luce quanto ci sia di arcaico nella nostra contemporaneità e ci fa riflettere sugli esiti nefasti della “rimozione” voluta e costruita per liberarsi da quell’inciampo rappresentato dal corpo materno e della nascita stessa. Una rimozione talmente radicata nel nostro modo di pensare che ha lasciato nell’impensato e nell’insensato questa esperienza cui dobbiamo la nostra stessa vita. L’intreccio che oggi vede questo antico sogno legarsi a un mercato che si è strutturato sul principio liberale della scelta dando forma e sostanza identitaria alle soggettività individualiste, non ha consentito di rivolgersi a una visione altra della nascita e della maternità ma, anzi, ne ha segnato la sua apoteosi.

Per quanto la filosofia contemporanea si sia interrogata su tale questione, solo alcune filosofe del Novecento – come Hannah Arendt e María Zambrano, prese da esempio dall’autrice – hanno davvero ripensato, fino a riscattarla, la nascita riorientando il pensiero filosofico. Il loro è un passaggio obbligato per il taglio che hanno operato nella tradizione filosofica. A partire da un serrato confronto con Heidegger, in particolare con la sua «gettatezza» e il suo «essere per la morte», hanno ribaltato lo scenario rimettendo al giusto posto la nostra venuta al mondo intesa come inizio, come cominciamento (Arendt) e come miracolo, patimento della propria trascendenza (Zambrano), alla luce del pensiero. L’inappropriabilità della nascita, vissuta dalle donne come ciò che è più proprio e più intimo, ci restituisce alla nostra condizione di mortali, di ospiti, sempre vulnerabili e disattesi nell’attesa. Una condizione complessa segnata dalla possibilità di un’apertura originaria capace di fare spazio all’altro/a e che richiede un tipo di riconoscimento che nulla c’entra con il riconoscimento di hegeliana memoria perché fa riferimento a una dimensione poco sondata e vissuta dalla filosofia: un riconoscimento che passa attraverso l’amore e che già il filosofo Agostino aveva intravisto nel «voglio che tu sia» ripreso con più incisività da Arendt. Nonostante questo, è accaduto che tutto ciò che non è stato visto, oppure è stato visto a uso proprio o per essere svilito, oscurato, spesso incorporato, rischia la cancellazione definitiva con un utilizzo strumentale delle biotecnologie e della scissione tra procreazione e gestazione.

La riduzione del corpo materno a funzione riproduttiva, la riduzione della nascita a produzione laboratoriale, la costruzione di una vera e propria catena di montaggio così ben rappresentata dalle fiorenti cliniche che in molte parti del mondo promettono e assicurano a chiunque la genitorialità, aprono a scenari apocalittici e surreali come quelli cui abbiamo assistito durante la pandemia da Covid e all’inizio della guerra in Ucraina. L’ipocrisia che continua a caratterizzare questo modello economico di società e che si ostina a non voler risolvere i problemi alla radice ma solo a trovare escamotage e vie d’uscita fallimentari, ha messo molte donne di fronte all’alternativa della crioconservazione degli ovociti affinché quel conflitto tra desiderio di un/a figlio/a e carriera non fosse più da ostacolo. Così una donna può fare carriera fino a quanto vuole e poi decidere, semmai a settant’anni, di avere un figlio. Allo stato attuale, in ogni caso, su questi temi c’è un’enorme conflittualità nel movimento delle donne che si dividono tra emancipazione, parità, differenza, intersezionalità e via discorrendo.

Per uscire da queste contrapposizioni, l’autrice ci chiede di approfondire e di sforzarci di pensare a partire da noi stesse affidandoci alla nostra esperienza e facendo i conti con la nostra stessa nascita. In più, ci invita a non perdere di vista come la negazione visibile e invisibile del femminile così presente nell’immaginario culturale, abbia agito anche inconsciamente nelle nostre posizioni teoriche. Infatti, non è di oggi il fatto che sulla maternità e sulla nascita le donne, lungo il corso del tempo, hanno sempre assunto posizioni contrastanti cui si è cercato di trovare una mediazione. Alcune hanno cercato di risignificare questa esperienza sganciandola dalla condanna con cui il patriarcato ha imprigionato le donne nella natura, altre hanno cercato al contrario di svincolare la donna dalla maternità nella speranza di una esternalizzazione attraverso soluzioni tecnologiche. Tutte queste posizioni portano in sé necessariamente delle contraddizioni che l’autrice mette bene in luce sapendo che oggi va tutto risignificato nell’epoca della tecnica.

Si tratta allora di continuare a lavorare sul pensiero tenendo conto di queste enormi sfide che già sono nel nostro presente, sugli stili di vita, sui desideri, sul limite umano e post-umano per trovare una strada nuova che tenga conto dell’importanza di questo evento per la configurazione stessa della nostra umanità. Perché ne va della messa al mondo della nostra visione dell’umano. La chiusura sulle pagine di Adrienne Rich, Nato di donna, rappresenta un invito a ritornare a ripensare la maternità oltre le mistificazioni e le demistificazioni, oltre gli assetti ideologici e di mercato. Vedere la maternità per quella che è, nelle sue luci e nelle sue ombre, vederla nel suo essere un momento unitario di senso che coinvolge la fisicità, l’emotività, l’intelletto. Riconoscere che è attraverso di essa che ci riconosciamo come figli, figlie, di una stessa origine e che ogni venuta al mondo riguarda «un agire trasformativo e trasfigurante in cui si con-viene al mondo».


(Il manifesto, 7 giugno 2023)

Monique WittigIl corpo lesbico, a cura di Deborah Ardilli, VandA Edizioni, 2023. A cinquant’anni dalla pubblicazione, questo testo continua a parlarci e a produrre nuove interpretazioni. Wittig, con l’uso sperimentale del linguaggio, disgrega la costruzione simbolica patriarcale eteronormata del corpo femminile. Vogliamo riflettere sulla dimensione politica, letteraria e storica di questo testo. E su come la “passione attiva” di Wittig possa unire e ispirare posizioni apparentemente inconciliabili, creando spazi inediti. In dialogo Deborah Ardilli, traduttrice e studiosa dei movimenti femministi, e Giorgia Basch, art director e visual practitioner.

Per acquistare online Il corpo lesbico:
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di Antonella Mariani


«I deputati italiani hanno oggi una opportunità storica»: dichiarare fuorilegge la pratica della gestazione per altri (Gpa), «nuova forma di tratta», dovunque sia realizzata. «Attendiamo il loro voto con speranza e fiducia». Un potente sostegno alla proposta di legge che approderà in aula il 19 giugno e che rende la maternità surrogata reato universale, cioè anche se commesso all’estero (da cittadini italiani, s’intende) arriva dalle più importanti organizzazioni abolizioniste di tutto il mondo e da un drappello di femministe dai nomi altisonanti, dalla francese Agacinski all’americana Corea.

Pochi giorni fa oltre 500 intellettuali e politici italiani di area progressista hanno avviato una petizione contro la maternità surrogata, vista come lesiva della dignità delle donne e dei bambini, ma senza nominare espressamente la proposta di legge, sostenuta da tutto il centro destra. Ragioni politiche, evidentemente. Preoccupazioni di casacca che non toccano chi in questi anni ha imbastito una articolata rete per l’abolizione universale della maternità surrogata. In primis la Rete italiana per linviolabilità del corpo femminile che ha rilanciato la grande mobilitazione internazionale per l’utero in affitto reato universale, insieme a Radfem Italia e Finaargit (rete femminista internazionale contro ogni riproduzione artificiale, ideologia gender e transumanesimo).

La coalizione Ciams, che raggruppa 40 sigle in 14 Paesi, nel suo comunicato promette di «sostenere il lavoro dei parlamentari italiani», ricordando che la surrogata «genera un mercato in piena espansione, che utilizza come materia prima le donne e tratta il bambino come una cosa di cui si può commerciare» e infine ricorda i nomi («Iryna, Brooke, Premila… ») di sei madri surrogate morte durante la gestazione su commissione. L’attivista americana Jennifer Lahl, fondatrice della campagna internazionale Stop Surrogacy Now, afferma di «supportare la legge italiana»: se passerà, «sarà un passo positivo verso l’abolizione di questo commercio globale di bambini e darà un esempio per il mondo che le donne non si affittano e i bambini non si vendono». Il network femminista australiano Resistenza alla ingegneria riproduttiva e genetica (Finrrage) ricorda che «la surrogazione è una violazione dei diritti umani e uno sfruttamento della gestante, della donatrice di ovuli e del neonato che non ha mai chiesto di essere un bambino take-away. Essa viola la Convenzione dell’Onu sui diritti dei bambini e deve essere abolita a livello internazionale». Yoshie Yanagihara, a capo della Coalizione giapponese contro le pratiche di surrogazione, ricorda che le donne asiatiche sono le più vulnerabili e richieste dalle coppie ricche di tutto il mondo: la legge italiana, sostiene, potrà «contribuire allo stop di questa nuova forma di sfruttamento delle donne».

A questo forse inaspettato sostegno alla proposta di legge del centrodestra, a cui si oppone il centrosinistra pur con molti distinguo al suo interno, si aggiungono firme di peso del femminismo internazionale, dalla francese Sylviane Agacinski, alle americane Gena Corea e Phyllis Chesler. «Se approverà questa legge – scrive quest’ultima – l’Italia sarà in prima linea negli sforzi per abolire la surrogazione».

La Gpa è permessa in 20 Paesi del mondo su 212, in alcuni casi con limitazioni. Ad esempio in Gran Bretagna e in Canada è consentita solo quella cosiddetta “solidale”, anche se in realtà c’è uno scambio rilevante di denaro tra la coppia committente e la gestante. In una manciata di Stati americani è possibile affittare una madre, ma il conto è salato e quindi riservato solo a chi ha portafogli ragguardevoli: si arriva anche a superare i 100mila dollari. In altri Paesi, come la Georgia, la procedura è più economica. In ogni caso è evidente che esiste sempre una grande differenza di status sociale tra chi paga e chi riceve, con documentati casi di sfruttamento di donne disoccupate, poco istruite e in situazione economiche precarie.

Le diverse coalizioni che hanno espresso il loro sostegno alla proposta di legge italiana sull’utero in affitto come reato universale condividono queste preoccupazioni e vi aggiungono considerazioni etiche sulla predominanza della tecnica nella riproduzione umana. La strada verso l’abolizione universale è lunga e impervia, soprattutto perché gli interessi economici sono enormi. L’attivista inglese Gary Powell, omosessuale, suggerisce un paragone con la vendita di organi tra persone viventi, con l’“aggravante” che chi affitta l’utero non sceglie tra la vita e la morte. Powell considera che se la legge italiana fosse approvata, sarebbe un «rinforzo alle nostre campagne contro il turismo procreativo».


(Avvenire.it, martedì 6 giugno 2023)

di Alberto Leiss


Ho letto il libro di Andrea Graziosi Occidenti e modernità (Il Mulino, 2023) che si propone di “vedere” meglio “un mondo nuovo” dopo il trauma della pandemia e dentro quello della guerra. Il testo termina cercando di indicare propositi politici “ragionevoli” (nel perimetro di una cultura liberaldemocratica di cui mi pare non si colga a fondo la crisi, comune a tutto il “progressismo”) soprattutto per un ruolo dell’Europa che è in gravi difficoltà, e confessando che si tratterebbe anche di «trovare nuovi discorsi che chi scrive non riesce a vedere».

Mi ha colpito che un saggio molto concentrato sui grandi problemi posti ai paesi occidentali “avanzati”, come il nostro, dalle tendenze demografiche – meno figli, meno giovani, sempre più anziani bisognosi di sopravvivere e curarsi – nomini sì il fatto che ciò dipende da scelte che fanno soprattutto le donne. E si accorga che tra i movimenti politici alle nostre spalle (dalla Rivoluzione francese alle lotte di classe ispirate da Marx, ai nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi) tutti basati su “soggetti collettivi” più o meno mitizzati, sta anche la «rilevantissima eccezione delle donne, mobilitatesi seguendo un modello originale». Ma poi si cercherebbe invano qualche riferimento più approfondito a questo “modello”, al “nuovo discorso” che il femminismo ha prodotto, esercitando una critica radicale proprio di quelle idee di “soggetto” che hanno fondato la politica maschile sino a oggi.

Ci pensavo partecipando sabato e domenica alla Libreria delle donne di Milano al convegno organizzato dalle “Città vicine” e da “Identità e differenza” per «riflettere sulla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini nelle questioni più pressanti del nostro presente». Tema arduo, ma ancora più difficile discutendone sotto l’impressione degli orrendi femminicidi di Giulia

Tramontano, che aspettava un bambino, e della poliziotta Pierpaola Romano. E mentre la guerra in Ucraina diventa ogni giorno più sanguinosa e inquietante.

C’è un sacrosanto moto di rivolta e di insopportazione delle donne contro il ripetersi – seriale: maschi assassini perché non sopportano di essere lasciati o “intralciati” dalle loro compagne, amanti, mogli – della violenza. E quello che facciamo noi uomini è manifestamente ancora troppo poco, troppo inefficace, troppo invisibile quando c’è.

Questo contesto drammatico però ha reso più vero il confronto, partito dalla spinta positiva delle amiche che hanno voluto l’incontro, con l’obiettivo di ritrovare, reinventare una pratica politica comune. Che ha avuto momenti di scambio importanti in passato, ma che è diventata negli anni più recenti più discontinua e difficile. C’è stato – come ha detto Anna di Salvo – un «punto di arresto». Come uscirne?

La discussione ha oscillato tra sentimenti di “disperazione” per come sta andando il mondo e di “speranza” per le energie, soprattutto femminili, come in Iran, che non si rassegnano. Tra il senso di impotenza di fronte alla guerra, e il desiderio di una pace che dalla logica della guerra prescinda totalmente. Una dimensione, prima di tutto, del come viviamo le relazioni con altre, altri. Che può già ora essere significata dall’esperienza artistica?

Tornerò su questa discussione.

La risposta degli uomini presenti ha riguardato le iniziative pacifiste, contro le armi, a sostegno dei maschi che in Russia e in Ucraina rifiutano di combattere, e l’idea – ne ha parlato Marco Cazzaniga – di organizzare incontri pubblici ricorrenti in cui raccontare e approfondire la ricerca di una politica comune, capace di esercitare il conflitto senza negare l’altra, l’altro come nemico.


(il manifesto, 6 giugno 2023)

di Laura Marzi


Circa un mese fa una mia alunna armena, di fronte alla richiesta di scrivere un breve saggio su un argomento a scelta, ha deciso di affrontare il tema del genocidio del suo popolo. Beatrice, la chiameremo così, ha iniziato con un paragrafo storico introduttivo, ma poi ha subito deviato sul racconto della sua rabbia nei confronti degli Stati Uniti, della Nato e dell’Unione Europea, colpevoli secondo lei di gridare ora al massacro degli innocenti in Ucraina, mentre quando a morire erano gli armeni e le armene non hanno mosso un dito, se non per aggravare la situazione.

Il mio compito di docente è provare a insegnarle come comporre un testo oggettivo e inoppugnabile, per questo ho dovuto chiederle di riscrivere il suo saggio breve, rielaborando la sua rabbia in un discorso argomentato e chiaro. Le ho domandato comunque il permesso di condividere il suo sfogo con gli altri alunni e alunne, ma lei non ha voluto.

Desideravo che i suoi compagni danesi, polacchi, spagnoli, italiani venissero a conoscenza della tragedia in Armenia, ma anche che le parole di Beatrice potessero innescare un dibattito sulla politica internazionale degli Stati Uniti d’America. Li avrei ascoltati e avrei lasciato che fosse la sacrosanta rabbia di Beatrice a prendere il sopravvento invece che la mia, fiaccata da anni di discussioni eterne in cui ho cercato di far notare, per esempio, che gli USA da sempre trattano la penisola mediorientale come un pozzo da drenare, un campo di battaglia, dando per scontato che le popolazioni che la abitano non hanno la dignità neanche di sopravvivere.

Capisco però che Beatrice non abbia voluto sovraesporsi coi suoi compagni, ho deciso allora che per dibattere sull’importanza della letteratura condividerò con loro un articolo su Volere la luna tratto da un pezzo di Repubblica del 23 maggio, in cui viene riportata la ricerca di Pen America: un’associazione non a scopo di lucro fondata nel 1922 per la tutela della libertà di espressione, che denuncia negli States il ricorso sempre più invasivo alla censura, anzi, all’Indice.

L’indice dei libri proibiti era un elenco di testi vietati dalla Chiesa cattolica che risale al 1559. Nell’anno corrente 2023 in trentadue dei cinquanta stati americani vengono messi all’indice circa cinque, sei libri al giorno. Si tratta anche di classici della letteratura, come il capolavoro di Harper Lee, Peter Pan di J.M. Barrie, un’edizione a fumetti de Il diario di Anna Frank perché in una delle tavole ci sono disegni di statue di nudi, quasi tutti i romanzi della scrittrice premio Nobel Toni Morrison. Del resto il 40% dei libri censurati hanno protagoniste persone afroamericane. Il romanzo di Khaled Hosseini, invece, Il cacciatore di aquiloni, è bandito perché simpatizzerebbe per l’Islam: a quanto pare leggere la storia di persone musulmane con dignità è un reato, infatti i bibliotecari che non reagiscono immediatamente agli ordini di censura, rimuovendo dagli scaffali i libri incriminati, possono essere condannati a dieci anni di carcere in Oklahoma per esempio e a multe esorbitanti altrove.

Coloro, e siamo la maggior parte, che non conoscono a menadito la storia dell’Ucraina e dei suoi rapporti con la Russia e che parlano di questa guerra solo perché hanno comprensibilmente paura o perché è argomento di conversazione al bar, usano molto spesso come argomento a favore della politica statunitense (quindi della Nato, dell’Unione Europea, di questo paese) la motivazione che in Russia non c’è rispetto per la libertà. Innegabile, come lo è che mettere all’indice dei libri sia a sua volta un’azione liberticida.

La censura, questo invece lo sappiamo tutte e tutti, è un’espressione di paura, il tentativo estremo di cercare di fermare un cambiamento, di frenare l’evoluzione dei tempi, non a caso Paolo IV fece promulgare l’Indice dei libri in pieno Rinascimento. La libertà che attualmente gli Stati Uniti dicono di difendere è quella di esercitare ancora una volontà di dominio illimitata e se necessario spietata: la censura è la prova, però, che anche il gigante a stelle e strisce ha paura del buio oltre la siepe.


(Erbacce, 4 giugno 2023)

di Antonio Polito


Non è facile dirlo, ma la madre di Alessandro Impagnatiello, l’omicida di Giulia Tramontano e del bambino che portava in grembo, ha torto quando afferma che il figlio «è un mostro». Capisco il suo dolore per averlo scoperto capace di fare qualcosa di così aberrante, ma se fossero solo i «mostri» a uccidere le loro compagne, le loro mogli, le loro ex, allora non ci troveremmo di fronte a un enorme problema sociale e culturale, che nel nostro Paese ha assunto dimensioni di massa. Se la madre dell’assassino avesse ragione, dovremmo concludere che qui da noi entra in azione un «mostro» ogni due giorni, perché tanti sono i femminicidi in Italia (almeno quelli riusciti, dei tentativi falliti o non denunciati, delle botte e delle ferite inferte non c’è conto possibile).

Sono morte per mano di uomini circa 600 donne negli ultimi quattro anni, 150 delitti ogni anno.

E so che non è facile dire neanche questo, ma la Gip di Milano che ha messo in carcere Impagnatiello ha ragione, tecnicamente, quando esclude le aggravanti della premeditazione e della crudeltà; nel senso che l’assassino non ha avuto bisogno neanche di programmare il delitto perfetto, e neanche di agire in preda a un raptus, ma si è sbarazzato quasi con naturalezza della sua compagna, come a risolvere un problema della vita quotidiana, a liberarsi di un peso e a tornare a godersi la sua gioventù dorata. Quando dichiara di «aver agito senza un reale motivo ma perché stressato dalla situazione che si era venuta a creare», Alessandro Impagnatiello ci dà la cognizione esatta del male che si annida nelle relazioni tra gli uomini italiani e le donne, e della banalità di quel male; che certo non spinge tutti a uccidere, ma in tutti noi è un tratto costitutivo della nostra virilità, latente e sempre pericoloso. Come ha ben scritto ieri su questo giornale Gabriella Ferrari Bravo, Alessandro ha ucciso madre e nascituro per poter dire «ora sono libero…». Perché gli uomini italiani credono che questa «libertà» di disporre delle donne, di averle in pugno con l’alibi dell’amore, di metterle al servizio del proprio piacere o anche semplicemente della propria tranquillità, sia un diritto di nascita, conferito loro dalla genetica che li ha fatti maschi.

Mi dispiace, ma tutti i discorsi contriti che si fanno dopo ogni femminicidio (anche se ormai sono talmente la norma che solo casi di particolare efferatezza come quello che è costato la vita a Giulia Tramontano suscitano davvero lo sgomento dell’opinione pubblica), non servono a nulla se non mettono il dito su questa piaga culturale, tipica della nostra peculiare storia di popolo mediterraneo. E cioè sul senso di superiorità maschile che ci anima nella relazione con l’altro sesso, non solo nella vita di coppia ma anche nella vita sociale. Ci crediamo in diritto di avere di più, rispetto a una donna. E l’ondata di violenza che ci sta travolgendo è frutto proprio di questa convinzione, ogni volta che essa viene a contatto, e a contrasto, con il mutato comportamento delle donne dei nostri tempi. Le quali non sono più disposte ad accettare come le loro mamme e nonne di restare a fianco dei compagni anche se maltrattate, picchiate, tradite, ignorate, confinate nella cura dei figli. E non appena lo dicono, gli uomini avvertono la loro «ribellione» come una lesione della propria libertà, e trovano ingiusto non poter più fare tutto ciò che a un uomo pensano debba essere concesso di fare. Si stressano, insomma. Ci stressiamo. Tutti. Anche quelli di noi che non reagiscono con la violenza.

È per questo che non si tratta di una «devianza» di pochi, ma di un fenomeno culturale, diffuso e di massa. Non è roba da mostri, ma da normalissimi uomini italiani. Baristi come Impagnatiello ma anche professori, operai e intellettuali, laureati e analfabeti. Le donne italiane sono cambiate. Gli uomini no. Questo è il problema. A questo dobbiamo porre rimedio. E spetta a noi maschi. E sarà un lavoro lungo, e costerà altre vittime. Ma se non siamo onesti con noi stessi nel capire dove nasce il male, non potremo neanche cominciare a curarlo.


(Corriere della Sera – Inserto di Napoli, 4 giugno 2023)

Convegno delle Città Vicine insieme a Identità e Differenza. Per riflettere sulla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini nelle questioni più pressanti del nostro presente: la pace, la guerra, la crisi ambientale, il conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, la convivenza nelle città. Anche a partire dal numero speciale della rivista “Autogestione e Politica prima” della MAG di Verona dedicato al convegno delle Città Vicine “Chi ha paura della libertà delle donne?” e dal numero doppio “Mi prenderò cura di te e di me”.

di Alessandra Pigliaru


Lo sapevamo tutte, che era stata ammazzata. È ciò che da ieri in moltissime hanno scritto, inondando i social con un hashtag, quando è stato ritrovato il corpo di Giulia Tramontano, ventinove anni, uccisa dal suo compagno. Dopo averla accoltellata e aver tentato di dare fuoco al cadavere per due volte, non riuscendoci. Il compagno ne ha poi inscenato l’allontanamento volontario in seguito a una discussione. Lo sapevamo tutte, che dopo quel confronto in cui, incinta di sette mesi, Giulia Tramontano era tornata nella loro casa di Senago (nel milanese) per chiedere conto della relazione parallela di lui appena scoperta, non era riuscita ad andare da nessuna parte. Perché a un livello profondo è questo un sapere che è anzitutto un sentire, una vicinanza intima e materiale alle nostre simili, ovunque si trovino.

Che Alessandro Impagnatiello, ora in carcere, abbia confessato il femminicidio e indicato il luogo in cui aveva inteso sbarazzarsi della sua fidanzata, e di suo figlio, è ulteriore corollario all’epilogo intuibile. Non lo ha potuto fare invece Massimiliano Carpineti, che ieri mattina ha ucciso Pierpaola Romano, perché dopo averle sparato nell’androne di casa a Torraccia (nord est di Roma) si è ucciso. Dividevano lo stesso ufficio, erano entrambi in polizia. Che cosa accomuna questi due femminicidi è intanto che a commetterli sono stati degli uomini. Sono tuttavia le cronache non di «morti annunciate» ma le storie che rendono situati e incarnati i dati della violenza maschile contro le donne e che contano a oggi in Italia (dall’inizio del 2023) 47 donne uccise, di cui 38 in ambito familiare-affettivo. E se il «movente» per l’uccisione di Pierpaola Romano verrà confermato, sono 39.

È un numero consistente, impariamo almeno a usare le parole giuste, quando ne scriviamo – a qualsiasi titolo – e ne parliamo – in ogni occasione utile – tenendo stretti gli orli di ciò su cui non si deve arretrare nemmeno di un millimetro: non c’è «passionalità» nella volontà deliberata di uccidere una donna. Non c’è una sorta di corresponsabilità in una dinamica precisa in cui a morire è una donna in quanto tale e per aver manifestato il desiderio di andarsene o di agire la propria libertà, anche dicendo di no, preferirei di no.

È inaccettabile proseguire con questa solfa secondo cui ci saranno state delle avvisaglie precedenti e dunque sono le ragazze, le donne che andrebbero educate «a mettersi in salvo». Nessuna vuole né augura a se stessa di essere uccisa mentre è vero che, nonostante una rivalutazione delle pene (la ministra Roccella ha annunciato ieri che in Cdm ci sarà presto un pacchetto di norme anti violenza), nonostante le giornate internazionali in cui si fa il punto, la violenza maschile contro le donne non perde la sua fisionomia di fenomeno sistemico e strutturale. Con radici antiche che illuminano la vera questione: quella maschile, di una voracità proprietaria così prevaricante da risultare impraticabile per chiunque altro tranne che per gli stessi uomini. Anche se dire che li riguarda ormai non è sufficiente, non basta più.

Nel frattempo, mentre i centri antiviolenza sono in perenne affanno, si amplifica la retorica pubblica sulla «vita» e sulla famiglia come società «naturale» e inscalfibile. La realtà però dice il contrario, e lo dice sui corpi delle donne. Bisogna chiamarli femminicidi, lo sappiamo tutte, siamo nella posizione di poterlo dire anche al presente che lo sappiamo. Da sempre.


(Il manifesto, 3 giugno 2023)

di Elena Basile*


Viviamo un momento delicato della storia occidentale. La guerra è ritornata sul suolo europeo. L’Unione Europea, avendo deciso di partecipare attivamente con l’invio di armi a favore del Paese aggredito, ha dovuto rinnegare le finalità costituzionali che la caratterizzano: la ricerca della pace e della prosperità. È doveroso per ogni cittadino intervenire se può nel dibattito pubblico ed evitare l’autocensura che rischia di cancellare il ruolo di freno svolto storicamente dall’opinione pubblica di fronte agli eccessi della classe dirigente europea. Il diplomatico ha l’obbligo di mettere il mestiere, l’esperienza e la competenza a disposizione del dibattito pubblico. La riservatezza è richiesta ed è d’obbligo per chi gestisce un dossier delicato a contatto con l’autorità politica e con accesso alle fonti riservate. Diviene tuttavia ridicola e insopportabile se viene estesa agli altri funzionari che hanno, come tutti i cittadini, il diritto costituzionalmente garantito di libertà d’espressione.

Questa premessa si rende necessaria perché purtroppo molte volte si è fatta una brutta confusione tra i doveri e i diritti di una professione composta da “commis de l’état” che hanno giurato fede alla costituzione e allo Stato, ma non al potere politico. La guerra in Ucraina ha portato la nostra epoca a somigliare per molti aspetti al periodo che ha preceduto la prima guerra mondiale. Allora come oggi, in società affluenti e libere, la potenza degli Stati e la loro arroganza hanno svolto e svolgono un ruolo nefasto. Nel primo dopoguerra fecero precipitare l’umanità in un abisso di dolore e di distruzione. Allora come oggi il nazionalismo e il riarmo furono e sono considerati valori e obiettivi da perseguire. La retorica bellicista imperversava e imperversa.

Stefan Zweig scrive nell’estate del 1914: «Alla guerra pensavamo di tanto in tanto così come sovente si pensa alla morte, qualcosa di possibile ma ancora lontano». Gli appelli alla pace di tanti intellettuali, cattolici, liberali e socialisti non furono ascoltati. Oggi potremmo, come i “Sonnambuli” descritti dal magnifico libro di Cristopher Clark, incamminarci verso lo stesso vicolo cieco dal quale è più difficile fare ritorno, soprattutto se si tiene conto che nell’epoca contemporanea esiste l’opzione nucleare, sconosciuta nel 1914. Il mantra ripetuto dalle classi al potere in Europa (purtroppo assecondato da tanti analisti sulla stampa occidentale) è costituito dalla ricerca della “pace giusta”, in altre parole dalla sconfitta della Russia. La mediazione è considerata impossibile in quanto entrambe le parti credono ancora di potere avere la meglio l’una sull’altra e non sono disposte a concessioni. Gli obiettivi massimali sono per l’Ucraina la riconquista di tutti i territori occupati dai russi, inclusa la Crimea; per la Russia sembrerebbe essenziale l’avanzata militare fino a Odessa, in modo da ricongiungere le regioni ucraine occupate alla Transnistria.

In considerazione del massacro di giovani che in Ucraina forse più che in Russia (100.000 da fonti Usa, 250.000 da fonti turche non contraddette dal Mossad) è stato realizzato in maniera funzionale ai menzionati obiettivi, essi più difficilmente potranno essere sconfessati da Kiev come da Mosca. La mediazione tra interessi geo-politici contrapposti, per la quale avremmo voluto l’Europa si attivasse, sarebbe stata facile prima della guerra e forse anche a pochi mesi dall’invasione. La Storia stabilirà a chi va attribuita la responsabilità di aver arrestato gli sforzi della diplomazia.

Anche oggi tuttavia è necessario adoperarsi per giungere rapidamente al negoziato al fine di evitare il massacro dei giovani ucraini e russi, nonché il rischio di un’escalation che potrebbe portare a un conflitto allargato. L’utilizzo del nucleare tattico diverrebbe un’ipotesi plausibile in questo contesto.

Paesi come la Cina, la Turchia, Israele, il Brasile sono stati attenti a incentivare il dialogo tra le parti e alcuni accordi sono stati raggiunti. Il Pontefice è nel campo una voce isolata e autorevole nella quale i cattolici, i cristiani (e non solo) del mondo intero hanno fede. La mediazione del Vaticano infonde fiducia in questi mesi bui.

Per poter pervenire al cessate il fuoco e a contatti diplomatici strutturati tra le parti c’è bisogno di una chiara volontà politica. L’Ucraina, opportunamente condotta alla ragione dagli americani, e la Russia, su cui Cina, Turchia e Brasile possono avere una benefica influenza, hanno ancora molto da guadagnare dalla fine della guerra.

L’Ucraina potrà contare sulla pace e potrà mettere fine alla distruzione del Paese, al massacro delle sue giovani generazioni. Lo sviluppo economico e civile sarà assicurato dal suo avvicinamento all’Europa e dalla neutralità. La Russia potrebbe ottenere invece la neutralità del vicino e non avrebbe le basi militari della Nato ai suoi confini. In avvenire, in una conferenza sulla Sicurezza europea, la stabilità della regione sarebbe da perseguire con il ritiro delle truppe russe, a cui corrisponderebbe la graduale diminuzione delle sanzioni.

Il nodo è rappresentato dai territori contesi. La regolazione del loro statuto, autonomia oppure, dopo referendum gestiti da autorità internazionali, eventuale annessione alla Russia, sarà deciso alla fine di una mediazione complessa che potrà durare anni. Ovviamente il regime dei territori contesi è un obiettivo del negoziato, non una pre-condizione.

L’unica pre-condizione potrà essere la cessazione delle ostilità. La rinuncia a ulteriori conquiste da parte di Mosca e di contro-offensive da parte di Kiev potrebbe innescare un processo di mediazione.

Il ruolo della vecchia Europa (la nuova Europa con Polonia, Scandinavi e Baltici in testa, in accordo con il Regno Unito, porta avanti una strategia bellicista che ha radici profonde nell’humus culturale e politico di questi Paesi) sarebbe essenziale. In linea con le posizioni osservate in passato, i Paesi fondatori della Ue e quelli mediterranei potrebbero adoperarsi per favorire, in un confronto franco e leale con gli alleati americani, la linea più flessibile, di dialogo e di pace, consona agli interessi geo-politici, economici e culturali europei.


(Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2023)


(*) Ambasciatrice dItalia a Stoccolma e a Bruxelles dal 2013 al 2021, scrittrice di libri di narrativa e commentatrice dellattualità internazionale, collaborava con Il Fatto quotidiano finora con lo pseudonimo di Ipazia.

di Najat El Hachmi


A già un bel po’ di giorni dalle elezioni, né esperti politologi né brillanti analisti hanno ancora parlato del fattore femminismo. Sarà che la lotta per l’uguaglianza non è politica e che la frattura che sta allargandosi negli ultimi anni tra formazioni di sinistra e movimento fa parte di un sottomondo che niente ha a che vedere con il governo della polis. I partiti progressisti hanno fatto orecchie da mercante al disagio delle donne in Spagna in quello che è in tutta evidenza il momento di maggior presa di coscienza della sua storia. In questo paese siamo più femministe che mai, la lotta contro la misoginia ha una portata tale che persino la destra dissimula le sue tradizionali resistenze al pensiero dell’uguaglianza. Argomenti come la vendetta trasversale maschile sui figli per colpire la madre o come l’utero in affitto sono arrivati fino ai programmi della TV spazzatura e fanno parte dei discorsi quotidiani in tutte le case. A questa trasformazione culturale, però, corrisponde un’assenza di rappresentanza politica che è motivo di rabbia e sconforto.

Io vorrei che la sinistra facesse autocritica invece di insultare il suo elettorato, che riflettesse per capire se noi donne potremmo aver avuto qualcosa a che fare con la sua catastrofe elettorale. Davvero credevano di non pagare nessun prezzo a liquidare, insultare, diffamare e vessare una voce prestigiosa e riconosciuta per aver soffiato sulle candeline e partecipato al pigiama-party di un’influencer? A impiccare a un albero un fantoccio con le sembianze di Carmen Calvo*? A difendere il lenocinio travestendolo da lavoro sessuale, a parlare di “consenso” per bambine e bambini, ad affermare che il sesso non esiste e di non sapere che cos’è una donna? Se non sanno che cosa siamo, come faranno a difendere i nostri diritti? E come facciamo noi a fidarci di chi impone la procedura d’urgenza sull’approvazione della ley trans, la legge trans, limitando il dibattito in aula e vietando le audizioni di esperti? Come facciamo a rinnovare l’incarico a chi promuove mutilazioni su minorenni e minaccia di toglierti la potestà parentale se non accetti che i tuoi figli siano “nati in un corpo sbagliato”? Davvero il loro disprezzo di metà della cittadinanza ha potuto accecarli a tal punto da non rendersi conto che questi affronti continui a una parte consistente dell’elettorato di sinistra avrebbero avuto conseguenze nelle urne? Dopo averci chiamate cisgenderpersone che mestruanogestanti per altri e, proprio mentre la scia insanguinata di donne assassinate non si fermava neppure nel giorno delle elezioni, aver affermato che la categoria più oppressa al mondo è quella dei trans?


(*) Carmen Calvo, ex ministra ed ex vicepresidente socialista del governo Sanchez, non aveva votato in parlamento la Ley trans (che consente la scelta del “genere” sulla parola a sedici anni di età), rompendo la disciplina di partito. Si era anche battuta per emendare la proposta di legge di maggioranza “Solo sí es sí” sul consenso sessuale, per evitare che producesse abbassamento delle pene e scarcerazioni di autori di reati sessuali, pur sostenendo la legge nel suo complesso. A causa della sua opposizione alla Ley trans, è stata il bersaglio di insulti e intimidazioni, tra cui il 18 febbraio 2023 un manichino con le sue sembianze impiccato a un albero, con il cartello «Mi sono persa. Da che parte per il patriarcato?» [NdT].


(El País – 2 giugno 2023, traduzione di Silvia Baratella)


Versione originale:


El País, 2 de juño 2023


Sin feministas no hay izquierda

por Najat El Hachmi


Tantos días después de las elecciones y ni politólogos ni avispados analistas mencionan el factor feminismo. Será que la lucha por la igualdad no es política y que la brecha entre el movimiento y las formaciones de Izquierdas que se viene ensanchando en los últimos años forma parte de un inframundo que nada tiene que ver con el gobierno de la polis. Oídos sordos es lo que han hecho los partidos progresistas al malestar de las mujeres en España en lo que es a todas luces el momento de mayor toma de consciencia de su historia. En este país somos más feministas que nunca, la lucha contra la misoginia tiene tanto alcance que incluso la derecha disimula sus tradicionales resistencias a las propuestas del pensamiento igualitario. La violencia vicaria o el alquiler de vientres han penetrado en programas de telebasura y ya forman parte de las conversaciones cotidianas en todos los hogares. Este cambio cultural coincide, sin embargo, con una orfandad de representación política que es motivo de rabia y desconsuelo.

Yo quisiera que la izquierda hiciera autocrítica en vez de insultar a sus votantes, que reflexionara sobre si las mujeres podríamos haber tenido algo que ver en su descalabro electoral. ¿De verdad creían que les iba a salir gratis ningunear, insultar, difamar y vejar a voces de reconocido prestigio para dedicarse a soplar tartas y hacer fiestas de pijama con influencers? ¿Colgar de un árbol un monigote de Carmen Calvo? ¿Defender el proxenetismo disfrazado de trabajo sexual, hablar del consentimiento de niños y niñas, afirmar que el sexo no existe y no saber lo que es una mujer? Si no saben lo que somos, cómo van a defender nuestros derechos? ¿Y cómo vamos a confiar nosotras en quienes tramitan la ley trans de urgencia, poniendo todas las trabas para el debate público, vetando la comparecencia de expertos? ¿mo vamos a renovar en sus cargos a quienes promueven la mutilación de menores y amenazan con quitarte la patria potestad si no aceptas que tus hijos han nacido en un cuerpo equivocado? ¿De verdad que su desprecio a la mitad de los ciudadanos puede ofuscarles hasta el punto de no darse cuenta de que este maltrato continuado a lo que era una parte importante del voto de izquierdas iba a reflejarse en las urnas? ¿Después de convertirnos en cis, menstruantes, gestantes y afirmar que el trans es el colectivo más oprimido que existe mientras el sanguinario reguero de asesinadas no se detiene ni en la misma jornada electoral?

di Elisa Messina


«Quando si parla di prevenire la violenza sulle donne si commette spesso l’errore di pensare a come aiutarle a difendersi. Ribaltiamo il messaggio: facciamo capire agli uomini che non devono aggredire e insultare le donne, che devono rispettare la loro autonomia, la bellezza della loro diversità e accettare la possibilità che i legami vengano interrotti anche in modo unilaterale». Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano, esperto di violenza di genere, è netto nel definire la radice culturale dei femminicidi. Come quelli recenti di Giulia Tramontano a Milanoincinta di sette mesi e massacrata dal fidanzato, o della poliziotta Pierpaola Romano a Roma e di altre centinaia che, ogni anno, vengono uccise per mano del partner o dell’ex.

Il numero degli omicidi, in generale, cala in modo costante negli anni, quello dei femminicidi no. Il perché è nel mancato cambiamento culturale?

«Purtroppo sì, nel nostro contesto culturale è ancora incrostata l’idea che la donna sia qualcosa di mia proprietà di cui posso disfarmi. Lo squilibrio di potere nei rapporti tra i sessi è ancora forte. Un cambiamento c’è ma è lento, non c’è stata ancora una svolta. Perché i messaggi che arrivano dalla società sono contrastanti».

Per esempio?

«Partiamo dalla comunicazione dei media che non è sempre corretta quando si parla di femminicidi, anche nella scelta delle parole: si tende ancora a voler trovare una giustificazione, un’attenuante al gesto dell’uomo. E poi, manca ancora una vera condanna sociale della violenza: quella che si costruisce nella quotidianità. Per esempio, e parlo ai miei “colleghi di genere” maschi, reagendo alle battute sessiste o a tutte le situazioni in cui la donna è oggettivizzata».

La cultura maschilista non si è attenuata con il passaggio generazionale?

«I dati purtroppo ci dicono di no: la fascia di età di chi commette questi reati va dai 18 ai 35 anni. Quindi anche ai giovani viene trasmesso il messaggio del predominio maschile sulla donna».

Scendendo nel concreto, che consiglio possiamo dare oggi a una donna che oggi si trova a vivere una situazione di disagio?

«Il primo è quello di rivolgersi a un centro antiviolenza dove figure competenti, avvocate e psicologhe, sono pronte ad ascoltare: focalizzare il problema, riconoscere la violenza è il primo passo. Non dimentichiamo che le donne che ne sono vittima spesso non la vedono, anzi la sminuiscono perché sono manipolate psicologicamente da un partner o un ex maltrattante. Addirittura se ne addossano la colpa, si sentono inadeguate su qualcosa e si attribuiscono la responsabilità delle violenze, fisiche o psicologiche che subiscono. La denuncia è, se necessaria, un passo successivo».

A proposito di denuncia: la risposta in termini giudiziari oggi è migliorata rispetto a qualche anno fa?

«Sì, grazie a leggi come il “Codice Rosso” che hanno semplificato le procedure e accorciato i tempi di reazione da parte della magistratura. E sappiamo quanto il fattore tempo sia cruciale per mettere in sicurezza una donna che subisce violenza. Infatti i dati ci dicono che sono in calo i femminicidi di donne che avevano sporto denuncia in precedenza. Attenzione, con questo non voglio spostare la responsabilità dei delitti sulle donne – che è e resta degli uomini – ma sottolineare che gli strumenti di contrasto sono diventati più efficaci».

Le donne che subiscono violenza in ambito familiare o di coppia spesso temono di non essere credute, in primis dalle forze dellordine…

«Nei centri antiviolenza tutte le donne possono trovare luoghi di ascolto non giudicanti. Oggi anche nelle forze dell’ordine le cattive pratiche sono diminuite ed esistono professionisti specializzati. A Milano abbiamo aumentato il numero dei magistrati che si occupano di violenza di genere proprio perché la Procura chiede sempre maggiori misure cautelari a protezione delle vittime».

Lultima relazione della commissione parlamentare sui femminicidi denunciava una mancata specializzazione da parte di magistratura e forze dellordine. È ancora così?

«Le cose stanno migliorando: secondo un rapporto del Consiglio superiore della magistratura, abbiamo magistrati specializzati sulla violenza nel 90% dei presidi giudiziari. Insomma, gli strumenti legislativi e la normativa internazionale – come la Convenzione di Istanbul – ci sono. Quello che manca, non mi stanco di ripeterlo, è il cambiamento culturale: dovremmo indignarci di più per queste tragedie e invece siamo come assuefatti».

Una caratteristica comune a molti femminicidi è che vengono commessi durante un incontro richiesto dalluomo: un “ultimo appuntamento” per parlare dopo la rottura da parte di lei.

«Ecco, questo è un altro consiglio importante: quando si rompe una relazione tossica è bene evitare di cedere alla richiesta di un ultimo incontro, in primis per evitare di subire nuove manipolazioni psicologiche e inoltre perché dietro un “ti chiedo scusa parliamo” può nascondersi un agguato».


(La 27esima Ora, 2 giugno 2023)

di Alessandra Pigliaru


Dopo il voto degli emendamenti in Commissione Giustizia della Camera alla proposta di legge che vuole dichiarare la gestazione per altri reato universale, il femminismo italiano continua a mantenere una fisionomia dissonante sul tema. Non da ieri, e neppure si tratta di occasionale interesse verso un argomento come quello della Gpa che ha acceso, anche in Italia, almeno dal 2015, un serrato confronto/scontro, dedicato e plurale con esiti inconciliabili. Concerne infatti i corpi, la sessualità, le relazioni, e ancora il mercato e i contesti materiali e di sfruttamento diversi; ciò per dire che nel femminismo (non solo italiano) l’intransigenza con cui si affronta il tema non è solo per il punto riproduttivo; in senso più generale si discute di vite, di storie. Convegni, incontri pubblici e libri si sono susseguiti anche nel nostro Paese, da quando si è avvertita l’urgenza di una riflessione che in altri Stati è incandescente già da decenni.

Tra i volumi disponibili se ne possono citare forse almeno due: Gestazione per altri. Pensieri che aiutano a trovare il proprio pensiero, a cura di Morena Piccoli con contributi di Annarosa Buttarelli, Federica De Cordova, Cristina Faccincani, Helena Janeczek, Luisa Muraro, Silvia Niccolai e altre, edito da Vanda nel 2017. Un altro è quello di Serena Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri, edito da Fandango sempre nel 2017. Per dare conto di ulteriori pareri divergenti, basterebbe indicare tre recentissimi documenti, due appelli e una lettera aperta, quest’ultima inviata alla segretaria del Pd Elly Schlein (favorevole alla Gpa). Diffusa il 12 aprile, nasce da donne «di varie età e con diverse storie politiche» che sono in relazione nella rete «Dichiariamo» (circa cento, tra cui attiviste della Libreria delle donne di Milano – sul sito della Libreria è disponibile il testo completo -, di Arcilesbica, dell’Udi e altri collettivi e soggettività da anni impegnate nel movimento delle donne in Italia) in cui si legge: «siamo femministe, quindi non ammettiamo un contratto che implica la rinuncia di una donna al controllo sul proprio corpo». E infine si rivolgono a Schlein: «non lasciare questo tema alla destra, che lo distorce per piegarlo a un progetto di riaffermazione della famiglia tradizionale istituzionalizzata e obbligatoria, e non lasciare che la sinistra diventi complice di nuove forme di sfruttamento dell’umano». Nonostante si chieda di esprimere una contrarietà «da sinistra», non si menziona l’abolizione universale, questa una delle ragioni per cui le RadFem come «Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile» non si sono unite alla iniziativa.

Una parte altrettanto consistente del femminismo, il 17 aprile, sceglie di partire proprio dal posizionamento della lettera aperta per diffondere un appello (firmato da circa duecento donne, a vario titolo attive anche qui da anni, per esempio Lea Melandri, Chiara Saraceno, Giorgia Serughetti e altre): «come femministe vogliamo invece continuare a discutere sulla gestazione per altri, ascoltando, riflettendo, promuovendo confronti liberi sulle domande che la complessità del tema pone a tutte noi. A partire per esempio da una discussione sulla maternità, sul corpo materno, sulle possibilità delle biotecnologie ma anche sui loro limiti, sugli effetti nell’immaginario e nel simbolico dell’identità femminile determinati dalla separazione tra gravidanza e maternità. Parliamone e ascoltiamoci quindi, femministe di ieri e femministe di oggi». Arriviamo a due giorni fa, quando è comparso un appello-petizione sul sito di change.org promosso dalla «Rete NOGPA» – coordinata da Aurelio Mancuso – che l’ha diretta a Camera e Senato e a cui hanno aderito (fino a ieri) oltre 800 nomi per dire che: «Sono già attive a livello internazionale reti ed alleanze che chiedono la messa al bando della maternità surrogata, queste azioni devono essere sostenute dagli Stati, a partire da quelli che con chiarezza vietano la maternità surrogata». E se l’intenzione non parte da una riflessione esclusivamente tra donne, è in questa confluenza di intenti che tra i firmatari – tutti figurano i nomi di femministe come Alessandra Bocchetti, Adriana Cavarero, Olivia Guaraldo e altre. La discussione politica, etica e adesso giuridica, sulla Gpa resta aperta.


(Il manifesto, 1° giugno 2023)

di Luciana Piddiu


Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama “economia cannibale”.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche – non a caso si chiamano così – del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il “diritto” o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a “risorse biologiche” introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità.

Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è – dopo la riduzione in schiavitù – la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambini al fine di adeguare attraverso la chimica il corpo considerato “sbagliato” al senso di sé.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva.

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M. Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere “marcato” dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la “vulnerabilità” dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano, permette di comprendere come la pretesa “naturalità” dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è così approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica.

Nel suo Manifesto delle specie compagne e nel successivo Quando le specie si incontrano esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. «Liberi di… liberi da…», lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. «La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa» (D. Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. È la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo.

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti, essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al «vietato vietare», «l’immaginazione al potere»… come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto “diritto di procreare” a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Günther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza, ma ci ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.


(www.libreriadelledonne.it, 31 maggio 2023)

di Marco Iasevoli e Antonella Mariani 


Un documento condiviso tra intellettuali, amministratori locali, politici di area Pd e femministe per fermare un fenomeno globale. Tra le firme Aurelio Mancuso, Goffredo Bettini e Giorgio Gori


Un appello firmato per ora da oltre 500 intellettuali, sindaci e amministratori locali, ex parlamentari, sindacalisti e femministe per dire «no» alla maternità surrogata. La rete No Gpa (Gestazione per altri), attiva dal 2019, riesce a sfrondare le differenze politiche e a lanciare un appello forte all’Europarlamento e al Parlamento nazionale, alla vigilia di giorni che si annunciano caldi per l’esame della proposta di legge, targata Fdi, sul “reato universale” di utero in affitto.

Ma l’iniziativa ha presa soprattutto nel centrosinistra e nel Pd, all’indomani di una sconfitta alle amministrative che diversi osservatori hanno attribuito anche all’eccessiva insistenza della nuova segreteria Schlein sui “diritti individuali”. E non è un caso se diversi esponenti di primo piano della mozione Bonaccini, che ora siedono in Direzione nazionale, rilanciano l’iniziativa di No Gpa per rafforzare la richiesta ufficiale di una «discussione aperta» nel Pd. È il caso, ad esempio, di Stefano Lepri e dei cattodem.

Ma ciò che colpisce nel testo di No Gpa è che i firmatari sono quasi tutti di area progressista, andando quindi oltre il mondo cattolico: spiccano nomi di peso nel firmamento del Pd, come gli ex parlamentari Goffredo Bettini, Eugenio Comincini, Valeria Fedeli. C’è un gruppetto nutrito di sindaci (Gori di Bergamo, Micheli di Segrate, Cosciotti di Pioltello) e un pattuglione di femministe come Francesca Izzo e Cristina Comencini. Un paio di nomi “pesanti” sono, sempre in ambito femminista, quelli delle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo.

Dall’associazionismo e dal volontario arrivano adesioni importanti come quella di Elisa Manna (Caritas) e Gianni Bottalico (già presidente Acli).

L’appello, cui si può aderire su change.org e che è coordinato dall’ex segretario di Arcigay Aurelio Mancuso, proclama che «la maternità surrogata offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini». I firmatari chiedono ai parlamentari italiani ed europei di confermare il “divieto assoluto” previsto nella legge 40/2004 sulla procreazione assistita e di lavorare per arrivare al bando. «La Gpa è una pratica intollerabile e va contrastata in ogni ambito», si legge nel documento.

Due osservazioni. La prima è che al momento non risulta abbiano firmato parlamentari del Pd in carica, a parte Valeria Valente e Luana Zanella, che hanno annunciato la loro adesione. La sensazione, dicono fonti dem, è che si voglia evitare il frontale con Schlein per non metterla ulteriormente in difficoltà e arrivare a una “retromarcia” condivisa su questo tema. La seconda osservazione è che si suggeriscono strumenti internazionali ma non si menziona l’unica proposta di legge già approdata alla discussione parlamentare, quella che, a firma Fratelli d’Italia, chiede che l’utero in affitto diventi un reato universale, cioè punibile se commesso da un cittadino italiano anche all’estero. Probabile che questa vasta area di sinistra che si oppone alla Gpa voglia marcare la differenza con il centrodestra che persegue lo stesso obiettivo ma da punti di partenza e invocando strumenti giuridici diversi.

L’appello, infatti, chiede ai Parlamenti nazionali, e in particolare di quei Paesi come l’Italia che già vietano la maternità surrogata, di sostenere le reti giù attive a livello internazionale, quelle alleanze che «chiedono la messa al bando della maternità surrogata».

C’è una sottolineatura anche sui “diritti dei bambini” nati da utero in affitto all’estero: per loro è necessario «un quadro giuridico certo», come del resto hanno chiesto la Cassazione e la Corte di Costituzionale in diverse sentenze.

L’appello dei 500 arriva all’indomani della sconfitta elettorale del Pd di Elly Schlein e pone una spina nel fianco alla segretaria. Non nuovo, per la verità, perché sul tema della Gpa anche una parte dei suoi l’ha più volte sollecitata a prendere posizione, finché lei ha dovuto precisare di essere personalmente favorevole ma di non avere inserito questo tema nel programma perché «ci sono diverse sensibilità».


Qui di seguito il testo dell’appello


LA MATERNITÀ SURROGATA È UNA PRATICA CHE OFFENDE LA DIGNITÀ DELLE DONNE E I DIRITTI DEI BAMBINI


Come ha scritto la Corte Costituzionale nella sentenza n. 79 del 23 febbraio 2022, riprendendo le sentenze n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021, la surrogata «[…] offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale.» A questi principi chiediamo la politica si attenga nel confermare il divieto di maternità surrogata nel nostro paese e, come sottolinea sempre la Corte Costituzionale, arginando la pratica con uno: «sforzo che richiede impegni anche a livello internazionale». E non solo perché la maternità surrogata lede i diritti delle donne, ma perché mercifica e offende la dignità dei bambini e delle bambine. Condividiamo appieno questi richiami dell’Alta corte, che individua il centro della questione: la GPA è una pratica intollerabile, e va contrastata in tutti gli ambiti a cominciare dalle istituzioni europee e dall’ONU. Sono già attive a livello internazionale reti e alleanze che chiedono la messa al bando della maternità surrogata, queste azioni devono essere sostenute dagli Stati, a partire da quelli che con chiarezza vietano la maternità surrogata. È in Parlamento, dove si formano le leggi e si individuano i percorsi normativi, che oltre a confermare la contrarietà alla maternità surrogata e prevedere un maggior controllo sull’applicazione della norma, occorre spingere a livello UE e ONU per una messa al bando di tale pratica in sede internazionale. E al tempo stesso vanno risolte questioni che necessitano di un quadro giuridico certo nell’interesse preminente dei bambini, così come sollecitato da Cassazione e Corte Costituzionale.


(Avvenire.it, 30 maggio 2023)