di Reem Alsalem*


Ginevra, 22 maggio 2023 – Reem Alsalem, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, ha dichiarato oggi che le minacce e le intimidazioni contro le donne che esprimono le loro opinioni sul sesso e sull’orientamento sessuale sono profondamente preoccupanti. Nell’attuale situazione che vede disaccordi tra alcune attiviste per i diritti delle donne e attivisti transgender in un certo numero di paesi del Nord del mondo, Alsalem ha messo in guardia riguardo al la violenza contro le donne e l’intimidazione contro le persone che esprimono opinioni diverse.


Secondo la relatrice speciale ONU, «la discriminazione basata sul sesso e sull’orientamento sessuale è vietata dal diritto internazionale e regionale sui diritti umani. Sono preoccupata per la progressiva riduzione delle possibilità di riunirsi e/o esprimersi pacificamente chiedendo rispetto per i propri bisogni basati sul loro sesso e/o orientamento sessuale che sto verificando in diversi paesi del Nord del mondo per le donne, le organizzazioni femministe e i loro sostenitori.

Proteggere i raduni legittimi delle donne, il loro diritto di riunione, la loro libertà di parola e garantirne la sicurezza a fronte di intimidazioni, coercizioni o tentativi di metterle a tacere è un compito cruciale delle forze dell’ordine. Laddove le forze dell’ordine non sono riuscite a fornire le necessarie garanzie, abbiamo assistito a episodi di abusi verbali e fisici, molestie e intimidazioni tese a sabotare o a far saltare le loro iniziative, nonché a impedire di intervenire alle donne che volevano interloquire con i loro avversari.

Sono turbata dalle frequenti campagne diffamatorie contro le donne, le ragazze e i loro sostenitori a causa delle loro convinzioni contro le discriminazioni sessuali e di orientamento sessuale. Tacciarle di essere “naziste”, “genocide” o “estremiste” è una tattica di aggressione e intimidazione per impedir loro di parlare e di esprimere le proprie opinioni. Queste azioni sono profondamente inquietanti, perché hanno lo scopo sia di terrorizzarle e di costringerle al silenzio, sia di incitare all’odio e alla violenza contro di loro. Sono atti che compromettono gravemente una partecipazione dignitosa delle donne e delle ragazze alla vita pubblica.

Sono preoccupata anche per il modo in cui in alcuni paesi si interpretano le disposizioni che criminalizzano l’incitamento all’odio per una serie di motivi, tra cui l’espressione di genere o l’identità di genere. Le donne e le ragazze hanno il diritto di discutere qualsiasi argomento senza subire intimidazioni e minacce di violenza. Sono questioni importanti per loro, in particolare se si riferiscono alla loro identità innata, che è vietato discriminare. La facoltà di avere ed esprimere opinioni in ambito di diritti basati sul sesso e sull’identità di genere non dovrebbe essere delegittimata, banalizzata o respinta.

Secondo il diritto internazionale, ogni restrizione alla libertà d’espressione dovrebbe attenersi strettamente agli standard dei diritti umani in materia di legalità, necessità, proporzionalità e avere uno scopo legittimo. Anche coloro che non sono d’accordo riguardo ai punti di vista di donne e ragazze su identità di genere e sesso hanno diritto a esprimere la propria opinione. Tuttavia nell’esprimersi non devono minacciare la sicurezza e l’integrità di quelle che contestano e con cui sono in disaccordo. Restringere pesantemente la facoltà di critica di donne e uomini in ambito di diritti fondati sull’identità di genere e sul sesso viola i fondamenti della libertà di pensiero e di espressione ed equivale ad agire una censura ingiustificata o generalizzata.

Particolarmente preoccupanti sono le varie forme di ritorsione contro le donne, tra cui censura, persecuzioni legali, licenziamenti e ritorsioni economiche, rimozione dalle piattaforme social, cancellazioni da dibattiti e conferenze e rifiuto di pubblicare articoli di ricerca e le conclusioni degli stessi. In alcuni casi, le donne politiche vengono sanzionate dai loro partiti, anche con minacce o con la destituzione vera e propria».


(*) Reem Alsalem è la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, le sue cause e conseguenze. I relatori speciali fanno parte dell’organismo di esperti indipendenti del Consiglio dei diritti umani detto Procedure speciali, con mandato di indagare, monitorare e riferire su questioni relative ai diritti umani. Le esperte e gli esperti delle Procedure Speciali operano su base volontaria, non sono funzionari delle Nazioni Unite e non sono remunerati per il loro incarico, che svolgono a titolo individuale e indipendente da qualsiasi governo o organizzazione.


(ONU – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, 22 maggio 2023. Traduzione nostra – Documento originale: https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/05/allow-women-and-girls-speak-sex-gender-and-gender-identity-without)

di Clara Jourdan


Lettera inviata a La Stampa il 17 giugno 2023 e non pubblicata.


Ho letto con interesse l’articolo di Lucetta Scaraffia che tenta una breve ricostruzione storica del femminismo dal Novecento a oggi (Il femminismo non difende più le donne perché nega la specificità dei generi, La Stampa 25 maggio 2023) a partire dalla nota affermazione di Eric Hobsbawm «che l’unica rivoluzione vittoriosa del Novecento è stata quella delle donne». Fa piacere che la studiosa riconosca l’importanza storica del movimento delle donne, tuttavia trovo sbagliata l’idea che lei avanza sul femminismo «che ha preso il sopravvento nel secondo dopoguerra»: «ottenere la parità […] diventare come gli uomini».

L’autrice – come molti e molte non femministe – confonde il femminismo del movimento delle donne con l’interpretazione divulgata dai mass media e fatta propria dalle istituzioni (femminismo di stato), che lo intendono come un movimento per la parità, appunto, per un superamento dello svantaggio storico del sesso femminile commisurato al sesso maschile. In realtà non è stato e non è questo il femminismo per chi ha vissuto e vive in prima persona il movimento che si è diffuso dagli anni Sessanta in poi e ha portato alla trasformazione del mondo citata all’inizio. È stato proprio il disagio rispetto all’emancipazione, in cui una donna era libera “nonostante” fosse una donna, a spingere alcune a riunirsi tra donne a parlare, del disagio e del desiderio di essere libere “perché” si è donne. Con questa pratica, chiamata autocoscienza, è cambiato il rapporto di molte donne con sé stesse, con le altre e gli altri e con il mondo: si è scoperta l’esistenza della libertà femminile e la possibilità di un senso libero della differenza sessuale. Così si è originato quel movimento che si trova dappertutto, non solo in Occidente.

Il femminismo essendo un grande movimento comprende idee e posizioni diverse, anche in contrasto tra loro. È stato così fin all’inizio (per esempio sul rapporto con la legge), ma questo non va inteso come uno svilupparsi di correnti, o “movimenti” che esprimono un evolversi ideologico, come sembra pensare Lucetta Scaraffia, saldamente ancorata all’idea di parità come motore del femminismo contemporaneo: «Questo tentativo delle donne di diventare “un uomo come gli altri” – scrive – si è esteso successivamente alla cancellazione dell’identità sessuale. Nell’ultima fase femminista, infatti, si è cercato di rendere più evidente e sicura la parità proponendo una cancellazione dell’identità sessuale biologica». Certamente ci sono donne e femministe che sostengono tale posizione, anche in relazione con uomini attivisti, ma questo non va assolutizzato in “fasi” seguendo una impostazione teorica maschile: si tratta del continuo cercare e significare la realtà, che caratterizza il femminismo dalle sue origini e che porta a discussioni e conflitti anche aspri tra donne. Il moltiplicarsi di aggregazioni e differenze tra donne è un arricchimento e un allargamento del movimento. Una donna nel femminismo cerca la libertà, a partire da sé e in relazione.


(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2023)

di Eleonora Porcu*


La gravidanza crea un legame profondo e indissolubile, che viene spezzato con la consegna del bambino ai committenti. Le ragioni della scienza 


I sostenitori della gravidanza surrogata (o gestazione per altri) considerano questa procedura come una terapia per l’infertilità disponibile nell’armamentario della Procreazione medicalmente assistita. In realtà questa procedura non ha nulla di terapeutico e non può essere considerata un progresso scientifico bensì la cessione temporanea di un organo, l’utero. Infatti, per definizione, la gravidanza surrogata è una forma di riproduzione in cui una donna (definita madre surrogata, gestante d’appoggio, gestante per altri o portatrice gestazionale) provvede alla gestazione per conto di una o più persone committenti al quale/ai quali, dopo il parto, consegnerà il nato cedendo i diritti genitoriali attraverso un vero e proprio contratto tra le parti interessate che stabilisce anche la forma della prestazione in lucrativa (con compenso) o altruistica (con “ragionevole” rimborso spese). Di fatto, chi sostiene la legittimità o l’opportunità di questa prestazione riproduttiva dovrebbe sapere che l’utero non è meramente un contenitore-incubatore intercambiabile ma è il raffinato strumento di comunicazione tra due esseri umani che si parlano in modo singolare e irripetibile costruendo un legame indissolubile tra gestante e feto che contribuirà a costituire non solo il corpo ma anche la struttura psico-affettiva del nuovo individuo. In effetti il feto riceve dalla gestante non solo il nutrimento ma esiste tra loro uno scambio di ormoni, di varie molecole, di cellule che attraverso la placenta entrano nella circolazione sanguigna della madre col fenomeno del micro-chimerismo andando a risiedere stabilmente all’interno di un tessuto, entrando a far parte integrante degli organi della gestante. Inoltre, attraverso il processo del cosiddetto imprinting materno-fetale, il nascituro percepisce le emozioni della madre, naturale o surrogata, costruendo una memoria a livello biochimico, epigenetico e somatico e modellando le strutture fondanti della personalità nella struttura psico-neuroendocrina. In conclusione, è un dato di fatto che vi è un dialogo molecolare continuo tra l’embrione e la madre fin dai primissimi giorni di gestazione. La gestante surrogata inevitabilmente vivrà la gravidanza in modo diverso da una madre naturale, ripetendosi che il bambino che cresce dentro di lei non è suo, che non lo potrà tenere e, comprensibilmente ergerà barriere per non affezionarsi. Il senso di accoglienza limitata potrà essere recepito dal bambino. Dal punto di vista psicologico le maggiori criticità si sono verificate nella madre surrogata al momento del distacco dal bambino per la difficoltà di “consegnare” il figlio surrogato al/ai committenti. La madre surrogata è certamente la persona fragile che rende questa pratica discutibile. La maggior parte delle madri surrogate, oltre al compenso finanziario, chiede di avere una relazione calorosa con i genitori previsti come parte della famiglia. La grande maggioranza dei genitori genetici rifiuta e vuole cancellare questa parte della storia del loro bambino, e questa cancellazione può portare a un disagio molto profondo per la madre surrogata. Da non dimenticare che nelle gravidanze surrogate vengono segnalati nella letteratura scientifica maggiori incidenze di complicanze gravidiche come diabete gestazionale, ipertensione gestazionale, preeclampsia, distacco di placenta, parto pretermine, basso peso alla nascita, emorragie post-partum. Sono stati riportati anche casi di isterectomia post-partum. Abbiamo il diritto di esporre una persona a questi rischi per soddisfare il nostro desiderio di un figlio genetico o semigenetico? La crescente industria riproduttiva internazionale, non sempre al servizio dei pazienti, in caso di insuccesso delle tecniche tradizionali, propone con sconcertante disinvoltura il passaggio dal concepimento extracorporeo della classica provetta al successivo cambiamento di ovuli e spermatozoi con quelli di donatori, seguito, se la gravidanza ancora tarda ad arrivare, dalla proposta di cambiare l’utero. Questa deriva sta trasformando la Procreazione medicalmente assistita in Procreazione medicalmente sostituita. Ma sostituire l’utero significa sfruttare donne con vari gradi di indigenza e umiliare la loro dignità. Una società civile a misura d’uomo deve affrancare le donne dal commercio del loro apparato riproduttivo, che costituisce una moderna forma di schiavitù femminile, con i mercanti di riproduzione che comprano gli uteri delle donne indigenti riducendole a contenitori-incubatori magari da abbandonare, a “prodotto” finito e consegnato, come accadde alle madri surrogate nepalesi durante il catastrofico terremoto del 2015. Ma non è solo lo sconcio del mercimonio a rendere non cedibile l’utero: l’utero non può essere ceduto neppure a un parente come presunto gesto oblativo proprio per la relazione unica e irripetibile che si instaura tra il feto e la donna che possiede l’utero nel quale il feto risiede temporaneamente, relazione che rischia di minare i rapporti tra consanguinei suscitando la competizione sulla titolarità del ruolo materno. Sradicare il vissuto prenatale di questa relazione gestante-feto significa infliggere una ferita perpetua nel nuovo nato e in chi lo ha dato alla luce. Nessuna giurisprudenza al mondo può regolamentare, misurare, censire, valutare gli scambi biologici dinamici, le emozioni e le tracce cellulari permanenti che restano nei due corpi e nelle due menti alla fine di quella intensa relazione. La pulsione a realizzare una qualche forma di genitorialità può diventare un desiderio tormentoso e doloroso per una coppia che tuttavia non deve mai dimenticare i diritti del bambino tanto desiderato. E il primo diritto di un bambino è conoscere la propria origine e non essere usato come un genere di consumo ottenuto a ogni costo.


(*) Eleonora Porcu è medica chirurga specialista in ostetricia e ginecologia, professoressa dell’Università di Bologna, membro del Consiglio superiore di Sanità


(Avvenire, inserto È vita, 22 giugno 2023)

di Marina Terragni


Sulla questione della possibile incostituzionalità del disegno di legge in discussione alla Camera abbiamo interpellato la costituzionalista Silvia Niccolai, ordinaria di Diritto costituzionale all’Università di Cagliari che studia da tempo la questione della gestazione per altri.


Il cosiddetto reato universale di surrogazione di maternità potrebbe essere incostituzionale?

Vi sono al contrario buone ragioni per ritenere che si tratti di una soluzione del tutto compatibile col nostro ordinamento costituzionale, cosa che peraltro lascia impregiudicata la valutazione politica sull’opportunità di adottarla.

Quali ragioni?

Anzitutto l’ipotesi della punibilità in Italia per fatti commessi all’estero è prevista in generale dal Codice penale (art. 7) ed è già operante: ad esempio per reati di violenza sessuale e tratta di esseri umani. In questi casi in accordo con convenzioni internazionali, ma la presenza di una previa convenzione internazionale non è richiesta dall’art. 7.

Potrebbe valere anche per la gestazione per altri?

La GPA consiste nella programmata separazione di un bambino dalla madre di parto al momento della nascita e nell’esercizio da parte di adulti di un complesso di poteri nei confronti di una creatura inerme. Per il nostro ordinamento costituzionale, così come per la stragrande maggioranza dei Paesi al mondo e per gli orientamenti di molti organismi internazionali, si tratta di una pratica disumana. Discussioni accademiche sul diritto delle donne di autodeterminarsi e la comprensione verso chi desidera un figlio a ogni costo non devono celare che, nella realtà delle cose, la GPA è commercio di bambini e di status parentali. Data la gravità e la natura del fenomeno vi sono, almeno in linea di principio, i presupposti affinché la legge penale nazionale sia applicata a fatti commessi all’estero come già accade ad esempio per i reati di sfruttamento della prostituzione. In particolare la struttura transfrontaliera del fenomeno, che si realizza con il cosiddetto turismo procreativo, può far apparire ragionevole e proporzionata questa soluzione.

La legge potrebbe colpire retroattivamente anche chi ha già avuto dei figli da utero in affitto?

Evidentemente no. Ogni bambino già nato (anzi già solo concepito, forse già solo commissionato fino al giorno di entrata in vigore della nuova fattispecie) non vedrà i suoi committenti interessati dalle nuove previsioni. Anche successivamente all’eventuale entrata in vigore delle nuove norme la violazione del divieto non avrebbe di per sé ricadute sugli status familiari e/o sui modi di acquisirli: il genitore biologico resterebbe ovviamente tale e quello intenzionale resterebbe tenuto a intraprendere i passi necessari per assumere i propri impegni verso il bambino (oggi: adozione in casi particolari). È innegabile che, di fatto, la consapevolezza di andare incontro a una sanzione potrebbe scoraggiare il genitore intenzionale dal fare questi passi ma l’argomento, come si dice, “prova troppo”. Esso dimentica molte cose: chi intraprendesse la GPA con le nuove norme sarebbe pienamente consapevole delle conseguenze cui va incontro sia verso il bambino sia verso l’ordinamento; lo scopo della nuova legge è scoraggiare le persone a intraprendere la GPA in modo che nessun bambino nasca più da questa pratica. Non esiste alcun diritto a diventare genitori e tanto meno a diventarlo con la GPA. Non ci si può nascondere che il tema dei diritti dei bambini è spesso invocato per legittimare la GPA. Personalmente ritengo che proprio una chiara presa di posizione contro il fenomeno, quale quella rappresentata dalla proposta oggi in discussione, agevolerebbe il legislatore a regolamentare la posizione dei bambini nati da GPA, sviluppando le soluzioni, molto accurate, individuate dalla giurisprudenza.

Non vi è il rischio che la nuova legge sia discriminatoria?

Il divieto già in vigore non discrimina e vale per tutti coloro che fanno ricorso alla GPA indipendentemente dal loro orientamento sessuale. Come tale non sarebbe discriminatoria la sua estensione.

Questa legge potrebbe riguardare anche le donne che ricorrono a fecondazione eterologa all’estero?

In nessun modo. La donna che intraprende l’eterologa è la stessa che diventerà madre del bambino che nascerà, mentre la madre detta “surrogata” si obbliga a lasciar portare via la creatura che ha partorito. Sono due cose diverse.

E se si trattasse di GPA cosiddetta “altruistica”, senza alcun compenso (casi peraltro rarissimi)?

Come ha chiarito di recente la Corte di Cassazione (sentenza S.U. 28162/2022) il «valore fondamentale della dignità umana» è offeso in ambo i casi, per questo la GPA è vietata dalla nostra legislazione «in qualsiasi forma».

Secondo alcuni è inutile che un singolo stato “universalizzi” il divieto: semmai il governo dovrebbe operare nelle sedi internazionali.

L’una cosa non esclude l’altra. Anzi: è evidente che un divieto universale in Italia rafforzerebbe enormemente la capacità del nostro Paese di operare in modo influente nelle sedi internazionali. Lo testimoniano anche iniziative esistenti per la creazione del reato universale, numerose e senza colore politico: recentemente (Dichiarazione di Casablanca del 6 marzo 2023) un centinaio di firmatari di 76 diversi Paesi ha chiesto agli Stati di «sanzionare le persone che ricorrono alla GPA sul loro territorio; sanzionare i loro cittadini che ricorrono alla GPA al di fuori del loro territorio; adoperarsi per l’adozione di uno strumento giuridico internazionale che porti all’abolizione universale della GPA».


Feministpost, 20 giugno 2023 – (https://feministpost.it/italy/utero-in-affitto-reato-universale-la-sinistra-contro/)

di Corrado Speziale


Un corteo partecipatissimo, denso di temi e motivazioni, sabato 17 giugno ha percorso le vie del villaggio Torre Faro nel segno del dissenso verso la realizzazione del ponte sullo Stretto.

Un successo che premia il movimento No ponte, nell’insieme dei comitati che lo compongono e che hanno fatto da traino a tantissime associazioni, partiti, movimenti, sindacati, centri sociali, ma soprattutto a una “marea” di gente comune, fuori da sigle politiche e organizzazioni, che ha voluto urlare il proprio No al ponte per difendere il territorio. I colori No ponte hanno fatto bella mostra di sé anche su una barca a vela che ha solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto all’inizio della manifestazione.


Una manifestazione così intensa e partecipata a Torre Faro (Messina) non si era mai vista. Tremila persone, giusto per quantificare la folla, è un numero che neppure descrive l’effetto di una marea umana i cui colori si stagliavano tra l’azzurro del mare e del cielo, in un bel pomeriggio di partecipazione, di festa e di protesta.

Gli effetti dello Stretto, la spiaggia del Faro, il popolo No ponte che ha invaso con colori e slogan le vie del villaggio, il coinvolgimento della gente del luogo, hanno costituito un tutt’uno che sabato pomeriggio ha spostato la “geografia” e la politica del territorio verso un deciso No alla realizzazione dell’opera più controversa della storia, “riesumata” dal governo, attraverso la riedizione della società Stretto di Messina.

Cosicché, se da un lato il governo è ripartito a suon di provvedimenti urgenti per riavviare le procedure, dall’altro il dissenso dei No ponte non si è fatto attendere. «Sabato prossimo scriveremo la storia», era la sfida lanciata da tanti attivisti in vista della manifestazione, e così è stato. Ed era “solo” il primo corteo della nuova stagione. Secondo i tempi dettati da Salvini la fase apicale sarà raggiunta a luglio 2024, data della fatidica “prima pietra”.

Ciò, al netto delle complesse procedure che ancora il progetto deve affrontare, quantunque sia oggetto di apparenti semplificazioni.

Intanto, la gente del luogo si chiama a raccolta: «Forza faroti, tutti fuori, prima che il ponte ci divori», recitava uno dei tanti slogan che risuonava in maniera veemente tra le vie del villaggio. Anche perché la cosa avrebbe il sapore di un «futuro amaro» da evitare ad ogni costo, perché «il ponte sullo Stretto distruggerebbe Faro…», con tanto di dati alla mano illustrati, tra l’altro, nella conferenza stampa di mercoledì scorso, e non solo. Un altro fatto a prova di smentita, alla luce della storia che si ripete, è stato urlato dai manifestanti: «Valutate i vostri danni, il cantiere durerà centanni”. E ancora, un tema sul quale si potrebbe scrivere un romanzo, quello dei posti di lavoro: «Ma che progresso, ma che occupazione, il ponte sullo Stretto è solo distruzione». Aspetto supportato da un appello alla comunità locale: «Difendete il vostro mestiere, in questo posto ci va un cantiere». Dopodiché: «Il ponte sullo Stretto è un disastro, al posto delle case ci va un pilastro». Dunque, motivazioni, esempi e temi sono stati intercalati nella protesta anche in frasi essenziali, simboliche, ma dal grande effetto. Ma visto il momento che stanno vivendo gli abitanti di Messina in una zona del centro storico cittadino, lo slogan che più risaltava era tra quelli più longevi: «Vogliamo lacqua dal rubinetto, vaff… al ponte sullo Stretto». In questo momento, dai rubinetti di centinaia di appartamenti fuoriesce acqua inquinata da idrocarburi, nella fattispecie gasolio.

Per cui la domanda è ovvia, al netto della comprensibile rabbia: come si fa a lasciar realizzare una tale mega opera, secondo volontà ben distanti dalla città, quando Messina ha persino condotte idriche fatiscenti che creano disagi intollerabili e mettono seriamente a rischio la salute dei cittadini?

Tornando nel cuore del corteo, «Non rovinate lo Stretto», ammoniva uno striscione, «Salvini levici manu», si leggeva in un altro. E al ministro non sono mancati neppure alcuni inviti “affettuosi” e “propositivi”, affinché si rechi in riva allo Stretto. Ma sulla terraferma, non certo su una nave “blindata” come lo scorso 6 giugno.

Il corteo, partito alle 18 dall’inizio di via Palazzo, si è concluso intorno alle 21 dinnanzi al parco Horcynus Orca, dove hanno preso la parola alcuni rappresentanti delle organizzazioni che hanno partecipato alla manifestazione. Alla partenza, i colori No ponte sono stati esibiti anche da una barca a vela e da un surf a pedali che hanno solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto, mentre alle loro spalle faceva capolino una feluca.

Per la prossima manifestazione bisognerà attendere gli esiti di altre assemblee e riunioni programmate dal movimento No ponte.


(https://www.scomunicando.it/, 19 giugno 2023


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana TreOrientarsi con l’amore, 11 giugno 2023


Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, ho lasciato la mia stanza a Milano per andare a vivere nella campagna della Marca trevigiana, nella casa del mio fidanzato. In quell’anno, all’amatissimo tavolo in giardino, ho scritto un libro sull’amore e sul suo potenziale politico. Non parlerò molto di questo libro, ma qualche parola vale la pena spenderla: la tesi del libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente. La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro. Le mie tesi si ispirano soprattutto ad alcune filosofe e pensatrici femministe: Aleksandra Kollontaj, Shulamith Firestone, e una su tutte bell hooks. Il libro è una dichiarazione d’amore nei confronti di mio marito, che seppure in maniera totalmente inconsapevole e involontaria, mi ha messa di fronte all’evidenza di questa relazione bidirezionale tra amore e politica.

L’amore che ci siamo reciprocamente insegnati era come se si allargasse al di fuori della nostra coppia, tanto lo sentivo forte e incontenibile. E d’altro canto, avendo noi una bella differenza d’età, per mezzo di questo amore ho conosciuto il giudizio sociale e il pregiudizio, dagli sguardi della gente, dalle reazioni quando capisce che siamo marito e moglie.

Nelle presentazioni, spesso mi veniva chiesto di fare un esempio pratico dell’amore di cui parlavo, dell’amore che dalla dimensione personale trascende verso quella politica. All’inizio ero evasiva, non sapevo bene nemmeno io cosa rispondere. Di solito dicevo che Il capitale amoroso voleva porre domande e non dare risposte, oppure che se avessi conosciuto la risposta a quel quesito, probabilmente avrei fatto cose più importanti che scrivere libri. Mi vergognavo a parlare di mio marito e comunque sentivo che quello era il punto di partenza, non di arrivo.

È proprio vero che un libro non finisce mai con l’ultima pagina. E soprattutto che è un’impresa collettiva. Portandolo in giro – in piazze grandi e piccole, festival letterari, circoli politici, centri antiviolenza, spazi femministi – il libro è continuato e forse anche io l’ho capito fino in fondo solo quando ho cominciato a parlarne in pubblico. Ho capito soprattutto che sebbene fossi partita dall’amore per Paolo, l’amore di cui parlavo era in realtà l’amore che mi aveva insegnato il femminismo. Soprattutto perché l’amore agapico è un amore incondizionato, nel senso che non mette condizioni e non si aspetta nulla in cambio. Mi sono resa conto che l’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa: prendersi cura degli altri, o meglio delle altre, in virtù di ciò che le rende diverse da noi, anche se non condividiamo le loro scelte o abbiamo diversi posizionamenti. La svolta, nella mia politica femminista, è stata proprio questa: accettare che il femminismo non è proselitismo e che spesso serve più a chi non si riconosce in questa parola che a chi la nomina ogni giorno.

Il capitale amoroso è un libro che mi ha dato grandissime soddisfazioni dal punto di vista professionale e umano e la cui scrittura è stata una delle esperienze più arricchenti e profonde, oltre che gioiose, della mia esistenza. Il 2021 è stato un anno luminoso, coronato dalla pubblicazione del libro e poi dal mio matrimonio. Vi sto raccontando tutto questo perché la giornata di oggi è dedicata alle pratiche e all’orientarsi con l’amore. E oggi vorrei parlare di una pratica femminista importantissima che si è intrecciata con questa vicenda, l’amore di sé.

Dopo l’anno stracolmo d’amore che è stato il 2021, nel 2022 sono entrata in crisi. Come spesso accade quando le cose vanno fin troppo bene, all’improvviso tutto è precipitato. Alla fine dello scorso anno sono entrata in depressione, complice anche una diagnosi di disturbo dell’attenzione che è arrivata all’improvviso e mi ha scossa nel profondo, costringendomi a rivedere in prospettiva tutto il mio passato e il mio presente. Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, o ADHD, è un disturbo del neurosviluppo che interessa quasi il 3% della popolazione, che si manifesta principalmente nell’inattenzione e nell’impulsività, oppure in entrambi i modi. Per spiegarlo meglio ci sono due metafore utili. La prima è quella dell’orchestra: nel mio cervello ci sono musicisti bravissimi, tutti virtuosi del proprio strumento. Ma se il direttore perde il ritmo, la sinfonia non può essere eseguita correttamente. La seconda è quella delle schede aperte sul browser: nel mio cervello ce ne sono tantissime e il problema è che funzionano tutte assieme nello stesso momento, rischiando di mandare in crash il sistema.

Non è stato difficile accettare questa diagnosi, anzi, ha contribuito a spiegare molte cose di me stessa. D’altronde, sono io che l’ho cercata e per certi versi desiderata. Ma allo stesso momento questa presa di consapevolezza così grande e totalizzante è stata confusionaria e dolorosa. In particolare, è stato molto difficile fare i conti con un aspetto, ovvero il posto del femminismo nella mia vita. Per me il femminismo è stato quasi sempre un’avventura letteraria, filosofica, spesso molto solitaria. Non avevo intorno a me un ambiente recettivo del femminismo, non avevo persone con cui confrontarmi o spazi in cui “fare” il femminismo. Di conseguenza, per me il femminismo è stato e sempre sarà un atto di pensiero, di creazione, di immaginazione, il contenitore in cui si svolge tutta la mia attività interiore. In quel cervello affollato di musicisti e schede di Internet, il femminismo è il teatro, è il computer.

Quando ho ricevuto la diagnosi e sono entrata in depressione, qualcosa si è spezzato. Perché il femminismo è rimasto lì, a bussarmi con la sua insistenza. Non potevo smettere di pensare al femminismo: perché il femminismo plasma il mio lavoro di giornalista e di scrittrice, in primis, ma anche perché il femminismo è la mia vita. E poi perché in quanto corpo sessuato in ogni secondo della mia esistenza, ogni volta che mi guardo allo specchio o penso al mio corpo, è come ricevere un promemoria. Ogni volta che leggo una notizia sul giornale o sui social, la leggo con le lenti femministe che ormai si sono incollate al mio naso.

Era un bel problema, perché un cervello sovrastimolato come il mio in quel momento aveva bisogno di prendersi una vacanza. Ma come si fa a prendersi una vacanza da qualcosa che ormai è così intelaiato nel tuo essere? Come si fa a prendersi una vacanza da sé stesse?

Le pratiche, dicevamo. In quel momento così difficile ho compiuto un atto d’amore nei confronti di me stessa. Mi sono fermata. Il mio percorso di femminista come dicevo pocanzi è cominciato nella solitudine, ma poi crescendo si è inevitabilmente messo in pratica nella relazione, nella presenza sul territorio, nella militanza politica. L’ho fatto nella mia nuova città, Treviso, dove ho trovato un ambiente adatto al mio carattere e alle mie energie. Difficile, non lo nego, con un maschilismo radicato e combattivo, ma anche fertile e capace di sorprendermi continuamente. A Treviso ho trovato amiche e compagne di percorso, dalle quali mi sono sentita accolta e mai giudicata, pur arrivando con una reputazione alle spalle e inserendomi in un gruppo già consolidato e avviato.

Però a un certo punto per me era diventato tutto troppo. Nei giorni in cui ci riunivamo, la mia vita era come monopolizzata dal femminismo. Magari la mattina avevo scritto un articolo su un terribile caso di femminicidio, nel pomeriggio avevo corretto le bozze del mio libro sul femminismo, poi alle sette di sera prendevo la macchina per andare a parlare di femminismo con altre persone fino alle dieci e mezza. La cosa più dolorosa è che avevo sviluppato sentimenti quasi di rancore nei confronti del femminismo. A volte lo sentivo come un invasore nella mia testa e desideravo non averlo mai conosciuto, per poter godere di una vita più spensierata. Arrivavo a invidiare quelle donne che non avevano compiuto questo passo e potevano permettersi il “lusso”, tra virgolette, di non essere femministe.

Così ho deciso di prendermi una pausa prolungata da quelle riunioni. È stata una decisione molto difficile e sofferta, perché questa pausa è arrivata proprio nel momento in cui mi sentivo di aver abbandonato definitivamente quelle resistenze che sono così tipiche del mio carattere quando si parla di relazioni interpersonali. Cosa sarebbe successo al mio ritorno? Sarebbe stato tutto come prima o avrei avuto l’impressione di essermi persa qualcosa, di dover ricominciare tutto da capo? Questa pausa è stato un coraggioso atto d’amore verso me stessa, ma anche verso le mie compagne nei confronti delle quali sentivo di non essere in grado di mettere a disposizione il meglio delle mie energie e risorse.

Con Il capitale amoroso avevo parlato d’amore fino allo sfinimento, ma mi stavo dimenticando che il primo soggetto dell’amore siamo noi stesse. Spesso si dice, quasi a mo’ di slogan, che non si possono amare le altre persone se non si ama prima se stesse. Io ci credo fino a un certo punto, nel senso che credo anche che l’amore abbia in sé una componente di slancio e di gratuità che è incondizionata e soprattutto che amarsi non sia un obbligo. Però d’altro canto l’annullamento di sé è un campanello d’allarme importante per una relazione che non funziona. Nel mio caso, non mi ero trascurata per l’amore di mio marito o di un uomo, ma per amore di un soggetto indistinto, non so nemmeno se per dire una causa o un’ideologia.

Se dovessi descrivere cosa significa per me in questo momento l’amore di sé in senso femminista userei un’espressione che ho ritrovato in Carla Lonzi: «l’esperienza di combaciare con me stessa». Sento molto vicina la Lonzi della fine degli anni Settanta, quella che ragiona retrospettivamente sulla sua vita e sul senso del femminismo. Non mi sento, ovviamente, di aver raggiunto la stessa maturità, ma in quel frangente sembra che Lonzi torni in qualche modo dentro di sé e si guardi dentro. «Mi sembra che l’amore allo stato puro, se così si può dire, cioè l’amore che si prova per qualcuno», scrive Lonzi «dovrebbe essere il manifestare a qualcuno l’amore che si prova per se stessi […]. L’amore che si ha per gli altri non è che l’espressione di questo volersi bene […]. In questo modo mi sembra spiegabile perché a me è sempre sembrato di essere incapace di amare. Perché io non amo me stessa».

Credo che ciò che dice Lonzi qui sia molto difficile da ammettere e spero per lei questo non amare sé stessa sia stato soltanto temporaneo, che non sia stato qualcosa che l’ha accompagnata tutta la vita. Oggi l’amore di sé è stato trivializzato, oltre che trasformato in un obbligo. Le pubblicità, i giornali, i social ci dicono in continuazione di amare noi stesse, amare il nostro corpo, amarci così come siamo. Mentre ci rassicurano che siano perfette così come siamo, ci sottopongono a uno standard morale altissimo, a un compito che è difficile adempiere con costanza.

L’amore di sé che ho cercato, l’amore di sé di cui parla Carla Lonzi, quel combaciare con sé stesse, credo abbia poco a che fare con questo tipo di richiesta. Perché non è un amore migliorativo, che serve alla nostra autostima. Mi sembra piuttosto un amore che si realizza nella relazione. Non credo sia un caso che Lonzi parli di amore per gli altri come manifestazione dell’amore per sé stesse e non il contrario. Non dice che l’amore di sé è un requisito o un presupposto.

Le donne hanno storicamente assimilato l’idea di sacrificio. Mariti e figli vengono sempre prima, in generale tutti gli altri vengono prima; Pasolini in una poesia scriveva che il vergognoso segreto delle donne era quello di accontentarsi dei resti della festa. Anche quando ci convinciamo di aver finalmente abbandonato l’obbligo del sacrificio, ecco che torna in modi insperati. Anche nella relazione fra donne, nel femminismo, spesso sentiamo la necessità a metterci da parte, per le altre, per un fine più nobile, per mille altre cose. Io credo che il pericolo più grande di questo sacrificare sé stesse sia in fondo quello di allontanarsi dalla nostra autenticità.

Quando ho ricevuto la mia diagnosi, la mia identità è entrata in crisi. Ho dovuto fare i conti con un modo di essere me stessa che mi era quasi estraneo. Ora che ero a conoscenza di una parte di me totalmente nuova, dovevo cercare di non smarginarmi, di non spezzarmi. Il rischio più grande che avrei potuto correre, e dal quale ancora adesso non mi sento del tutto salva, è quello di uno strappo tra la me del passato, inconsapevole, e la me attuale, che sa dare un nome alle cose di sé. In tutto questo, il femminismo rischiava di occupare un posto troppo ingombrante, perché è esattamente il ponte tra la mia identità e la relazione con il mondo.

E così ho preso una decisione d’amore per me, e di conseguenza per gli altri. Ho deciso di rinunciare per un po’ a quella parte di femminismo più difficile da praticare. Amarsi è anche essere indulgenti con sé stesse, mettere dei paletti, dei confini. È così che l’amore di sé riesce a conservare uno slancio verso l’altro senza portare all’autosabotaggio. Fermami è stato una decisione necessaria ma anche sofferta, che però ha portato maggiore chiarezza nella mia testa. Nei mesi in cui ho rallentato tutto, sono tornata a quella forma originaria di femminismo che ultimamente mi sembrava di aver perso per strada, ovvero la scrittura.

Oggi le cose vanno meglio. Sto lavorando per imparare a integrare questa nuova consapevolezza legata alla diagnosi nella mia vita, ma non ci sarei mai riuscita senza questo atto di amore verso me stessa. Penso che alla fine, anche se ho saltato qualche mese di assemblee e azioni, piazze, sarò una femminista migliore. È presto per fare valutazioni e bilanci, ma se crediamo che l’amore sia, come penso, una forza politica, politica è anche sapere quando fermarsi. Chiudo con un’immagine: quella dell’ex premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern che a gennaio si è dimessa dal suo incarico perché era stanca. Spesso di discute su cosa differenzi una politica femminile da una politica femminista. Ecco, io credo che al di là delle leggi e dei decreti, nella sua scelta di dimettersi ci sia un gesto politico profondamente femminista, che partendo dall’amore di sé si riverbera su tutta la comunità.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 11 giugno 2023)


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana TreOrientarsi con l’amore, 11 giugno 2023


Per questo discorso ho un debito con diverse amiche con cui mi sono confrontata, tra le quali quelle di Diotima.

L’idea da cui parto è che un’amicizia è politica in quanto ha a cuore il mondo. È questo che la fa diversa dalla semplice amicizia. Non si è mai soltanto in due in questo legame perché c’è un terzo. Il terzo tra noi è il mondo. Il mondo ci interessa, ci coinvolge, sentiamo la necessità di confrontarci costantemente su di esso. Allo stesso tempo è ciò che ci permette di essere in rapporto tra noi. Noi abitiamo il mondo e allo stesso tempo il mondo è la nostra passione.

L’amicizia politica è quella nella quale siamo impegnati assieme a raccontare, capire, interpretare le cose del mondo. Criticarle per orientarle. E criticarle perché lo si ama. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo.

Per le donne il limite tra amicizia e amicizia politica non è mai così nettamente riconoscibile, anche se è bene partire dalla loro differenza, che ho appena descritto. Si passa molto facilmente da una situazione all’altra. Sappiamo che l’amicizia ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso, in un arco di tempo che si percorre in comune. Ora, ragionare sul senso della vita può facilmente portare a parlare del mondo che abitiamo assieme, del suo giusto e sbagliato, e di cosa vorremmo, e così inavvertitamente il legame diventa politico in un senso ampio.

Questo va e vieni tra vita quotidiana, amicizia tra donne e relazione con il mondo è stato compreso e registrato dalla politica nel movimento delle donne. Per un preciso motivo: il femminismo è fedele alle radici della vita. Di più: pone al centro della politica il circolo tra la vita e il senso della vita. Questa è la sua forza. È una politica che con consapevolezza fa del senso della vita, guadagnato soggettivamente con altre, una scommessa che riguarda la trasformazione del mondo e la nostra relazione con esso. Dato che, nell’amicizia, c’è una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica.

So per esperienza che questo va e vieni tra vita e politica non avviene nelle amicizie con gli uomini. Parlano sì del mondo ma molto poco del loro rapporto soggettivo con l’esperienza della vita. Passano subito alle questioni del mondo. Ad eccezione dei pochi uomini che sono capaci di pensare il legame tra i loro sentimenti soggettivi e l’andamento del mondo.

Mi sembra importante sottolineare che l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra. Non è questo l’importante. C’è di mezzo il mondo e cerchiamo l’altra per pensarlo – perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse.

Del resto è proprio il fatto che nell’amicizia politica si presupponga che non si sia necessariamente d’accordo, a rendere vitale il rapporto. Infatti si è di frequente su posizioni non coincidenti. Allora lo scambio conflittuale ci aiuta a pensare meglio e a scegliere una strada piuttosto che un’altra. È per questo che non si tratta di vincere o perdere. La scommessa sta nel parlare del mondo con verità, che è cosa molto più complessa che avere ragione o torto. E comunque anche diversa dall’idea di possedere la verità. La verità è cosa differente dall’aver ragione. Hannah Arendt citava questa bella frase di Kafka: «È difficile parlare di verità, perché, sebbene ve ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita» (L’umanità in tempi bui, pp. 92-93). L’amicizia politica sa mantenere le differenze di visione nell’impegno per la verità che cambia con la vita. Non si irrigidisce in un’affermazione unica e conclusiva.

Le amicizie politiche sono diverse dalle relazioni politiche, di cui abbiamo visto la forza nel movimento delle donne. Anche se – lo sappiamo bene per esperienza – molte relazioni si trasformano in amicizie politiche. Anche qui i confini sono porosi. Tuttavia c’è tra loro una differenza. Le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme. La politica nasce dal desiderio – sentito assieme – di cambiare una situazione pubblicamente condivisa. Chi fa politica relazionale nell’ambito del proprio lavoro o nel tessuto di una città lo sa bene. E tuttavia non c’è un impegno di lungo periodo come nell’amicizia politica, né quello sguardo di elezione pur nella differenza, che radica l’amicizia, e che rende l’agire assieme un piacere.

E poi, una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze contestuali che l’alimentano. Senza strappi. Diciamo che si spegne senza ferite, quando non è più alimentata dal desiderio politico comune in cui e per cui è nata. Mentre l’amicizia politica è meno legata al contesto. E infatti, quando un conflitto non viene reso fertile all’interno dell’impegno reciproco, può finire con molto dolore. Tutte noi conosciamo diversi esempi in cui le ferite non si sono rimarginate.

Se lo stile di vita non è in discussione nelle relazioni politiche, invece è fondamentale nell’amicizia politica. È come se, essendo venuta meno la tradizione che vincolava i comportamenti di generazione in generazione attraverso la famiglia, l’amicizia politica vi si fosse sostituita. Prende il posto simbolico della famiglia, andando incontro al bisogno, che avvertiamo, di trovare le misure giuste del vivere. Consapevoli che molti nuovi costumi di vita sono suggeriti pesantemente dal biopotere e che sulla vita e sulla soggettività c’è uno scontro molto politico, sebbene non esplicitamente nominato come tale. Fare alcune scelte ad esempio sulla vita sana, sul lavoro, sul modo del viaggiare, se dare e come i soldi in più che possono servire ad alcune comunità, su come trattare gli animali, che rapporto con l’istituzione medica, sono questioni su cui si cerca una misura confrontandosi con le amiche, gli amici. L’amicizia politica sostituisce la famiglia sul piano simbolico, perché alla famiglia si chiede sostegno e sicurezza. Paradossalmente proprio in un momento in cui è divenuta così fragile.

Tengo molto a sottolineare che l’amicizia politica regge la lontananza. Creatasi per una elezione reciproca, e messa alla prova in tanti momenti e in un lungo periodo, non obbliga però ad una presenza costante. Abbiamo tanto parlato dei legami simbolici. Bene, l’amicizia politica è per me uno dei legami simbolici più importanti. Continua anche se non ci si frequenta spesso. Qual è poi il piacere e in fondo la sorpresa di ritrovarci su temi, questioni, con la stessa passione per la vita pubblica, dopo tanto tempo che non ci si vede…

Parla di amicizia nella città, nella polis, Françoise Duroux in uno scritto su Antigone(Antigone ancora. Le donne e la legge). Antigone propone che nella città le leggi debbano seguire filia, cioè amicizia, che è una forma di amore, eros, desiderio. Queste parole fanno parte della stessa area semantica. Vita Cosentino mi ha suggerito di ritornare su questo testo e credo abbia ragione. Duroux reinterpreta lo scontro con Creonte. Quello che mi interessa mettere in evidenza è che il conflitto che Antigone apre non è tanto tra filia, amicizia, come forma di eros, amore, da un lato e l’odio, dall’altro. Non si tratta dell’opposizione amore-odio, in sé molto sterile sul piano del pensiero politico. Piuttosto è il conflitto tra la logica dell’amicizia, dell’amore, contro quella della necessità. Che è tutt’altra cosa e molto più sottile, sotterranea. Creonte dice di adoperare la techne, le tecniche di governo. Sostiene di fare riferimento alla necessità fattuale della città. Si appella al bisogno di governarla con leggi tecniche, che dichiara necessarie, mentre in realtà rispecchiano una visione patriarcale velata con l’ideologia della necessità. Antigone propone invece che le leggi siano orientate da amicizia, filia, amore. Dal desiderio, piuttosto che dalla necessità.

Aggiungo, andando oltre Duroux, che l’orizzonte di filia, di amore, è sufficientemente grande da ricomprendere in sé la necessità, che allora non è né negata né rigettata, ma ripresa e riorientata nel movimento desiderante. Il che non ha niente di sentimentale, psicologico, moralistico.

Se nel testo greco questa sembra a prima vista una politica prepatriarcale, per Duroux, invece, è una politica che va oltre il patriarcato, totalmente contemporanea e aperta al futuro, di cui protagoniste sono le donne.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2023)


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana TreOrientarsi con l’amore, 11 giugno 2023


Questo incontro, come avete letto dall’invito, è incentrato sulle pratiche che possono orientare il presente e sono contenta che qui con noi ci sia Chiara Zamboni perché ha lavorato molto su questo tema. Le pratiche, nel movimento delle donne, sono un fatto politico davvero importante perché hanno permesso di aprire uno spazio di soggettivazione per le donne e anche uno spazio di libertà, innanzitutto per le donne ma anche per gli uomini. In un incontro che qualche anno fa Chiara Zamboni ha fatto agli Archivi Riuniti delle donne del Ticino a Lugano, che ora si trova in rete in un documento dal titolo Le pratiche come modalità del simbolico, Chiara Zamboni parla diffusamente delle pratiche nel movimento politico delle donne, spiegando che sono processi che iniziano da donne in relazione tra loro, che possono subire modificazioni nel loro svolgersi, restituendo quindi un senso di libertà ma anche di precarietà. In estrema sintesi, si tratta di sperimentare in relazione, a partire dal desiderio soggettivo, e fare scoperte a partire dall’esperienza, andando al di là di quello che si pensa di sapere. Si tratta di imparare una nuova lingua per dire la propria esperienza e fare mondo, trovare parole nuove, non più irrigidite nelle forme che altri avevano pensato. In questo documento ci sono anche alcuni esempi molto esplicativi, vi consiglio di leggerlo.

Quello che mi ha sempre affascinato e attratto dei racconti sui primi gruppi femministi è che l’uscita di scena delle donne (dalla scena della politica fatta con gli uomini) per ritrovarsi, insieme, in un altrove senza una rappresentazione già data, ha liberato energie incredibili, cosa che possiamo vedere ancora oggi, che siamo in un posto venuto al mondo da quel desiderio. Più che un’uscita di scena è stata a ben vedere un mettersi al centro, e questo ha messo in moto una vera e propria rivoluzione simbolica, una trasformazione radicale della vita collettiva, che non ha distrutto cose e persone ma ha sovvertito l’ordine dei rapporti, togliendo sostanza alle istituzioni patriarcali e dando vita a nuove forme di relazione.

Siamo alla Libreria delle donne, in uno dei luoghi più importanti del femminismo italiano e non solo, un luogo che ha dato vita a molte delle pratiche che ancora oggi sono essenziali, altre che non ci sono più, un luogo dove possiamo continuare a fare ricerca. C’è un testo molto forte da leggere o rileggere, quello che viene comunemente chiamato “il non credere”, ovvero Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne (Rosenberg & Sellier) che potete trovare in Libreria. È un racconto appassionato e coinvolgente perché fa un’elaborazione a partire da un luogo collettivo di relazione tra donne e soprattutto perché srotola pensieri che restano serrati all’esperienza man mano ripercorsa e raccontata. Leggendolo, si può cogliere la potenza di quello che è successo in quegli anni, che è una scommessa ancora aperta.

Nel suo penultimo libro, Il capitale amoroso, Jennifer Guerra fa una ricerca intorno all’amore come pratica, come esercizio quotidiano. Quindi l’amore non inteso come emozione o sentimento “irrazionale e indomabile” (p. 15) ma come “amore pubblico, disinteressato, che dalla dimensione privata si riverbera su tutta la società, in grado di colpire anche chi decide di sottrarsi alla sua potenza” (p. 80).

I passaggi in cui Jennifer Guerra sviluppa il suo pensiero sull’amore come pratica che assume una dimensione pubblica mi hanno ricordato il lavoro di Françoise Duroux, filosofa francese, in particolare il libro recentemente edito che raccoglie alcuni dei suoi più importanti scritti dal titolo Il paradigma perturbante della differenza sessuale, curato da Chiara Zamboni e Stefania Tarantino. In lei troviamo il concetto di philia come amicizia, una forma di amore amicale, un legame tra esseri umani che investe la dimensione pubblica, scardinando le logiche di potere e sopraffazione.

Leggendo il libro di Jennifer Guerra ho anche ricordato una cosa che mi è successa tanti anni fa con il libro di Luisa Muraro L’ordine simbolico della madre. Ricordo perfettamente la circostanza, perché ho capito col tempo che quello è stato il fatto “fondativo” del mio femminismo. Ero sull’autobus verso Milano, diretta al mio lavoro, quando mi sono imbattuta nel concetto di amore femminile della madre che mi ha scompaginata, facendomi intravvedere un orientamento nel caos in cui mi trovavo. Mia madre non è stata femminista, anche se anagraficamente avrebbe potuto esserlo. E io mi dibattevo tra la rivendicazione di un suo sguardo amorevole e legittimante e la ricerca di questa impossibilità attraverso la ribellione, la partecipazione disordinata a vari gruppi femministi (che in provincia erano per lo più legati all’emancipazionismo e alla parità), e un rapporto ingarbugliato con gli uomini (per esempio sul lavoro: lavorando in un contesto prettamente maschile, entravo in una competizione estenuante e sempre in perdita, nonostante il mio perfezionismo), con uno struggimento e una sofferenza di cui non venivo a capo. Leggere e rileggere quel secondo capitolo del libro di Luisa Muraro è stato essenziale: non capivo e mi pareva impossibile operare lo spostamento dalla ribellione/rivendicazione all’amore per mia madre, ma intuivo la potenza di questo atto e sono rimasta nell’apertura, legandolo inizialmente alla scena più allargata, al mio desiderio di avere con le altre una misura che facesse star bene me e noi “nella nostra pelle”, per arrivare man mano a cogliere la potenza del gesto e della nominazione dell’amore femminile per la madre, ovvero la mediazione giusta per poter dire quello che mai avevo potuto dire e poter vedere quello che mai avevo potuto vedere. Che cosa? La bellezza e legittimità delle relazioni tra donne, la ricchezza di una società femminile che già c’era e che era parte di me, la possibilità di una relazione differente con gli uomini, la possibilità di un senso libero del mio essere donna, potendo pronunciare con gioia questo nome, senza cadere nell’essenzialismo di una etichetta che imprigiona in ruoli o significati precostituiti. Insomma, mi ha permesso di fare un passaggio da quello che credevo di sapere di me a quello che non conoscevo ma era lì, eccedenza per me senza voce né senso. Ha permesso un passaggio che oggi chiamerei simbolico perché mi ha portato a vedere più precisamente e vedere altro, riconoscendo la mediazione che rende possibile questo mutamento. E oggi posso dire che, al momento, mi pare una storia di trasmissione avvenuta, perché sono tutte cose che, avendo la fortuna di una figlia, ho passato a lei.
Il numero 3 della rivista Via Dogana, intitolato proprio L’amore femminile della madre ospita l’articolo di Luisa Muraro L’amore come pratica politica, che ci porta al cuore dell’incontro di oggi. A una donna che aveva posto un’obiezione profonda alla necessità di amare la madre, Luisa Muraro dà una risposta che anche oggi ci può orientare: “La risposta della pratica politica è migliore. Con la pratica io introduco una innovazione nel mio presente (per esempio tengo e rendo conto dei beni ricevuti dalle mie simili; espongo desideri e problemi, senza più difendermi col silenzio; mi vincolo al giudizio di una donna affidabile; etc.) rendendo il presente più vivo e libero, in quanto non più dipendente da quello che è stato; diventa invece vero il contrario, che il passato si presenterà mutato ai miei occhi, perché io sono mutata. Nelle parole della donna che mi ha insegnato la politica, oltre al posto dato alla pratica, tale che l’amore stesso diventa pratica, colpisce il cambiamento dello sguardo. Le parole di lei invitano a guardare la realtà come qualcosa che può mutare perché noi stesse possiamo mutare. Così, il movimento che ci ha portate a capire la necessità dell’amore femminile della madre, mostra questo amore all’opera: si mostra come opera di questo amore. E così il cerchio si chiude in un movimento circolare che ci comprende e dà forza” (p. 19).

Ho parlato di scommessa poco fa. Io credo, e insieme a me le amiche della redazione di Via Dogana 3, che ripensare a Eros e Philia in una dimensione pubblica sia molto importante per il presente che abitiamo, credo sia una scommessa che dobbiamo giocare insieme.

Lascio ora la parola a Jennifer Guerra e poi a Chiara Zamboni per i loro interventi.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2023)

di Franca Fortunato


Il 3 e 4 giugno ho partecipato alla Libreria delle donne di Milano al convegno nazionale voluto da Anna Di Salvo delle “Città Vicine” e da Adriana Sbrogiò di “Identità e Differenza” per riflettere sulle «relazioni di differenza tra donne e uomini nel nostro presente» dove la violenza maschile si è fatta sempre più insopportabile con orrendi femminicidi e la guerra in Ucraina. Relazioni di differenza che nel passato si sono viste tra donne e uomini, consapevoli della propria differenza, apertisi allo scambio e al confronto reciproco e che da qualche tempo – come ha detto in apertura Di Salvo – «stanno incontrando un punto d’arresto» e gli uomini si sono chiusi tra loro. E se le donne – come hanno ripetuto in tutti gli interventi – non ci stanno a farsi schiacciare dalla disperazione, gli uomini sono consapevoli che “senza autocoscienza maschile non cambia nulla” perché la guerra, che è esercizio della forza, e la violenza sulle donne come sulla Madre Terra li riguarda come uomini. «Come testimoniare il male senza dimenticare il bene» è una delle pratiche quotidiane di donne che parlano, scrivono della guerra con parole di donne, di scrittrici, di pensatrici, sottraendosi così alla disperazione. Una pratica che porta a parlare di pace non in contrapposizione alla guerra, come fanno gli uomini, anche quelli che hanno parlato di “no armi” e di “obiezione di coscienza”. Un modo «per salvaguardarsi dalla forza del male e salvaguardare uno sguardo lucido su ciò che accade». «La pace non è l’assenza di guerra ma è un modo di vivere, di abitare il pianeta, un modo di essere esseri umani», «pace da sempre è una parola che si usa a conclusione della guerra, ma nessuna guerra si è chiusa con la pace ma con trattati a cui è seguita un’altra guerra», «la pace va costruita fuori dalla guerra, dentro di noi», vogliamo «una civiltà in cui i conflitti si risolvano diversamente». Le donne di potere belliciste, che in nome dell’uguaglianza e della parità con gli uomini non portano sulla scena pubblica la loro differenza, fanno paura quanto gli uomini perché «possono distruggere l’umanità». L’uguaglianza con gli uomini «non ci porta in avanti e va ripudiata». «Non dimenticare il bene» è saper vedere la speranza nel buio del male, per sottrarci alla disperazione. Speranza nel «desiderio che dà energia», «nelle relazioni», «nelle buone notizie» come quella che a Vicenza ha vinto un giovane sindaco che sa ascoltare le donne e prendersi cura della città. Speranza nel cambiamento della relazione tra donne che hanno provocato e che «non sta dove l’avevano messa gli uomini nel patriarcato» come nel caso della madre dell’assassino di Giulia Tramontano, uccisa con la creatura che portava in grembo, «che si è appellata alla madre della ragazza per cercare un filo» che le unisse, due donne non “rivali” ma “solidali”. Speranza «nella mediazione della relazione materna come mediazione con gli uomini». Speranza viene da storie dove agisce il materno come nel fabbricante di mine antiuomo che quando il figlio piccolo gli dice «ma tu sei un assassino», abbandona quel mestiere di morte e diventa un volontario sminatore nei Balcani per salvare vite. Speranza nella pratica artistica dove – come ha detto Katia Ricci, curatrice della mail art “Donna vita, libertà” che ha accompagnato il convegno – agisce già la mediazione materna perché gli artisti «parlano in lingua materna». Un «servizio di cura obbligatorio per gli uomini» aprirebbe alla mediazione materna? Idea avanzata da Alberto Leiss e rimasta aperta così come aperto ad altri incontri tra donne e uomini è rimasto il convegno di Milano.


(Il Quotidiano del Sud, 17 giugno 2023)

Continuano i liberi scambi di riflessioni a partire dall’attualità. Condividiamo valutazioni politiche sulla stagione che si chiude e aspettative per il prossimo futuro.
La partecipazione è aperta a tutte e tutti

di Marta Dal Corso,


Diventare madre oggi è una scelta personale e sociale. Come le trasformazioni sociali stanno cambiando il concetto di maternità e quale ruolo giocano le donne oggi nel definire nuovi modelli di sviluppo? Ne abbiamo parlato con Riccarda Zezza e Anna Fiscale.


Il report “Italia Generativa” definisce l’Italia un Paese surplace: come un ciclista fermo sul posto, impegnato a mantenere un equilibrio ma incapace di darsi uno slancio nei confronti del futuro. Il tasso di natalità incide in un quadro politico che riflette una generale staticità. D’altronde le trasformazioni della struttura demografica rispecchiano anche i mutamenti culturali della società odierna: nonostante le giovani donne siano oggi più istruite, il tasso di inclusione lavorativa, il livello degli stipendi e le possibilità di carriera restano inferiori, mentre il 71% del carico familiare è ancora responsabilità delle donne. Diventare madre è oggi sia una scelta personale che sociale!

Nella festa che celebra la figura della madre, ci chiediamo cosa sta cambiando, cosa possiamo imparare dalla maternità e come questa possa diventare motore di crescita per uno sviluppo personale, culturale, economico e sociale. Ne abbiamo parlato insieme a Riccarda Zezza, CEO e Founder di Lifeed – l’azienda che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro trasformando le esperienze di vita in competenze funzionali alla crescita di persone e imprese; e ad Anna Fiscale, ideatrice e Presidente dell’Impresa Sociale di moda etica Quid.

– Riccarda, cosa significa oggi diventare madre?

Credo che oggi questa domanda sia più importante della risposta perché ad essere sinceri non ce la facciamo mai. Oggi ci chiediamo: Perché non nascono più figli? Qual è il tasso di occupazione femminile? Ci soffermiamo a parlare di maternità surrogata senza nemmeno definire cos’è la maternità! Ci facciamo quindi domande su quei temi che provocano problematiche politiche mentre le madri, per loro natura, sono portate a fornire soluzioni immediate. Ecco perché non interessa chiederselo! Invece penso che iniziare a farci questa domanda ci porterà a nuove opportunità perché ci obbliga a riconoscere la complessità dei fenomeni umani. L’effetto? Usciremo da risposte parziali e stereotipate!

– Credi che ci sia una narrazione che ha cullato la nostra idea di maternità?

Nel genere umano sono insiti due istinti: quello della caccia (che oggi si è tradotto nel gioco a somma zero dove o si vince o si perde) e quello della cura. La maternità è un modello primordiale e istintivo. Il cervello produce ormoni che premiano il comportamento di cura. Di fatto la maternità è diventata un modello di potere, solo che nella storia è stato limitato all’ambito familiare.

Ma cosa accade quando questo modello viene portato nel mondo sociale? Possiamo prenderci cura del mondo con il lavoro! Possiamo trasferire quegli elementi istintivi che caratterizzano la maternità per favorire lo sviluppo dell’Altro. Per farlo dobbiamo agire sulla Cultura, fare spazio a nuove narrazioni ed essere disponibili a ripartire da pagine bianche, da nuovi tavoli collaborativi.

–Quale valore emerge dalla maternità?

La maternità sviluppa nella donna una leadership femminile molto forte. Le ricerche ci dicono che quando si pensa ad un leader si immagina una persona che guidi con l’esempio, che sappia far crescere, che ascolti e comprenda. Una persona con visione capace di creare progetti che gli sopravvivono. Non sono forse qualità che le madri esercitano quotidianamente nella dimensione privata?

In Lifeed abbiamo lavorato con oltre 40mila persone e abbiamo rilevato che in media le persone hanno almeno cinque ruoli sociali. Solo il 30% delle energie sono spese nel contesto lavorativo, il 70% delle proprie risorse, di carattere creativo e relazionale, vengono espresse dove ci si sente coinvolti a livello espressivo, liberi di esprimere il proprio talento.

Il tema è importante per le organizzazioni perché è evidente che la persona, nel lavoro, non è considerata nella sua interezza e non utilizza a pieno tutte le proprie capacità: se questo è un limite per tutti, per le donne lo è ancor di più.

– Le trasformazioni sociali degli ultimi decenni verso quale idea di maternità ci stanno portando?

Quando parlo con le ragazze mi rendo conto che hanno paura della maternità. Vedono qualcosa di oscuro, solitario, problematico, che mette a rischio la loro indipendenza sociale ed economica perché oggi la maternità viene raccontata con due assunti: o è ultra-cool (e quindi sei una mamma super) o è limitante (e sei una mamma affaticata). Non ci sono viene di mezzo.

Invece quando sono diventata madre io mi sono accorta improvvisamente che tutto l’amore che avevo cercato era entrato nella mia vita. La maternità libera la possibilità di amare prima ancora di essere amato e questo non ce lo racconta nessuno. Il tema quindi è vedere la maternità come un pezzo di noi che dialoga con le nostre anime, prende spazio ma non può essere nostro antagonista. Siamo un complesso di desiderio, leggerezza e amore. Dobbiamo scrollarci di dosso quell’idea sacrificale che per anni ha portato le donne a dimenticarsi di loro stesse nella relazione con il figlio. Dobbiamo anche scrollarci di dosso quella patina di perfezionismo che fa credere che tutto sia idilliaco. Dobbiamo dare alle donne nuovi specchi con cui guardarsi perché la questione riguarda la crescita della donna che si abbina, ma non si estingue, alla relazione materna.

Esistono quindi scelte individuali che generano un impatto sociale, leadership femminili che emergono e che ci portano verso nuovi modelli culturali. Ma come gestire tutto questo?

– Anna, sempre più le donne sono spaventate dall’idea che la maternità possa essere un freno al proprio sviluppo. Tu, come hai vissuto le tue scelte?

Donna, moglie, madre: mi sono sempre vista così, in scala, e sono consapevole che non potrei essere me stessa se dovessi scegliere di essere solo una di queste parti. Non mi sentirei compiuta fino in fondo! Sono una donna appassionata e dedita al mio lavoro, in fin dei conti sono madre anche del mio progetto, ma per me era fondamentale accompagnare al mio sviluppo lavorativo anche uno sviluppo familiare, con le sfide che questo comporta!

La prima maternità l’ho vissuta quando Quid era a metà della sua strada. Io ancora non delegavo, non sapevo ancora farlo. Le riunioni le facevamo nel salotto di casa dopo tre settimane dal parto. In quel periodo non ero ancora abbastanza attrezzata ma mi è servito per capire come ridefinire il mio ruolo professionale, bilanciare la maternità e il lavoro, come dare vita ad un’organizzazione familiare equilibrata e paritaria con mio marito. È stato un percorso di consapevolezza.

– Da un lato donna e dall’altro madre. Esiste un modo per non scindersi in più identità?

Sapersi ascoltare e saper leggere i segnali che il nostro corpo ci dà. Facendolo riusciamo a fidarci della vita perché se si aspetta il momento perfetto per fare le cose, non ci sarà mai! Invece possiamo diventare consapevoli che le cose andranno anche diversamente da come le immaginavamo. Io, ad esempio, non pensavo che essere madre sarebbe stato così bello. Ma è anche faticoso e totalizzante! Ho scoperto che sapermi adattare alle situazioni mi permette di trovare soluzioni che mi aiutano a stare bene e farmi crescere.

– Incontri tutti i giorni donne e madri provenienti anche da culture diverse dalla nostra: quali abitudini ti colpiscono?

Mi colpisce molto il concetto di maternità diffusa che hanno le donne africane in cui è il villaggio che educa i bambini. La comunità diventa quindi educante. È un aspetto che mi fa ragionare sull’importanza di creare anche nei nostri contesti una rete relazionale tra donne, ma non solo, che diventi fonte di supporto e sviluppo per tutti.

– Quali soluzioni si potrebbero adottare per consentire alle donne scelte più includenti?

Spesso la maternità viene percepita dalle aziende come un periodo destabilizzante. Credo che gli incentivi economici possano essere un supporto però non bastano. Seguo il lavoro di Gigi De Palo sul Forum della Natalità e penso che siano necessarie scelte politiche lungimiranti. Ma anche nei luoghi di lavoro si può fare qualcosa! In Quid, ad esempio, abbiamo scelto di lavorare in produzione con orari positivi per le donne, dalle 8 alle 15.30 per permettere loro di avere un tempo oltre al lavoro. Rispetto agli uffici e alle aree commerciali le dinamiche cambiano ma un lavoro che offre flessibilità e che consente di lavorare per obiettivi può favorire il lavoro femminile e diventare un incentivo ambizioso!


(Fondazione CattolicaVerona, 12 maggio 2023)

di Clara Jourdan


Introduzione all’incontro con Ida Dominijanni, autrice del libro Il truccoSessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, Roma 2014). Libreria delle donne, Milano, sabato 3 ottobre 2015 ore 18.


Buonasera. Siamo qui per parlare con Ida Dominijanni della sfida politica del tempo che stiamo vivendo, a partire dal suo libro Il truccoSessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, che ricostruisce e analizza le vicende che vanno dall’accusa pubblica di Veronica Lario, nel 2009, che denuncia l’uso delle donne da parte dell’ancora per poco suo marito e allora presidente del consiglio e di chi «tutto gli concede» (p. 76), fino all’esito del processo d’appello all’ex presidente del consiglio per prostituzione minorile (caso Ruby) nel 2014, vicende in cui viene svelata l’esistenza non di «un’anomalia italiana», bensì – leggiamo nel libro – di «un caso estremo delle trasformazioni antropologico-politiche che attraversano e minacciano tutte le democrazie occidentali» (p. 33). Da qui il taglio che abbiamo voluto dare all’incontro di stasera: Capitalismo, giù la maschera!

Il libro, uscito nel novembre scorso presso Ediesse, ha subito suscitato voglia di confrontarsi e alcune lettrici si sono riunite in gruppi di lettura a Lecce e a Milano, stasera sono qui Fiorella Cagnoni, venuta da Lecce, e altre che contribuiranno alla discussione. Fiorella ha scritto una bella recensione pronunciata alla XIII edizione della Scuola Estiva della Differenza (Lecce, 7-10 settembre 2015) e pubblicata nel sito della Libreria (Il Trucco: un’esperienza di scrittura e di lettura, www.libreriadelledonne.it, 12 settembre 2015).

Ida Dominijanni, saggista, giornalista, conduttrice radiofonica (tra cui di Prima pagina, Faccia a faccia), docente di teoria femminista in università italiane e estere, è ben conosciuta nel movimento delle donne. Voglio approfittare dell’occasione per ringraziarla non solo di questa sua ultima fatica ma dell’impegno di tanti anni nel pensiero della differenza sessuale, attraverso i suoi scritti pubblicati sulle riviste Reti (che ha contribuito a fondare nel 1988), democrazia e dirittoDWFSofiaNoidonneVia Dogana, in volumi collettanei e in internet, e le introduzioni a La politica del desiderio di Lia Cigarini (Pratiche, 1995) e a Maglia o uncinetto di Luisa Muraro (2° ed., manifestolibri, 1998). La ringrazio in particolare del suo lavoro al manifesto, dove ha scritto per trent’anni (1982-2012): i suoi editoriali sono stati un riferimento unico nella stampa italiana per pensare l’attualità e la politica con il taglio della differenza sessuale e della libertà femminile. Io quando insegnavo usavo spesso in classe i suoi articoli. Leggendo Il trucco mi è tornato in mente un articolo del 1998 sulla vicenda Clinton-Monica Lewinski, intitolato Cercando la privacy perduta (22 settembre 1998): ricordo quanto aveva colpito le studentesse e gli studenti di diritto costituzionale comparato e anche i loro genitori con cui avevano poi parlato a casa.

Il libro di stasera è frutto di questo costante lavoro di attenzione, ricerca di linguaggio, informazione e riflessione sul mondo. Lo si vede nella ricchezza della documentazione, nella vastità delle letture, nella profondità dell’analisi di fatti e parole, e nel dare un senso complessivo nuovo, originale, vero a una realtà che ha toccato tutte e tutti e ha occupato i mass media ma senza adeguata comprensione, e che sembrava essere stata archiviata quando aveva ancora molto da dirci. Così questo libro fa innanzitutto un’operazione storiografica importante, riraccontando al presente e quindi ripensando cose, vicende, fatti, pensiero, che se no si perdono. L’autrice prende in mano una materia prima che lei stessa ha vissuto e anche contribuito a far esistere con i suoi puntuali interventi ma che rischia di essere portata via dal tempo e dalle cose che succedono e la trasforma in storia. Su questo spero che interverranno le amiche della Comunità di storia vivente (sabato scorso abbiamo discusso qui del libro di Marina Santini e Luciana Tavernini Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, il Poligrafo 2015).

Fiorella Cagnoni nella recensione menzionata dice una cosa che vorrei riprendere, dice che nel libro Il trucco c’è «un pensiero capace contemporaneamente di fare ordine e di essere insurrezionale». Insurrezionale, una parola d’altri tempi che trovo efficace per evocare la potenza politica dirompente che può avere un parlare pubblico femminile conflittuale che domanda di essere ripreso da altre. Come il parlare di Veronica Lario (v. p. 76), che nella primavera del 2009 ha fatto fare una svolta decisiva alla vicenda incarnata da suo marito perché la verità che lei ha detto è stata ascoltata e rilanciata da altre donne (Patrizia D’Addario e le femministe), dando avvio al pensare confluito nella scrittura di questo libro, e questo libro a sua volta ci chiama alla politica necessaria in questo momento storico, che ha bisogno di noi, noi femministe intendo. Ci fa capire che c’è, aperto da noi ma che non sappiamo fino a quando resterà aperto, un conflitto simbolico di enorme portata: «una delle poste in gioco è la “rottamazione” del femminismo stesso e del cambiamento che ha innescato nelle donne e negli uomini, nei rapporti sociali, nella concezione della politica» (p. 228).

Perché nelle note vicende si tratta di un «rovesciamento perverso» delle «domande poste dalla congiuntura Sessantotto-femminismo e lasciate senza risposta dalla politica ufficiale» (pp. 33-34) ma piegate ai propri fini dal capitalismo grazie alla sua capacità di rinnovarsi (ivi). Pensiamo all’importanza della libertà, al protagonismo femminile, alla fine della separazione tra sfera pubblica e sfera privata, alla politicità del personale e alla centralità della sessualità… L’uomo di Arcore è in realtà un’invenzione del capitalismo di cui ha assorbito la natura e l’evoluzione. Se rivediamo il suo percorso, da giovane imprenditore a uomo politico a «Lupo di Wall Street» (p. 239), con l’esibizione dell’etica del consumo e del godimento (p. 34), vediamo la storia del capitalismo. Vediamo la concezione della libertà del neoliberalismo, che ha piegato in senso individualistico e consumistico la libertà soggettiva, e vediamo l’impegno a sfruttare per i suoi scopi i desideri femminili di realizzazione, in particolare nel lavoro, piegandoli alla autoimprenditorialità. «Il permanere oggetto e il diventare soggetto si toccano. Si diventa soggetti solo interiorizzando il dispositivo di soggettivazione neoliberale che comanda di autogestirsi e autovalorizzarsi come oggetti di scambio, nel mercato del lavoro come nel mercato del sesso» (p. 229). E nell’epoca della finanziarizzazione del capitale il sesso stesso si trasforma, è «sesso-valuta, ancor più che sesso-merce: […] il corpo e il sesso diventano moneta, equivalente generale per scambiare altro: favori, tangenti, posti di lavoro, o più semplicemente l’ingresso nei circoli che contano» (p. 239). E proprio «nella “verità” del sesso c’è la trasparente verità dell’epoca – continua Ida -, in cui solo il gioco della differenza sessuale sembra introdurre quel margine di opacità necessario all’apertura di una contraddizione o di un conflitto. Pur in un così intenso e affollato scambio di equivalenti, infatti, il gioco fra i due sessi non va mai in pari» (p. 240).

Allora, è qui che si può far leva, sulla differenza sessuale. Sulla differenza come è venuta fuori nel movimento delle donne, dove si è generata un’altra concezione e un’altra pratica della libertà su cui si può puntare per rilanciare il gioco, perché è da quest’altro punto di osservazione che si vede che la biopolitica capitalista del ventennio che continua ancora nei successori, è in realtà truccata. Da qui il titolo del libro: «l’immagine del trucco allude a una fantasia di potenza mossa da un fantasma di impotenza» presente non solo nel personaggio principale della vicenda ma anche nella fascinazione soprattutto maschile e anche negli oppositori al regime, a cui abbiamo assistito. L’ipotesi dell’autrice è che nel consenso a quel personaggio «abbia agito certamente un’identificazione di superficie con il suo stile di vita, la sua ricchezza, il suo successo, la sua ostentazione di una virilità inattaccabile dall’età, ma che in modo più decisivo abbia agito un’identificazione inconscia con il trucco che c’era sotto» (pp. 241-242). Infatti, la caduta della maschera «non è stata accompagnata da euforia liberatoria». Quel personaggio è finito, ma «la sua eredità è viva e vegeta» (p. 245). «Insistere sulla sua anomalia proietta nel futuro gli stessi errori di valutazione del passato: avalla l’illusione, ad esempio, che tolti di mezzo il conflitto d’interessi, le leggi ad personam e gli scandali sessuali, il grosso sia finito» (p. 249).

Di cosa abbiamo bisogno allora? «Dopo vent’anni di colonizzazione dell’immaginario, serve un’altra immaginazione politica» (p. 250), abbiamo bisogno della «generatività della differenza femminile, e forse finalmente di quella maschile» sono le parole con cui chiude questo libro (p. 251). Parole di speranza, a condizione che si tengano ben presenti i due fili che percorrono tutto il libro:

1– «Non si parte da zero. […] un’altra idea e un’altra pratica della soggettività […] ha continuato a giocare le sue carte» in questi anni (p. 250). «La concezione di una libertà relazionale, in atto e in contesto, garantita non dalle regole e dai diritti ma dalla pratica, diffidente del potere (maschile) ma forte dell’autorità e dell’autorizzazione (materna) è la grande risorsa che resta nelle nostre mani per schivare questa doppia offensiva liberaldemocratica e neoliberale» (p. 232).

2– C’è anche conflitto tra donne e nel femminismo. Perché da un lato «il massiccio ingresso delle donne nelle liste elettorali» mostra un «progetto perseguito per decenni sui media e controfirmato oggi da una generazione femminile neoemancipazionista, teso a superare il femminismo storico spuntandolo della sua carica più critica e […] a pareggiare i conti della distribuzione delle risorse e del potere» (p. 226). E dall’altro c’è «la sua speculare trasgressione: un femminismo che non taglia i ponti con la radicalità delle origini, anzi la rivendica, ma piegandola in senso compiutamente neoliberale. È il libertarismo di chi rivendica la piena padronanza del proprio corpo nel mercato dell’immagine» (p. 226). Che mostra «quanto sia fragile il confine che separa la libertà femminile dall’adesione alla norma neoliberale e l’autodeterminazione dall’onnipotenza individualistica, se entrambe, libertà e autodeterminazione, vengono sganciate dalla pratica della relazione, dal senso della differenza, dall’analitica del potere» (p. 227). C’è dunque da confliggere, e la questione è quella della libertà, a cui ci chiama questo libro.


(www.libreriadelledonne.it, 5 ottobre 2015)

di Lia Cigarini, Luisa Muraro e Luisa Cavaliere


Ripubblichiamo questo del 17 gennaio 2022.

La redazione del sito


Tre partiti che siedono in parlamento hanno proposto per il Quirinale il nome di un autentico puttaniere. E intanto tutti gli altri e loro stessi si lamentano vacuamente che in quel posto dovrebbe finalmente essere eletta una donna. C’è una logica in questa situazione?

Bisogna sapere che il candidato dei tre partiti si è reso indegno della carica di Presidente della repubblica per più ragioni, a cominciare dalla iscrizione alla P 2 passando per una condanna definitiva per evasione fiscale e per tutta una serie di prescrizioni arrivando ai processi ancora in corso.  Ma quello che brilla sopra tutto nel ricordo generale è il suo comportamento sessuale, a suo tempo denunciato anche dalla moglie, che comprendeva l’uso disinvolto del corpo femminile e la corruzione di donne giovani e giovanissime.

Che ne pensa di tutto questo Giorgia Meloni che diceva di volere un patriota a quel posto? Che ne pensano Carfagna e Gelmini? Per parte nostra, siamo pronte ad emigrare in qualunque altro paese dell’Europa qualora sull’Italia cadesse la vergogna di un simile Presidente. Che il suo nome sia stato fatto basta a riempirci d’indignazione.

 
(libreriadelledonne.it, 17/1/2021)

di Ida Dominijanni


La prospettiva della malattia e della morte ha accompagnato la vita di Silvio Berlusconi come uno spettro, o meglio come un doppio innominabile che egli allontanava da sé ed esorcizzava con ogni mezzo, dall’ottimismo illusorio dell’eterna giovinezza alla chirurgia plastica alla costruzione della propria tomba monumentale nel giardino di Arcore. Era probabilmente, come si direbbe in termini psicoanalitici, il suo fantasma fondamentale, l’ossessione rimossa che muoveva tutto il resto, come un generatore di energia piantato su un terreno franoso. Ma si sa, tutti gli umani sappiamo e anche Berlusconi non poteva non saperlo, che quello spettro, quale che sia la sua presa sul nostro inconscio, è destinato prima o poi a materializzarsi. L’ora della fine arriva, per tutti. Una biografia politica che ha fatto epoca si chiude, senza che sia risolta una sola delle immani questioni che essa ha aperto in un paese plasmato a propria immagine e somiglianza.

La matrioska vincente

Per soli sei mesi Berlusconi ha mancato il trentesimo anniversario della sua famosa “discesa in campo” del 26 gennaio 1994, diventata nella memoria collettiva l’evento periodizzante che segna il confine tra la (cosiddetta) prima e la (cosiddetta) seconda repubblica italiana. Nessuno dei commentatori più autorevoli credette, all’epoca, che quella dichiarazione emessa via etere dal fondatore di Fininvest – «l’Italia è il paese che amo» – avrebbe davvero conquistato il cuore di un elettorato traumatizzato da Tangentopoli e dalle stragi di mafia, che cercava nella magistratura la via d’uscita dalle macerie del sistema politico. Invece – amor ch’a nullo amato amar perdona – lo conquistò, con la promessa di un futuro radioso che come per magia avrebbe riscattato «un passato politicamente ed economicamente fallimentare».

Il voto del 27 marzo 1994 consegnò dunque l’Italia a Silvio Berlusconi mutandone radicalmente l’assetto politico con tre novità, incastrate l’una dentro l’altra come una matrioska vincente. Per la prima volta un partito-azienda, interamente incentrato sulla figura del leader e conformato al linguaggio della televisione commerciale e della pubblicità, irrompeva nell’arena politica. Per la prima volta questo partito – centrista, ma con riconoscibili ascendenze culturali craxiane – si alleava stabilmente con due formazioni di destra, sdoganando il partito neofascista di Gianfranco Fini, fino ad allora confinato fuori dall’arco costituzionale, e regalando uno statuto nazionale alla Lega nord di Bossi, fino ad allora confinata in una dimensione regionale. Per la prima volta, questa coalizione di centrodestra realizzava – intestandosi un processo più largo e già in corso – la bipolarizzazione di un sistema politico che per mezzo secolo aveva funzionato su base proporzionale.

L’insieme di queste tre mosse conferì a un’avventura spiccatamente personale come quella di Berlusconi un rango sistemico, facendogli guadagnare sul campo quel ruolo di fondatore della seconda repubblica che egli non riuscirà a inscrivere nella tanto agognata quanto mancata riscrittura della costituzione, ma che gli assicurerà una centralità più solida dei suoi quattro governi (1994-95; 2001-05; 2005-06; 2008-11) e un’influenza più duratura della sua stagione trionfante. Il che spiega perché il (quasi) ventennio successivo alla sua discesa in campo sia passato alla storia come “ventennio berlusconiano” pur essendo stato interrotto da cinque governi dell’Ulivo (dal 1996 al 2001 e dal 2006 al 2008), e perché il suo ruolo sia rimasto importante anche dopo la sua definitiva defenestrazione da Palazzo Chigi nel 2011, sotto il tiro incrociato degli effetti del sexgate, della crisi finanziaria e della condanna per frode fiscale, quando inizia irrimediabilmente la sua parabola discendente.

Impronte di granito

Se è vero infatti che l’ultimo decennio fa storia a sé (con l’ingresso in scena di un soggetto politico “né di destra né di sinistra” come il Movimento 5 Stelle, la conseguente ancorché temporanea rottura della logica bipolare, l’alternanza di governi “tecnici” di larghe intese e di governi “populisti” trasversali), è altrettanto vero che Berlusconi ha continuato a condizionarne l’andamento, oltretutto trasformando con notevole sapienza la propria immagine di politico dell’eccezione permanente in quella più rassicurante di garante moderato (e moderatore) del sistema, fino a proporsi come candidato alla presidenza della repubblica nel 2022. Ed è vero, soprattutto, che l’assetto politico con cui ci troviamo ad avere a che fare oggi è interamente debitore di quella decisiva svolta impressa da Berlusconi alla storia politica nazionale del lontano 1994.

Per quanto trasformata da centro-destra in destra-centro, con Forza Italia in posizione minoritaria rispetto ai più estremisti alleati, la bizzarra e contraddittoria coalizione che allora venne messa al mondo è di nuovo saldamente al governo, con scarsissime speranze per il centrosinistra di scalzarla. E per quanto il sovranismo postfascista di Giorgia Meloni urti per più di un verso con la visione del mondo berlusconiana, indubitabilmente assai più gaudente e meno illiberale, nessuna delle guerre culturali di oggi – dal revisionismo storico galoppante alle professioni di anti-antifascismo, dal razzismo anti-migranti alla crociata anti-gender – sarebbe stata possibile senza lo sdoganamento delle destre radicali antiche e nuove che ha contrassegnato il ventennio berlusconiano. Ben prima dell’ascesa di Meloni, del resto, bastano i fatti di Genova 2001, dove Fini fu il braccio armato di un Berlusconi che preferiva badare alle fioriere, per testimoniare il sodalizio tutt’altro che contingente tra due destre pure così diverse; anche se da questo punto di vista Berlusconi se ne va nel momento meno opportuno, quando avrebbe forse potuto calmierare gli spiriti bellicisti e i disegni europei della presidente del consiglio.

Per restare al piano politico, l’impronta di Berlusconi permane peraltro, granitica, sull’intero catalogo delle forme dell’agire pubblico che con lui e dopo di lui si sono imposte sulla crisi senza ritorno della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il partito personale e la personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del discorso politico e la trasformazione dell’agorà democratica in arena televisiva, l’appello al popolo senza intermediazioni come cifra del populismo, l’identificazione tra il popolo e il capo e la democrazia dell’applauso, l’intreccio tra biografia personale, interessi patrimoniali privati ed esercizio della funzione pubblica disegnano la fenomenologia di una decomposizione della politica e di una deformazione della democrazia che dilagano ormai su scala planetaria, e che nel berlusconismo hanno trovato un laboratorio anticipatore e a suo modo, occorre riconoscerlo, geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati.

Il nocciolo insondato

E tuttavia, quando parliamo di berlusconismo, ognuno/a di noi sa che parliamo anche di qualcos’altro, di un nocciolo che rimane per molti versi insondato, che ha sedotto e plasmato la società italiana e attorno al quale si annoda tuttora il rapporto tra l’immaginario collettivo e lo spettro di un leader da tempo finito eppure tuttora incombente. Per mettere a fuoco questo nocciolo è mancata a lungo, e tuttora manca, la giusta distanza, in una società divisa verticalmente tra l’ammirazione prona e il disprezzo altero nei confronti di Berlusconi («Ci alziamo troppo di fronte alla sua presupposta bassezza. Ci abbassiamo troppo di fronte alla sua presupposta altezza», scrisse profeticamente Alberto Abruzzese nel 1994). Tanto meno ha aiutato questa messa a fuoco il moralismo giustizialista di cui si è nutrito un vasto fronte antiberlusconiano, pago di liquidare come escrescenza immorale e illegale un fenomeno che rinvia a trasformazioni antropologico-politiche irriducibili al trentennale duello tra l’ex premier e le procure (36 processi, cento avvocati al lavoro e una sola condanna definitiva tra assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e amnistie).

Se dall’imponente bibliografia sull’avventura biografica e politica del Cavaliere si sottraggono i troppi titoli che la riducono a colore e folklore, tre sono gli approcci critici più ricorrenti. Il primo approccio imputa a Berlusconi la sua radicale anomalia (conflitto d’interessi, leggi ad personam, attacchi reiterati alla costituzione) rispetto alla norma e alla normalità liberaldemocratica, alla faccia della “rivoluzione liberale” da lui sbandierata agli esordi. È un approccio depistante, che riporta al modello liberaldemocratico classico la controrivoluzione prettamente neoliberale che Berlusconi ha guidato in Italia e che da mezzo secolo in qua demolisce la liberaldemocrazia in tutto l’occidente, sottomettendo la vita individuale, le relazioni sociali e l’architettura istituzionale al codice della merce e del mercato, all’etica dell’autoimprenditorialità e della concorrenza, a una concezione della libertà svincolata dalla responsabilità e dalla legge.

Il secondo approccio insiste giustamente sulla potenza dell’impero televisivo di Berlusconi nella costruzione del consenso politico, ma rischia di sottovalutare la valenza seduttiva di una operazione programmatica di trasposizione della realtà in reality e fiction che prima del voto ha cambiato la testa e la pelle di un popolo ridotto a audience, dalla capacità di discernere tra vero e falso alla sensibilità estetica.

Il terzo punta il dito sullo sfondamento della proposta berlusconiana nel blocco sociale nato sulle ceneri del fordismo (piccola impresa, partite iva, lavoro cognitivo e creativo) e privo di ascolto e rappresentanza a sinistra, ma non spiega come questo radicamento originario si sia immediatamente trasformato in un consenso trasversale, nazionale e interclassista, base rocciosa di un populismo che Berlusconi ha inaugurato e che dopo di lui ha solo cambiato forma e interpreti. Nessuno di questi tre approcci, infine, spiega fino in fondo l’installazione così duratura dell’icona di Berlusconi nell’immaginario italiano, una installazione che al di là della fascinazione per il self-made man di successo e per il tycoon miliardario chiama in causa il rapporto tra le identificazioni collettive, consce e inconsce, e il profilo della leadership politica.

Un capo post-edipico

L’esperimento berlusconiano andrebbe più precisamente collocato all’incrocio fra tre tendenze: la già menzionata controrivoluzione neoliberale; il cambiamento del regime del vero e del falso, del visibile e dell’invisibile, del dicibile e dell’indicibile innescato dalla mediatizzazione della sfera pubblica; e la trasformazione dell’ordine simbolico che nella letteratura psicoanalitica va sotto il nome di eclissi della legge del padre, con le relative conseguenze sul declino dell’autorità e della legalità, e nella letteratura femminista va sotto il nome di fine del patriarcato, con le relative conseguenze sul ruolo della virilità, sulle relazioni tra i sessi e sullo stato complessivo del legame sociale. Collocata all’interno di questa trasformazione dell’ordine simbolico, l’icona di Berlusconi acquista il profilo più preciso e più inquietante di un leader post-edipico e post-patriarcale, che non incarna la legge ma il godimento e la trasgressione, e che tenta di ripristinare il ruolo perduto di una virilità vacillante seducendo le donne con l’arma ricattatoria del potere e della ricchezza. Uno specchio riflettente ideale per un paese che con la legalità ha sempre avuto un problema e che con la libertà femminile non ha mai fatto i conti.

È il profilo di Berlusconi che emerge dal cosiddetto sexgate, quando, grazie alla presa di parola pubblica di alcune donne, prima tra tutte l’allora moglie del premier Veronica Lario, venne alla luce il sistema di scambio tra sesso, potere e denaro che legava senza soluzione di continuità la vita privata di Berlusconi e la sua vita pubblica, accomunate dallo stesso regime del godimento, dalla stessa amoralità, dalla stessa concezione della libertà come libertà di mercato, dalla stessa convinzione che tutto si può ridurre a merce e tutto si può vendere e comprare, dalla stessa ingiunzione alla trasgressione, dallo stesso esercizio di un potere sorretto da una corte di imitatori e di ruffiani. Lungi dall’essere l’incidente di percorso secondario cui fu ridotto all’epoca e cui tuttora il coro celebrativo post-mortem di Berlusconi tenta di ridurlo, il sexgate fu l’imprevisto che squarciò il velo del sistema, e per giunta all’indomani del tentativo più riuscito di Berlusconi di legittimarsi, col celebre discorso di Onna, come padre della patria.

Ma sotto quel velo squarciato non c’era un padre della patria, c’era il Papi delle “cene eleganti”. Non c’era l’identificazione conscia con un leader ricco e potente, ma l’identificazione inconscia con un trucco: il trucco di una potenza millantata, sessuale e politica, a copertura del fantasma persecutorio dell’impotenza, politica e sessuale. Il re era nudo, a denudarlo erano state le sue stesse donne, la moglie e la favorita in sequenza, e a dichiarare la sua parabola conclusa furono le centinaia di migliaia di donne scese in piazza per dire basta, ben prima che i leader europei, approfittando della sua ormai acclarata vulnerabilità, inchiodassero l’ex premier alle sue responsabilità sul debito pubblico italiano e sullo spread.

Un lutto inaggirabile

L’ultima polemica, in morte di un leader divisivo, spacca ora il paese tra chi accetta e chi rifiuta il lutto nazionale che dovrebbe unificarlo. Sono sacrosante le ragioni di chi lo rifiuta, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a sé stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti, disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.

Come tutti i leader narcisisti che infestano la scena mondiale, Berlusconi non ha allevato successori in casa, anche se può rivendicare molti imitatori all’estero a partire da Donald Trump. Lascia un paese che sotto la sua egemonia luccicante ha imboccato trent’anni fa una via del declino senza ritorno, una politica stravolta nella grammatica e nella sintassi, un’informazione definitivamente trasformata nei contenuti e nel linguaggio, una giustizia perennemente sotto attacco, una società modificata nel corpo e nell’anima, una erede riluttante che ambisce a siglare con un sigillo femminile il ripristino dell’ordine tradizionale dopo il disordine post-patriarcale in cui lui navigava col vento in poppa. Ma soprattutto lascia sottotraccia quell’identificazione inconscia nella maschera di una potenza che copre l’impotenza, un’identificazione depressiva che continua ad ammutolire la protesta sociale e a fare la fortuna di leader inventati, votati non per quello che sanno fare ma per come riescono a nascondere quello che non sanno o non possono fare. Elaborare il lutto della fine di Berlusconi significa farla finita con questa identificazione depressiva, e voltare finalmente pagina.


(Internazionale.it, 14 giugno 2023)

di redazione


Nell’intervista rilasciata oggi a La Stampa, la sondaggista di fiducia di Berlusconi Alessandra Ghisleri ricorda che nell’aprile 2009 furono le dichiarazioni dell’ex-moglie Veronica Lario sul ciarpame senza pudore e le figure di vergini offerte al drago a sfatare il mito di Berlusconi, che aveva resistito fin lì a tutte le denunce politiche e all’azione della magistratura.

Veronica Lario tolse all’ex-marito il credito che lo teneva in piedi con la forza della sua verità soggettiva. Ma tutto era cominciato il 13 gennaio 2007 con la prima lettera che scrisse a Repubblica, esemplare nella semplicità di linguaggio, nella forza femminile che esprime e nella radicale consapevolezza.

La ripubblichiamo, seguita da uno stralcio dell’intervista di Annalisa Cuzzocrea a Ghisleri, come esempio della potenza trasformativa dell’autorità femminile.

La redazione del sito


la Repubblica, 13 gennaio 2007


Lettera al Direttore

di Veronica Lario*


Egregio Direttore, 
con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto ad un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho ritenuto che il mio ruolo dovesse essere circoscritto prevalentemente alla dimensione privata, con lo scopo di portare serenità ed equilibrio nella mia famiglia. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti, si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: «… se non fossi già sposato la sposerei subito», «con te andrei ovunque». 
Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l’età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all’uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente, e con l’occasione chiedo anche se, come il personaggio di Catherine Dunne, debba considerarmi “La metà di niente”. Nel corso del rapporto con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti. Questo per vari motivi: per la serietà e la convinzione con la quale mi sono accostata a un progetto familiare stabile, per la consapevolezza che, in parallelo alla modifica di alcuni equilibri di coppia che il tempo produce, è cresciuta la dimensione pubblica di mio marito, circostanza che ritengo debba incidere sulle scelte individuali, anche con il ridimensionamento, ove necessario, dei desideri personali. Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sua dimensione extrafamiliare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli. 
Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l’esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un’importanza particolarmente pregnante, almeno tanto quanto l’esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro; la difesa della mia dignità di donna ritengo possa aiutare mio figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne, così che egli possa instaurare con loro rapporti sempre sani ed equilibrati. 
RingraziandoLa per avermi consentito attraverso questo spazio di esprimere il mio pensiero, La saluto cordialmente.


(*) seconda moglie di Silvio Berlusconi


La Stampa, 13 giugno 2023


Ghisleri: “Berlusconi cambiò linguaggio alla politica, più dei processi poté la moglie”

Intervista di Annalisa Cuzzocrea


[…]


Spesso sembrava voler sedurre anche gli avversari.

«Dopo il discorso di Onna, quando mise il fazzoletto dei partigiani, lo chiamai, era in elicottero con Bonaiuti. Gli dissi che aveva il 75 per cento di indice di fiducia. Ci fu un momento di silenzio».

E poi?

«Chiese: quell’altro 25 per cento che non mi ama, perché? Quando fece il predellino mi spiegò, dalla macchina, le sue ragioni: doveva tenere unita una situazione che si stava sfarinando».

C’erano i problemi con la giustizia, il rapporto difficile con la stampa, il controllo dell’informazione.

«Nonostante tutto quel che accadeva la fiducia non veniva scalfita. A farlo, più di tutto, è stata la seconda lettera della moglie Veronica».

Più dei processi?

«Assolutamente. Mi chiamò nella notte dicendo che dovevamo gestire questa cosa e per dirmi quali avrebbero potuto essere le conseguenze».

Perché il colpo veniva dall’interno?

«Perché veniva dalla famiglia. Berlusconi era un uomo con diciassette nipoti, ha sempre messo al centro della sua narrazione il valore della famiglia».

E quindi, la frase sulle «vergini che si offrono al drago» lo ha danneggiato più di ogni altra cosa?

«Sì, soprattutto per il voto delle donne, che era sempre stato un suo punto di forza».


[…]


(www.libreriadelledonne.it, 13 giugno 2023)

di Mariangela Mianiti


C’è un preciso momento in cui Silvio Berlusconi comincia a scendere dal piedistallo di uomo vincente in cui si è avvolto. C’è un preciso momento in cui la sua aura comincia a perdere smalto. Non sono i processi, non sono i guai giudiziari, ma la chiamata in causa di due donne: la seconda moglie Veronica Lario, e Patrizia D’Addario, che i giornali amano definire «escort di lusso».

Siamo nel 2007. Il 31 gennaio Repubblica mette in prima pagina una lettera con cui Veronica Lario chiede al marito pubbliche scuse per aver offeso la sua dignità di donna. Alla cena di gala che segue la premiazione dei Telegatti, Berlusconi si era avvicinato a una signora dicendole: «… se non fossi già sposato ti sposerei subito. Con te andrei ovunque». La lettera di Lario non è, come molti si affrettano a minimizzare, una banale scenata pubblica fra due coniugi. È una ribellione meditata e così motivata: «Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l’esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un’importanza particolarmente pregnante; la difesa della mia dignità di donna ritengo possa aiutare mio figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne, così che egli possa instaurare con loro rapporti sempre sani ed equilibrati».

Due anni dopo, il 28 aprile 2009, in un’email all’Ansa Lario scrive cose molto più esplosive. Prende le distanze da due fatti: l’uso delle donne nelle candidature per le imminenti elezioni europee, la partecipazione del presidente del consiglio alla festa per i diciott’anni di una ragazza di Casoria, Noemi Letizia. Scrive Lario: «La strada del mio matrimonio è segnata. Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni. Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale. Io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione.

Non posso più andare a braccetto con questo spettacolo. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido. Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere. Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà… e per una strana alchimia, il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore. Quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte».

Riguardo alla presenza di suo marito alla festa per Noemi Letizia, Lario aggiunge: «La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo stato invitato».

Il caso Ruby, con tutto quel che ne consegue, scoppierà a fine ottobre 2010, ma è Patrizia D’Addario la prima a parlare dei festini che si svolgevano a palazzo Grazioli e lo fa con un’intervista al Corriere della sera del 17 giugno 2009. Tuttavia è su questo giornale, «il manifesto, che Ida Dominijanni, colloquiando con lei, sposta l’attenzione dall’etichetta di escort per fissarla sulla donna. È qui che D’Addario si svela testimone, come scrive Dominijanni, di «un sistema di scambio corpo-danaro-potere che a suo dire è molto più esteso e radicato di quanto si pensi, incardinato su una colonizzazione dell’immaginario femminile che sogna solo comparsate in tv».

Berlusconi darà le dimissioni da capo del governo l’8 novembre 2011 e non tornerà più a Palazzo Chigi. Sarà lo spread alle stelle la ragione conclamata della fine di una stagione politica. Ma prima, molto prima, sono state due donne a tirarlo giù dal piedistallo.


(Il manifesto, 13 giugno 2023)

di Redazione Online del Corriere della Sera


«La volta in cui Berlusconi mi disse in tv “lei è più bella che intelligente”, io gli risposi “non sono una donna a sua disposizione”. Fu una reazione non pensata, sono parole che escono perché le hai dentro. Dopo quella volta non ho mai fatto pace, né ho parlato di nuovo con Berlusconi, lui non mi ha mai più chiesto scusa ma io non ho rimpianti: non so se quelle scuse le avrei accettate». Sono le parole che Rosy Bindi, ex ministra ed esponente del Partito democratico, ha detto alla trasmissione di Rai Radio1 Un giorno da pecora, mentre commentava la decisione del governo di proclamare il lutto nazionale a seguito della morte del leader di Forza Italia: «I funerali di Stato sono previsti ed è giusto che ci siano ma il lutto nazionale per una persona divisiva com’è stato Berlusconi secondo me non è una scelta opportuna».

Una voce fuori dal coro quella di Bindi, visto che nelle ultime 24 ore anche i “nemici” di sempre di Silvio Berlusconi, si sono uniti ai ricordi e agli addii.

La ex ministra continua: «In questo momento siamo nella fase della santificazione, a parte qualche eccezione, e questo non va bene. I conti col berlusconismo non sono stati fatti quando era vivo spero che verranno fatti ora. Berlusconi – ha proseguito Bindi – non è stato solo un politico, ha fatto l’imprenditore in un certo modo, porta con sé tanti misteri e non riesco a esaltarlo nelle sue capacità imprenditoriali. Se non avesse avuto la protezione della politica non sarebbe stato un grande imprenditore», ha concluso Bindi.

È intervenuta anche alla trasmissione di La7 Tagadà e anche lì ha confermato la sua contrarietà al lutto nazionale e ha aggiunto: «Che sia stato un promotore delle donne questo no. Ha usato le donne. Il senso di proprietà che esprimeva nei confronti delle istituzioni lo esprimeva nei confronti delle donne. Era innamorato di sé stesso. Una cosa buona? La determinazione, il coraggio. Si è sempre rialzato, anche se rialzandosi non è che facesse cose migliori delle precedenti. Però a me i combattenti piacciono, questo l’ho sempre apprezzato».


(Corriere della Sera, 13 giugno 2023)

di Pat Carra



Strisce pubblicate su Il manifesto (maggio-ottobre 2009) e Sex of humour (Fandango 2011). Per approfondire i fatti, leggi Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi di Ida Dominijanni.


(www.erbacce.org, 13 giugno 2023)

di Tomaso Montanari


Scrivo a tutta la comunità per assumermi la responsabilità di una scelta, evidentemente controcorrente, in occasione della scomparsa di Silvio Berlusconi.

Di fronte a questa notizia naturalmente non si può provare alcuna gioia, anzi la tristezza che si prova di fronte ad ogni morte. Ma il giudizio, quello sì, è necessario: perché è vero che Berlusconi ha segnato la storia, ma lo ha fatto lasciando il mondo e l’Italia assai peggiori di come li aveva trovati. Dalla P2 ai rapporti con la mafia via Dell’Utri, dal disprezzo della giustizia alla mercificazione di tutto (a partire dal corpo delle donne, nelle sue tv), dal fiero sdoganamento dei fascisti al governo alla menzogna come metodo sistematico, dall’interesse personale come unico metro alla speculazione edilizia come distruzione della natura. In questo, e in moltissimo altro, Berlusconi è stato il contrario esatto di uno statista, anzi il rovesciamento grottesco del progetto della Costituzione. Nessun odio, ma nessuna santificazione ipocrita. Ricordare chi è stato, è oggi un dovere civile.

Per queste ragioni, nonostante che la Presidenza del Consiglio abbia disposto (https://www.governo.it/it/articolo/bandiere-mezzasta-sugli-edifici-pubblici-e-lutto-nazionale-la-scomparsa-del-presidente) le bandiere a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici da oggi a mercoledì (giorno dei funerali di Stato e lutto nazionale), mi assumo personalmente la responsabilità di disporre che le bandiere di Unistrasi non scendano.

Ognuno obbedisce infine alla propria coscienza, e una università che si inchini a una storia come quella non è una università.


Col più cordiale saluto,

il Rettore

Tomaso Montanari

Professore ordinario di Storia dell’arte moderna

Rettore dell’Università per Stranieri di Siena


(Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2023)

di Giansandro Merli


Omissione di soccorso. La zia del bambino annegato nel 2015 alza la voce dopo il naufragio in Grecia: ora basta, la storia ci giudicherà. «Fermare la navi delle Ong è una decisione inumana. Mi spezza il cuore. Queste politiche devono cambiare. Non si possono lasciare annegare le persone», dice.


«Quando ho visto la foto di mio nipote su quella spiaggia sono crollata e ho gridato. Avrei voluto che il mondo mi sentisse per mettere fine a tutta quella sofferenza. Avrebbe dovuto essere l’ultima», dice Tima Kurdi al telefono. A Vancouver sono le prime ore del mattino, in Italia la sera sta calando sulla Giornata mondiale del rifugiato. Kurdi, siriana-canadese di 53 anni, è la zia di Alan, il bambino trovato morto il 2 settembre 2015 sulla spiaggia turca di Bodrum. La foto di quel corpicino privo di vita fece il giro del mondo e scatenò un’ondata di indignazione. Contribuì ad allentare, per poco, le politiche anti-migranti nell’Egeo e lungo la frontiera di terra tra Grecia e Turchia. Sulla storia della sua famiglia ha scritto un libro, Il bambino sulla spiaggia. Quando una settimana fa ha saputo nel grande naufragio di Pylos, vicino alle coste greche, ha riprovato lo stesso dolore.

La Giornata mondiale del rifugiato 2023 arriva a una settimana dalla morte in mare di quasi settecento persone. Cosa ha pensato quando ne ha avuto notizia?

Mi sono svegliata e ho visto i tweet di Alarm Phone. Poi ho letto i dettagli sulle centinaia di persone bloccate nella stiva di quella nave, tra cui molti bambini. Li ho immaginati affondare e morire nel silenzio. Ho pensato a quegli innocenti che gridavano per chiedere aiuto mentre l’acqua li portava giù. Così sono ritornata alla scena della mia tragedia familiare, a quando mio fratello ha provato a salvare figli e moglie. Loro sono rimasti in acqua diverso tempo perché non c’erano navi di soccorso. Quel giorno piansi senza speranza. Volevo gridare al mondo: quando è troppo è troppo. Stavolta ho sentito il bisogno di fare qualcosa: ho contattato l’equipaggio di Iuventa per dire che avevo il cuore spezzato e dovevo alzare la voce.

Il naufragio di Pylos è una tragedia o una strage?

Guerra, povertà e disastri naturali creano i rifugiati. Quelle persone non hanno scelta e devono lasciare il loro paese. Incolpo tutti coloro che in questi anni sono rimasti zitti. Quante anime innocenti sono annegate nel Mediterraneo mentre il mondo restava in silenzio? La morte di Alan ha scioccato tutti, inclusi i politici. Nei meeting a Bruxelles venivano da me, mi abbracciavano, dicendo che erano dispiaciuti e che quella tragedia sarebbe stata l’ultima. Ma dopo? Quante altre persone sono annegate? Quando si dice che in dieci anni nel Mediterraneo sono morte 25mila persone non ci credo: tantissime altre sono sparite senza che nessuno se ne accorgesse. Per questo alzo la voce: bisogna aiutare chi arriva alle frontiere.

L’altro ieri con una lettera ha criticato gli ostacoli alle navi delle Ong. Il governo italiano è tra i più attivi nel limitarne le attività. Cosa prova di fronte a questo comportamento?

Mi spezza il cuore. È una decisione inumana. Questa politica deve cambiare. Non si possono lasciare annegare le persone. Sono persone. I politici e la comunità internazionale devono sedersi a un tavolo e trovare delle soluzioni per investire nei paesi da dove originano i flussi migratori e migliorarne le condizioni di vita. Devono fermare le guerre. Aiutare chi ha fame. Solo così le persone rimarranno dove sono per migliorare i loro paesi. Invece si bloccano le navi umanitarie. È sbagliato: io sono totalmente dalla loro parte.

Al contrario secondo i governi di Grecia e Italia tutta la responsabilità è di trafficanti, scafisti o addirittura dei migranti che si mettono in viaggio.

Ci sono trafficanti in tutto il mondo. Le persone disperate finiscono nelle loro mani e si mettono in pericolo perché hanno bisogno di partire. È facile per chi è al potere dire: facciamo un muro o blocchiamo le navi di soccorso. Ma queste non sono soluzioni. Le persone soffrono e troveranno sempre e comunque un modo per fuggire. A tutti quelli che incontro dico: aprite il vostro cuore, aprite le vostre porte e accogliete chi arriva. Mettetevi nella loro situazione. Ci sono milioni e milioni di rifugiati nel mondo. Potrebbe succedere anche a voi di diventare uno di loro.

Dopo l’ultimo naufragio, nonostante le centinaia di morti, non c’è stata la stessa indignazione seguita alla morte di suo nipote. È dipeso tutto da quella foto del suo corpo sulla spiaggia?

Quella foto ha svegliato il mondo. Personalmente credo che dio abbia messo una luce su quell’immagine per lanciare un messaggio: troppe persone stanno affogando. Ma non c’è differenza tra le diverse tragedie. Molti altri sono morti come Alan. Di quest’ultimo naufragio dobbiamo sapere: dove sono i dispersi? Come si chiamano i morti? Chi erano, cosa facevano, quanti anni avevano tutte queste persone? La storia ci giudicherà per questi fatti. Nel futuro si proverà vergogna di chi non ha fatto nulla per aiutare quelle vittime. Andate dai vostri politici, parlate nella vostra comunità, chiedete ovunque di mettere fine a questa situazione.


(Il manifesto, 12 giugno 2023)