di Andrea Inzerillo e Mirta Ursula Gariboldi
L’ultimo film di Laura Citarella, Trenque Lauquen, è stato presentato in concorso nella sezione Orizzonti del festival di Venezia 2022 e da allora ha vinto premi in tutto il mondo. Da inizio maggio nelle sale francesi, film del mese per i Cahiers du Cinéma, si prepara all’uscita in Germania. A Palermo il Sicilia Queer Filmfest dedica la prima retrospettiva integrale alla regista e produttrice argentina, talentuosa esponente del gruppo El Pampero Cine. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua idea di cinema per spiegare la dimensione collettiva del suo lavoro ma anche per entrare maggiormente in quelli che sono i temi a lei più cari: l’indipendenza, il femminismo, il mistero. «La prima volta che ho incontrato Mariano Llinás, che era mio professore all’università, mi ha colpito il suo approccio casereccio e sfrenato di pensare alla produzione. Io avevo conosciuto l’industria e lavorato per diversi film e progetti, e mi sentivo sempre un po’ distante dallo schema lavorativo padronale. Mariano aveva creato una forma di lavoro che implicava anche l’amicizia. I film del Pampero Cine devono la loro esistenza al modo in cui vengono prodotti, che è quasi l’unica maniera che conosciamo di fare cinema. Il grado di avventura e sfrontatezza, lo schema rizomatico per cui tutto si espande e si apre da ogni lato non sarebbe possibile se non li producessimo con questa idea di “compagnia”, di gruppo, che ci caratterizza. Se si parte dall’idea che gli oggetti cinematografici non sono merci, se non li si considera come qualcosa da cui trarre profitto, vengono meno moltissimi obblighi e faccende commerciali; e quando non sei in debito con nessuno puoi lavorare con gli attori che vuoi e far durare i film quanto devono durare. Dal punto di vista economico il movimento generato da film di questo tipo è molto ridotto; quindi, per sopravvivere, si cercano altre possibilità, come scrivere sceneggiature per l’industria o tenere corsi all’università o workshop. Ma questa indipendenza e il tentativo di fare film così non sono mai pensati come una tappa verso qualcos’altro – come avviene nella maggior parte dei casi all’interno dell’industria. Il percorso è esso stesso la ricerca di una forma di produzione. Per ogni film bisogna pensare a un nuovo modo di produzione, a una nuova forma di messa in scena – perché la produzione influenzerà ovviamente le possibilità di messa in scena – e questo genererà immagini che saranno anch’esse nuove. Questo spazio di sperimentazione si basa sull’idea che non c’è un punto al quale arrivare, come presuppone l’idea di carriera nel mondo del cinema, che a volte è un po’ frivolo. L’idea è quella di reinventarsi quotidianamente, di costruire formule che non si ripetano da un film all’altro. Col desiderio di perdersi, senza orizzonti, e di trovare i film lungo la strada.
In che modo è nato, e come si è strutturato, il vostro rapporto con il cinema?
Historias extraordinarias [Mariano Llinás, 2008] è stata la madre di tutte le battaglie. Scoprimmo che il cinema poteva diventare un esercizio costante e incessante e fondersi continuamente con la nostra vita: i viaggi cessavano di essere solo viaggi perché portavano sempre a dei film; il piano di lavoro e il trascorrere del tempo con gli amici diventavano improvvisamente sincronizzati. Il tempo comincia ad assumere un valore diverso e i film si fanno mentre accadono molte altre cose (anche mentre si impara a farli). Per quel film abbiamo viaggiato per due mesi facendo sopralluoghi in tutta la provincia di Buenos Aires, conoscendone tutti gli angoli e pensando il film tutti insieme. Historias extraordinarias è stato la conferma del quartetto del Pampero Cine, ovvero Mariano Llinás, Alejo Moguillansky, Agustín Mendilaharzu e io: ognuno a suo modo e secondo il suo mestiere porta questa capacità e questo modo di fare cinema il più lontano possibile. Da quel momento a oggi la reinvenzione è costante, è un lavoro quotidiano in cui si ripensa sé stessi, il cinema e le sue modalità di produzione. È una forma di produzione talmente mediata dalla propria vita che vita e film non sono mai separati. Con Ostende, il mio primo lungometraggio da regista, mi sono resa conto che all’interno di questo stesso schema potevo anche dirigere dei film: non è che chi si occupa di produzione è condannato a fare esclusivamente produzione, direi che anzi è il contrario. Mi sembra che questo gioco tra i due ruoli mi abbia permesso di trovare la mia strada come regista all’interno di questa struttura. Tutti noi del Pampero Cine siamo produttori proprio per questo motivo. Non mi sento meno parte di La flor [Mariano Llinás, 2018] perché ne sono la produttrice: ovviamente ho un rapporto molto più intenso con Trenque Lauquen, perché dirigere un film comporta sempre una grande solitudine e sofferenza personale, ma al di là di questo non percepisco gli altri film del Pampero Cine come meno miei, perché l’esperienza cinematografica ha a che vedere con il fare i film, indipendentemente dal tipo di lavoro che si svolge.
In “Ostende” si trovano già molti elementi che torneranno in “Trenque Lauquen”: al di là di Laura Paredes, che è protagonista di entrambi i film, c’è una stessa capacità di creare suspense con molto poco; la ricerca di libertà e la storia di emancipazione di una donna che mette in discussione le relazioni tra i sessi; il tuo interesse per il cinema di genere.
Sì, in Trenque Lauquen e in Ostende c’è qualcosa che ha a che fare con l’intensità della finzione e con il modo in cui questa prevale sulle relazioni ordinarie. In entrambi i casi le protagoniste mettono in crisi la loro vita quotidiana attraverso le avventure e questo le porta al loro massimo splendore, alla loro massima capacità di piacere e di rapporto con la realtà. In Ostende la protagonista ha un fidanzato convenzionale, una relazione eterosessuale ordinaria senza molti alti e bassi, e in Trenque Lauquen il personaggio è abbastanza simile, solo in un’età diversa. In Ostende c’è l’idea di vivere un’altra vita, esperienze di altro tipo, di considerare la suspense o la finzione come stile di vita e il mondo come spazio della finzione. In Trenque Lauquen tutto questo viene moltiplicato e il film si chiede direttamente quante vite si possano vivere in una sola vita.
“Las poetas visitan a Juana Bignozzi” del 2019, co-diretto con Mercedes Halfon, è forse il tuo film più documentaristico, ma anche quello dove si vede meglio la macchina del cinema, come se il cinema stesso fosse il suo vero tema. Mi fa pensare a “Effetto notte” di François Truffaut: l’energia di un gruppo di persone che fanno cinema, i movimenti tuoi e della tua squadra…
Sì, l’aspetto e la forza dell’essere un gruppo di donne è molto interessante. Juana Bignozzi è morta il giorno in cui Mercedes Halfon è venuta a intervistare me e Verónica Llinás per la prima di La mujer de los perros. Quel giorno mi ha raccontato che era morta una poetessa molto amata dai giovani poeti, un po’ come noi “giovani” cineasti amavamo Hugo Santiago. Due anni dopo mi chiama dicendomi che ne ha ereditato l’opera, che stavano svuotando casa sua e che le sarebbe piaciuto filmare il tutto. E mentre documentavo questa operazione cominciai a capire che stava nascendo un film. Alla fine è sempre una finzione con la scusa del ritratto, o un ritratto con la scusa della finzione. Il film è nato in questo clima di scambio tra donne, e l’incontro tra le cineaste, Mercedes e Juana ha creato un’esperienza autenticamente collettiva, nella quale tutte avevamo messo da parte il timore di trasformarci a vicenda. Durante le riprese del film (e di Trenque Lauquen, perché lavoravo a entrambi contemporaneamente) sono rimasta incinta ed è nata mia figlia Lucía. Ho continuato a girare con lei neonata: la mettevamo per terra e la lasciavamo lì mentre giravamo. La sua presenza creava un tempo differente, e tutte noi ci abbandonavamo a questo tempo. Erano riprese molto dialogate: parlavamo di femminismo e di politica, discutevamo a lungo, e finivamo per filmare pochissimo. Questo flusso faceva sì che ci perdessimo un po’ e che per un momento smettesse di avere importanza di chi fossero le idee. L’importante era rendere visibili le cose e vederle tra tutte noi, non declamare concetti per metterci in mostra o per vincere una discussione. Credo che questa dimensione caratterizzi il film, nel quale appare una zona di ambiguità molto interessante: qualcosa della nostra energia e di questo lavoro tra donne. Sento che se in queste conversazioni avessero partecipato degli uomini la cosa avrebbe potuto essere diversa.
C’è un rapporto diretto tra “Las poetas” e “Trenque Lauquen”: in entrambi compare la dimensione dell’indagine, che è una e più d’una contemporaneamente, perché si tratta di provare a scoprire il mistero di una o più persone. Le domande finiscono allora per trasformarsi costantemente: da «Come si filma una poetessa?» a «Come si filma la poesia?», e quindi: «Si può filmare la poesia?»; «Cosa si può filmare, in generale?»; «Qual è il limite del cinema?».
Quando abbiamo trovato nella libreria di Juana Bignozzi il libro di Aleksandra Kollontaj Amore e rivoluzione: idee di una comunista sessualmente emancipata, per me è stata una rivelazione. La sequenza del libro di Kollontaj è esattamente la stessa nei due film: la voce off di Laura Paredes [in Trenque Lauquen] e quella di Las poetas sono praticamente uguali, ma il senso che lo stesso frammento ha in ognuno dei due film è completamente diverso. Quello che mi sembrava più interessante era l’idea di gruppo in senso politico, qualcosa di totalmente familiare al movimento femminista: il dire «i miei successi non sono miei, ma nostri». La conclusione che si trae alla fine di Las poetas è che l’opera di Juana non è di qualcuno, ma è del mondo e serve al mondo, perché serve per la vita. Come dice Juana, serve per prendere il Palazzo d’Inverno, serve per innamorarsi, per l’amicizia. Allo stesso modo, nel cinema ciò che più conta è l’esperienza comune. In Trenque Lauquen il fatto che i personaggi lavorino insieme, si raccontino storie e condividano avventure fa sì che nasca l’amore, la trasformazione, l’epica e l’avventura, come se nella possibilità di narrare o di avventurarsi comparisse un triangolo amoroso tra la vita, i film e i rapporti tra le persone.
Per il critico spagnolo Carlos Losilla “Trenque Lauquen” è una sorta di remake di “L’avventura” di Antonioni, ad altri potrebbe sembrare una specie di “Twin Peaks” argentino.
Mi azzarderei a dire che è un film sul mistero, anche se potrei cambiare idea. È senza dubbio il mio film più personale: l’ho girato nel paese della mia famiglia, ci recita mio marito, io appaio incinta, compare mia figlia, mio fratello suona il pianoforte. A un certo punto si vede mia nonna. Volevo includere aspetti della mia biografia senza mettere necessariamente me stessa al centro. La cultura autobiografica dell’io che prevale negli ultimi anni e occupa gran parte della scena cinematografica con film d’archivio di famiglia e diari personali mi sembra molto conformista. Trenque Lauquen difende l’idea di diluire il biografico in un racconto: è il film più personale che ho realizzato eppure è al contempo la macchina narrativa più importante alla quale ho lavorato come regista.
Lo si potrebbe anche vedere come un film che sostiene un’altra idea di gravidanza, pensata come un’esperienza catalizzatrice, più che fisica, che modifica la percezione del mondo e dà spazio alla dimensione del mistero.
C’è chiaramente qualcosa in questo film, che non si tematizza e neanche si nomina, ma che è presente. Il film stesso è mutante, i generi o i misteri sono in continua trasformazione, e non c’è niente di più mutante della maternità. Ci sono continui riferimenti anche se la maternità non diventa mai un tema: in questo film essere incinta è una specie di costume di scena, qualcosa che accade alle donne mentre fanno altre cose e non la loro condizione essenziale, quale si è soliti attribuire alle donne quando sono incinte. Credo che l’incontro della maternità con una certa animalità e con un po’ di follia sia uno dei pochi concetti che il film potrebbe stabilire intorno all’idea di essere madre. Tutto questo è certamente il frutto degli stimoli che avevo in quel momento, delle molte letture che mi spingevano a interrogarmi sul rapporto tra cinema e femminismo. Finito il film mi sembra di poter dire, provvisoriamente, che cinema e femminismo debbano pensarsi reciprocamente a partire da figure di finzione e di struttura, più che dai temi. Ma non c’è nulla di definitivo: quel che mi affascina del femminismo è proprio che si muove in continuazione e non è possibile acciuffarlo. Il film fa la stessa cosa: i misteri si muovono così tanto che non si riesce a coglierli. Per me il femminismo è un modo di comportarsi, un modo di pensare, è una forma nella quale mi sento a mio agio, nella quale posso cambiare idea, in cui posso mitigare le mie posizioni, in cui non ho bisogno di chiudere la mia mente perché dare un nome alle cose significa limitarle, e il femminismo è di per sé una forma di illimitatezza, di inclusione, di diversità.
“Trenque Lauquen” mi sembra aver ereditato molto bene l’ultima ondata di femminismo che dall’Argentina si è diffusa in tutto il mondo.
Il film mostra il modo di nominare e intendere il mondo che hanno due uomini, e poi quello alternativo, assai più morbido, misterioso e ambiguo di risolvere i problemi che hanno le donne. Un modo diverso di guardare al conflitto che propone una possibilità del mondo. D’altra parte sono presenti anche forme d’amore meno precise: il trio che si ritrova a vivere insieme con una creatura in soffitta configura una possibilità diversa di pensare all’amore, legata proprio a quanto dice Kollontaj sull’opposizione tra amore e lavoro. E tuttavia quel che più mi interessa ha a che fare con la logica del collettivo, del plurale, che si traduce nel modo di fare cinema e nel modo in cui penso che le strutture di potere possano essere smantellate. In una struttura industriale in cui le cose sono costruite in senso verticale, le differenze di classe e di genere si intensificano. Nell’industria c’è molta disuguaglianza perché è verticistica e incentrata sugli interessi dei capi: qualcuno ci rimette sempre, e se non è una donna è qualcuno di una classe inferiore, uno che non è bianco o che appartiene a un’altra minoranza. L’apparizione di Kollontaj nel film flirta con il femminismo ma introduce un problema meno trattato: perché non entriamo nel femminismo a partire dalle strutture, dalle forme di lavoro, dal parlare al plurale? Il film lavora con molti elementi con cui il femminismo può essere pensato, e credo che una persona che vede Trenque Lauquen possa ritrovarsi a riflettere su questioni femministe quasi senza rendersene conto, perché il film non vuole indottrinare, spiegare o essere pedagogico. È così che il femminismo opera e può davvero trasformare la realtà.
(Il manifesto – Alias , 27 maggio 2023)
di Franca Fortunato
Niente accade per caso, mi sono detta dopo aver letto il libro Il vento fra i capelli. La mia lotta per la libertà nel moderno Iran della scrittrice, giornalista, attivista Masih Alinejad, pensando al movimento “Donna Vita Libertà” seguito alla morte della 22enne curda Mahsa Amini, arrestata e pestata dalla polizia morale perché non portava il velo correttamente. Il libro è l’autobiografia di una delle figlie “ribelli”, invise al potere, della “rivoluzione islamica”, divenuta la voce di «milioni di iraniane che vogliono essere libere di scegliere per sé». La sua è la storia dell’Iran dalla “rivoluzione” a oggi e di una delle figlie delle centomila donne che l’8 marzo 1979 scesero in piazza per manifestare contro l’obbligo dell’hijab rendendosi conto «soltanto dopo il trionfo della rivoluzione di aver rinunciato volontariamente ai propri diritti e portato al governo un regime che imponeva la sottomissione». È la storia delle figlie a cui, come alle loro madri, era stato insegnato a nascondere il proprio corpo, a nascondere le forme femminili perché spingevano gli uomini a peccare. È la storia della figlia adolescente che a sedici anni assaporava il piacere proibito di liberarsi del velo appena fuori casa per poi rimetterselo quando rientrava. «La mia libertà clandestina» la chiamava, libertà che da adulta, convinta che appartenesse a tutte le donne iraniane, portò allo scoperto quando, dall’esilio, con la campagna online “La mia libertà clandestina” invitò le donne irachene a mandarle foto senza velo. «Foto di quando guidiamo a capo scoperto, passeggiamo senza il velo tra i boschi o al mare, stiamo in cima a un albero o nel deserto, dove possiamo respirare liberamente». Era il 2014 e in migliaia risposero con foto e video di quando si toglievano il velo. La resistenza all’obbligo del velo uscì così dalla clandestinità e il mondo intero attraverso facebook poté conoscere un altro Iran, l’Iran delle donne. Donne coraggiose, forti, libere che rischiavano il carcere o 74 frustate per aver infranto la legge.
Le iraniane stavano dicendo al mondo intero «non ho scelto io di mettere l’hijab, e voglio essere libera di scegliere». E questo per i chierici in patria era pericolosissimo. Fino ad allora avevano raccontato che le iraniane erano contente di portare il velo. «Adoravo sentire il vento tra i capelli. Ogni volta che sento il vento soffiare tra i capelli ripenso a quanto tempo sono stati ostaggio dei potenti della Repubblica islamica». Ostaggio che per ogni donna irachena diventa a sette anni con l’obbligo ad osservare la legge sull’hijab anche se non è musulmana. Senza velo non possono studiare, lavorare, farsi vedere in pubblico senza essere arrestate e incarcerate. Il mondo intero parlava delle coraggiose donne irachene. Si aprirono le porte dei mass media. Il regime reagì. A Isfahan venticinque donne vennero aggredite con l’acido in faccia mentre erano in macchina o a passeggio. In migliaia scesero in piazza, la polizia le caricò. Alla campagna delle donne si unirono anche gli uomini non solo iraniani, che mandarono foto con il capo coperto. Nel 2017 il movimento dai social si spostò nelle strade con la campagna “mercoledì bianchi”. «Chiesi a tutte di scendere ogni mercoledì in piazza senza l’hijab o con un velo o uno scialle bianco in segno di protesta all’obbligo del velo. Gli uomini con una maglietta o un bracciale bianco». Le donne mandarono foto e video. Arrivarono minacce, arresti, ma le proteste andarono avanti. «Il futuro dell’Iran dipende dalle ribelli. È per questo che la lotta andrà avanti […], finché non sentiremo tutte il vento tra i capelli». Niente accade per caso nell’Iran delle donne.
(Il Quotidiano del Sud, 27 maggio 2023)
di Bianca Bottero
Confrontandosi originalmente con una vicenda che lei, giovane donna, ha solo letto nei libri e sentito narrare, Benedetta Tobagi affronta in questo che possiamo definire romanzo/ricerca, due dei topoi che oggi si presentano in modo dirompente, ma sovente distorto, banalizzato, reso, per la troppa enfasi addirittura disturbante: sono il topos del femminismo da un lato e quello della resistenza dall’altro.
Con l’obiettivo, da lei espresso nella recente presentazione del libro il 13 maggio presso la Libreria delle donne di Milano, di «far respirare la storia», Benedetta Tobagi costruisce infatti una sorta di Spoon River al femminile, dove una infinità di donne si affollano, conservando il loro nome e cognome oltre a quello assunto nella resistenza, ma insieme le loro storie di vita, fornite per piccolissimi accenni ma fondamentali a caratterizzarne i moventi, le debolezze, i sentimenti. È uno stuolo femminile che acquista con ciò una concretezza e insieme una sostanza quasi di elemento naturale, mai ideologico, mai banale o ovvio. Né ovvie o banali sono le fotografie, in bianco e nero, piccole, sfocate, che Tobagi ha puntigliosamente cercato e affiancato ai nomi delle donne citate, che sono con volti segnati o ridenti, graziosi o fatali o come si sia; gruppi di donne/natura mi verrebbe da dire, per come si rapportano tra loro, per come, lentamente fioriscono a una vita per loro nuova e insperata di libertà. È così che rileggere nel testo la ricorrente affermazione «Ho fatto quel che dovevo fare» quando, nella fase drammatica del dopo l’8 settembre, migliaia di donne del sud e del nord hanno nascosto, vestito, sfamato i ragazzi soldati, lasciati senza qualsiasi forma di guida da parte dei loro comandanti, fuggiti dalle caserme, lontani da casa, alla mercè della immediata reazione nazista contro i traditori italiani, accende una luce importante su di un mondo, prevalentemente popolare, operaio, contadino, che ha visto e patito le sofferenze della guerra come una sopraffazione, ulteriore rispetto a quella cui da tempo immemorabile sono soggette le classi più umili, ma che non ha comunque smarrito quel dono di umanità che in gran parte lo contraddistingue e che in particolare fa emergere dal misconosciuto, indistinto universo femminile, una formidabile, epica, dignità. È da questa premessa, da questo primo atto di opposizione al sopruso e per la vita, che nasce lo spirito più vivo e vero della futura resistenza delle donne. Che anche in seguito, quando nel centro-nord si costituiranno le formazioni di giovani combattenti, guidate da uomini, si affiancheranno ai gruppi, indossando pantaloni, rompendo i tabù millenari che le volevano in gonne, sfidando anche maldicenze e divieti familiari. E rappresenteranno anche un importantissimo aiuto, col rischio della vita, nel creare collegamenti, nel fornire armi e volantini alle varie bande partigiane, nel dare generosamente cibo, nascondiglio e supporto ai gruppi o ai singoli sbandati.
Ma, come continuamente ripreso e sottolineato da Benedetta Tobagi, pur entro questa gloriosa e anche gioiosa impresa, mai viene meno la convinzione, propria alla millenaria società patriarcale, fortissima in Italia, della ovvia inferiorità femminile. Se solo indicativo è il termine di staffette per le donne che agiscono nei collegamenti, ritenuto più adatto di quello di portaordini utilizzato per gli uomini, più gravi e mortificanti sono le imposizioni di comportamenti e doveri. Così nelle sfilate vittoriose non si vorrà che le donne partecipino, così è giudicato improprio l’abbandono della gonna per indossare i pantaloni, così i mariti rimbrotteranno duramente le mogli per mancanze nei lavori di casa, così lo stesso PCI affonderà le critiche per comportamenti ritenuti troppo liberi… È una situazione alla quale le donne stesse finiscono per assoggettarsi, che addirittura introiettano e alla quale in molti casi tornano a sottomettersi dopo la grande avventura di libertà vissuta nella resistenza.
Ma non tutto è stato solo Libertà: e mi ha fatto sobbalzare in chiusura del libro il ritorno di Tobagi in prima persona, a raccontare un fatto straziante che le pertiene direttamente. È la storia di Virginia Tonelli, una “staffetta”, «…mandata in missione a Trieste dove l’arrestano. Finisce alla Risiera di San Sabba, il lager triestino, l’unico campo di concentramento italiano dotato di forni crematori dove, dopo dieci giorni di torture, a 42 anni viene arsa viva perché si è rifiutata di parlare… Virginia, lo stesso nome della madre di mia madre… Virginia, alias la partigiana Luisa, il nome della mia nonna paterna… con un sorriso che ti regala l’anima, il mio possibile dentro il passato». Benedetta Tobagi, che ha vissuto il trauma dell’uccisione del padre negli anni ’80 da parte di incoscienti “rivoluzionari”, finisce il libro, finora così pacato, in un richiamo appassionato a una spirituale affinità a una donna, una sovversiva, una partigiana comunista dagli occhi ardenti che «trasformava in silenzio l’odio».
(www.libreriadelledonne.it, 24 maggio 2023)
di Alberto Leiss
Scrivo qualche ora prima di andare a discutere in un’aula universitaria sul libro di Maria Luisa Boccia Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista (manifestolibri, 2023), di cui ha parlato qui Pasqualina Napoletano. Per ora di questo testo, breve quanto prezioso per riuscire almeno a pensare su un evento – il ritorno della guerra nel mondo, e ora e di nuovo «nel cuore» dell’Europa dopo il troppo rimosso conflitto nella ex Jugoslavia – che sembra annichilire le nostre facoltà mentali, citerò solo un passo, tratto da un articolo del 2003 sulla rivista Via Dogana:
«…tenere conto dell’odio, o meglio dell’aggressività, mi sembra necessario per recuperare la funzione positiva della conflittualità, sganciandola dall’opposizione distruttiva tra amico e nemico. Non vedo altro modo di sfuggire all’alternativa tra una pace impolitica e una politica guerriera. E non vedo come si possa farlo se donne e uomini non mettono in gioco la differenza sessuale, sottraendola a posizioni speculari che troppo ancora la irrigidiscono».
Non commento; mi piacerebbe sapere che interrogativi suscita in chi lo legge. Lo cito perché ha fatto risuonare qualcosa in me oggi, dopo l’impressione che mi hanno fatto le parole di Zelensky, di fronte a quella che sembra la definitiva (?) «conquista» da parte dei mercenari russi delle rovine di Bakhmut. L’intera Ucraina «come Hiroshima».
Considero Putin un politico criminale, ma devo dire che mi è sembrata una frase assurda, inquietante, sbagliata, pronunciata nel luogo – altrettanto assurdamente inquietante e sbagliato, la città distrutta dall’atomica americana – scelto per la riunione di questo bellicoso G7.
Per il resto me la cavo suggerendo di ascoltare anche un altro discorso. Quello di Ida Dominijanni a un recente seminario promosso dall’Alleanza Verdi Sinistra.
Condivido molto una sua prima considerazione: c’è qualcosa di «intollerabile» nel fatto che né la sinistra italiana né quella europea abbiano finora sentito il bisogno di riflettere sul fatto la guerra in Ucraina è anche la prima guerra interna all’ex campo “socialista” ed è legata ai modi in cui quel campo dopo l’89 si è decomposto.
È “anche” questo perché secondo Dominijanni intorno a Kiev si combattono almeno tre conflitti intrecciati. Uno è definito dalla (imprevista) aggressione russa e dalla (imprevista) reazione ucraina per la propria indipendenza. Il secondo è una guerra «preventiva» russa (termine che evoca la analoga posizione americana contro terrorismi e «stati canaglia») contro ulteriori espansioni Nato. La quale Nato è da tempo impegnata contro le mire neoimperialiste russe più o meno reali o presunte. Infine, come dimostrano le conclusioni del citato G7, è una guerra la cui posta in gioco maggiore è la ridefinizione dell’«ordine» mondiale, in una fase in cui il comando unipolare Usa è messo in discussione non solo da Cina e Russia.
Da questo concentrato bellico si diparte una torsione politica e simbolica che sembra azzerare il linguaggio politico soprattutto dalle nostre parti europee. Anche quello di chi si oppone, concentrando molto, forse troppo, sulla questione del mandare o non mandare armi.
Dominijanni cita anche la «ribellione dei maschi giovani alla coscrizione obbligatoria» che emerge in Russia, ma anche in Ucraina. E i due diversi “modelli”, uno nostalgico e l’altro «eroico e democratico», ma entrambi «patriarcali», incarnati dai due nemici che si combattono, Putin e Zelensky.
Osservazioni dalle quali sarebbe interessante ripartire?
(il manifesto 23 maggio 2023)
di Redazione Erbacce – Illustrazione di Piera Bosotti
Dopo aver letto il libro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane* abbiamo voluto conoscere l’autrice, Lucia Tozzi, tale era l’empatia con il suo tono analitico, tagliente e a tratti satirico. In particolare le abbiamo chiesto di approfondire la questione del Museo della Resistenza, in attesa dell’incontro del 31 maggio alle ore 18 al Circolo Combattenti nell’area verde, con glicine e tigli secolari, destinata al museo. Lucia è una studiosa e una pasionaria delle politiche urbane; tra i suoi libri Dopo il turismo e Napoli. Contro il panorama.
Nel tuo libro capovolgi la narrazione euforica di una città, Milano, che negli anni pre- e post-Expo si è trasformata in una metropoli del lusso. La definisci inventata, più che reale, da poteri economici che hanno interessi ben ancorati alla realtà. Quali sono i punti centrali della riflessione?
Il primo punto è il passaggio da una città che nel bene e nel male era fondata sulla produzione di merci, di cultura, di lavoro sociale a una città “attrattiva”, intenta a produrre solo un’immagine capace di attrarre i flussi finanziari e turistici, o gli abitanti a breve termine come expat e studenti. È avvenuto con l’Expo, ed è costato grandi sacrifici alla popolazione più fragile, che è stata espulsa dalla valorizzazione, dalla rendita elevata a metro e obbiettivo della crescita urbana.
Il secondo punto, fondamentale, è l’affossamento del conflitto e della capacità critica, ottenuto attraverso una forma molto profonda di propaganda che nega ogni contraddizione tra questo modello violento di crescita, fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, e la possibilità di assicurare a tutti i cittadini i servizi pubblici, lo spazio pubblico, il diritto di abitare in modo decente.
Come sono state trattate le voci critiche e le forze antagoniste?
Insieme alla propaganda mediatica, è stata cruciale l’elaborazione, a partire dalla giunta Pisapia, di forme di finta partecipazione, di stampo neoliberale, che in modo ricattatorio pretendono forme di “attivazione” dei cittadini che assomigliano molto a un consenso forzato. Sono state create reti claustrofobiche legate al sistema dei bandi, da cui non è facile smarcarsi e in cui è repressa ogni forma di critica anche velata. Di fatto, in questo modo si è avallato, attraverso la sussidiarietà spinta a livelli estremi, un regime di privatizzazione di servizi e spazi allocati a privati e terzo settore, ma spacciati per tutela del bene comune.
Negli ultimi mesi è ripresa la lotta in difesa del glicine e degli alberi secolari di Porta Volta/Garibaldi, in un’area verde gestita dal Circolo combattenti e dal Giardino Lea Garofalo. Lì dovrebbe sorgere la seconda piramide di vetro e cemento degli archistar Herzog & De Meuron, destinata questa volta al Museo della Resistenza, dopo quella di Fondazione Feltrinelli e Microsoft.
Si, quell’area sembrava a un certo punto destinata a rimanere libera, perché il Comune, proprietario, non sapeva bene a chi destinare questa piramide speculare a quella Feltrinelli-Microsoft, che avrebbe dovuto completare il progetto iniziato nel 2015 da Feltrinelli e Coima. Erano andati a vuoto parecchi bandi, e i cittadini che gestivano il Giardino Lea Galofaro hanno cominciato a protestare, chiedendo nel 2019 di lasciare intatta questa area verde, per lasciare riposare lo sguardo in un tessuto urbano così denso. A quel punto, dicembre 2019, il ministro Franceschini annunciò un finanziamento di 15 milioni per sistemare nella piramide il Museo Nazionale della Resistenza, in uno spazio di 2500 metri quadrati. Ne scaturirono molte critiche intelligenti, ricordo in particolare quella del collettivo MiRiconosci? ma anche tantissime altre. Poi con il Covid, e soprattutto con il clima sospeso per la rielezione di Sala nel 2021, un lungo silenzio. Fino a qualche mese fa.
Alcuni consiglieri comunali (in primis Monguzzi) hanno chiesto una piccola revisione della piramide per salvare glicine e tigli, mantenendo la costruzione. Che cosa ne pensi?
Il problema non sono solo il glicine e i tigli: quel progetto non ha più alcun senso, il museo va fatto da qualche altra parte senza consumare suolo, in qualcuno dei tantissimi edifici in disuso presenti in città.
Le contraddizioni sono molte: il Ministero della cultura del governo attuale potrebbe esigere una sezione dedicata alle foibe, per esempio. O approfittare delle critiche e dei conflitti per eliminare del tutto il MdR, non sono ipotesi da sottovalutare.
Al di là delle foibe, la memoria sui fatti del fascismo e della Resistenza è diventata un terreno di battaglia così conteso, e così strategico dal punto di vista simbolico, da ostacolare a volte la stessa ricerca storica. Personalmente credo che il comitato scientifico sia talmente autorevole da offrire una garanzia assoluta contro qualsiasi ipotesi del genere: non riesco a pensare a membri dell’Anpi o dell’Istituto Ferruccio Parri disposti a contrattare versioni edulcorate o alterate della storia di quegli anni. Ma esiste un rischio più che concreto che un governo così attento a contrastare ogni forma di cultura simbolicamente avversa spinga il progetto del Museo della Resistenza solo in funzione della cantierizzazione della piramide, e poi lo faccia fallire ancor prima di vedere la luce. Secondo me un Museo Nazionale della Resistenza non può e non deve nascere in un contesto del genere, in cui governo e opposizione attuano identiche politiche neoliberali e si scontrano solo sul piano simbolico. L’idea di cultura che condividono è in sostanza quella di una vacca da mungere per ricavarne denaro e soft power. Sono certa che oltre a qualche irricevibile proposta di memoria delle foibe potrebbe arrivare la richiesta di progettare il museo come una Resistenza Experience, con tanto di oculus e strutture interattive, o come diceva Battiato “proiettori e raggi laser”. E non sarebbe meno degradante e pericoloso.
L’uso strumentale delle buone cause per assicurarsi il consenso o almeno il silenzio è un fenomeno diffuso a Milano?
Assolutamente sì, un altro esempio terribile oltre al Museo della Resistenza è il caso del progetto di moschea localizzato a via Esterle perché funzionale allo sgombero degli occupanti di una palazzina pubblica: decine di riders, famiglie, persone che difficilmente troveranno altre collocazioni. È il miglior sistema per dividere il fronte dell’opposizione: chi contesta la moschea viene subito tacciato di essere razzista e islamofobo, così come qualsiasi dubbio sul Museo della Resistenza viene messo a tacere come espressione di complicità con la cultura fascista.
I conflitti aperti qui e là, come quello per lo stadio a San Siro, e le proteste degli studenti che non trovano casa, hanno aperto una crepa nella splendente vetrina del Modello Milano; non è più così facile, per le istituzioni e i gruppi finanziari, andare avanti indisturbati. Secondo te l’invenzione di Milano è una bolla che può scoppiare?
Potrebbe, ma dobbiamo essere molto bravi, perché il discorso pubblico tenta continuamente di appropriarsi delle istanze meno aggressive della critica per ricondurle nell’alveo di un discorso conciliatorio, focalizzato sul “si può fare di più, si può fare meglio”. Come se fosse solo un problema di efficienza, di riduzione delle “esternalità negative” e non di cambiare radicalmente la direzione politica. I media che fino a ieri gareggiavano a tessere le lodi del Modello ora rincorrono gli studenti, interrogano personaggi mediatori e cercano di far passare la tesi che il problema del caro affitti esiste, ma si risolve con qualche studentato pubblico-privato e qualche briciola di housing sociale. I politici che da anni governano questa città e hanno spinto con tutte le loro forze per valorizzarne ogni metro quadro, oggi riconoscono che in effetti “lasciare indietro le persone fragili” non è propriamente democratico, ma continuano a scaricare la responsabilità sul governo nazionale o a proporre come soluzione la privatizzazione a oltranza del patrimonio e dei servizi pubblici: stadi, piscine, centri sportivi, biblioteche, addirittura le case popolari, come sta cercando di fare Maran, assessore alla Casa.
*L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023)
(Erbacce.org, 23 maggio 2023)
di Monica Lanfranco
«Un ginecologo cattolico, Adriano Bompiani, disse una volta che le donne sono disposte a tutto per avere un figlio, e disposte a tutto per non averlo. È così. L’ho capito anche pensando a mia madre. Se una donna rifiuta il minuscolo esserino che è entrato dentro di lei senza chiedere il permesso, se lo vive come un alieno ostile che le cresce in seno e prende possesso del suo corpo contro la sua volontà, è disposta a rischiare la vita, a uccidersi e ucciderlo, pur di cacciarlo via da sé. La maternità ha un suo lato oscuro, non è tutta luce. Mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, richiede di fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano. Le femministe sostenevano che l’aborto “esula dal territorio del diritto”, ma è vero anche per la maternità, che la cultura patriarcale non ha mai saputo e voluto pensare, a cui ha eretto un mito fasullo per evitare di riconoscerle importanza e centralità. La cittadinanza, nelle democrazie occidentali, è costruita sul concetto di individuo, che etimologicamente significa che non si divide, ed esclude, quindi, le donne. Il corpo materno infatti si divide, per nove mesi è due in uno, creature distinte in un unico corpo. Il risultato è che una donna non è cittadina, non è soggetto di diritti se non appiattendo la differenza e lasciandosi assimilare al maschio-individuo, svalorizzando il potere di generare e confinandolo nel privato». È un passaggio del libro Una famiglia radicale di Eugenia Roccella: un testo denso, ben scritto e coinvolgente, che ho acquistato a fine gennaio di quest’anno in versione digitale incuriosita dal ritratto uscito a firma di Raffaele Oriani su Repubblica, testata non certo tenera nei confronti di questo governo.
Roccella fu subito criticata da una parte della sinistra e del femminismo per avere detto che “l’aborto è il lato oscuro della maternità”, e per aver altresì detto che abortire è purtroppo un diritto delle donne.
Sia il brano tratto dal libro sia le due affermazioni della ministra di un governo di destra estrema, eppure attivista radicale nonviolenta e femminista (non ha mai rinnegato il suo passato) sono non soltanto condivisibili, ma a pieno titolo parte della riflessione femminista. Roccella provò a spiegare quel “purtroppo” e l’affermazione sull’oscurità della maternità anche sulla tv pubblica a Lucia Annunziata che, in un crescendo disordinato di interruzioni e confusione di ruolo eruppe in una parolaccia e, ormai nel pallone resasi conto della brutta figura, non colse l’assist che la ministra mitemente le offrì. «Vedo che si coinvolge» disse sorridendo Roccella alla collega la quale, invece di ammettere la sua passionalità e quindi in parte poter giustificare la caduta di stile umana e professionale negò recisamente l’evidenza. Peccato allora e peccato anche per quello che è successo a Torino al Salone del libro sabato 20 maggio scorso, perché si è persa un’occasione di confronto e conflitto con, a mio parere, l’unica componente interessante e potenzialmente alleata del movimento delle donne di questo governo, mettendo in scena una brutta pagina di censura e arroganza che nulla hanno a che spartire con il dissenso.
Non so perché Roccella, donna con bagaglio culturale, politico e stile umano assai lontano da quello di molti esponenti del governo ne faccia parte: nella storia recente alcune donne di valore e femministe, quali l’avvocata Tina Lagostena Bassi e la giornalista di Noi donne, (testata storica dell’Udi), Roberta Tatafiore a un certo punto abbandonarono la sinistra per scegliere partiti e giornali di destra. Se vi prenderete due minuti per vedere il video girato al Salone ascolterete la ministra che, più volte, invita al dialogo, offre il microfono ad una giovane che legge indisturbata un documento, dice chiaramente che non vuole che nessuno venga portato via dalle forze dell’ordine, invita a stare dalla parte delle donne contro l’utero in affitto ricordando che, in contemporanea alla contestazione che sta subendo, ci sono gruppi femministi a Milano che manifestano contro la fiera Wish for a baby. Il tutto senza urlare, senza scomporsi, appellandosi alle pratiche della giovinezza che racconta nel libro, dove descrive figure di donne coraggiose del movimento radicale come la madre Wanda Raheli e Adele Faccio, alle quali il femminismo e la sinistra italiana devono molto, così come a Emma Bonino e Adelaide Aglietta. Le persone che hanno impedito alla ministra di presentare il suo libro hanno sbagliato, dal mio punto di vista, e provo a spiegare perché. Quello annunciato non era un comizio, ma appunto la presentazione di un libro, un testo autobiografico, che può interessare o meno ma che racconta uno dei momenti di snodo storico della nascita dei diritti delle donne, la lotta per il divorzio e per la legge 194. Chi per età non ha vissuto quel periodo avrebbe, nella lettura del libro, da imparare una storia che purtroppo non viene raccontata spesso. Impedire ad una autrice, ministra di un governo del quale non condivido quasi nulla, ma che in questa circostanza interveniva per parlare di sé e della sua storia, è quanto di più lontano dalla pratica della relazione femminista della quale Roccella molto parla nel libro.
Abbiamo dimenticato che prima del femminismo e dell’ondata sessantottina, una ragazza senza marito, incinta, era solo una puttana, la vergogna della famiglia. La gravidanza era accolta con lacrime di disperazione, amari pentimenti, minacce di buttare la figlia fuori di casa, scenate violente o patetiche. La madre era spesso costretta ad abbandonare il frutto della colpa, e a lasciarlo crescere in orfanatrofio. I maschi invece potevano scomparire in perfetta tranquillità, ignorando le conseguenze dei propri comportamenti, e potevano rinnegare le responsabilità nel modo più sprezzante e offensivo «chi me lo dice che il figlio è mio, chissà con quanti altri sei stata»… Sono innumerevoli le prese di posizione in cui l’aborto è messo a fuoco come ferita fisica e simbolica, non certo come diritto. In un documento del ’75 un importante collettivo milanese sostiene, per esempio, che l’aborto non rappresenta «una conquista di civiltà, perché è una risposta violenta e mortifera al problema della gravidanza»; e una leader indimenticata come Carla Lonzi sintetizza la questione con rara e semplice efficacia: «L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire». La censura, in particolare, su un libro, ha echi pericolosi legati a doppio filo alla cultura totalitaria: se non sei d’accordo prima leggi il testo, ti prepari, poi intervieni anche duramente, ma a ragion veduta. A Torino questo non è successo, e nel caotico mettere insieme critiche ai dirigenti della regione Piemonte, questione climatica e proclami in difesa della legge 194 (che la ministra sostiene e che difende) la contestazione ha mostrato la sua inefficacia. Dissentire è una parola importante nella pratica di opposizione: nella sua radice c’è l’ascolto, il sentire appunto. Come si può dissentire, onorando il senso dell’agire conflittuale costruttivo, se nemmeno si conosce e si ascolta l’avversaria?
(Micromega, 22 maggio 2023)
di Alessandra Pigliaru
Ieri al Salone del libro di Torino, un gruppo di attiviste del movimento non violento Extinction Rebellion insieme alle femministe di Non Una Di Meno, hanno manifestato il proprio dissenso a Eugenia Roccella, ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità. Nello spazio autonomo di competenza regionale, l’Arena Piemonte, la presenza di Roccella era prevista in qualità di autrice del romanzo Una famiglia radicale (Rubbettino) ma l’incontro programmato per le 13 non si è potuto svolgere perché, dopo le proteste, la ministra ha rinunciato dichiarando: «Per democrazia, a voi sconosciuta, lascio il palco per l’evento di Casa Ugi».
Il punto è stato politico e lo spiegano le attiviste che hanno contestato le dichiarazioni della ministra, e non della scrittrice, Eugenia Roccella in merito all’aborto che «purtroppo» – come ha detto pubblicamente in altra sede – è una delle libertà delle donne». È a partire da questa posizione, antitetica e inconciliabile con chi ritiene che invece l’interruzione volontaria di gravidanza debba restare una libertà e un guadagno di autodeterminazione riguardanti esclusivamente ciascuna, riproduzione compresa, che al Lingotto una quindicina di ragazze si sono fatte avanti con slogan e brevi canzoni, inizialmente dal pubblico, poi sdraiandosi a terra come atto di disobbedienza e resistenza tramite il proprio corpo (alcune di loro in serata sono state identificate dalla Digos).
Di questo corpo fa parte anche la Terra, con il disastro climatico in corso e il reiterato abuso dei territori, infine la tragedia. Ed è con queste evidenze che si comprendono meglio le parole delle attiviste che hanno manifestato, insieme ad altri movimenti, anche fuori dal Salone «per un futuro più vivibile» e che però, chiamate al diretto confronto da Roccella, non hanno risposto, salendo sul palco per leggere un proprio comunicato. Una in particolare, giovanissima, ha preso il microfono e ha letto un testo: «Non possiamo stare a guardare mentre gli spazi ci vengono tolti per dare spazio a posizioni antiabortiste. La priorità è il clima, la regione deve prendere misure concrete per contrastare la crisi climatica». Le ragazze hanno poi detto che «mentre in Emilia-Romagna si contano ancora i morti e i dispersi, i ministri del governo italiano, da giorni, presiedono gli spazi di uno degli eventi culturali più importanti d’Italia. Oggi era il turno di Roccella, ministra che ha più volte dichiarato che “purtroppo l’aborto è un diritto delle donne”. E questo accade qui, nella regione in cui un medico su due si rivela obiettore di coscienza».
Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro (per l’ultimo anno), ha cercato di mediare riconoscendo che «in democrazia le contestazioni sono legittime purché non violente» e invitando al dialogo perché «il gioco democratico tra cittadini e potere è fatto anche di dure critiche. Mi sembrava – ha proseguito Lagioia – che i contestatori non accettassero questo tipo di invito. Anche qui: chi contesta, purché in modo non violento, decide come contestare».
È a questo punto che Augusta Montaruli, deputata di Fdi, ha urlato contro di lui «vergogna, vergogna», causando l’interruzione della mediazione.
In questa vicenda ci sono diversi ordini di problema: il primo è un fatto all’apparenza lessicale ma risulta politico giacché diritti e libertà non sono la stessa cosa. E quando in gennaio Eugenia Roccella ha risposto alla domanda della conduttrice televisiva Serena Bortone «L’aborto fa parte di una delle libertà delle donne?», con quel «Purtroppo sì» ha confermato e rinforzato un processo di legittima e profonda preoccupazione in merito alla 194. Che dei corpi possiamo disporne come desideriamo la si può considerare una libertà, poi un diritto; i piani sono nettamente distinti, talvolta si parlano, come in questo episodio, fino a confondersi. Chi agisce da un ruolo apicale e di potere come quello rivestito da Roccella dovrebbe saperlo, sempre. E anche chi pensa di aprire una contestazione che sia efficace. Qui sta il secondo elemento, il più dolente: non è la democrazia a essere in pericolo. Assistiamo piuttosto a una impotenza paralizzante che preferisce la strada della rottura. Come ha scritto Judith Butler sulle pagine di questo giornale pochi giorni fa, ci sono lutto e perdita e nuove forme di lotta. E sono questioni molto serie.
L’ultimo nodo riguarda l’efficacia dei conflitti che si intendono aprire, che siano più fertili, soprattutto quando l’esito è che chi viene contestato riesca a passare nell’opinione pubblica come una vittima di censura.
(il manifesto, 21 maggio 2023)
di redazione Open
Un’app dove indicare quali faccende di casa si svolgono e quanto tempo si impiega a farle. Questa è l’insolita l’idea del governo spagnolo per scaricare dalle donne il peso mentale e fisico di doversi occupare dell’ambiente domestico. Compito che spesso non viene equamente diviso tra i due membri della coppia. Secondo l’istituto di statistica spagnolo, infatti, solo metà delle famiglie si divide le faccende di casa in pari modo. Nel 46% dei casi sono le donne a fare di più, e solo nel 4% gli uomini. Annunciando la misura, all’inizio di questa settimana, la segretaria di stato spagnola per l’uguaglianza, Ángela Rodríguez, ha affermato, citata dal Guardian, che l’obiettivo era quello di far luce sull’invisibile «carico mentale» che le donne sostengono nello svolgimento delle faccende domestiche.
Le faccende “nascoste”
Rodríguez ha dichiarato, presentando l’app, il cui budget di sviluppo è di 211.750 euro, al comitato dell’Onu per l’eliminazione della discriminazione contro le donne: «Pensiamo che questo sia un esercizio che potrebbe essere utilizzato a casa per condividere le faccende tra figli, figlie, padri, madri o tra coinquilini o compagni di vita, perché la divisione di questi compiti a volte è iniqua», ha detto. Tra questi ci sono anche quelle attività nascoste, che la segretaria di Stato ha illustrato così: «Anche se riordinare la cucina potrebbe richiedere 20 minuti, ha detto, dipende dal fatto che qualcuno si sia prima ricordato di comprare il detersivo per i piatti o di pianificare la lista della spesa».
(open.online, 20 maggio 2023)
di Franca Fortunato
«Ho un carcinoma renale al quarto stadio, da cui non si torna indietro, mi restano mesi da vivere, ma la morte non mi fa paura» è la confessione choc che Michela Murgia ha fatto al Corriere della Sera in un’intervista ad Aldo Cazzullo, parlando del suo ultimo libro Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi edito da Mondadori, da pochi giorni in libreria. Il libro con le sue dodici storie, l’una diversa dall’altra, si apre con il dialogo in terza persona tra lei e l’oncologo che le comunica la diagnosi e le spiega che quel carcinoma non è un nemico da combattere, da distruggere, ma «un complice della sua complessità, una parte disorientante del suo corpo sofisticato […], niente di più di un compagno» che sbaglia. «Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono» e lei non ha «voglia né forze di fare la guerra a sé stessa». A quel tumore (lei) la protagonista dà un nome coreano “I am”, perché «usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le pareva l’unica sostenibile in quel momento». In tutti i racconti le/i protagoniste/i, all’interno dell’anno di pandemia, vivono una crisi soggettiva e per sopravvivere emotivamente trovano soluzioni inedite e impreviste. Tutte/i non hanno un nome ma solo la voce con cui si raccontano. In ogni storia autobiografia e non autobiografia si mescolano e tutte insieme come in un mosaico ci restituiscono l’autrice con le sue idee politiche, le sue lotte, le sue convinzioni, la sua vita dopo la diagnosi, vissuta con la consapevolezza di non avere molto tempo da vivere ma abbastanza per prepararsi e preparare alla sua morte chi le vuole bene. Le tre ciotole da cui prende il titolo il libro, comprate dalla protagonista di una delle storie, sono quelle in cui l’autrice mangia un pungo di riso, qualche pezzo di pesce o di pollo e qualche verdura per tenere a bada gli improvvisi conati di vomito. Nel racconto della moglie che non vuole che il marito venga tenuto in vita dalle macchine c’è lei che dice «posso sopportare molto il dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare». Lei credente in un Dio relazionale a quella donna fa dire «ho passato la vita a fare scelte per il bene di mio marito e alla fine non è stato diverso. Su quel letto in terapia intensiva […], non vedevo più l’uomo che avevo sposato. Non avevo scelta. Non so se Dio mi chiederà conto di aver creduto più alla sua misericordia che alla scienza». La malattia rievoca antiche insofferenze come quella per i piatti, legata ai suoi genitori che «si erano distrutti addosso interi servizi di piatti con una frequenza tale che quando raccoglievamo i cocci dell’ultima lite trovavamo ancora sotto al divano le schegge di quelle precedenti». Nel racconto della donna che odia i bambini ma acconsente a metterne al mondo uno per dare un figlio al suo amico d’infanzia e alla moglie e in quella del professore che dice di essere con sua moglie “in attesa” dopo «una gravidanza prima difficile, poi impossibile e infine surrogata», c’è il pensiero dell’autrice su quella pratica. Lei che conosce la fine della sua storia chiude il libro con il racconto di un rito, che ha inaugurato al suo cinquantesimo compleanno. La protagonista organizza «un pranzo di addio per la sorella morta con i suoi vestiti appesi agli alberi» perché le amiche e gli amici invitati potessero scegliere «il ricordo da portare via» e portarsi, così, «a casa un pezzetto di lei». Alla fine delle storie il libro si rivela il romanzo di una vita vissuta e l’accettazione della morte con serenità, coraggio e dignità.
(Il Quotidiano del Sud, 20 maggio 2023)
di Katia Ricci
Dal 23 al 31 maggio presso la Galleria di arte moderna e contemporanea di Palazzo Dogana, in piazza X Settembre n. 22 a Foggia, sarà esposta la mostra di Mail Art Donna Vita Libertà, organizzata dalla Merlettaia di Foggia e dalla Rete delle Città Vicine, che da alcuni anni invitano artisti/e di ogni parte d’Italia a partecipare all’evento di Mail Art su un tema che riguarda l’attualità. La mostra, curata da Katia Ricci allestita da Rosy Daniello e Anna Fiore è itinerante tra le Città Vicine.
Con Arte Postale o mail art si intende lo scambio di manufatti di svariati materiali e tecniche, di piccole dimensioni come cartoline, biglietti e lettere, utilizzando il sistema postale. La nascita ufficiale della mail art si fa risalire al 1962, quando Ray Johnson dette vita alla New York Correspondance School istituzionalizzando lo scambio di opere tramite il mezzo postale, ben presto si diffuse in tutto il mondo e fu in seguito chiamata Mail Art. Gli antecedenti della mail art, però, possono essere rintracciati nei primi esperimenti dei Futuristi e dei Dadaisti.
Chiunque può partecipare all’evento ed entrare a far parte della comunità artistica. È un fenomeno artistico che può raggiungere facilmente un pubblico assai vasto in ogni parte del mondo, creando una stretta relazione tra mittente destinatario e oggetto spedito e permette una riflessione collettiva su un tema attuale. La caratteristica primaria della Mail Art, dunque, è quella di essere uno scambio di idee e creatività non commerciale.
È un’arte che si sottrae ai meccanismi e alle lusinghe del mercato artistico e del sistema dell’arte per salvaguardare la propria funzione originaria: usare un linguaggio creativo per comunicare con altri esseri umani o con le divinità. Associazioni come La Merlettaia di Foggia e la Rete delle Città Vicine, che hanno tra le proprie pratiche politiche la comunicazione e la relazione interpersonale, da anni si servono della mail art per affrontare in modo creativo una questione che è stata al centro dei loro interessi e delle loro attività.
Oggi che tutti siamo costantemente connessi con i mezzi digitali, l’arte postale potrebbe sembrare un mezzo superato. Invece, proprio per l’uso a volte invasivo del web, un messaggio su carta assume un grande valore emotivo, perché è qualcosa che esiste e si può toccare, e dà anche sensazioni fisiche. È pur vero che l’uso del web facilita la diffusione di tale pratica grazie alla posta elettronica che, abolendo le distanze spaziali e temporali, ha modificato e arricchito il concetto di Arte Postale. Molti, infatti, non ne disdegnano l’impiego a fini artistici. Secondo altri, invece, il ricorso alla posta elettronica procurerebbe una perdita di valore.
Donna Vita Libertà, in curdo Jin, jiyan, azadî, è il titolo della mail art del 2023, dedicata a Carla Bertola, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine. Tre parole che negli ultimi due anni sono risuonate in tantissime piazze europee e del mondo, gridate da donne e uomini, giovani e anziani, a partire da ogni angolo dell’Iran, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne. Ogni donna e uomo è consapevole di mettere a rischio la propria vita pur di abbattere l’insopportabile regime di quella Repubblica islamica che, perseguitando le donne, schiaccia la vita, la giustizia e la libertà di tutti. Per questo lo slogan è stato accolto, ripreso e passato di bocca in bocca come un canto che non accenna a spegnersi, ma che infiamma menti e cuori. Liberté, Égalite, Fraternité urlavano i francesi nel 1789, ma mentre quelle parole di fatto si rivolgevano solo agli uomini e per questo sono finite nel sangue e nell’orrore, Donna Vita Libertà apre a un mondo nuovo, in cui la pace non è una parola ormai consumata, ma il pilastro di una società improntata ai valori materni, modello di civiltà per donne e uomini, che, dice Paola Cavallari, «[…] metta al centro il corpo, le emozioni, i desideri, che si fondi su una riflessione senza pregiudizi per ridisegnare la vita quotidiana, che dia valore alle relazioni e ci porti a costruire legami, che ci insegni a gestire il conflitto […]» senza soprusi e violenze.
Il volto della rivolta iraniana è quello di Mahsa Amini, la giovane di origine curda uccisa dalla cosiddetta polizia morale, colpevole di aver lasciato scoperta una ciocca di capelli.
Il tema della mail art ha catalizzato l’interesse di molte artiste e artisti, ma anche di donne e uomini, non artisti, che hanno voluto cimentarsi in questo tipo di comunicazione creativa per esprimere la propria solidarietà e sostegno per la lotta delle donne iraniane e lo sdegno per il modo in cui un regime cieco e crudele cerca di soffocarla. Ha partecipato con una cartolina anche Maryam Aeenmehr, un’iraniana che vive in Italia.
Speranza, ammirazione per il coraggio e la lotta delle donne e degli uomini sono espresse nelle cartoline di Maryam Aeenmehr, Rossana Bucci, Stefania Piccirilli, Antida Tammaro, Rosanna Macrillò, Rossella Sferlazzo, Michela Di Conza, Rosaria Campanella, Anna Fiore, Sergia Sambo, Claudio Gavina, Roberta Iarussi, Luciana Talozzi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Mariangela Magnelli, Marina Penzo, Oronzo Liuzzi, Maria Paola Quattrone, Emilia Metta, Ornella Cicuto, Daniela Tzekova.
Denuncia, sdegno, dolore nelle opere di Maria Bonaduce, Isabella Branella, Monica Carbosiero, Laboratorio Selvaggiastro (che presenta anche una poesia, Dama d’argento, di Andrea Colonna), Rosalba Casmiro, Ruggero Maggi, Wanda Delli Carri, Maria Iofalo, Michela Cassa, Ino Conserva e Amalia Mancini, Gianni De Maso, Antonio Fortarezza, Enrico Straccini.
Riflessione sulla lingua nelle cartoline di Maurizio Sacchet.
Bruno Cassaglia e Rosy Daniello rappresentano dei puzzle per indicare che la libertà è un bene fragile e prezioso da ricostruire. Un tenero cuore, offerto come ex-voto per la libertà, nelle opere di Nando Granito con la nipote Francesca e di Nicola Liberatore. Un mondo a forma di cuore, ispirato da una mappa di inizio ’700, è la cartolina di Donatella Franchi. Soffioni, simbolo di libertà e speranza, nella cartolina di Donata Glori.
Certezza che la libertà si può costruire con le relazioni in primis tra donne e con un percorso di crescita e consapevolezza nelle cartoline di Cornelia Rosiello, Adele Longo, Clelia Mori, Cettina Tiralosi, Anna Di Salvo.
(l’Attacco di Foggia, 19 maggio 2023)
di Rita Rapisardi
Rilanciamo questo prezioso articolo interessante per l’approccio, il taglio e le dettagliate informazioni.
Teniamo però a puntualizzare che, per fortuna, l’Intesa Stato-Regioni del 14/9/2022 sui centri per il trattamento dei maltrattanti (CUAV, Centri per uomini autori di violenza) prevede una netta separazione di questi dai centri antiviolenza, a differenza di quanto affermato da un’intervistata.
Infatti, l’articolo 3 dell’Intesa, ai commi 5 e 6 precisa:
«5. Al fine di assicurare la sicurezza delle vittime, nei C.U.A.V. si esclude in ogni caso l’applicazione di qualsiasi tecnica di mediazione tra l’autore di violenza e la vittima, e, nel caso in cui si realizzino attività che coinvolgono le vittime, come il “contatto partner”, si assicura la separatezza dei programmi e degli ambienti.
«6. Se lo stesso soggetto gestore si occupa sia di vittime di violenza che di autori di comportamenti violenti, è necessario che le strutture siano separate e distanti e che non siano gli stessi operatori/operatrici a seguire vittima e autore.»
La redazione del sito
«Il maschio violento non è un malato, ma è figlio sano del patriarcato», dice un noto slogan femminista. La violenza sulle donne non è una malattia, eppure da qualche anno l’approccio sembra essere proprio quello della cura. È stata la Convenzione di Istanbul nel 2013 a parlare di istituire programmi rivolti agli autori di violenza.
In Italia è nel 2019, con la nascita del Codice Rosso, che si legifera sul trattamento psicologico per i condannati e sulla possibilità di sospensione della pena per i reati di: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo e atti persecutori. Prima della legge, i corsi potevano essere consigliati dagli assistenti sociali, dalle forze dell’ordine (su ammonimento) o partecipati in modo volontario. Il fine a breve termine è l’interruzione della violenza e la sicurezza delle vittime. Il disegno ampio è il cambiamento culturale.
Il tema è controverso: da un lato, c’è chi considera questa una prevenzione a ulteriore violenza; dall’altro, chi la vede come una scorciatoia per uno sconto di pena. La Convenzione di Istanbul promuove i corsi, ma non entra nelle questioni giudiziarie, mentre la legge italiana, approvata durante il governo gialloverde, sì. Su questo non tutti erano d’accordo, neppure alla Commissione Femminicidi. Parte del mondo femminista e dei centri antiviolenza non si pone in modo acritico, ma manifesta alcune perplessità. «Trattare la violenza come disagio psicologico mette da parte il fattore culturale del fenomeno – spiega Antonella Veltri, presidente di D.i.Re., presente sul territorio con 106 centri antiviolenza – I numeri non possono essere spiegati come un problema individuale». Il rischio è anche quello di un modello familiare limitato: il suggerimento che si possa aggiustare la violenza nella coppia. Su questo la legge impone che la donna sia avvertita del percorso di rieducazione: «C’è il rischio di alimentare il sogno del cambiamento che molte donne che accogliamo hanno. Un tentativo di mediazione familiare». L’intesa Stato-Regioni, poi, non è abbastanza restrittiva su alcuni aspetti, come ad esempio non collocare i due centri nella stessa sede.
Di buono c’è che gli uomini sono chiamati alla responsabilità. Il diniego è altissimo nei casi di violenza sulle donne: mentre un rapinatore capisce il reato, l’uomo violento no. La privazione della libertà e le condanne aumentano poi l’idea di essere perseguitato ingiustamente. Anche i corsi sono accolti con riluttanza: «Un trattamento deve partire dalla volontà della persona, non per imposizione», fanno notare le voci femministe. Che ricordano il duplice femminicidio di luglio scorso a Vicenza, dove l’assassino, dopo un percorso e la sospensione della pena, ha ucciso ex compagna, Lidija Miljkovic, e fidanzata, Gabriela Serrano.
Anche giudici e forze dell’ordine considerano il rifiuto un sintomo di pericolosità maggiore. «Bisogna intervenire in modo professionale e preparato, sapendo che l’uomo maltrattante non è né fragile né malato – spiega il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, attento al tema – ha bisogno di un percorso culturale, comprendere che deve rispettare la libertà di scelta della donna. Bisogna assolutamente evitare atteggiamenti giustificazionisti».
«Gli studi evidenziano che in certe situazioni il diniego può avere un beneficio favorendo la partecipazione ad un programma trattamentale», spiega la dott.ssa Georgia Zara, esperta sul trattamento dei sex-offenders. «La partecipazione ad un trattamento riduce il rischio di ricaduta criminale; mentre il rischio aumenta maggiormente nei casi di interruzione, rispetto ai casi di chi neanche inizia».
Gli uomini che accedono sono sposati, con figli minorenni e occupati stabilmente in varie professioni. Il discorso sui figli è centrale: nelle cause di affido, i padri possono usare la partecipazione ai corsi come un patentino di cambiamento, come forma di controllo della donna o rivalsa sui figli e per rivederli dopo una prima interdizione.
Purtroppo in Italia non esistono studi ad hoc. L’unico è stato condotto dal Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) all’interno del carcere di Bollate: su 250 casi in dieci anni, sette le recidive; mentre su 350 imputati prima della condanna definitiva, tre recidive. «In Paesi come Canada e Inghilterra la ricerca è sostenuta da importanti finanziamenti che permettono di fare studi che coinvolgono migliaia di partecipanti e i cui risultati sono statisticamente significativi», dice Zara.
Nonostante la legge, non vi è una definizione univoca dei percorsi, che possono seguire modelli e orientamenti diversi e non esistono linee guida nazionali. Le domande per accedere dopo il 2019 sono aumentate di molto, spesso evase dagli stessi avvocati, ma è difficile soddisfare tutte. Per questo a maggio 2022 è stanziato un fondo di otto milioni per la creazione e il finanziamento dei centri, ora pochi e mal distribuiti. I corsi, secondo la legge, sono a carico dei maltrattanti e c’è chi vorrebbe eliminare la barriera economica o introdurre fasce di contribuzione.
(Il manifesto, 19 maggio 2023)
di Pierrick Naud
Nonostante le buone intenzioni, atti criminali
Rappresentazioni ingenue hanno per lungo tempo dotato l’adozione internazionale di molte virtù. Sul piano storico, questa attività prende avvio alla fine degli anni ’60. La risonanza mediatica delle guerre del Vietnam (1955-1975) e del Biafra (1967-1970) contribuisce infatti all’emergere di una nuova etica umanitaria. I paesi del Sud sono considerati pieni di orfani. Adottare non significa solo offrire una famiglia a un bambino che non ne ha una; significa anche salvare un essere umano sofferente e, in sostanza, offrire un po’ della ricchezza dell’Occidente ai diseredati. Secondo Sébastien Roux, ricercatore del Centro nazionale per la ricerca scientifica (Cnrs), diversi altri fattori contribuiscono all’esplosione del fenomeno: «La rivoluzione dei trasporti, la fine degli imperi coloniali, l’assenza di politiche sociali e sanitarie efficaci in molti paesi del Sud». La pratica si diffonde in tutta Europa, in particolare in Svezia, che ha il più alto tasso di adozioni pro capite al mondo1. Dagli anni sessanta, le adozioni internazionali nel paese scandinavo hanno riguardato circa 60.000 bambini, soprattutto da Corea del Sud, India e Colombia. Il Centro svedese per le adozioni, fondato nel 1972 da genitori adottivi in collaborazione con lo Stato, è diventato uno dei più grandi al mondo. A dimostrazione dell’importanza dell’adozione nella cultura svedese, nel paese sono stati pubblicati più di trecento libri sull’argomento, molti dei quali rivolti ai bambini2. La Francia, dal canto suo, diventa il secondo paese destinatario, quanto a numero di bambini adottati, dopo gli Stati uniti. Il picco è stato raggiunto nel 2005, con 4.136 visti di «adozione» rilasciati dal Quai d’Orsay [sede del Ministero degli Affari Esteri, NdR], rispetto ai 935 del 1980. Ma su entrambe le sponde dell’Atlantico una serie di scandali contribuisce via via a offuscare la reputazione di un mondo caratterizzato da buoni sentimenti e promesse di salvezza. Già nel 1975, la rivista cilena Vea allertava circa l’esistenza di una «misteriosa organizzazione che adotta i bambini nati da madri non sposate e li spedisce in Europa», un fatto che inquietava le autorità responsabili del rilascio dei passaporti, preoccupate per il numero di bambini cileni che lasciava il paese. L’articolo attribuiva il ruolo di perno ad Anna Maria Elmgren3. Cittadina svedese, stabilitasi a Santiago alla fine degli anni 1960 e sposata con un carabinero, ha acquisito familiarità con le procedure di adozione locali aiutando la sorella a trovare un bambino in Cile4. In seguito, ha organizzato circa duemila adozioni come rappresentante locale dell’associazione svedese Adoptionscentrum tra il 1973 e il 1990. Nel 2003, un’inchiesta della giornalista cilena Ana María Olivares rivela che Elmgren si avvaleva di una vasta rete di assistenti sociali, insegnanti e giudici che le segnalavano i bambini e facilitavano il processo di adozione. Esmeralda Quezada, assistente sociale della città di Concepción, poi promossa alla carica di presidente del tribunale minorile, informava Elmgren non appena risultavano disponibili bambini. Venivano esercitate pressioni sulle madri povere che cercavano un aiuto economico o un asilo nido, e sulle madri single. Ma poteva trattarsi anche di bambini che camminavano da soli per strada, come nel caso di due fratelli arrestati dai carabineros per vagabondaggio: il padre, che li aveva affidati a una tata mentre lavorava, non era stato contattato e i suoi figli erano stati dati in adozione. Il loro fascicolo indicava che erano nati fuori dal matrimonio, il che permetteva di fare a meno del consenso del padre. Secondo il rapporto di una commissione d’inchiesta formata nel 2018 dalla Camera bassa del Parlamento cileno, «è un fatto accertato: in Cile centinaia di bambini sono stati sottratti ai loro genitori per essere adottati all’estero5» durante la dittatura del generale Augusto Pinochet. Il metodo più comune era quello di far credere alla madre che il figlio fosse morto e che il corpo fosse stato donato alla scienza, evitando così le denunce. Durante la dittatura, quasi 22.000 bambini furono adottati e inviati in 25 paesi, tra cui Stati uniti, Francia e Italia.
«Siete stati rapiti»
Fredrik Danberg, figlio adottivo del funzionario di una grande banca scandinava, è cresciuto a Båstad, una prospera regione della Svezia. Ha 45 anni. Per tutta l’infanzia, a lui e a suo fratello gemello era stato detto che la loro madre biologica, una donna cilena, li aveva dati in adozione perché erano malati e lei era povera. Sostenuti da attivisti per i diritti degli adottati, hanno finalmente trovato la sorella su Facebook e lei li ha aiutati a contattare la loro madre naturale. Il primo incontro è avvenuto tramite schermi: lei parlava spagnolo, loro parlavano svedese, con un interprete. Quando i bambini avevano due mesi, racconta la donna, avevano dovuto portarli in ospedale a Santiago per curare un eczema facciale. Pensava che le fossero stati portati via per essere curati, ma non le erano mai stati restituiti. Il personale dell’ospedale le aveva poi detto che i gemelli erano morti. La donna aveva chiesto di vedere i corpi, invano. Il padre alla fine si era rassegnato alla morte dei figli, ma lei li aveva cercati ovunque. Non aveva mai firmato alcun documento di adozione. «Siete stati rapiti», ha assicurato ai figli. In Francia, il settore delle adozioni internazionali non si è mai ripreso completamente dall’episodio dell’Arche de Zoé. Il 25 ottobre 2007, sei membri di quest’associazione vengono arrestati in Ciad mentre cercano di imbarcare 103 bambini coperti da false bende e attaccati a flebo. Per le famiglie che li attendono in Francia, sono vittime della carestia nel Darfur, una regione del Sudan occidentale. L’indagine condotta dalla polizia locale stabilisce che si tratta in realtà di bambini di nazionalità ciadiana, con genitori in gran parte viventi, e legalmente non adottabili. La vicenda assume i contorni di una crisi diplomatica tra Parigi e N’Djamena, quando il presidente ciadiano Idriss Déby Itno denuncia il «traffico di esseri umani» da parte dell’ex potenza coloniale, con la complicità di parti terze senza scrupoli. Condannati in Ciad e poi rimpatriati in Francia per scontare la pena, i protagonisti francesi vengono deferiti al tribunale penale di Parigi per «favoreggiamento del soggiorno illegale di minori stranieri in Francia», «frode» ed «esercizio illegale dell’attività di intermediazione con finalità di adozione». Il 12 febbraio 2013, il Tribunale correzionale di Parigi condanna il presidente dell’Arche de Zoé, Éric Breteau, e la sua compagna Émilie Lelouch, a tre anni di carcere, di cui uno sospeso.
Disastri naturali, guerre, cambiamenti politici – soprattutto quelli molto mediatizzati in Occidente – hanno portato a vere e proprie corse agli “orfani” stranieri. I contesti caotici nei quali si verificavano questi eventi hanno inevitabilmente favorito comportamenti opportunistici. In Romania, dopo il rovesciamento di Nicolae Ceauşescu nel 1989, i canali televisivi europei trasmettono in prima serata immagini di bambini malnutriti incatenati ai letti in collegi insalubri. L’emozione porta all’apertura di un «mercato»: decine di migliaia di bambini vengono esfiltrati dalla Romania negli anni 1990, prima che il paese arrivi a vietare le agenzie di adozione internazionale nel 2001. Dal canto suo, la politica del figlio unico adottata da Pechino nel 1979 suscita in Occidente la fantasia di bambine abbandonate in massa dalle famiglie. Con l’integrazione della Cina nell’economia globale, all’inizio degli anni 2000, gli orfanotrofi cinesi aderiscono al sistema di adozione internazionale e diventano i primi fornitori di bambini. Nonostante la ratifica da parte di Pechino, nel 2005, della Convenzione dell’Aia sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale – il testo di riferimento in materia di regolamentazione dell’adozione internazionale –, le reti di trafficanti prosperano6.
Nel 2005, dieci persone vengono condannate dalla giustizia cinese per traffico di esseri umani nella provincia di Hunan per aver venduto bambini – per 370 euro – a orfanotrofi che poi li offrivano ad agenzie di adozione occidentali per 1.000-5.000 euro. Ma nessuna organizzazione in Europa o negli Stati uniti è stata sanzionata per aver acquistato quegli stessi bambini. Haiti: dopo il terremoto del 2010 che aveva provocato oltre 200.000 morti, le agenzie di adozione private si precipitano sull’isola. Un’organizzazione battista statunitense viene bloccata al confine con la Repubblica dominicana mentre trasporta trentatré bambini senza autorizzazione né documenti ufficiali7.
Questi scandali hanno fatto precipitare l’adozione internazionale in una crisi morale profonda8. Nel 2019 sono arrivati sul territorio francese solo 421 bambini, con un calo del 90% rispetto al 2005. I tentativi di regolamentare il settore per placare le preoccupazioni non sono riusciti a ripristinare la fiducia e il processo di adozione è ora visto con sospetto. Per moralizzare le pratiche, il Vietnam, ad esempio, consente ora l’adozione internazionale solo di bambini con «bisogni specifici», cioè affetti da patologie. Sulla carta, la pratica è conforme alla Convenzione dell’Aia, in quanto favorisce la permanenza dei bambini nel loro ambiente d’origine e autorizza la mobilità internazionale per motivi umanitari. Nel frattempo, nella pratica, osserva il sociologo Sébastien Roux, «la preoccupazione etica alla base della Convenzione dell’Aia è stata dirottata verso una politica nazionalistica che distribuisce i bambini in base al loro stato di salute, mandando di fatto i meno desiderabili al di là dei confini simbolici e politici della comunità nazionale».
Maternità surrogata in India e Ucraina
In Francia, le organizzazioni incaricate di accompagnare l’adozione incoraggiano i futuri genitori a elaborare un progetto compatibile con questi profili di bambini e a prepararli ad affrontare il risvegliarsi di «traumi» psicologici legati all’abbandono. Pur moralizzandosi, il settore dell’adozione internazionale scoraggia così molte vocazioni genitoriali. Mentre il lato oscuro dell’adozione sta finalmente venendo alla luce, una nuova pratica vi si sostituisce: la gestazione per altri (o maternità surrogata). Questa offre alle coppie occidentali ciò che l’adozione non permette: un neonato, di solito bianco, con i geni dei genitori o comunque di loro scelta. In genere, una donatrice di ovuli bianca viene selezionata per il suo aspetto e gli embrioni fecondati vengono impiantati in una madre surrogata indiana o ucraina, scelta per le tariffe competitive – e per il fatto di appartenere a un paese la cui legislazione favorevole garantisce pieni diritti ai genitori intenzionali. I clienti della gestazione, d’altronde, certamente non hanno la sensazione di aver salvato un bambino, ma in cambio non rischiano di essere accusati di aver rubato il figlio di qualcun altro. Ma la storia sembra ripetersi. La surrogazione di maternità è già macchiata dalle accuse di madri che hanno frainteso i contratti (redatti in inglese indipendentemente dal paese di origine), di frode… I primi figli nati da questa pratica hanno già iniziato a denunciarla9. Dal 2011, la conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato (Hcch), un’istituzione intergovernativa nella quale sono presenti 90 Stati e l’Unione europea, riunisce ogni anno avvocati e professionisti sulla base di una constatazione: «La maternità surrogata è diventata un mercato globale, che pone una serie di difficoltà, soprattutto quando le parti coinvolte si trovano in paesi diversi». Il loro obiettivo: elaborare norme internazionali volte a «regolamentare la maternità surrogata transnazionale, e facilitare il riconoscimento reciproco delle filiazioni risultanti da contratti di maternità surrogata»10. Riusciranno a legittimare un commercio già criticato? Gli scandali passati e futuri, così come la mobilitazione di associazioni femministe, potrebbero avere la meglio su questo nuovo “mercato”, così come alla fine hanno fatto sfiorire l’adozione internazionale.
(1) Adoptions in Sweden, Adoptionscentrum, www.adoptionscentrum.se
(2) Tobias Hübinette, Sverige som adoptionsland och adopterade som migranter, Välfaïd, vol. 7, n° 2, Solna (Svezia), 2007.
(3) Wolrad Klapp, Escandaloso tráfico de guaguas chilenas, Vea, n° 1883, Santiago del Cile, 14 agosto 1975.
(4) Denuncia di Elmgren contro il canale televisivo cileno Chilevisión, rivolta alla Corte d’appello di Santiago, 8 maggio 2018.
(5) Rapporto della commissione speciale di inchiesta sugli atti degli organismi dello Stato, in relazione con eventuali irregolarità nei processi di adozione e registrazione di minori, e di controllo della loro uscita dal territorio, Camera dei deputati, Santiago del Cile, 2018.
(6) Pang Jiaoming, The Orphans of Shao, Women’s Rights in China, New York, 2014.
(7) Kathryn Joyce, The Child Catchers: Rescue, Trafficking, and the Gospel of Adoption, Public Affairs, New York, 2013.
(8) Sébastien Roux, Sang d’encre. Enquête sur la fin de l’adoption internationale, Vendémiaire, Parigi, 2022. Da qui sono tratte le informazioni di questo paragrafo.
(9) Jessica Kern, What happens when you learn that you were born through commercial surrogacy?, testimonianza del sito militante «Legalize surrogacy: why not?», www.legalize–
(10) Claire de La Hougue, GPA: Que s’est-il dit à la conférence de La Haye?, Gènéthique, 17 aprile 2018, www.genethique.org (Traduzione di Marianna De Dominicis). Dopo aver raggiunto il suo apice negli anni 1970, l’adozione internazionale attraversa una profonda crisi morale. Dal Ciad al Cile, dalla Francia alla Svezia, numerosi scandali hanno screditato una pratica che a lungo è stata percepita come un atto di generosità. Sulle rovine di questo settore ne sta emergendo un altro: la maternità surrogata, con il rischio di un’accresciuta mercificazione dei viventi.
KAJSA EKIS EKMAN *
(*) Giornalista. Autrice di Being and Being Bought: Prostitution, Surrogacy and the Split Self, Spinifex Press, Little River (Australia), 2013.
(Le Monde Diplomatique, 3 maggio 2023. Il manifesto, 18 maggio 2023)
di Anna Menale
Quando Stefano Feltri mi ha proposto di raccontare la mia esperienza da giovane femminista per la sua newsletter, mi è venuta in mente una conversazione di poco tempo fa con una mia amica. Parlavamo, appunto, di come ci fossimo avvicinate al femminismo.
Da donna, ho sempre vissuto quelle esperienze che, purtroppo, tutte possono comprendere (i fischi per strada, l’essere considerata “meno brava”, e così via).
Vivere in provincia ha sicuramente influito, tanto da rendere il femminismo parte integrante delle mie giornate, delle mie riflessioni, e da farmi scegliere di basare il mio lavoro su questo.
Il motivo è semplice: in provincia, a parer mio, si respira ancora di più la ristrettezza del sistema (certo, anche nelle città è così, il sistema è patriarcale ovunque, ma in provincia ci si muove in spazi piccoli, con una rete di conoscenze limitata, le informazioni girano velocemente, è tutto più asfissiante). Nella mia adolescenza ho avuto modo di riscontrarlo. Senza riuscire a starmene in silenzio.
Cose da donne
Al liceo una ragazza del mio paese inviò delle foto private al suo fidanzato del tempo, e lui le fece girare ovunque. Quasi nessuno pose l’attenzione su di lui, nessuno pensò a quanto fosse grave la sua azione, ma si soffermarono su di lei: per inviargli quelle foto, doveva essere sicuramente una poco di buono. Era sempre un “lei non avrebbe dovuto farlo” e mai un “lui non avrebbe dovuto farle girare”. Il revenge porn è diventato un reato molto tempo dopo, nel 2019, con l’articolo 612 del Codice Penale.
Al quinto anno – quando tutti si sentono in dovere di dirti cosa fare dopo, per il tuo futuro – una volta un conoscente mi consigliò di insegnare alle elementari perché, testuali parole, «quello della maestra è un lavoro per donne, poi puoi prenderti cura facilmente dei figli e stare a casa più tempo».
Gli schemi sono sempre gli stessi. La donna è madre, il suo lavoro è un di più (perché è l’uomo che deve portare i soldi a casa e “mantenere la famiglia”), all’università ci vanno perlopiù i figli maschi. E se una ragazza indossa una minigonna è sicuramente poco seria. Ancora oggi, quando esco per prendere l’autobus, perdo il conto della quantità di uomini di mezza età che mi bussano con l’auto e mi urlano frasi infelici.
Io mi sono sentita sbagliata, spesso, per il mio essere donna. Mi sono sentita sbagliata per avere le mestruazioni.
Come quando una volta, alle medie, mi vennero in classe e io avevo dei jeans chiari: le prese in giro ricevute in quel momento le ho trascinate con me per anni. E anche quando il mio corpo iniziava a cambiare, non è andata meglio. Per gli altri era strano, e me lo facevano notare in continuazione con commenti sgradevoli e cattivi. Anche per questo credo sia importante l’educazione sessuale nelle scuole.
Per fortuna, però, nella mia famiglia mi è sempre stato ricordato quanto fosse importante l’emancipazione.
Mia nonna era femminista senza neanche sapere di esserlo. E a lei devo tantissimo. Perché mi ha fatto capire che, a quella realtà, la realtà che vivono tutte le donne, avrei dovuto ribellarmi.
Il mio percorso da giornalista è iniziato proprio tra i banchi di scuola, con articoli per il giornalino scolastico un po’ sulla letteratura (l’altra mia passione; guardavo con gli occhi pieni di euforia la prof raccontare la letteratura inglese) e un po’ sulla violenza di genere, come quello che scrissi sul trattamento riservato alle vittime di stupro durante i processi. Leggevo tanti libri e la mia autrice preferita era Virginia Woolf (le ho poi dedicato un capitolo della mia tesi di laurea triennale).
A giugno mi sono iscritta a Twitter: volevo un mio spazio, un posto soltanto mio in cui scrivere di femminismo e poter esprimere le mie idee, confrontarmi con altre donne e raccontare storie.
La mia attività sui social mi stimola ogni giorno perché mi fa capire che abbiamo ancora bisogno di un attivismo forte, che non si limiti a quello dei social, ma che veda i social come strumento di connessione.
Le reazioni di chi ha letto i miei scritti sono state varie: ci sono stati apprezzamenti, confronti costruttivi con altre femministe, donne e ragazze più giovani che mi hanno scritto per raccontarmi di cose che hanno vissuto in prima persona, ma anche commenti negativi.
C’è chi crede che le donne non subiscano alcuna forma di discriminazione. E che il sistema le favorisca, addirittura. Ma di certo non è così. Le vicende che accadono in Italia lo provano.
[…]
(Appunti, newsletter di Stefano Feltri, 17 maggio 2023)
di Rosella Redaelli
«Ho “tagliato” tante ragazze, alcune sono mie vicine di casa e persino mie nipoti. Lo facevo perché era un requisito culturale e anche per la statura sociale che il mio ruolo mi dava all’interno della comunità. Mi sono però resa conto che le mie azioni hanno causato più danni che benefici. La maggior parte delle ragazze che ho circonciso non sono più tornate a scuola e si sono sposate. Alcune di loro hanno avuto gravi complicazioni durante il parto e continuano a subire traumi. Ho deciso e giurato di non permettere più ad altre ragazze di sperimentare l’atroce atto del taglio». Mary Lesintiyo è un’ex tagliatrice, a lei le famiglie della contea di Samburu (Kenia) affidavano le proprie bambine per la pratica della circoncisione femminile. Una pratica antica, cruenta che può prevedere l’asportazione totale o parziale degli organi genitali esterni, il restringimento della vagina, spesso in condizioni sanitarie precarie e con gravi rischi per la vita delle donne.
La storia di Mary, tagliatrice pentita, è tra quelle raccolte nell’ambito del progetto Be4We dagli operatori di Amref, la più grande organizzazione senza fini di lucro a occuparsi in Africa di tutela della salute materno-infantile, di formazione sanitaria ed empowerment femminile. «Be4We è un progetto sostenuto dall’Unione Europea – spiega Daniela Rana, responsabile per Amref delle attività in Kenya e Uganda – partito nel gennaio 2020 in Kenia dove l’uguaglianza di genere è una promessa largamente incompiuta, dove c’è un alto tasso di mutilazioni genitali femminili». Nelle comunità nomadi di Samburu e Marsabit, nel centro-nord del Paese dove si è focalizzato il progetto, le pratiche di mutilazione genitale femminile si attestano tra l’86% e il 91,7%, i matrimoni combinati sono il 38% a Samburu e l’80% a Marsabit. Si stima che 574mila bambine keniote siano a rischio di subire mutilazioni entro il 2030.
«Poiché questa usanza – prosegue Rana – è radicata nella cultura della disuguaglianza di genere, per combatterla è necessario cambiare le norme culturali e sociali che contribuiscono a perpetuare la violenza. Per farlo abbiamo lavorato a livello comunitario, usando persone chiave come la stessa Mary, ma anche gli anziani, i leader religiosi, gruppi di donne giovani già consapevoli della necessità di cambiare». È un processo lungo, ma che paga nel tempo. Tra i successi che gli operatori di Amref possono raccontare c’è la dichiarazione di stop alle mutilazioni femminili sottoscritta dagli anziani del clan Samburu davanti all’ex presidente Uhuru Kenyatta, ma ci sono anche storie di empowerment femminile come quella di Dokatu Konchora, che ha ottenuto un microcredito, ha avviato un’attività di vendita di capre al mercato di Nairobi e ha costruito la sua casa.
«In questi tre anni – conclude Rana – abbiamo seguito oltre 600 donne, formato operatori sanitari e anche figure legali sensibili alla violenza di genere che possano essere un punto di riferimento per le donne che vogliono denunciare i loro maltrattatori, ma abbiamo anche lavorato perché le donne abbiano un ruolo attivo in politica e in venti si sono presentate alle ultime elezioni con lo slogan Eleggi una donna». Amref lavora anche in Italia perché le migrazioni hanno reso le mutilazioni genitali femminili un problema globale. Secondo gli ultimi dati in Europa vivono più di 600mila donne e ragazze con mutilazioni: in Italia le donne tra i 15 e i 49 anni sottoposte a mutilazioni sono 87.600.
Per loro è nato il progetto P-Act, rete di prevenzione e contrasto delle mutilazioni genitali femminili sulle minori straniere. Nelle quattro città capofila (Roma, Milano, Padova e Torino) sono stati già più di cinquecento gli operatori formati per relazionarsi con donne che hanno subito mutilazioni o violenze di genere. A Roma il 19 aprile è stato siglato un protocollo per attivare una rete specifica per la prevenzione e il contrasto della pratica, in particolare verso le minori. Della rete fanno parte i vertici della Asl Roma 1, l’assessorato alle Politiche Sociali e alla Salute, il direttore del Centro Samifo (Salute migranti forzati), la Società italiana di pediatria e tante realtà che, in ambiti diversi, possono avere un ruolo chiave nella tutela di donne e bambine migranti.
(Corriere della Sera, 15 maggio 2023)
di Mariangela Mianiti
In una città, nella sera che scende fra tetti, antenne, lampioni e insegne, spiccano alcune finestre illuminate. È, quella luce, il confine tra un fuori e un dentro dove può esserci di tutto, rapporti felici o relazioni tossiche, quindi un inferno.
Comincia con questa immagine fortemente simbolica Un altro domani, documentario diretto da Silvio Soldini e scritto dal regista con Cristiana Mainardi. Il sottotitolo, Indagine sulla violenza nelle relazioni affettive, spiega in che cosa si scava, che cos’è, come si entra e come si può uscire da un rapporto violento, prima che sia troppo tardi.
Prima di arrivare a un punto di non ritorno, la relazione violenta semina infiniti segnali. Come riconoscerli? Come far sì che quel percorso si arresti? A queste domande cerca di rispondere Un altro domani con testimonianze di donne, magistrati, forze dell’ordine, autori di violenze che hanno intrapreso una terapia, volontarie del Cadmi (Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano), terapeuti del Cipm (Centro italiano per la Promozione della Mediazione).
Il ritenersi padrone di una donna dentro una relazione, e quindi in diritto di maltrattarla, picchiarla, nasce da una cultura patriarcale secolare. Non la si cambia in pochi anni e non solo in modo repressivo, ma nel frattempo si può agire sui comportamenti. In quest’ottica, nel 2020, è nato il Protocollo Zeus che permette al questore di emettere un ammonimento con cui si intima al soggetto di non reiterare quelle condotte e lo si informa che può sottoporsi a un programma di prevenzione. È qui che si si assiste, dentro e fuori dal carcere, alle sedute degli operatori del CIPM con gli uomini. C’è chi cerca di giustificarsi, chi si tormenta, chi dice che non voleva fare del male, tutti hanno lo sguardo smarrito, si dicono consapevoli di avere sbagliato, di volere cambiare, «Perché finora ho sparso solo merda», «Perché ho un figlio e non voglio perderlo», ma riuscirci significa intraprendere un percorso il cui primo atto è riconoscere la propria parte oscura, la propria violenza, il secondo è imparare a bloccarla sul nascere.
Paolo Giulini, presidente del Cipm, dice: «I nostri non sono interventi terapeutici. Non curiamo nessuna patologia. Lavoriamo con queste persone per renderle consapevoli degli effetti delle loro azioni. Nell’80% dei casi le molestie si fermano, bloccando il rischio di escalazione».
Perché ormai lo sappiamo, e lo conferma anche Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano: «Il problema della violenza sulle donne non è delle donne, ma degli uomini. Sono loro a dover cambiare».
Per contro, anche le donne hanno bisogno di un’alfabetizzazione degli affetti. Alcune testimoni, ex vittime di maltrattamenti, raccontano di aver impiegato anni a riconoscere i segnali allarmanti «Perché lo amavo e lui diceva di amarmi», «Perché speravo di cambiarlo». Altre narrano l’incubo di essere perseguitate da un ex che non picchia, ma si infila nella quotidianità con una pervicacia talmente ossessiva da essere arrivate a sperare che lui le malmenasse per poterlo denunciare, perché qui sta l’altro problema, che le botte reali le vedi e quindi hai una prova, le minacce psicologiche non le puoi dimostrare, e quindi puoi solo sperare che qualcuno ti ascolti. Come dice Cristina Carelli, coordinatrice del Cadmi, «Con la denuncia bisogna costruire un sistema di protezione e consapevolezza attorno alla donna, non basta chiederle di denunciare».
Se è vero che la denuncia da sola non risolve il problema alla radice, non cambia la cultura, può evitare di arrivare a un punto di non ritorno, l’omicidio. Emblematiche sono le storie di Francesca e Giovanna. La prima a cinque anni ha visto il padre ammazzare la madre, alla seconda il marito ha ucciso una figlia, una bambina. Entrambe hanno voluto incontrare tempo dopo l’omicida, per capire se c’erano tracce di pentimento. Hanno trovato solo silenzio, nessuna consapevolezza di ciò che avevano fatto. Chiusi dentro il loro gesto di possesso e di morte.
(il manifesto, 13 maggio 2023)
di Gaia Piccardi
Cos’è l’immagine che ha su WhatsApp?
«Il musico del ritratto di Leonardo da Vinci. Mi sembrava coerente».
Massimiliano Pani, sessant’anni, figlio dell’amore – e del peccato – tra un grande attore sposato (Corrado Pani) e una grandissima cantante (Mina), nato nel ’63 quando il divorzio non c’era, compositore, arrangiatore, produttore.
C’è mai stato un momento in cui la musica non ha rischiato di diventare un mestiere?
«Papà era un primo attore della prosa. In vacanza con lui passavo infinite ore ad assistere alle prove dei suoi spettacoli, da Goldoni a Miller, da Shakespeare a Brecht e Ibsen. Spettacoli che anche solo nel vederli nascere ti tremavano i polsi per quanto era bravo. Ho capito subito che recitare non sarebbe stato il mio lavoro: non mi appassionava. Poi, un giorno, ecco che prova il Peer Gynt, che ha dentro tantissime musiche. Rimango folgorato dalle melodie. Ho sei anni».
Cosa la trapassa, esattamente?
«L’emozione, che può arrivare anche a un bambino a digiuno di tutto. La musica mi è entrata nell’anima e non ne è più uscita. Ho chiesto di studiarla, i miei mi hanno assecondato: in casa, con Mina, se ne ascoltava già tantissima. Mamma ha cominciato a consigliarmi, non solo cose della mia generazione. Da quel momento ho incontrato una ricchezza enorme. I primi amori? Chet Baker, Guccini, il tango di Piazzolla. Alla Basilica, lo studio di registrazione di Milano, mi mettevo in un angolino, mi facevo piccolo piccolo e ascoltavo, come l’apprendista nella bottega rinascimentale. Con Mina si saltava di palo in frasca, senza confini né limiti. Perché la musica non si divide in generi, si divide in bella o brutta».
Il primo 45 giri.
«A sedici anni scrissi con un amico, Valentino Alfano, due brani: Sensazioni e Il Vento. Sperimentavamo in cantina, come tanti ragazzi. Vittorio Buffoli, direttore artistico della Pdu, ascolta i nostri pezzi, non gli dispiacciono, li porta a mamma, che è sempre stata aperta alle collaborazioni con i giovani, vedi Blanco nell’album uscito da poco. Entrambi i brani entrano in Attila, disco del ’79. È iniziata così».
E come è proseguita?
«Con Piero Cassano, che in quegli anni si era separato dai Matia Bazar. Cassano, Mario Robbiani e Celso Valli sono stati la mia formazione. Piero mi vede seduto nell’angolino dello studio: so che vuoi fare l’autore, mi dice, ti do una cassettina di cosette da finire… La nostra collaborazione va avanti ancora oggi. Certo ammetto di avere avuto il vantaggio di imparare da gente che lavorava con Mina, cioè i migliori. Come Gianfranco Zola ragazzino, che al Napoli apprese le punizioni da Maradona. Grande scuola».
Primo 45 giri comprato.
«Due, ma erano cassette. Dark side of the moon dei Pink Floyd e La Casa del Serpente di Ivano Fossati. Li presi con la paghetta settimanale».
Come è fatta una bella canzone?
«Non va spiegata: devono capirla tutti, dal filosofo all’operaio, uomini e donne, grandi e piccoli. Deve far leva su sentimenti universali, trasversali, globali. Deve avere forte la musica, poi arriva il testo. I brani che hanno migliore il testo della melodia sono più poesie che canzoni. Poi c’è chi ha saputo coniugare tutto magistralmente. Battisti, Fossati…».
Una canzone che avrebbe voluto scrivere?
«Penso a Jobim, che è riuscito a scrivere musica raffinatissima arrivata anche alle massaie, connubio tra un altissimo livello musicale e la capacità di toccare la gente comune. Perché una canzone pop, o popolare, può essere alta. Fossati è stato un eccellente scrittore di musica e parole, ad esempio. E poi Giorgio Calabrese, paroliere genovese, un gigante. Ho scritto una ventina di canzoni con lui: quando incontri un fuoriclasse, lo riconosci».
Essendo stato generato da due fuoriclasse, Corrado Pani e Mina, parla con cognizione di causa.
«Mia madre e mio padre sono stati Roger Federer. Cioè hanno fatto sembrare semplici le cose difficilissime. Ma alla base c’è un lavoro enorme, uno studio ininterrotto. Gianni Ferrio, il musicista dietro Studio Uno e Teatro 10, è un altro Federer: il più grande arrangiatore italiano, con competenze e cultura musicale di livello mondiale, bravissimo a mantenere la linea drammaturgica di un brano. Scrivere un pezzo strano è facile; farlo alto e bello, è tutta un’altra storia».
In una vita di incontri straordinari, qual è stato il più straordinario fin qui?
«Mamma».
Troppo facile.
«In assoluto la personalità più affascinante in cui mi sia mai imbattuto. Papà diceva: ho lavorato con tutti i grandissimi ma di fuoriclasse ne ho conosciuti solo due, Carmelo Bene e Mina».
Scusi ma non ha mai avvertito un senso di inadeguatezza al cospetto di questi giganti?
«Detesto i figli d’arte: sono spesso dei piagnoni lamentosi. Per questo motivo ho scelto subito di non fare né l’attore né il cantante: era talmente lampante che non avrei mai avuto la personalità di papà e il genio di mamma, che ho rinunciato subito al confronto. Una battaglia persa. Ho capito immediatamente che non ero di quella pasta lì, impossibile superarli nel loro lavoro, quindi non ci ho mai sofferto. Però lo stimolo a migliorarmi l’ho sempre avuto».
Il talento di Mina, al di là della voce, qual è?
«Saper vedere le cose in anticipo. Mentre parliamo, Mina è prima con Blanco nelle radio e l’album è in vetta negli store digitali. Eppure non ha social e sono quarantacinque anni che non fa concerti e non dà interviste. È agli antipodi delle leggi della comunicazione mainstream. Abbiamo fatto un’indagine di mercato: il suo pubblico va dai 20 ai 35 anni, persone che non l’hanno mai vista dal vivo. Pagano le scelte fatte con coraggio, libertà e coerenza: la gente la segue per questo».
Scelte necessarie per la sua visione, certo, ma anche per il suo benessere psicofisico?
«Sì. Siamo venuti a Lugano perché voleva mandare noi figli alla scuola pubblica: a Roma o Milano non sarebbe stato possibile. La polemica sulle tasse è assurda. Negli anni ’70 le tasse in Italia non le pagava nessuno. Mina è andata in Svizzera per poterle pagare, perché aveva bisogno di sentirsi una persona normale. Chi dice il contrario non ha capito nulla di mia madre».
Quando ha intuito che era ora di ritirarsi?
«Quando ha capito che la tv di qualità eccelsa che faceva stava cambiando. Impossibile mantenere quel livello qualitativo. La Emi le rescinde il contratto? E allora Mina fonda con il padre Giacomo (Mino) una sua etichetta di famiglia, la Pdu, e si concentra solo ed esclusivamente sul produrre dischi come e quando vuole lei. E comincia il lavoro di distruzione della sua immagine. Vent’anni prima di Madonna e trenta prima di Lady Gaga, si traveste: diventa scimmia, culturista, donna barbuta, papera. Ribalta le leggi dell’industria e va avanti imperterrita per la sua strada, con tutti i rischi che una scelta così controcorrente comporta. Prima che per la voce, Mina ha vinto per la sua intelligenza».
Tutt’altro che artificiale. Ma intelligenza è un concetto largo: le qualità di quella di Mina?
«L’autocritica, l’ironia. Mia madre è la persona meno diva del pianeta. Mi viene in mente Sinatra, che ancora oggi è il più bravo di tutti ma non è riuscito a diventare altro dalla meraviglia di sé stesso. Mina è più forte del suo personaggio. Bevi il caffè insieme, guardi il telegiornale, lei dice una cosa e tu pensi: ma perché non ci ho pensato io? Sento i ragazzini dei talent ripetere: ah, io desidero essere me stesso. Ma tu chi sei? Tutti sanno tutto, nascono già imparati. La cosa brutta dei talent è che sono concepiti al servizio della tv: devono creare ascolto e vendere gli spazi pubblicitari. Non sono al servizio della musica. Ogni tanto, ci trovi anche uno che canta bene. E poi avanti il prossimo, con un meccanismo di una crudeltà assoluta. Ma Billie Eilish, per citare una brava, non è uscita da lì».
Lei, Massimiliano, a chi somiglia?
«Gli occhi azzurri, miei e dei miei due figli, sono di papà. Edoardo è più Mazzini: alto come il nonno, di poche parole, super-ironico tipo Mina. Axel, padre di Alma e Corrado (quindi io sono nonno e Mina bisnonna!), è più ramo Pani: espansivo con chiunque».
Crede nel destino?
«Daniel Barenboim dice che la musica è come il sonno: di giorno non ti serve, ma prova a stare senza. Avrei potuto fare un altro lavoro, non è successo. Credo nei mestieri di famiglia, dal notaio, al panettiere, al musicista. Tornando indietro cercherei di non rifare certi errori: a volte non ho letto nel modo giusto la vita. Ma se rinascessi mi riavvicinerei alla musica, comunque».
Il 23 agosto 1978, all’ultimo concerto di Mina alla Bussoladomani, lei c’era?
«Avevo quindici anni, è stato l’unico concerto di mia madre che ho visto dal vivo».
Cosa ricorda con più vividezza?
«L’impatto della sua personalità sul pubblico: finiva una canzone e la platea esplodeva, faceva un gesto e la gente ammutoliva, stregata dalla sua dimensione emotiva. Si erano tutti, dal primo all’ultimo, consegnati a lei, officiante di un rito collettivo. Impressionante».
Una forma di potere e una possibile fonte di assuefazione. Serviva un’anima evoluta per rinunciare a tutto ciò.
«Sicuramente serviva un’anima libera. Lady Gaga, che trasuda talento da ogni poro, ha visto le cover di mamma ed è impazzita. Liza Minnelli sostiene che Mina sia la più grande cantante del mondo. Mamma ha fatto le sue scelte in coscienza e follia, senza cedere alle lusinghe dell’ego, dell’ambiente e del pensare comune. Non ama i vestiti né i gioielli, non è un’accumulatrice di oggetti: a Lugano vive nello stesso appartamento dal ’77. La verità è che Mina non è una cantante, è un’intellettuale. Ha rinunciato a tutto, anche a una montagna di soldi, con una serenità che tutt’oggi le invidio».
(Corriere della Sera, 13 maggio 2023)
di Vincenzo Mattei
Patrizia cammina sicura nel corridoio del laboratorio Gomitoli della cooperativa sociale Dedalus di Napoli, un fare spigliato, disinvolto ma deciso, il corpo si muove a suo agio come se avesse sempre sfilato. La rottura del timpano per le botte subite dal marito violento sembra solo un ricordo. «Oggi sono una donna libera, non ho più paura. A maggio del 2021 decisi di andare via di casa con i miei figli per tornare dai miei genitori e lo stesso giorno denunciai il mio ex marito per violenza e per minaccia. Da lì è iniziato un processo per ritornare a vivere, oggi se mi giro indietro mi domando da dove sia venuta fuori tutta questa forza. Decisi di intraprendere un percorso con una psicoterapeuta, per farmi aiutare dopo tante umiliazioni. La violenza psicologica riesce a uccidere le persone, chi la subisce dentro è spenta anche se da fuori sembra uguale. Quindi mi rivolsi al centro antiviolenza di Archibugi dove mi consigliarono di andare alla Dedalus», afferma Patrizia (nome di fantasia).
Il pubblico fatto di pachistani, algerini, marocchini, italiani, russi, egiziani… applaude le modelle-madri. Ognuna ha cucito la propria borsa con materiale da riciclo e il proprio abito. Mentre le protagoniste sfilano si sente un audio in cui raccontano la propria storia condensata in una frase significativa della propria vita. «Le cose si imparano anche con la dolcezza. Questa è la mia eredità e cerco di fare lo stesso», è la frase che ha scelto Patrizia. «Dalla mattina alla sera sorrido. Finita la giornata, di sera piango tanto. Oggi dico la mia: basta, ho finito di piangere, io sono forte. Basta!», è la voce dell’egiziana Asma Ghoraby.
«Patrizia ha subito per vent’anni, poi durante il Covid ci sono stati degli eccessi di violenza dovuti alla forzata permanenza in casa, all’ospedale ha capito che non poteva più andare avanti, che era troppo, così si è rivolta al nostro centro», parla Tania, la responsabile del settore antiviolenza di Dedalus.
«Prima eravamo al Centro Direzionale, troppo limitrofi, da sei anni ci siamo trasferiti al Lanificio a Porta Capuana, in un quartiere ad alta densità di migranti, questo posto è simbolico. La cooperativa è venuta qua con l’intento di attivare una rigenerazione urbana di un territorio spesso abbandonato dalle diverse amministrazioni. Quest’area multiculturale ha le scuole con il più altro tasso di bambini che vengono da fuori Italia. Sono soprattutto adolescenti stranieri che hanno bisogno di un sostegno per fare i compiti, perché i genitori spesso sono di seconda generazione o sono venuti qua da piccoli, quindi non parlano italiano e non possono seguirli e aiutarli a casa», spiega Carmen Vicinanza, responsabile della comunicazione di Dedalus e fondatrice del blog femminista «Una donna al giorno».
Dedalus ha diverse attività per gli adolescenti del quartiere e non solo per stranieri. Si spazia dai corsi di fotografia, di pittura, di arti visive, di teatro, hanno una webradio e fanno book crossing per la città in cui i ragazzi leggono testi per strada o nelle piazze napoletane. Il contrasto alla povertà educativa è chiaramente uno dei progetti della cooperativa che fornisce una serie di strumenti e attività per poter garantire la convivenza, l’integrazione e cercare di far uscire delle capacità nascoste.
«Alla sfilata c’erano molte mamme con l’hijab che prima di frequentare il nostro laboratorio di sartoria non socializzavano. La sorella di una delle modelle mi ha raccontato che vive a Napoli da ventun anni e che non usciva mai di casa perché non sapeva cosa fare, non aveva idea di come e dove poter apprendere l’italiano, conosceva solo le nozioni minime per fare la spesa. Due volte a settimana teniamo il corso di educazione ai sentimenti insieme alle mamme che si chiama “Un tè con le ragazze”, così sorseggiando il tè, ci si racconta in una sorta di autocoscienza collettiva per sentirsi meno sole e socializzare. Inoltre, molte di quelle donne che stanno giù in sartoria le abbiamo intercettate durante le lezioni d’italiano dei figli. Così anche loro hanno iniziato a studiare la lingua e poi hanno trovato delle affinità con i nostri laboratori, tanto da parteciparvi. Si parte dai ragazzi, si arriva alle mamme e da lì a tutto il contesto familiare», afferma Carmen.
Attraverso questa dinamica sono uscite delle problematiche rilevanti spesso sottovalutate o non considerate a livello mediatico come i matrimoni combinati e forzati in Italia. «Almeno in Campania, la nostra è stata la prima ricerca. Parlando con delle allieve che facevano parte del nostro centro interculturale, sono fuoriusciti due casi di ragazze promesse in sposa che poi sono sparite, rimpatriate in Pakistan per decisione della famiglia», analizza Carmen. Agire all’interno delle mura domestiche è un percorso tortuoso e complicato, le mura di casa sono insormontabili a meno che non ci sia qualcuno da dentro che apra la porta. «Ci si sposa per commissione perché avere una figlia da maritare diventa un potere contrattuale potentissimo per chi deve prendere il permesso di soggiorno dall’estero».
Infatti esiste un divario immenso per ciò che si vive nel Lanificio, con gli amici e la famiglia. «È uno shock culturale per molti ragazzi e ragazze, perché spesso a casa hanno la mamma che praticamente non esce, magari molto religiosa, e il padre che decide cosa deve fare la figlia, cosa dire, come vestirsi, mentre alla Dedalus incontrano coetanei di diverse nazionalità con cui nascono anche storie d’amore. Quindi proviamo a intervenire cercando di comunicare con le famiglie per ammorbidire alcune posizioni, c’è un progetto in particolare che si chiama “Grazia sotto pressione” in cui prendiamo in carico l’intero nucleo familiare e non la singola persona», conclude Carmen.
Asma Ghoraby è de Il Cairo, è arrivata in Italia nel 2018 per far curare sua figlia di quattro anni al Santobono di Napoli. «Non sapevo fare nulla, mentre ora so cucire i giacchetti e le borse, ho imparato molte cose. All’inizio non avevo nessun amico o amica, poi ho conosciuto delle persone alla sartoria con le quali ci incontriamo anche fuori e ora sono contenta di avere delle amiche con le quali parlare, i primi anni ero proprio triste perché ero sola. La mia storia è abbastanza complicata, perché ho perso mia figlia da qualche mese ma già prima che accadesse avevo deciso di uscire, di non rimanere nel guscio, per imparare qualcosa e magari iniziare a lavorare», Asma prende una pausa, i suoi occhi per un momento sono in un altro luogo. «Ho un’altra figlia, di sedici anni. È importante continuare a vivere, quando mia figlia di otto anni è morta ero a pezzi perché avevo dato tutto per lei. Poi un’amica quando mi ha visto così depressa mi ha detto di venire alla Dedalus. Ti insegnano a cucire, puoi incontrare persone, imparare l’italiano…», un accenno di sorriso per un attimo sembra scacciare le ombre del passato «… per me è stato importantissimo», conclude Asma.
La sartoria di Dedalus è anche un coinvolgimento emotivo e sociale trasversale che agisce in diversi ambiti ed età. «Nel mese di novembre del 2021 iniziai il corso di sartoria, alla vista delle macchine mi brillarono gli occhi, si risvegliò la passione che era stata repressa. Infatti sono cresciuta in un’azienda di borse di pellami di proprietà di mio padre, ero e sono macchinista di pelli. Tutti ovviamente hanno notato la mia dimestichezza e manualità, e giorno dopo giorno sono rinata sempre di più. Poi mi è stata offerta una borsa-lavoro, e mi sono ritrovata a insegnare a cucire a ragazzi e ragazze che venivano al corso», afferma Patrizia commossa.
«Mi chiesero di sostituire l’insegnante Antonella nei giorni in cui lei non poteva, così mi sono ritrovata in un mondo meraviglioso. Ero lì per insegnare qualcosa alle ragazze che mi hanno praticamente resa consapevole del fatto che si può rinascere. Quando veniva Asma per raccontarmi la sua vita mi infondeva fiducia perché si fidava di me, raccontandomi la sua storia aiutava la mia autostima. Mi è successo tante volte con le donne della sartoria, è fantastico perché ti rendi conto come il cucire è l’ultima cosa: lì c’è sorellanza, siamo tutte uguali, c’è affetto, c’è il rispetto, c’è tutto e poi c’è la sartoria!», continua Patrizia.
Mariola, polacca sposata con un tunisino e a Napoli da più di vent’anni è la responsabile di Ciak si cuce, il laboratorio sartoriale in cui le protagoniste sono proprio le madri. «Abbiamo iniziato con l’atelier un anno prima del lockdown, ma solo da due anni è diventato corso di formazione che rilascia un attestato di frequenza spendibile», precisa Mariola. Al momento è in fase di avvio una collaborazione tra Dedalus e l’Università Federico II di Napoli al fine di realizzare borsette a tracolla per gli smartphone. «Molte donne sono arrivate tramite passaparola, qualcuna è venuta direttamente a chiedere delle informazioni, altre tramite i figli che frequentano i nostri lavoratori. Qualcuno è arrivato perché è beneficiario dei nostri progetti, come le donne che sono nelle strutture di antiviolenza o i giovani che si trovano nelle nostre case per minori stranieri non accompagnati», puntualizza Mariola.
Patrizia è una di queste persone, durante la sfilata del 7 marzo organizzata da Dedalus anche i suoi tre figli erano presenti e applaudivano insieme a tutto il pubblico. «Ci occupiamo tantissimo della ricostruzione del rapporto madre-bambino perché una donna che subisce maltrattamenti per anni è nei fatti lesa nella sua capacità genitoriale, non perché non sia una buona madre, ma perché le violenze abbattono l’autostima. Il maltrattante che picchia fisicamente la propria compagna la denigra anche moralmente, molte di queste umiliazioni avvengono davanti ai figli, quindi la donna viene sminuita ai loro occhi. Quando vengono nelle strutture di accoglienza uno dei lavori importanti delle operatrici è quello di ricostruire il rapporto tra madre e figlio, anche quel rapporto di autorevolezza che giustamente un genitore deve avere. Se un bambino piccolo che ha bisogno di cure vede che il suo principale datore di cura, la madre, è svilita, umiliata, costantemente in pericolo, tra virgolette perde fiducia nella sua capacità di proteggerlo, di conseguenza il suo datore di cura smette di essere un adulto di riferimento», Tania prende una pausa, è visibilmente coinvolta dai vari meccanismi di violenza che si instaurano dentro casa.
«Nel centro di accoglienza lavoriamo molto su questo aspetto, Save the Children lo diceva già qualche anno fa che in Italia ci sono 400.000 bambini vittime di violenza assistita. I bambini che vivono all’interno di case dove si consumano i maltrattamenti non c’è bisogno che li vedano, la violenza il bambino la percepisce sulla pelle, perché la madre dopo che è stata picchiata dal compagno e sminuita psicologicamente di certo non gli sorride. Il grande errore che delle volte viene commesso dalle istituzioni è che non capiscono che il maltrattamento non si consuma davanti ai figli, ciò induce le autorità a sottostimare la situazione», conclude Tania.
«Il problema sorge quando lui pensa effettivamente che tu sia diventata la sua preda, quando sa di averti preso, in particolare quando tiene in pugno i tuoi figli. Perché la violenza psicologica è quella più elevata? Perché incomincia proprio da lì, e noi spesso abbiamo difficoltà a vederla perché si inizia con piccole rinunce, in realtà è proprio questo l’inganno», è Giovanna (nome di fantasia) dell’associazione Maddalena di Fuorigrotta, vittima di violenza domestica, che parla davanti a un pubblico prevalentemente femminile al teatro Trianon Viviani di Napoli dove Dedalus e diverse associazioni tengono una conferenza con il titolo «Oltre l’8 marzo» presieduta da Marisa Laurito.
«Inizialmente quest’uomo sembra perfetto: ti comprende, ti sta a fianco, estremamente empatico, fino a che non capisce che è il momento giusto per creare un precedente, un piccolo litigio di cui voi sarete ignare responsabili. L’intento è di far sorgere in voi il senso di colpa. Allora la restrizione inizia dal divieto al caffè con le amiche o dal: “Come mai sei così truccata? Dove devi andare? E con chi?”, mentre noi cerchiamo di rincorrere quello che c’era all’inizio, ma non lo troveremo più, perché quello era l’inganno per poterci soggiogare. La responsabilità non è nostra e il prenderne consapevolezza è difficile, perché ci hanno insegnato che dobbiamo salvare la famiglia a tutti i costi. Infatti, uno degli slogan che abbiamo nei volantini del centro antiviolenza di Fuorigrotta è “Io non tolgo il padre ai figli, tolgo un uomo violento”». Giovanna racconta di come si è resa conto di essere vittima di violenza tramite suo figlio di due anni e mezzo che aveva iniziato a balbettare, a soffrire di enuresi notturna, a non voler frequentare altri bambini. «Il neuropsichiatra della Asl non mi credeva, pensava che esagerassi ma gli raccontai il cambiamento che aveva avuto mio figlio: era un bambino solare, dinamico, estremamente socievole, che in una settimana si era tolto il pannolino, mentre in quel momento avevo un bambino che si svegliava la notte, o meglio rimaneva con questi occhi ghiacciati aperti. Alla fine, decise di tenerlo in osservazione con una psicologa per quattro sedute consecutive, e così è emerso che il problema di mio figlio… era il mio. I figli delle vittime di violenza sono tra virgolette dei disabili non riconosciuti, sono individui che hanno sofferto estremamente», Giovanna prende una pausa di fronte a una platea silente ed empatica.
Giovanna analizza poi il comportamento dei maltrattanti. «I padri che fanno? Una vittimizzazione di secondo livello, forse si prendono gioco dei figli, a tratti strumentalizzandoli. Sono riuscita ad averne l’affidamento esclusivo mentre lui li può vedere soltanto in presenza di altre persone, eppure sapete che cosa ha fatto? Una volta mi permisi di chiedergli di accompagnare insieme a suo padre i bimbi dal barbiere perché avessero un riferimento maschile visto che di solito li portavo io. E cosa fece? Li legò alla sedia rasandogli i capelli a zero con la macchinetta mantenendoli con forza. I bambini quando tornarono da me, il giorno dopo era l’inizio della scuola, non volevano uscire di casa. E questo non lo riesci a spiegare, neanche quando vai in tribunale, la prima cosa che ti dicono, è se sei adeguata, se sei così… se sei capace», conclude disarmata Giovanna.
Tania di Dedalus punta il dito contro certi atteggiamenti dei mass media. «Il grande errore che viene commesso dai media, che forse deriva dal fatto che siano anche loro vittime del patriarcato, è utilizzare a volte dei termini quando si parla di maltrattamenti in ambito domestico che invisibilizzano le vittime. Penso ai casi di femminicidio: “Donna uccisa da un uomo vittima di un raptus”, raptus di cosa? “Il gigante buono che non accettava di essere rifiutato”, no, è un uomo che ha ucciso una donna, un assassino, punto. Oppure: “Il primo colpo di pistola l’ha sparato lei quando ha deciso di lasciarlo”. Questi titoli che acchiappano lettore rendono invisibile la vittima e giustificano lo stupratore, il violentatore, l’assassino! Bisogna cambiare il linguaggio di comunicazione, altrimenti passa un messaggio sbagliato».
«Il tema della violenza in ambito domestico è strettamente connesso al tema delle discriminazioni di genere, e al tema della violenza economica. Partiamo dal presupposto che in Italia il 50% delle donne è disoccupata, il 50% degli/lle italiani/e ritiene che in famiglia il principale soggetto che deve portare risorse economiche è l’uomo, mentre la donna prendersi cura della casa. Questa visione stereotipata dei generi fa parte della struttura della società e in parte comporta che le donne che subiscono maltrattamenti trovino molta più difficoltà nel diventare autonome. Perché le donne non si affrancano da un maltrattamento? Perché spesso non sanno poi come occuparsi economicamente dei bambini. Quindi, l’essere disoccupata o impegnata in un lavoro solo part-time non aiuta, la discriminazione all’interno del lavoro e nella società è strettamente connessa con la violenza», conclude Tania. I centri antiviolenza prendono in carico la vittima per affrontare il percorso di affrancamento sostenendola a livello economico e legale, spesso fornendo un appartamento dove vivere.
«Mi ruppe il timpano e oggi questa lesione fisica è permanente, avverto ancora dolori quando sento un po’ di vento… ma rispetto alle umiliazioni, al chiudersi in casa, a negarti l’amicizia, la famiglia e tutto il resto la menomazione fisica è proprio una passeggiata. Il dolore fisico non è nulla rispetto a quello psicologico, oggi ne sono totalmente fuori. Per me la sfilata del 7 marzo alla Dedalus è stata una rivincita personale, l’ho pubblicata sui miei social come la mia vittoria», sorride fiera Patrizia. «Ho voluto che venisse fuori l’eleganza, la femminilità, l’essere anche provocante, tutte qualità che avevo represso. L’allegria, la spensieratezza, la forza, però decido io, perché purtroppo ancora si sente in giro “Eh, ma quello ti ha guardato, gli hai dato troppa confidenza”, “Perché tu ti sei messa un pantalone così…”, non è giusto. Volevo che queste qualità venissero fuori alla sfilata, tutte me lo hanno confermato e sono felice. Inoltre posso dire che mi sono molto divertita, perché in fondo doveva essere un gioco: facciamo le borse, le gonne, la sfilata e mi sono ritrovata su Rai Tre, una serata meravigliosa, un sogno praticamente».
Patrizia ora sta facendo un tirocinio presso una ditta di tessuti nel napoletano, la sua amica Asma sta studiando per ottenere la borsa-lavoro e sostituirla alla sartoria, a breve Patrizia potrebbe essere assunta in maniera definitiva, un’altra rivincita che si è presa. «Auguro a tutte di venirne fuori, ma incontrare le persone giuste può salvarti, perché la vita non la perde solo chi viene ammazzato, nel vero senso della parola… io non ero solo morta, ero sepolta viva».
(Alias – il manifesto, 13 maggio 2023)
di Giancarla Codrignani
Nel 1947 la Birmania negoziò l’indipendenza dal Regno Unito in mezzo a lotte nazionaliste feroci: fu ucciso anche il generale Aung San, uno dei leader della trattativa. Lasciava una figlia di due anni alle cure della madre Khin Kyi, ambasciatrice in India, mentre la Birmania nel 1962 avrebbe incominciato a sperimentare la serie dei colpi di stato militari.
Cresciuta, la figlia lavorò per le Nazioni Unite, si innamorò, si sposò e nel 1988 rientrò per assistere la madre. Il paese protestava contro la dittatura di Bo Ne Win e Aung riprese le fila dell’impegno politico del padre e chiese al governo la formazione di un comitato promotore di libere elezioni: diventò immediatamente leader mentre ricominciava la repressione violenta dei militari.
Diventata segretaria della Lega Nazionale per la Democrazia, finì agli arresti, poteva espatriare per non più rientrare (era moglie di uno straniero, causa di esclusione politico-nazionalista); rifiutò. Ormai rappresentava l’opposizione democratica in un paese militarizzato che, tuttavia, aveva fissato per il 1990 le elezioni, vinte dalla Lega; Aung doveva essere premier, ma la giunta revocò i risultati elettorali e la riconsegnò agli arresti domiciliari.
Nel 1991 avviene la designazione al Premio Nobel, ma mentre Aung rifiutava di uscire dal paese, nessuno riusciva – nonostante l’intercessione del segretario Onu e di Giovanni Paolo II – ad andare a trovarla, nemmeno il marito che morì nel 1999.
La segregazione continuò, nonostante il caso della grande lady fosse sempre più internazionale, fino al 2000, anno della consegna della laurea honoris causa dell’Università di Bologna, che poté ricevere di persona. Solo nel 2010 riacquistò la libertà e poté uscire dal Paese e rientrare senza problemi. Fece un viaggio negli USA. Nel 2011 ottenne un seggio in Parlamento.
Nel 2015 le prime elezioni libere diedero la vittoria alla Lega e Aung era in procinto di assumere la carica di prima ministra, ma le fu impedito da un altro blocco voluto dai militari. Le elezioni successive la riportarono in sella. Non stabilmente: i golpe la seguirono. Fu condannata a quattro anni per violazione delle regole anti-virus. Recuperò nel 2021, in elezioni che furono subito contestate con accuse di frode, corruzione, violazione del segreto di Stato: al 31 dicembre 2022 ha accumulato 33 anni di carcerazione.
Fin qui la – necessaria – biografia della politica (leggasi “donna che fa politica”): a parte il fatto che se si fosse trattato di un uomo sarebbe “desaparecido”, questa donna politica perseguitata non porta connotazione di genere, a meno che non si voglia sottolinearne l’immagine. Non si può evitare di ammirare questa orientale anche per il suo carattere: una donna che stabilisce in ordine gerarchico i valori, mettendo al primo posto quello che chiamiamo il dovere: il rientro per rispetto della mamma da assistere, poi l’abbandono del marito ammalato di cancro e che ha rifiutato di rivedere per non danneggiare “la causa” a cui si è votata, quella del suo popolo che ha collocato le proprie aspettative nella sua persona.
Gli orientali hanno una diversa educazione, ma questi atti di eroismo sono “sentiti” da tutti perché le donne dovrebbero strapparsi il cuore solo per la famiglia, non per i loro concittadini e i propri ideali. Comunque possiamo usare il termine eroismo.
Quello che non è eroico è il comportamento degli Stati democratici, che sostengono di fatto la violazione dei diritti umani e del diritto internazionale. La dittatura militare del Myanmar – National Unity Governement, “governo di unità nazionale” –nell’ultimo colpo di stato ha attuato repressioni che hanno causato 11.000 morti, oltre 20.000 carcerati, e “punizioni collettive”, ovvero distruzioni di coltivazioni, allevamenti eccetera. Inoltre ha soppresso il partito di Aung San Suu Kyi. Aveva promesso il rilascio di 2.200 prigionieri politici in maggio, ma fra loro non c’è il nome di Aung.
La condanna a 23 anni che le è stata comminata è condanna a vita: Aung ha settasette anni e la sua non è stata una carriera, ma la personificazione di un simbolo di libertà per il paese birmano in cui gli oppositori si organizzano in clandestinità, aiutati dalla solidarietà sporadica di simpatizzanti e di studiosi che “lamentano” che si tolleri una situazione di estrema illegittimità.
L’Onu la parte sua tenta di farla, ma non può garantire la maggioranza dei voti a sostegno di una risoluzione a cui nessuno – tanto meno i più potenti, gli USA che pure l’hanno firmata – vuole dare seguito. L’ASEAN [Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, a guida Indonesia], si dice, non può far nulla perché delibera per consenso ed è divisa. La Cina ha mandato un osservatore nel Nord, dove i Rohingya musulmani costituiscono un altro annoso problema.
Ma mentre combattiamo una guerra e prevediamo di partecipare ad altre, in Birmania, uomini e donne come noi, sono soli.
(Noi Donne, 12 maggio 2023)
di Alessia Dulbecco
Per circa dieci anni ho lavorato all’interno di alcuni Centri Antiviolenza. Ogni giorno incontravo donne che si recavano allo sportello per raccontare episodi di maltrattamento o violenza cercando sostegno per comprendere l’accaduto e trovare le risorse per allontanarsi dalla condizione sperimentata.
Come ricorda la terapeuta Dolores Mosquera nel suo recente volume Libera, la violenza di genere è un fenomeno endemico, strutturato e pervasivo. In Italia, secondo i dati Istat, coinvolge più del 30% delle donne: è facile che nella vostra cerchia di amicizie ce ne sia almeno una che si è dovuta rivolgere a un Cav per affrontare una situazione di questo tipo.
È stato in quel periodo che ho realizzato non solo quanto il fenomeno fosse diffuso, ma soprattutto quanto fosse difficile capire come superarlo o almeno arginarlo a causa di una varietà infinita di espressioni. Nell’arco di dieci anni di lavoro sul campo ho incontrato tantissime donne invischiate in relazioni abusanti; erano italiane e straniere, giovani e meno giovani, con o senza figli, con o senza lavoro e rete sociale, a volte del tutto prive di documenti. Ogni caso era a sé, ovviamente, eppure tutti presentavano delle analogie. Pochissime erano le survivors interessate a denunciare alle autorità quanto subito, alcune per paura di subire ritorsioni che temevano di dover fronteggiare da sole, altre perché avrebbero voluto trovare un modo diverso per affrontare l’accaduto; molte guardavano con preoccupazione l’ingresso dei servizi territoriali, altre riferivano della difficoltà nel narrare quanto subito davanti alle forze dell’ordine, perché venivano sminuite e prese poco sul serio nel loro racconto.
In ragione della loro storia, i Cav sono ancora oggi spazi a cui si accede liberamente, indipendentemente dal fatto che si voglia o meno sporgere denuncia. Tuttavia, il loro operato si colloca in sinergia e in continuità con quello delle istituzioni, che entrano in campo quando è necessario attivare procedure molto delicate, come il trasferimento della persona all’interno di luoghi protetti per garantirne l’incolumità, o quando sono presenti minori, nei confronti dei quali l’attuale ordinamento garantisce (o impone, a seconda del punto di vista) di continuare a incontrare l’altro genitore, in luoghi sicuri e sempre con la presenza di un educatore, almeno fino al momento dell’accertamento di quanto accaduto.
Questo articolo si interroga su un tema delicatissimo, quello che intercorre tra l’abuso in ambito relazionale (che in inglese si definisce intimate partner violence, IPV) e le forme, previste dalla legge, di tutela per le vittime e di pena per gli aggressori.
Per l’opinione comune, assicurare una punizione è l’unico modo per poter risarcire chi ha subito un sopruso. Questo ragionamento vale per tutti i reati contro la persona, ma è ancora più sentito nei confronti di quelli che hanno a che fare con l’IPV. La relazione affettiva, infatti, è vista come ulteriore motivo che dovrebbe spingere a non picchiare o abusare della persona con cui si condivide la vita, ignorando di fatto che è proprio il contatto e l’intima vicinanza ad abbattere quelle barriere che la rendono più probabile. Proprio per queste ragioni la legge 69 del 2019 che ha introdotto il cosiddetto “Codice Rosso” ha ulteriormente inasprito le punizioni per i persecutori e, teoricamente, rafforzato le tutele per le vittime di questi reati.
Secondo la giornalista Sarah Schulman, l’attuale risposta istituzionale alla violenza di genere, basata su logiche punitive, ha finito per sostituire quella che avevano previsto i movimenti femministi, basata sull’attenzione verso le sopravvissute e sulla critica al sistema culturale che autorizza quella stessa violenza.
All’interno dei Cav, infatti, la denuncia viene concepita come il punto di arrivo di un possibile percorso, certamente non come il punto di partenza. La narrazione dominante, invece, ha fatto di questo strumento una sorta di leitmotiv, un tema ricorrente presentato come il rimedio perfetto per diverse ragioni: mette la vittima nella condizione di ottenere un risarcimento del danno subito, porta il maltrattante in prigione, una volta accertate le sue responsabilità, educandolo a non commettere nuovamente il reato. Non solo, per alcuni può fungere da deterrente sociale, affinché altre persone, spaventate dalle ripercussioni penali, non agiscano lo stesso comportamento.
Se consideriamo le statistiche, il numero di femminicidi e i dati che ogni anno i Cav rendono noti, però, dovrebbe essere chiaro a tutti che lo scetticismo delle donne rispetto al sistema dovrebbe quantomeno essere ascoltato. Punire i colpevoli con il carcere o misure alternative non ha limitato i maltrattamenti o la possibilità di una reiterazione degli stessi. In alcuni casi infatti si è giunti a una drammatica escalation di violenza culminata con la morte della donna, che non si è riusciti a proteggere come sarebbe stato necessario.
Appurato il mancato funzionamento delle politiche a contrasto della violenza di genere, viene da chiedersi perché si insista a mantenere inalterato questo modello e, soprattutto, se sia possibile tratteggiare un’alternativa. Come è facile intuire, si tratta di una domanda particolarmente complessa, che non può certamente esaurirsi in un articolo. Per accennare ad una possibile risposta, però, è necessario operare dei distinguo: il primo è tra intenzioni individuali e logiche di sistema, il secondo è tra punizione e responsabilità.
A fornire spunti interessanti per dirimere la prima questione ci ha pensato Schulman che nel suo volume Il conflitto non è abuso ha sottolineato come la legge imponga di risolvere i contenziosi seguendo le sue procedure, necessariamente rigide e strutturate. Il problema è che non sempre le persone coinvolte vogliono o sono nella condizione di potervi aderire pedissequamente.
Come dicevo, è opinione comune tra le operatrici che le donne coinvolte in abusi domestici non ripongano grande fede o interesse nella denuncia, spesso per paura di doversi scontrare con quell’apparato istituzionale di cui temono il funzionamento, troppo farraginoso, lento e schierato per poter rispondere davvero alle loro necessità. Nelle attività che svolgevo con loro emergeva con chiarezza la consapevolezza circa il fatto che non avrebbero ricevuto alcuna giustizia attraverso il ricorso alle forze dell’ordine, che non si sarebbero sentite più tranquille o garantite nei loro diritti, ma che anzi questi avrebbero potuti esser messi in discussione a causa di una cultura dominante che ancora imputa al genere femminile parte della responsabilità delle azioni subite.
Per evitare che quanto esposto possa essere travisato credo sia necessario ribadire con forza un punto: quello che, seguendo il ragionamento di Schulman, intendo sostenere non è che non esistano i ruoli; è necessario riconoscere alle persone coinvolte nella dinamica di violenza status diversi. Ci sarà, cioè, una che ha subito un certo comportamento violento e una che lo ha agito (e, nelle relazioni etero, la connotazione di genere è statisticamente chiara). Quello che intendo dire però, è che spesso non ci sono solo queste due variabili.
L’attuale sistema, basato su logiche punitive, offre risposte che semplificano situazioni complesse, come del resto tutte quelle che prevedono sentimenti e vissuti condivisi tra persone. Non solo: tende a omettere o ignorare il modo in cui, a causa della cultura in cui siamo immersi, guardiamo agli episodi di violenza. Schulman riporta a riguardo un caso interessante: stando alle statistiche, le condanne per stupro a New York, dagli anni novanta ad oggi, si sono drasticamente abbassate passando da più di quindicimila nel 1992 a circa duemila registrate nel 2010. Afferma a tal proposito: «non sappiamo se questo sia connesso alla gentrificazione, che rimuove la gente povera rimpiazzandola con fasce di popolazione in cui tanto i perpetratori quanto le vittime hanno più risorse per sfuggire alla violenza o evitare le condanne».
Il caso riportato dalla scrittrice si riferisce a un paese molto diverso dal nostro, tuttavia le domande che solleva dovrebbero essere ascoltate anche qui: siamo consapevoli dei privilegi che determinate fasce sociali hanno nell’affrontare situazioni di violenza domestica? Non è un caso se i dati ci dicono che le donne che sono costrette a far ricorso alle “case rifugio” – alloggi a indirizzo segreto a cui si accede attraverso procedure molto invasive, che portano la persona a dover rinunciare per un periodo medio lungo al lavoro, agli affetti e a condurre una vita “normale” per poter stare in sicurezza – sono per lo più straniere. Prive di una rete di sostegno e di condizioni economiche più sicure, è facile che siano costrette a entrare in un sistema di protezione che le espone ad alcuni passaggi obbligati, faticosissimi da sostenere sotto il profilo sociale e psicologico.
Cristallizzare il fenomeno della violenza domestica facendo appello a due figure distinte, quella di vittima e di carnefice, presenta alcuni rischi impliciti come quello della polarizzazione. Come ricorda la traduttrice e scrittrice Giusi Palomba nel suo libro La trama alternativa, siamo soliti affidare ai due ruoli caratteristiche facilmente individuabili: la vittima è percepita come pura e innocente, il violento come un “mostro”. Tra i compiti affidati a programmi di sensibilizzazione condotti dai Cav c’è, non a caso, quello di contrastare alcuni stereotipi duri a morire, come l’idea che gli autori di violenza siano tutte persone con disagi mentali o sociali. La povertà, la malattia e l’emarginazione diventano, per il sentire comune, caratteristiche utili per tracciare una linea di confine e far sentire chi non le vive al sicuro, rimuovendo la possibilità che la violenza ci riguardi.
Affidare ai due ruoli un’identità distinta, basata su caratteristiche evidenti, si rivela un’operazione pericolosa non solo perché rischiamo di non essere più in grado di riconoscere il maltrattante quando possiede caratteristiche che lo differenziano dal modello “mostruoso” che abbiamo in mente, ma anche per la tutela stessa delle vittime. Jodi Kantor e Megan Twohey hanno raccontato bene queste dinamiche in Anche io, il volume che ripercorre la storia dell’inchiesta che le giornaliste hanno realizzato sugli abusi sessuali a Hollywood, contribuendo a lanciare il movimento metoo. Come sottolineano a più riprese, la loro indagine ha vissuto, soprattutto nelle fasi iniziali, grandi difficoltà perché per la prima volta venivano messe in discussione le azioni di uomini, come Harvey Weinstein, ritenuti affidabili, seri e rispettabili proprio a causa della posizione ricoperta. Per quanto riguarda invece i rischi subiti dalle vittime, Schulman ci ricorda che, nel 2013, il report della National Coalition of Anti Violence Programs ha segnalato come, nei casi di abusi domestici tra partner LGBTQI, la polizia abbia commesso errori importanti, arrestando la persona sopravvivente anziché quella responsabile della violenza. Afferma l’autrice: «la persona butch, sieropositiva, straniera, senza documenti, razzializzata […] può passare più facilmente come la persona che aggredisce».
La polarizzazione e la semplificazione, pertanto, rischiano di omettere un aspetto importante che è l’orizzonte culturale che consente l’espressione di violenze e abusi nelle relazioni affettive e sessuali.
Secondo Palomba, ciò che le logiche punitive hanno prodotto è stato liquidare un problema sociale senza minimamente mettere in discussione i cardini su cui si sorregge. Per compiere quest’operazione – che ci porta al secondo distinguo – è necessario riflettere sul concetto di responsabilità. Richiamando la domanda posta da bell hooks a Maya Angelou, la scrittrice si chiede se sia possibile «rendere una persona responsabile di un torto commesso e allo stesso tempo rimanere in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi».
Ad oggi, il sistema punta più sulla punizione legale e su un’eventuale rieducazione (spesso impossibile a causa di un sistema carcerario in evidente affaticamento) che non sulla responsabilità. Essa viene al massimo delegata al singolo e fatta coincidere con la punizione ricevuta, ignorando però il peso che determinate pratiche culturali, più o meno esplicite, hanno nel mantenimento delle logiche della violenza contro le donne. Si tratta di una riflessione da non trascurare, soprattutto se consideriamo che negli ambienti che si occupano di IPV la teoria secondo cui la violenza si trasmette da una generazione all’altra è ormai conclamata.
Proprio per provare a interrompere questa catena è necessario ripensare il sistema. Si tratta ovviamente di un obiettivo enorme, che non può essere raggiunto partendo da un piano macro, quanto, piuttosto, da quello micro. Un possibile suggerimento offerto da Palomba, che ha studiato le pratiche di giustizia trasformativa, è quello di introdurre il concetto di accountability, una parola che va oltre il significato di “responsabilità”: «nelle pratiche comunitarie, accountability è comprendere che un dato comportamento ha avuto un effetto su altri esseri umani». Non è solo l’accertamento della responsabilità, quanto piuttosto la volontà di far parte del cambiamento necessario ad evitare che questo comportamento si ripeta in futuro.
Come dicevamo, accountability è un concetto cardine delle teorie di giustizia trasformativa, dove l’enfasi non è posta tanto sulla punizione quanto sulla messa in sicurezza della persona che ha subito violenza e sulla possibilità di spezzare la catena che potrebbe far ripresentare lo stesso problema in un altro momento. È evidente come quest’ideale di giustizia si origini da premesse che sono totalmente diverse da quelle oggi in essere: l’accountability si ricerca infatti nella persona che ha commesso il reato e in quelle, intorno a lei, che lo hanno permesso più o meno consapevolmente, alimentando ad esempio la cultura dello stupro. Essa risponde a un nuovo ideale comunitario, che rafforza il senso di appartenenza tra i suoi abitanti anziché spezzarne i legami, in una logica di condivisione che può andare a beneficio di tutti, in particolare delle donne che non hanno solo bisogno che il loro aggressore finisca in carcere, soprattutto se c’è il rischio che esca pochi mesi dopo più incattivito di prima.
(indiscreto.org, 12 maggio 2023)
di D.i.Re. – Donne in Rete contro la violenza
Egregia Presidente del Consiglio,
abbiamo appreso dalla stampa che Fratelli d’Italia e Lega si sono astenuti durante la votazione per l’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, strumento internazionale per la tutela dei diritti delle vittime di maltrattamento e violenza. Addirittura, durante la votazione ci sono stati due voti contrari da parte di due esponenti dei partiti italiani che fanno parte della coalizione del Governo da Lei presieduto.
Ancora di più ci preoccupano le dichiarazioni di Carlo Fidanza – capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo – e dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, secondo i quali la Convenzione di Istanbul diventa il cavallo di Troia per imporre l’agenda gender: si tratta di argomentazioni prive di fondamento e che mettono in discussione tutto l’impianto antiviolenza che da anni si sta cercando di costruire e che tentano di allineare l’Italia ai Paesi europei che si stanno distinguendo per il contrasto ai diritti delle donne.
La Convenzione di Istanbul è un trattato internazionale che detta le linee e gli interventi da mettere in campo per contrastare in maniera sistemica e strutturata il fenomeno della violenza contro le donne e indica quali strategie attuare per dare forza alle vittime. Nonostante in Italia il Parlamento abbia autorizzato la ratifica con la legge n. 77/2013, questa è ancora ampiamente disattesa, con ricadute negative sui percorsi di uscita dalla violenza come – ad esempio – la vittimizzazione secondaria delle donne.
D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha già denunciato l’inadeguatezza delle risposte istituzionali in due ricerche qualitative pubblicate nel 2021 e 2022, e anche il Grevio* (2020) e la Commissione [parlamentare] di inchiesta sul Femminicidio della scorsa legislatura hanno messo in luce le criticità che ne rendono difficile l’applicazione, o come nel recente Rapporto delle organizzazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Uno degli ostacoli è la persistente sottocultura che alimenta discriminazioni e violenza e mantiene in essere asimmetrie di potere tra uomini e donne. Non può esserci nessuna evoluzione positiva nella condizione delle donne se quelle che arrivano a ruoli di potere e responsabilità non lavorano per abbattere le discriminazioni sessiste e non si impegnano per garantire la libertà dalla violenza di tutte.
Lei è la prima presidente del Consiglio in Italia, un Paese che conta una donna uccisa ogni tre giorni, che conta milioni di donne vittime di violenza maschile e che si colloca nella classifica sul Gender Gap del World Economic Forum al 63° posto. Che cosa ha intenzione di fare?
(*) GRuppo di Esperte sulla VIOlenza contro le donne e sulla violenza domestica del Consiglio d’Europa
(Direcontrolaviolenza.it, 11 maggio 2023)