di Danilo Ceccarelli


La Nobel della Letteratura: “I disordini sono ancora una conseguenza della colonizzazione. I giovani maghrebini attaccano i simboli di quello che desiderano ma non possono avere”


PARIGI – «Dove abito io sono state distrutte tre fermate dell’autobus e delle macchine parcheggiate in un garage». Annie Ernaux, Premio Nobel della Letteratura 2022, quando parla delle sommosse che hanno agitato il suo Paese in questi ultimi giorni, spiega che anche a Cergy-Pontoise ci sono stati disordini. Un piccolo comune dove la scrittrice francese vive dagli anni Settanta, situato nella banlieue a nord-ovest di Parigi. «I giovani attaccano i simboli di quello che desiderano ma non possono avere», afferma una delle più importanti autrici della scena letteraria internazionale, prima di aggiungere che la devastazione di alcuni luoghi pubblici è «meno comprensibile». Ernaux uscirà in Italia a novembre con “Perdersi” (Edizioni L’Orma): un libro in cui racconta la sua relazione con un diplomatico russo avvenuta alla fine degli anni Ottanta. Una diario personale, dove viene sviscerata l’intimità e la passione di quel rapporto.

Che idea si è fatta dei tumulti di questi ultimi giorni?

«I disordini sono compiuti da giovani che provengono dall’immigrazione, di seconda, terza o quarta generazione, in particolar modo quella magrebina. In quanto francese e bianca sono consapevole del fatto che non posso mettermi nella loro posizione, che è molto difficile. Detto questo non giustifico le violenze. Ma la situazione attuale dimostra come l’influenza della colonizzazione francese perduri, perché si tratta di persone che non vengono considerate come gli altri francesi. In questo Paese c’è un razzismo endemico che viene incoraggiato da un certo linguaggio».

Ad esempio?

«Si è parlato molto di un volantino di un sindacato della polizia, che li ha definiti “nocivi».

Cosa fare adesso che le contestazioni sembra stiano scemando?

«Bisogna chiedersi come agire, perché non è stato fatto molto fino ad oggi. Questo è il vero problema perché c’è una personache intantostalì e aspetta, come una ragno sulla tela: è Marine Le Pen. Se ci fossero delle elezioni oggi l’esito sarebbe terribile».

Lei è nata e cresciuta in un ambiente modesto, in Normandia. Il suo passato la porta ad avere dell’empatia nei confronti di questi giovani che vengono dalle periferie delle grandi città, vivono in contesti difficili e spesso molto poveri?

«Io posso capire il disprezzo di classe, ma quello che vivono è un disprezzo di razza nella società francese. Posso condividere con loro il fatto di non essere stata considerata come gli altri, ma io sono un’immigrata dell’interno (della Francia, ndr), mentre loro lo sono dell’esterno. Ai miei tempi chi quelli come me hanno vissuto la loro situazione individualmente, in modo solitario ognuno nella sua vergogna sociale. Ora invece assistiamo ad un movimento collettivo»

Con i giovani della banlieue parigina lei è entrata in contatto quando faceva l’insegnante a Cergy-Pontoise, alla fine degli anni Settanta. Quanto sono cambiati i ragazzi e le ragazze di oggi che vivono in quelle zone rispetto ai loro coetanei di allora?

«Moltissimo. Ma già all’epoca c’erano parecchie tensioni tra gli immigrati e quelli che erano soprannominati “petits blancs” (piccoli bianchi, termineutilizzato per indicare i cittadini francesi delle classi più povere che non discendono dall’immigrazione e abitano nelle zone rurali o periferiche, ndr). È una tensione sociale che c’è da sempre in Francia. Dopo la guerra di Algeria, ad esempio, sono moltissimi gli algerini che sono arrivati per lavorare insieme alle loro famiglie. Credo che molti in Francia si aspettassero stranamente una loro permanenza temporanea, ma alla finesono rimasti».

Da femminista avrà notato che si tratta di una protesta tutta al maschile, non ci sono ragazze a protestare nelle strade o a commettere disordini.

«Tra i giovani insorti c’è una cultura maschile, della virilità, che è molto forte. Ma questo elemento è presente anche in tutta la cultura francese, in modo meno evidente, meno rivendicato. E soprattutto non si esprime con la violenza fisica»

Quindi una simile situazione fa emergere la cultura maschilista che è latente in tutti i livelli della società, dalle banlieue alle grandi metropoli?

«Assolutamente. Sappiamo che le ragazze che vengono da quegli ambienti nella vita riescono a cavarsela meglio rispetto ai ragazzi».

Perché?

«Le ragioni sono diverse, alcune sono positive e altre negative. Hanno l’abitudine di essere più sottomesse e obbedienti. A scuola ad esempio, sono più attente, sono pronte. Poi, spesso, non hanno il diritto di uscire, quindi dedicano il loro tempo al lavoro. Dalla loro sottomissione relativa ne consegue una forma di adattamento alla società».

Siamo praticamente nel paradosso.

«Certo! Anche io ho conosciuto questa condizione nell’ambiente popolare dal quale provengo. Le donne che conducevano un’esistenza più libera, come alcune mie cugine che uscivano più di me, non hanno avuto successo a scuola. Quindi, indipendentemente dalla categoria sociale alla quale si appartiene, la dominazione maschile è onnipresente. Attraversa e si inserisce nelle società di tutto il mondo».

Passiamo al suo libro, “Perdersi”. È uscito in Francia nel 2001, nove anni dopo “Passione semplice”, un’altra sua opera in cui già parlava del rapporto con quel diplomatico russo, sempre citato in forma anonima. Come sono collegati due romanzi?

«Il diario che sarà pubblicato in Italia a novembre l’ho scritto proprio durante la relazione. “Passione semplice” l’ho realizzato in seguito, anche se l’ho pubblicato per primo (in Francia è uscito nel 1992, ndr). Il motivo sta nel fatto che “Perdersi” è rimasto sotto chiave per almeno cinque anni, perché l’uomo con il quale ho avuto un rapporto non voleva che lo pubblicassi. Ma una volta che tra di noi è finita ho riletto quelli che avevo scritto e ho avuto l’impressione che fosse la storia di un’altra donna, non la mia».

Cosa aggiunge “Perdersi” alla sua storia con quell’uomo?

«Ci sono molti più elementi personali, intimi, ma anche complessi, In un certo modo è più crudo rispetto a“Passione semplice”». Forse anche un’evoluzione della definizione dell’amore tra voi due. «Non si è mai d’accordo su quello. L’amore è la cosa più condivisa la mondo ma anche la meno definibile».


Annie Ernaux, Premio Nobel per la Letteratura 2022, ha vinto la 16esima edizione del Premio Crédit Agricole «La storia in un romanzo», riconoscimento nato su impulso di Crédit Agricole Italia in collaborazione con Fondazione Pordenonelegge.it e Link, Festival del giornalismo di Trieste. La scrittrice riceverà il Premio sabato 16 settembre alla 24esima edizione di pordenonelegge (13/17 settembre). I suoi libri sono editi in Italia da L’Orma.


(La Stampa, 5 luglio 2023)

di Luca Kocci


Le lettrici e i lettori del manifesto conoscono bene Adriana Zarri, donna teologa laica che per trent’anni (dal 1980 alla morte nel 2010) ha scritto su questo giornale di Chiesa, teologia, spiritualità e società, con acume, libertà e spirito critico. Ma quella che emerge dai suoi diari giovanili, appena pubblicati da Einaudi con la cura rigorosa e l’interpretazione profonda di Francesco Occhetto, è una Adriana Zarri inedita (La mia voce sa ancora di stelle. Diari 1936-1948, pp. 290, euro 20). 
Inedita perché si tratta di testi che leggiamo ora per la prima volta, letteralmente tirati fuori da un cassetto dove li custodiva Bruna Pietranera, fra le animatrici dell’associazione Amici di Adriana Zarri. Inedita perché quella che si manifesta dai diari scritti fra il 1936 e il 1948 è un’adolescente e poi una giovanissima donna (nata a San Lazzaro di Savena, nelle campagne bolognesi, nel 1919: per la biografia di Zarri si veda Mariangela Maraviglia, Semplicemente una che vive, il Mulino, sul manifesto del 18 novembre 2020) alla ricerca dell’essenziale e dell’assoluto, non ancora la teologa originale e radicale capace di anticipare e poi di oltrepassare il Concilio Vaticano II, né l’eremita immersa nel mondo e nella storia. Inedita perché c’è tutta l’Adriana Zarri mistica, che cerca Dio non nel soprannaturale – come una superficiale interpretazione della parola potrebbe suggerire – ma nel quotidiano e nell’ordinario.

I DIARI SI DIVIDONO in tre fasi. La prima, la cui redazione è datata 1936, è quella della «conversione», che arriva fulminante e misteriosa, innestandosi nella vita di un’adolescente inquieta e profondamente turbata dalla morte improvvisa del fratello maggiore Adriano, a vent’anni, nel 1931. «Fu un lampo! – scrive la 17enne Adriana – Un lampo improvviso che squarciò le tenebre della mia mente nella quale si versarono torrenti di luce. In un istante io vidi Colui che avevo sempre cercato: lo conobbi, lo amai, fui sua». 
Per Adriana è la vera scoperta di Dio. Ma quale Dio? Non il Dio «monolitico» e «patriarcale», «moralista» e «punitore» definito dalla teologia e trasmesso dalla pastorale del tempo – il catechismo è quello di Pio X, sul soglio pontificio dal 1939 siede Pio XII – e che Adriana ritrova nella Compagnia di San Paolo, istituto religioso in cui entra nel 1942, credendo di poter realizzare lì la propria vocazione, e da cui si allontana qualche anno dopo. «Mi sento paralizzata, sminuita, finita: un povero fantoccetto al comando dei fili», scrive Adriana il 21 giugno 1943.

INIZIA LA NUOVA VITA di Adriana, quella della libera ricerca spirituale e teologica (un «cammino eversivo e controcorrente congeniale ai soli dettami dello Spirito, al di là di qualsivoglia ingerenza ecclesiale, teologica o politico-culturale», rileva Occhetto), dell’incontro con il Dio-Amore e della «mistica», non come fuga dal mondo, ma come immersione nell’umano per trovare il divino. E infatti i suoi diari giovanili – compresi gli slanci di una scrittura giovanile ed estrema – possono essere inseriti a pieno titolo in quel filone della mistica cristiana femminile, che dal Medioevo arriva fino a Simone Weil e Hetty Hillesum. In cui, scrive Luisa Muraro, Dio «diventa un Dio di passaggio: dal chiuso della teologia scientifica, delle discussioni scolastiche, delle cerimonie e delle gerarchie, dei canoni e dei tratti, si trasferisce nella relazione d’amore e da questa scorre per il mondo, liberamente e segretamente».


(il manifesto, 5 luglio 2023)

di Chiara Cruciati


Basma Abdel Aziz è una scrittrice, una psichiatra e un’attivista per i diritti umani. Vive al Cairo e negli ultimi anni ha pubblicato romanzi di grande successo (La fila, tradotto in italiano per Nero Editions, e Here is a Body) che trascinano in realtà distopiche, apparentemente impossibili da immaginare ma che sono lo specchio dell’Egitto di oggi e del suo sistema tentacolare di controllo sociale.

Com’è cambiata, dalla rivoluzione del 2011 e dal golpe del 2013, la letteratura egiziana e il suo modo di narrare le trasformazioni del paese? 
La rivoluzione ha aperto spazi per molti percorsi narrativi, ha dato a scrittrici e scrittori lo spazio per esprimere pubblicamente le proprie emozioni, i sentimenti, la disperazione. Quanto accaduto dopo la rivoluzione ha riportato a pensieri nichilistici, rabbiosi, all’idea di non potercela fare. Il prezzo da pagare per gli egiziani, siano artisti, scrittori, politici, cittadini, è stato alto. Ancora oggi si scrive e si pubblica molto, ma con meno entusiasmo. Sono opere più riflessive.

Quindi quella spinta creativa nata con la rivoluzione di Tahrir è ancora viva? 
Lo è, anche se cambiata: non è più quella che narrava di speranza, dignità e orgoglio. È un’onda letteraria di sarcasmo, black humour, appesantita dall’idea di essere manipolati dall’autorità, di essere profondamente presi in giro. Svela il modo in cui il sistema ha ridefinito la consapevolezza collettiva. Questa spinta non finirà, nemmeno con aggressioni e detenzioni.

I suoi sono romanzi distopici, un filone sempre più popolare in Medio Oriente per svelare le realtà dei paesi sotto regimi autoritari.

Il tema de La fila era diretto a tutti, aveva un significato più generale e simbolico: quello che accade con ogni dittatura nel mondo. Mi interessa, nei miei scritti, esplorare il modo in cui le figure autoritarie manipolano i popoli, ne controllano i comportamenti, ne cambiano le percezioni, li rendono obbedienti e facili da gestire. Provo a mostrare il volto disgustoso dell’oppressione e il vero significato, buio e diabolico, che sta dietro un linguaggio luminoso e subdolo.

Lei scrive di povertà, repressione, distanza del potere dal popolo, uso della religione per mantenere l’ordine sociale. Ma anche dei diversi strumenti usati per impedire ogni rivolta. Quanto il regime egiziano oggi è spaventato da una possibile sollevazione? 
C’è una paura reale. La situazione socio-economica deteriora velocemente, l’inflazione cresce a livelli insopportabili, i salari della maggior parte delle classi sociali non bastano più a una vita dignitosa. La gente ha le spalle al muro. Penso sia solo una questione di tempo prima che le persone decidano di non accettarlo più.

Come scrittrice ma anche come psichiatra, può descriverci la psiche collettiva del popolo egiziano oggi. Una società dalle mille identità, ma è possibile individuare alcuni elementi comuni? 
Non è facile descriverla. Di certo c’è un profondo e generalizzato scontento, c’è rabbia e c’è anche senso di colpa. Anche tra chi ha sostenuto questo sistema dal principio: una percentuale significativa gli ha voltato le spalle e alcuni lo confessano. Le persone si sentono intrappolate, non sanno quali scelte compiere né sono certe di avere delle reali prospettive per il futuro.


(il manifesto, 4 luglio 2023)

di Mao Valpiana


Parla Yurii Sheliazenko, leader del Movimento nonviolento a Kiev. Lavora come consulente legale freelance, giornalista e scrittore, è stato ricercatore e docente di Diritto alla Krok Univesity, vive a Kiev. Barba e capelli lunghi, sempre un po’ trafelato, è il punto di riferimento in Ucraina del movimento pacifista internazionale. La sua organizzazione nonviolenta fa parte di EBCO/BEOC, l’Ufficio Europeo per l’obiezione di coscienza e della War Resisters International. Tra i suoi progetti, tradurre e diffondere in Ucraina i testi sulla nonviolenza di Gandhi e Capitini.

Yurii, come va? Che vita stai facendo da quando è iniziata la guerra?

Mi chiamano traditore, mi vengono rivolte minacce, rischio la vita, viene fatto pubblicamente il mio nome come nemico. Non mi lascio intimidire da tutto questo. Io mi esprimo contro i guerrafondai, contro tutti coloro che vogliono fare la guerra. La mia casa a Kiev è stata scossa dalle esplosioni di missili russi nelle vicinanze e le sirene dell’allarme aereo mi ricordano, giorno e notte, che la morte vola sopra la testa. Tuttavia, con il nostro movimento aiutiamo i civili a sopravvivere, continuiamo a sostenere l’abolizione del servizio militare obbligatorio, portiamo avanti studi sulla pace e cooperiamo con il movimento internazionale per la pace.

Che succede dopo lo scontro di potere tra Putin e Prigozhin?

Prigozhin non si è indebolito, ha salvato le sue sanguinose fortune, ha consolidato il suo esercito di mercenari e gli è stato permesso di trasferirsi in un luogo considerato sicuro. L’accordo ha aumentato anche il potere di Putin. Egli ha bisogno di eserciti di mercenari per le guerre ombra russe in tutto il mondo, e anche i suoi alleati cinesi potrebbero averne bisogno. Però questa vicenda ha dimostrato che anche due criminali di guerra rivali sono riusciti a negoziare una tregua tra loro e indica che i negoziati sono sempre possibili.

Qual è stato il vero ruolo di Lukashenko, secondo te?

La Bielorussia è una società ancora più militarista rispetto alla Russia. Prigozhin operava già in Bielorussia e questo nuovo accordo significa solo che la Bielorussia diventerà il suo quartier generale formale. Significa anche che Lukashenko ha intenzione di usare il suo esercito privato. La Bielorussia è una sorta di offshore per gli oligarchi di Putin, una giurisdizione nominalmente indipendente in cui è possibile salvare i propri soldi.

Al Vertice di Vienna per la pace in Ucraina, hai attaccato i «negazionisti della pace».

Nemmeno la distruzione della diga di Nova Kakhovka e l’alluvione di dimensioni bibliche hanno convinto Putin e Zelensky a fermare la guerra e a collaborare per salvare le vittime. Entrambi rimangono supremi negazionisti della pace, cercano la vittoria sul campo di battaglia e si rifiutano di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di riconciliazione. Manca l’immaginazione nel costruire ponti, e quindi fanno letteralmente saltare i ponti!

A chi dice che la sola alternativa è tra vittoria o resa, cosa rispondi?

Alcuni dicono che è immorale smettere di armare l’Ucraina per l’autodifesa, ma io credo che sia immorale alimentare la guerra con la fornitura di armi. L’unica speranza di uscire dal circolo vizioso è imparare a resistere agli aggressori e ai tiranni senza violenza, senza riprodurre i loro metodi e la loro follia militarista. Putin ha aggredito militarmente, ma noi non possiamo agire come se la difesa nonviolenta e la diplomazia non esistessero.

E ora come evolverà il conflitto?

La continua escalation tra Russia e Ucraina rende ora impossibile pensare ad un cessate il fuoco. Putin insiste nell’intervento militare per liberare l’Ucraina da un regime fascista che uccide il proprio popolo. Zelensky mobilita l’intera popolazione per combattere l’aggressione e afferma che i russi si comportano come nazisti che colpiscono i civili. I media ucraini e russi usano la propaganda militare per chiamare l’altra parte nazisti o fascisti. Tutti i riferimenti di questo tipo servono a giustificare che si sta combattendo una «guerra giusta»: devi essere ossessionato dall’idea che «noi» dobbiamo combattere e «loro» devono morire.

In Italia ti accuserebbero di non saper distinguere tra aggressore e aggredito.

La guerra di Putin è senza dubbio malvagia, ma durante i sette anni prima dell’invasione russa in Ucraina, sia i russi che gli ucraini hanno violato l’accordo di cessare il fuoco in Donbass, in cui migliaia di persone sono state uccise. La verità è che molti ucraini non sono così innocenti, così come i russi. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri paesi dell’Occidente hanno potenziato la Nato che si sta espandendo verso Est. Entrambe le parti corrono il rischio di far scoppiare una guerra nucleare che può portare alla distruzione della vita sul nostro pianeta.


(il manifesto, 2 luglio 2023)

di Donatella Massara


“Patchwork di storie femministe”, raccontate in prima persona dalle protagoniste e da attrici che le interpretano, in un podcast scritto e curato da Donatella Massara. Esperienze vissute dagli anni ’70 in poi, dando voce anche a quelle che sono venute prima di noi, dall’eretica Guglielma (sec. XIII) fino a Linda Malnati (1855-1922) e Carlotta Clerici (1851-1924) milanesi, socialiste femministe, compagne nella vita e nella politica.


Link del podcast: https://vimeo.com/829091597/9b8866a370



(www.libreriadelledonne.it, 2 luglio 2023)

Consigli imperdibili per femministe di tutte le età. Una mappa di letture delle turniste e delle amiche della libreria. Spazieremo dalla narrativa alle biografie, dai gialli alla scienza, dalla filosofia al pensiero della differenza sessuale… 

di Paola Mammani


La relazione introduttiva di Chiara Zamboni in occasione della redazione della rivista Via Dogana Tre dell’11 giugno scorso è stata per me particolarmente preziosa. Orientarsi con l’amore, diceva l’invito, indicando un tema fondativo, e variamente declinato, del pensiero politico delle donne per come oggi lo conosciamo e pratichiamo. Voglio ricordarne almeno due forme memorabili per molte della mia generazione: l’amore della figlia per la madre, come si legge nella relazione di Laura Colombo con riferimento al pensiero di Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre del 1991, e l’amore che le donne hanno rivolto alle loro simili, secondo la pratica proposta da Antoinette Fouque nel gruppo Psychanalyse et Politique nei primi anni ’70, ripresa e rielaborata nel pensiero di Lia Cigarini (vd. introduzione a I sessi sono due di Antoinette Fouque, 1999). Queste invenzioni simboliche ci permisero allora di vedere quella corrente viva di relazioni che aveva da sempre percorso il mondo delle donne. La scelta di Chiara Zamboni di partire dall’amicizia tra donne come fatto originario è un ulteriore passo simbolico che ci rafforza e rallegra. Siamo amiche, lei parte da lì, semplicemente, e l’amicizia, secondo le sue parole, «ha come suo centro il fatto di confrontarsi nella vita e sul suo senso», e aggiunge che «una ricerca di senso che riguarda la vita, facilmente può diventare politica». Con tratti essenziali e felici Zamboni ci dice che l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo. L’amore per il mondo è ciò che ci unisce e ci fa cercare. Ci fa desiderare di trasformarlo». Segnala poi la differenza che intercorre tra l’amicizia politica e la semplice relazione politica tra donne. Se la prima ci fa cercare «l’altra per pensarlo [il mondo]perché cerchiamo una misura – anche da posizioni che possono essere diverse […] le relazioni politiche sono molto più libere. Fluide. Leggere. Si possono creare relazioni politiche anche con chi sentiamo lontana o lontano quanto a piano profondo dell’esistenza. È sufficiente che si crei una comune scommessa di trasformazione del mondo e di modificazione di contesti vissuti assieme.[…] una relazione politica si scioglie senza sofferenza, quando non ci sono le circostanze che l’alimentano».

Non posso qui riassumere, come è ovvio, la ricchezza del contributo che è possibile leggere nella sua interezza in questo numero online di Via Dogana. Ho solo riportato alcuni dei tratti con cui Chiara Zamboni caratterizza tre forme di relazione tra donne che, utilizzando un’espressione ricorrente nel pensiero di Lia Cigarini, chiamo “figure dello scambio”: quei modi, quelle forme, cioè, con cui scambiamo, tra donne, sapere, autorità, senso della vita, amore per il mondo e gli esseri che lo abitano e perciò anche desiderio di cambiarlo.

Ho subito provato un senso di sollievo, ascoltando la relazione, come accade quando una impasse del sentire e del pensiero, si libera in una nominazione adeguata. Di recente mi è capitato di confrontarmi con donne molto impegnate nel contrasto alla cosiddetta maternità surrogata, al sex work e alle altre nuove forme di mercificazione dei corpi – in particolare di donne e bambini – che tuttavia trovano giusta e adeguata la risposta bellica che l’Ucraina, la Nato e l’Europa tutta, hanno deciso di opporre a Putin. Mi sono detta, ma che mi importa se lei combatte per la dignità di donne e bambini quando si tratta di “utero in affitto”, ma poi non riconosce il nonsenso e l’orrore della guerra, quale che sia? Ero convinta che non si trattasse di un buon pensiero, di un buon pensiero politico, intendo, e quindi sono rimasta in mezzo al guado senza sapere come nominare o come sciogliere il nodo. La formulazione di Chiara Zamboni mi ha subito sollevata. Ho capito che rimanevo incastrata in una “figura dello scambio” incongrua, inadatta a definire quella relazione. Non di amicizia politica si trattava, bensì di più semplice relazione politica, di quelle dalle quali ti accommiati se il contesto non è più convincente o nelle quali puoi rimanere per condividere un disegno comune ma definito. Mi chiedo, però, perché rimanessi così impigliata nel disagio, quasi nella sofferenza. Mi rispondo – e ne parlo solo perché penso che anche ad altre possa succedere – che troppo spesso mi incaponisco a volere amicizia politica. È come una pretesa d’amore che si rivela, oltre che inutile, controproducente. Restringe il mio mondo invece di allargarlo. Le figure dello scambio che Chiara Zamboni ci propone fanno proprio il contrario, ci mettono in relazione differenziata e duttile con le altre. Quanto più la rete delle relazioni può allargarsi senza che vi restiamo impigliate, tanto più la nostra scommessa sul mondo può risultare vincente.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 30 giugno 2023)

di María-Milagros Rivera Garretas


In Spagna, negli ultimissimi mesi, noi donne siamo diventate l’asse esplicito della politica. Lo siamo sempre state ma non lo si diceva, era un tabù, così tabù che era diventato impensabile. Adesso è saltato alla luce, al centro, sconcertando e abbagliando molte e molti.

Qui non la finiamo di votare, in elezioni democratiche molto rischiose, locali, generali, ripetute, litigiosissime. E senza che nemmeno le femministe lo prevedessero, è accaduto che il governo e i dibattiti politici si dividano su una sottile frattura tanto divertente sul nome che ciascuna parte politica – la destra, la sinistra, l’ultradestra, l’ultrasinistra – dà o non dà alla violenza di tanti uomini contro le donne. Io sono affascinata.

Nel dibattito stanno al gioco le donne di potere, per poco che ne abbiano. A seconda di ciò che dicono sul tema, attraversano tranquillamente le barriere proibite che separano i partiti di sinistra da quelli di destra. La sinistra e la destra dicono “violenza di genere”, l’ultradestra “violenza intrafamiliare”. E i patti di governo possono diventare impraticabili. Perché non si rendono conto che le due frasi sono stupide, non corrispondono alla vita. Una donna non l’aggredisce o uccide il suo compagno o ex uomo perché lui ha un certo stereotipo di genere in testa (che di solito neanche ha) ma perché lei è donna e libera. Un giornalista spiritoso ieri ha spiegato seriamente che in Andalusia hanno due linee telefoniche per aiutare le donne: una sulla violenza intrafamiliare per quelle di ultradestra, un’altra sulla violenza di genere per tutte le altre. Entrambe funzionano.

Queste dei nomi sono, a mio parere, minuzie senza interesse. Quello che è successo è molto più grande. L’importante non è dove né come si mette il centro, ma chi è il centro. Il centro, le cose decisive, siamo noi, le donne, che ci mettiamo dove vogliamo. E non è triste né banale che si riconosca che siamo il centro, che siamo la Prima, la Divina, parlando di violenza. No. Questo è un modo inaspettato ma coerente di dire che la società intera si è resa conto della fine del patriarcato (Libreria delle donne di Milano). È coerente perché mette a nudo il nucleo del contratto sessuale, patto violento tra uomini sul corpo delle donne e i suoi frutti, che era la base del patriarcato (Carole Pateman). Il contratto sessuale – aggiungo io – separò prima violentemente le donne dal loro piacere proprio, il piacere clitorideo, proibendolo. Senza orgasmo femminile, dato che quello vaginale è un’invenzione maschile del XX secolo, noi donne siamo facili da dominare (Il piacere femminile è clitorideo).

Io muoio dal ridere con la polemica sui nomi della violenza contro le donne. Mostra che, a tentoni, la società maschile e le donne che la sostengono stanno rendendosi conto dell’avvicinarsi dell’esito finale. Un esito che, se va per nomi, sarà pacifico e piacevole: il patriarcato è terminato del tutto perché, finalmente, la violenza contro le donne è diventata impensabile e insopportabile. Senza questa violenza non può esserci né c’è stato mai patriarcato.

Un altro paio di maniche sarà che la nostra società possa avvicinarsi alla verità nitida che in molte donne sappiamo e che una [Moderata Fonte, Ndr] – per fare un esempio – lasciò scritta nella bella città di Venezia nel suo libro del 1600 intitolato Il merito delle donne: ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli huomini. Dove chiaramente si scopre fino a che punto sono degne e più perfette degli uomini.


(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan. Testo originale: http://www.ub.edu/duoda/upload/publicaciones/MM.Rivera_EJE-dela-Pol.pdf, 24 giugno 2023)


Las mujeres somos hoy el eje de la política

de María-Milagros Rivera Garretas


En España, en los ultimísimos meses, las mujeres nos hemos convertido en el eje explícito de la política. Lo hemos sido siempre pero no se decía, era un tabú, tan tabú que se había vuelto impensable. Ahora ha estallado en la luz, en el foco, desconcertando y deslumbrando a muchas y muchos.

Aquí no paramos de votar, en elecciones democráticas muy arriesgadas, sean locales, generales, repetidas, reñidísimas. Y sin preverlo ni siquiera las feministas, ha ocurrido que los gobiernos y los debates políticos se están dirimiendo en una grietita tan divertida como es el nombre que cada cual -la derecha, la izquierda, la ultraderecha, la ultraizquierda- le ponga o no le ponga a la violencia de tantos hombres contra las mujeres. Yo estoy fascinada.

En el debate entran al trapo las mujeres con poder, por poco que tengan. Según lo que digan sobre este asunto, ellas cruzan tan tranquilas las barreras prohibidas que separan a los partidos de izquierda de los de derecha. La izquierda y la derecha dicen “violencia de género”, la ultraderecha, “violencia intrafamiliar”. Y los pactos de gobierno se pueden volver impracticables. Porque no se dan cuenta de que las dos frases son estúpidas, no se corresponden con la vida. A una mujer no la agrede o mata su pareja o expareja hombre porque él tiene un cierto estereotipo de género en la cabeza (que no suele ni tener) sino porque ella es mujer y libre. Un periodista gracioso explicó ayer seriamente que en Andalucía tienen dos teléfonos para auxiliar a las mujeres: uno de violencia intrafamiliar para las de ultraderecha, otro de violencia de género para todas las demás. Los dos funcionan.

Todo esto de los nombres son, en mi opinión, minucias sin interés. Lo que ha sucedido es mucho más grande. Lo importante no es dónde ni cómo se pone el foco, sino quién es el foco. El foco, las decisivas, somos nosotras las mujeres, que nos ponemos donde queremos. Y no es triste ni banal que se nos reconozca que somos el foco, que somos la Primera, la Divina, hablando de violencia. No. Esta es una manera inesperada pero coherente de decir que la sociedad entera se ha enterado del final del patriarcado (Librería de mujeres de Milán). Es coherente porque deja al desnudo el núcleo del contrato sexual, pacto violento entre hombres sobre el cuerpo de las mujeres y sus frutos, que era la base del patriarcado (Carole Pateman). El contrato sexual -yo añado- separó antes violentamente a las mujeres de su placer propio, el placer clitórico, prohibiéndolo. Sin orgasmo femenino, ya que el vaginal es un invento masculino del siglo XX, las mujeres somos fáciles de dominar (El placer femenino es clitórico).

Yo me mondo de risa con la polémica sobre los nombres de la violencia contra las mujeres. Muestra que, a tientas, la sociedad masculina y las mujeres que la sostienen se están enterando de la proximidad del desenlace final. Un desenlace que, si va de nombres, será pacífico y placentero: el patriarcado ha terminado del todo porque, por fin, la violencia contra las mujeres se ha vuelto impensable e insoportable. Sin esta violencia no puede haber ni ha habido nunca patriarcado.

Otro cantar será que nuestra sociedad pueda acercarse a la verdad nítida que muchas mujeres sabemos y que una -por poner un ejemplo- dejó escrita en la bella ciudad de Venecia en su libro de 1600 titulado Il merito delle donne: ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli uomini. Donde claramente se descubre hasta qué punto son ellas dignas y más perfectas que los hombres.


(http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/319/, 24 junio 2023)

di Cettina Tiralosi


Ho partecipato volentieri e con curiosità, alla discussione della redazione VD3 “Orientarsi con l’amore”, in modalità online. Godo di questo mezzo per essere presente alle conversazioni in Libreria alle quali, altrimenti, non potrei partecipare con la stessa frequenza, visto che vivo lontana.

L’essenza dell’amore è l’essenza del femminismo, è stato detto a un certo punto, nell’ordine femminile della madre, e occorre perciò, a mio avviso, darsi misura, altrimenti si rischia il ritorno in nuove forme subdole del sacrificio di sé in nome dell’amore, della passione per il mondo.

Il patire nell’amare è sentire un disagio fisico o spirituale. Dove c’è patimento, io ho imparato da femminista a prendere le misure, cioè le distanze di sicurezza per la mia incolumità e l’andamento del vivente: cioè dove sento che c’è, esso non porta niente di buono, e se non si trova come rimediare, allora meglio desistere e lasciare lo spazio al silenzio, in attesa di tempi e momenti migliori per riproporre, per riproporsi.

L’amore femminile della madre non ammette sacrifici, ma cura di sé e delle altre e degli altri in relazioni necessarie e irrinunciabili, molto spesso inaspettate, ma soprattutto non a tutti i costi, altrimenti c’è chi approfitta dell’occasione e chiude il cerchio in una morsa che già conosciamo dell’amore come merce oppure risorsa vivente e infinita da sfruttare.

Ecco la mia ricerca di libertà da femminista di questo secolo, consiste in questa misurazione continua e infinita, senza stanchezza e senza segni di insofferenza, senza ripensamenti ma alleggerendo la portata, la consistenza all’essenziale, affinché scorra in libertà il pensiero e l’azione.

Questa è una scienza, basata sull’esperienza di sé e delle altre, riproponibile e che si può ereditare, attraverso testimonianze scritte oppure vissute e raccontate in presenza oppure online.

L’importante è rendersi conto e rendere conto in coscienza, in modo autentico, con chi si vuole oppure ovunque si presenti la possibilità di esserci.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 29 giugno 2023)

di Giorgia Basch


Nell’ultimo incontro di Via Dogana si è parlato di amore e amicizia politica. Prima di scrivere del significato che l’amore ha per me in questo contesto mi è necessario fare una premessa: l’idea di amicizia politica non potrebbe esistere per quanto mi riguarda senza l’incontro col femminismo. E dal femminismo non si torna indietro. Il femminismo, e le mie amicizie, che reputo tutte intrinsecamente politiche, sono una lente attraverso cui guardare il mondo, esplorarlo, cambiarlo.

Con gli occhiali del femminismo l’amicizia ha assunto nuove forme. Enormi, alcune, ingombranti. Rassicuranti. Altre costantemente presenti. Colorate, che riempiono la stanza di energia. Salde, nonostante il tempo, nonostante la distanza. Risonanti come una risata. Leali. Le amicizie che sento tali nel profondo sono tutte politiche a modo loro, perché hanno una cosa in comune: si fa assieme, con l’idea di una realizzazione condivisa. È forse questa per me l’anima della politica, la prospettiva di inclusione dell’altro di cui parla Hannah Arendt in Che cos’è la politica. Per citarla, «la politica non raggiunge mai la stessa profondità. La mancanza di profondità altro non è infatti che scarsa sensibilità per la profondità su cui poggia la politica». Solo nell’unione delle nostre sensibilità può avere luogo la politica, nella relazione, e solo con lo scambio, abitando l’intra, ci è possibile discendere a profondità maggiori, dove possiamo sentire di più. In questo sentire, sentire forte che ancora nessuna lingua per me dice meglio dell’italiano, politica e amore si incontrano. È un sentimento viscerale che, come avevo già scritto qualche tempo fa parlando del tema del piacere, ha qualcosa di erotico. Lo vivo nella mia esperienza quotidiana in cui ciò che mi muove e mi spinge a fare, a dire, è la possibilità di questa seduzione creatrice che si instaura nei legami di amicizia e di amore. Più il confine tra i due sfuma più si fa intensa e interessante la collaborazione: le idee scorrono, si pianifica il futuro, le utopie sono intriganti tanto più quando sono possibilità concrete da materializzare assieme. La relazione politica per me è immaginare con occhi uguali e diversi mondi nuovi. L’eros è una risorsa per una comprensione intima, una forza che come scrive Lorde «non può essere di seconda mano». La sua potenza è brillante, generativa, autentica nel momento stesso in cui viene riconosciuta da qualcun altro. In quel riconoscimento ci vedo tutta la bellezza del femminismo e dell’amore che sento come vero. 

In questo momento storico in cui è difficile discernere verità e finzione – e per verità intendo quello che sentiamo come vero per noi – in cui l’eros sradicato e applicato solo al visibile tanto rafforza le posizioni maschiliste e maschiocentriche che non abbiamo ancora scalfito del tutto, far nascere e coltivare relazioni politiche è un’impresa complessa e dispendiosa di tempo, tempo che molti e molte scelgono di non impiegare perché catturati dalla macchina del neoliberismo. Ho perso amicizie che non hanno retto al contraccolpo erotico della condivisione profonda. Altre non sono diventate abbastanza forti. Altre ancora hanno prodotto scontri che ci hanno separate per qualche tempo. In quelle con gli uomini, spesso amorose e in cui il gioco erotico ha una doppia anima – unione di intesa mentale e fisica –, la questione è ancora più sfaccettata: da un lato la resistenza tutt’ora da parte degli uomini ad abbandonarsi a un sentire che non divide testa e cuore, dall’altra l’incapacità e spesso la non volontà di trovarsi di fronte a un erotico molto diverso da quello che hanno inteso loro. Un eros-amore che crea uno spostamento reale, che si manifesta nelle cose di tutti i giorni e non solo in un letto o un collant, un sentimento che “fa per due”, che cambia gli equilibri interni ed esterni e che ci fa sentire coinvolti e al tempo stesso custodi responsabili di una passione preziosa.

Nel nutrire e riconoscere nuove relazioni politiche quel che mi aiuta è ricordare che non c’è posto per l’individualismo in un progetto politico nato dall’amore, né per una visione parziale e unilaterale delle cose. C’è conferma, forza, futuro.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 28 giugno 2023)

di Rinalda Carati


Pochi giorni prima della redazione allargata di VD3 che si è tenuta l’11 giugno avevo scritto a due amiche una piccola lettera di ringraziamento della quale riporto qui una parte:

«Quello che mi è capitato negli ultimi anni (credo sia per l’uscita dal mondo del lavoro, sia per la scomparsa di Rosetta [Rosetta Stella, NdR]) è stato il venir meno di quella parte di relazioni che stanno nella categoria del “non scelte”. Non scelte sono per definizione quelle che si danno nel lavoro. Ma non scelte sono anche – almeno da alcuni punti di vista – le relazioni che si incontrano avendo a che fare più intensamente con il desiderio di un’altra donna, che non può mai essere coincidente integralmente con il proprio. […] Grazie a voi due mi sono resa conto che per me il mix di relazioni scelte e non scelte è indispensabile se voglio continuare a “pensare”. Rimanere esclusivamente nelle relazioni scelte è un limite enorme perché mi toglie dall’ambito della necessità. Dal dovermi destreggiare, dal dover inventare continuamente nuove strade.»

Mi ha dunque emozionata, man mano che ascoltavo l’introduzione di Chiara Zamboni, avvertire – ancora una volta – l’esistenza di quella specie di corrente sotterranea che «ci porta dove stiamo andando» e che crea uno stare insieme, stare con…, anche da grande distanza.

Mi interessa la porosità dei confini tra relazioni politiche e amicizie politiche, tra scelto e non scelto, tra necessità e desiderio: mi interessa ciò che apparentemente sta “al margine”. Per parlarne guardo alla mia esperienza.

Ho avuto la fortuna di avere un lavoro al quale potevo quotidianamente cercare di dare senso, in particolare negli anni in cui sono stata nel servizio cronaca di un quotidiano. Un quotidiano è per forza di cose una struttura fortemente gerarchica e a tempo limitato, dove però c’è un margine per lo scambio. Oltre ovviamente al poter scrivere, ho amato il fatto che la cronaca locale consente, più di altri servizi, di raccontare storie, vicende umane: per raccontare bisogna far scattare una relazione che magari dura solo pochi minuti, a volte molto più a lungo. Ma ancora di più ho amato quello che non potevo cambiare se non lavorando “di fino”. I capiservizio (così come i colleghi) li sceglie il direttore, ti tocca avere a che fare con quella persona lì, proprio lei, che decide non solo cosa scriverai, ma anche lo spazio, cioè quante parole hai a disposizione. Il tempo consiste di poche ore. Non essere d’accordo è la norma, non l’eccezione. Per questo salvare il senso di quello che si fa è il vero lavoro a tempo pieno: un arco di possibilità ricchissimo, dentro uno spazio-tempo limitatissimo. «Su cosa scommetto oggi per provare a poter dire quello che più mi sta a cuore?» A questa domanda ho cercato in quegli anni di rispondere ogni giorno, a volte riuscendo e a volte fallendo. Soltanto in due occasioni su migliaia di giornate, però, mi sono trovata di fronte al prevalere dell’aspetto “accordo/disaccordo nel merito” su ogni altra cosa. La prima volta finì con la rottura irreparabile della relazione. Il capo mi disse: se per te è così, non puoi fare questo mestiere. E mi punì relegandomi a occuparmi delle cose di poco o nessun conto. Avevamo entrambi incontrato il nostro limite, e lì giocò il suo potere. La seconda volta, con un altro capo, ebbi la fortuna di una mediazione femminile che seppe accogliere il mio dolore e contemporaneamente rafforzare la fiducia che lui, il capo, aveva nei mei confronti: non mi accadde nulla di male. Penso di avere imparato così molto su me stessa e su ciò che mi lega al mondo.

Tuttavia. Quando ho sentito che – pure essendo io indubitabilmente una privilegiata – la parte di lavoro che atteneva al senso della mia vita stava diventando residuale e “banalizzata” (parola che ha usato Ida Dominijanni e che trovo molto precisa) sono venuta via in anticipo dal giornale.

Penso che quella scelta sia affine a quello che sta accadendo adesso, nelle persone che rifiutano la logica del “lavoro per la sopravvivenza” e che scelgono di “avere meno” materialmente e “di più” relazionalmente e nel loro rapporto con l’ambiente, gli animali, la bellezza. Credo che questo andrebbe sostenuto, che cioè sarebbe importante mettere a tema insieme lavoro e non lavoro.

Un’altra esperienza relazionale politica importante, dopo il lavoro, ha riguardato mia madre e mia zia: lì il desiderio che la loro rimanesse – fino all’ultimo istante possibile – vita e non sopravvivenza ha incontrato la necessità conseguente alla loro età, molto avanzata, e al non essere noi persone ricche. Così noi, tre figlie di queste due sorelle tra loro legatissime, ci siamo materialmente interposte contro la possibilità di un degrado. Questo ha avuto un prezzo, a volte anche piuttosto alto (non però nell’ordine del dovere/sacrificio), ma, ora che le nostre anziane ci hanno lasciato, siamo tutte e tre contente di averlo fatto. Mi è capitato però di chiedermi, senza avere una vera risposta, quale equilibrio tra la mia vita e la loro avrei trovato se avessi avuto davvero tanto tanto denaro a disposizione? E in che modo ha inciso l’aver vissuto (anzi fatto, perché curiosamente se guardo a ritroso la mia vita mi sembra di aver fatto molto di più di quello che mi sono accorta di stare facendo e di quello che sono stata in grado di raccontare) quel passaggio “famiglia”/“amicizie politiche” che è cominciato ad avvenire quando abbiamo spaccato il nucleo familiare tradizionale per portarci dentro le nostre relazioni, le altre donne, e con loro la felicità che vivevamo insieme?

E poi c’è la relazione materna, che, certo, è un unicum. Ma è anche una relazione politica con una ampia componente di non scelto. C’è quel sì indispensabile di una donna. Ma dopo, immediatamente dopo, quello che avviene è una relazione. Mi chiedo se provare a districarla, in quanto relazione politica, dal sentimento proprietario verso i figli potrebbe aiutare. Se c’è una cosa che Michele e Gaia, che ho messo al mondo e che amo profondamente per quanto diversamente, non sono è: “miei”.

L’ultima questione alla quale vorrei accennare è quella dell’uguaglianza. Che – a causa della impossibilità di cancellare dalla scena pubblica tutti quei corpi femminili, e a causa di alcune altre cose – sta in qualche modo raggiungendo il suo limite (quanto bisogna essere uguali per essere uguali?). Mi pare che spesso la risposta (anche per le donne che sono rimaste sul percorso della parità) sia: bisogna essere identici, potersi sovrapporre identitariamente o quantomeno poter fingere che sia così, raccontare con molta forza che è così e ottenere il riconoscimento sociale che è così, proprio così. Il riconoscimento sociale delle identità sovrapposte prende il posto del legame sociale ormai frantumato. E accosta le identità l’una all’altra in un modo che rende progressivamente sempre più difficile non solo lo scambio, ma esattamente la relazione.

C’è una frase sulla questione dell’identità ne “Il passeggero” di Cormac McCarthy che continua a danzare dentro di me. «I nomi sono importanti. Fissano i parametri per le regole d’ingaggio. L’origine del linguaggio risiede nel suono unico che designa l’altro. Prima che gli si faccia qualcosa».


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 24 giugno 2023)

di Roberto Ciccarelli


Intervista. Parla Renata Puleo, già dirigente scolastica e oggi socia dell’Associazione lavoratori scuola (Alas) che partecipa alla mobilitazione contro la digitalizzazione imposta dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): «Serve una critica all’uso capitalistico delle piattaforme digitali impiegate anche nella didattica in funzione di una loro concezione democratica, solidale e conviviale»

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di luddismo. Cosa rispondete? Più che altro questa è una critica all’uso capitalistico della tecnologia in funzione di una sua concezione cooperativa, solidale e conviviale. Ma voglio cogliere la provocazione e rilanciarla. Dato che è inevitabile usare le macchine parlerei al limite di un «luddismo riflessivo». Si tratta cioè di imparare a governare le macchine e il tempo. Non è la macchina che gestisce il mio tempo, ma sono io che decido quando la macchina mi serve.

Si parla anche di diffondere luso del software libero nelle scuole. Crede sia possibile farlo oggi? Non sono un’informatica, come tutte le persone della mia generazione sono approdata tardi all’uso delle tecnologie digitali. Ma conosco la storia e i problemi del software libero. Al fondo mi sembra che ci sia un problema di cambio di una mentalità strutturata, non solo nei giovani, ma anche negli adulti. Il trattamento amichevole che riserva Google, o lo stesso registro elettronico, è seduttivo, mentre il software libero ha bisogno di formazione. Dev’essere più semplice da usare, è vero. Ma è questo che andrebbe insegnato nella scuola. L’accesso e gli strumenti tecnici ed intellettuali vanno garantiti a tutti. In fondo i docenti affrontano problemi assai complessi, è il loro lavoro. Che va valorizzato e riconosciuto diversamente da quanto accade oggi. La cooperazione con gli studenti potrebbe sviluppare le tecnologie liberate. Sarebbe un modo per garantire il ruolo democratico e pluralistico della scuola pubblica.

Quali sono gli obiettivi della mobilitazione alla quale partecipate? Cercare di mantenere i collegamenti tra scuole, docenti, genitori e studenti organizzando un coordinamento sulla digitalizzazione problematica del Pnrr. E poi lavorare sul dialogo istituito all’Albertelli, e in altre scuole in Italia, tra il consiglio di istituto, quello dei docenti e le organizzazioni studentesche su questo e altri problemi. Dalla pandemia la vita democratica nella scuola sembra che si sia spostata online. Sempre meno è possibile usare le assemblee sindacali (quando si tengono) per fare informazione. Non è facile quando quasi tutto il sistema mediatico è indifferente o attacca chi critica la trasformazione neoliberale che ha investito la scuola e il mondo della riproduzione sociale. E propone di sperimentare le alternative. Oggi è importante restare svegli.


(Il manifesto, 27 giugno 2023)

di Letizia Paolozzi


Nei tempi che attraversiamo, grande è il rischio di ritrovarsi senza parole, ammutolite dalle guerre, dai massacri, soprattutto dall’indifferenza per le vite umane, inghiottite al largo di Pylos oppure davanti a Cutro.

Per questo, invece, perché può produrre lingua e relazioni, voglio ragionare di “amicizia politica, come pratica orientata per il presente” che ponete alla riflessione nell’invito alla redazione aperta di #VD3.

Secondo me l’amicizia politica non presuppone l’essere in sintonia. In effetti, mi convince Chiara Zamboni quando dice che «l’amicizia politica non ha a che fare con l’essere d’accordo con l’altra».

È una posizione che non costringe a stare di qua o di là, in uno o nell’altro schieramento, dalla parte di chi vince o di chi perde. Piuttosto si tratta di uno “scambio conflittuale”, una possibilità di trasformazione in grado di modificare i soggetti dello scambio e costringere ad abbandonare la corazza dell’identità.

Badate che alla corazza dell’identità molti e molte si avvinghiano quasi fosse la loro ancora di salvezza. Basta leggere le interviste più intime rovesciate sulle pagine dei giornali, basta ascoltare le esibizioni senza filtri alle quali assistiamo sulla scena televisiva.

All’opposto, lo “scambio conflittuale” aggira la pretesa di ottenere riconoscimento, la sicurezza di avere ragione e colloca in una posizione di ascolto delle altre. D’altronde, l’amicizia politica attraverso un «va e vieni tra vita quotidiana e amicizia tra donne» (sempre Chiara Zamboni) mette in rapporto con il mondo, con le contraddizioni squadernate quando ci si immischia nelle cose del mondo.

Così, i nodi aggrovigliati (come la gestazione per altri) che esistono tra noi, tra me e voi della Libreria e che certo è utile tentare di sbrogliare, non diventano dei macigni e non escludono che possiamo lavorare insieme interrogandoci sugli uomini e sulle donne e sul nostro stare insieme. In fondo, è l’amicizia politica con le sue parole che aiuta a schivare i fantasmi dell’incompatibilità radicale.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2023)

di Franca Fortunato


Nella notte tra il 13 e il 14 giugno davanti alla costa greca si è ripetuta la strage di Steccato di Cutro con un naufragio rivelatosi una ecatombe (564 dispersi, 104 sopravvissuti, 82 cadaveri recuperati). Questa volta il mare era calmo non in tempesta, non pioveva, non c’era vento ma faceva un caldo soffocante. Sul ponte di quel peschereccio erano ammassati l’uno sull’altro solo uomini, stipate “come sardine in scatola” nella stiva c’erano invece solo donne, minori e bambine/i (oltre cento). Moriranno tutte/i ingabbiati in quella stiva che diventerà la loro tomba. Per ore, col motore in avaria, il peschereccio è rimasto a galleggiare sulle acque placide del mare, a bordo non c’era né cibo né acqua ma sei cadaveri, tra cui un ragazzo di sedici anni, uccisi dagli scafisti dopo una rivolta per il cibo e l’acqua. Come a Cutro, la Guardia costiera, anche se allertata, prima da Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, poi dalla ong Alarm Phone, non interviene se non dopo sedici ore dalla prima comunicazione e dodici dalla seconda. Un’eternità. C’è chi piange, chi prega, chi si dispera. Si susseguono le telefonate satellitari alla ong per chiedere disperatamente aiuto. La prima arriva da una giovane siriana, anche lei dispersa nel naufragio. L’ultima alle ventitré, quando ormai ogni speranza sembra perduta. «Sento che sarà la nostra ultima notte di vita». Quando la Guardia costiera greca è arrivata, tutti e tutte avranno pensato che ormai erano in salvo. Avranno pianto, gioito, ringraziato il loro Dio. Senza distribuire giubbotti salvagente la motovedetta ha agganciato il peschereccio a una fune per trainarlo. Manovra azzardata. Il barcone si è ribaltato e in un attimo si è inabissato con tutto il suo carico umano. Non so nemmeno immaginare le condizioni in cui quelle vittime innocenti chiuse nella stiva hanno vissuto quelle interminabili ore di attesa né tantomeno la loro morte tanto è atroce e crudele. Una morte ingiusta. So solo che sento un grande dolore per quelle donne, quelle madri annegate con le loro creature e quei minori come il tredicenne siriano Lakub che il padre, la madre e le sorelle avevano “prescelto” per allontanarlo dalla guerra e mandarlo in Svezia dai nonni, “per una vita migliore”. Era partito con un amico di famiglia che è sopravvissuto. Avevano attraversato, come tutte/i, il deserto e conosciuto l’inferno libico. Della maggior parte di loro non conosceremo mai i volti, i nomi, le storie, le paure, le speranze, i desideri e i sogni che li avevano sostenuti e spinti ad attraversare il Mediterraneo su quel barcone carico fino all’inverosimile. Per loro nessuna bandiera a mezz’ asta, nessun lutto europeo, nessun funerale a reti unificate, nessuna operazione internazionale di soccorso. Per loro, come per quelli di Cutro, solo parole prive di pietas: «non dovete partire», «il mare ha dei confini, e quei confini possono e devono essere custoditi» in difesa della fortezza Europa di cui la Grecia «è lo scudo», come disse la presidente Ursula von der Leyen nel 2020. Ad ogni naufragio (27.000 vittime accertate dal 2014) è un pezzo di umanità che si inabissa insieme a quei figli di un dio minore, la cui vita non conta. E perché dovrebbe contare? Contro di loro, l’Europa porta avanti da anni una guerra, combattuta con fili spinati, muri, respingimenti e rimpatri forzati, mancati soccorsi o tardivi, criminalizzazione delle ong, fiume di denaro per tenerli nei lager libici e nei centri di detenzione turchi. Quando la guerra conta più degli esseri umani, la morte più della vita, come sta avvenendo anche in Ucraina dove soldati ucraini e russi si stanno massacrando in una guerra fratricida, è l’umanità che muore.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io donna”, 24 giugno 2023)

di Maurizio Caverzan


Femminista storica sebbene abbia frequentato la scuola delle Orsoline, già regista nella casa di produzione del Pci e fondatrice del collettivo Studio Ripetta di Roma, scrittrice e autrice di Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2020 (Vanda edizioni), Alessandra Bocchetti, esponente del “femminismo della differenza”, è delusa dalla sinistra, Pd compreso, per l’ambiguità in tema di maternità surrogata e diritti civili: «Il mercato dei corpi», dice, «un tempo si chiamava schiavismo».

Alessandra Bocchetti, che cos’è il femminismo della differenza?

È un femminismo che crede profondamente che una donna sia differente da un uomo per il corpo, per la sua esperienza e per la sua storia, di uguale uomini e donne hanno solo la dignità che spetta a tutti coloro che condividono la vita su questa terra, compresi gli animali. Con la coscienza della propria differenza la donna non è più a fianco dell’uomo ma di fronte. Uomini e donne si guardano, finalmente, da questo si dovrà lavorare per un modo nuovo di stare insieme per governare i beni comuni. A questo cambiamento lavora il femminismo della differenza.

In che cosa si diversifica da altre correnti femministe?

Adesso si dice che ci sono tanti femminismi… Che vuole che le dica… Senza l’idea di differenza, per me, non è dato femminismo. Comunque sì, c’è il femminismo della parità, quello che io chiamo femminismo di Stato. Il cui punto di arrivo è far avere alle donne quello che hanno già gli uomini. Questo femminismo vuole riparare un’ingiustizia ma là si ferma. È un progetto corto. Sinceramente, io voglio di più e meglio di quanto ha un uomo oggi e non do affatto valore ai privilegi di cui ancora gode, anzi. E poi ci sono i femminismi delle giovani donne con uomini accanto, e questi mi sembra che prendano energia e senso soprattutto dall’essere antagonisti, essere contro. Manca, a mio avviso, l’idea di governo, manca un progetto. E poi c’è il transfemminismo, che guardo con stupore, dove quello che le donne possono fare non si deve nominare. Non si può parlare di partorire, di mestruazioni, di allattamento perché sennò sei discriminante e poco accogliente. Fatto sta che il risultato è non nominare quello che un uomo non può fare. E l’uomo, con il suo corpo chiuso, resta la misura. Questo trovo che sia il patriarcato peggiore, quello che buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché la sua verità è che le donne, quelle biologiche, le vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, definitivamente.

Molte sigle del femminismo internazionale hanno accolto con favore la proposta di legge di Fratelli dItalia di proclamare il ricorso allutero in affitto reato universale, lei cosa ne pensa?

Ho poca dimestichezza con le leggi. Su questa proposta se ne dicono tante: che non si può fare, che è anticostituzionale, che è ridicola… Per quanto mi riguarda mettiamola così: non vorrei che in nessuna parte del mondo una donna fosse costretta a fare del suo corpo un contenitore di figli altrui. E quando mi si dice che una donna è libera di fare del suo corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri.

Come valuta il fatto che i partiti di sinistra e il Pd in particolare con una segretaria donna abbiano una posizione poco chiara su questi temi?

Sinceramente non me lo spiego. Non riconosco la mia sinistra e non mi spiego come possa una femminista essere favorevole alla maternità surrogata. Senta, io sono stata comunista e ancora oggi penso che il comunismo abbia fallito non perché fosse una cattiva idea, ma perché era un’idea troppo alta, troppo nobile per il cuore umano, che nobile non è. Non siamo stati capaci di costruire una società dove tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno senza sfruttare nessuno, né credo lo saremo mai e me ne rammarico. Ero una ragazza borghese, educata dalle orsoline fino a diciott’anni. Mi sono scritta alla cellula [del Pci, Ndr] della facoltà di lettere perché mi era insopportabile l’idea dello sfruttamento dei corpi, del lavoro alla catena di montaggio. Sono scesa in piazza per il corpo dei metalmeccanici contro il lavoro alienante della fabbrica. Vuole che io possa essere favorevole all’utero in affitto? Esiste lavoro più alienato? Una donna che per bisogno mette a disposizione di coppie danarose il suo corpo, che convive per nove mesi, sentendolo crescere dentro di sé, con un perfetto sconosciuto – e guai se non fosse così – uno sconosciuto che non ha di suo neanche mezzo gamete e per questo lei deve essere imbottita di ormoni, per scongiurare il rigetto, per tutto il tempo della gravidanza, ormoni, si sa, altamente cancerogeni. A lei, mi dicono, arriveranno tra i 15 e i 20.000 euro, per i più cinici basta fare i conti, per nove mesi, 24 ore su 24: una miseria. Tutta l’impresa costerà invece circa 200.000 euro se non di più, soldi che finiranno in altre tasche. Ma non è questo il punto. Si fa mercato. C’è un contratto. Che invenzione il contratto, una vera magica potenza che può rendere lecito ciò che lecito non è. Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo.

La soluzione potrebbe essere la Gpa solidale e altruistica ora promossa dalle Famiglie Arcobaleno? Si eliminerebbe il mercato…

Non c’è che da leggere questa proposta con animo sereno. Il pagamento diventa “congruo compenso” e la povera donna rischia una mancia. Il mercato entra sempre, non si fa mettere da parte tanto facilmente. Di questi tempi l’interesse ha la meglio sui buoni sentimenti, ahimè, quasi sempre. Mi meraviglia che la Cgil caldeggi questa proposta, o forse no, non più di tanto, in fin dei conti la Cgil caldeggia anche la regolamentazione della prostituzione, altro bel lavoro alienato. È un lavoro come un altro, dicono. Ma allora è meglio farne un altro, dico io.

Perché ha suscitato scandalo limpugnazione della Procura di Padova delle trascrizioni dei bambini figli di coppie composte da due mamme?

L’impugnazione della Procura di Padova ha fatto scandalo perché se questo gesto non fosse tragico sarebbe ridicolo. Un risveglio improvviso della Procura, perfettamente a tempo con la discussione della gravidanza per altri come reato universale. Ai sindaci non era dato per legge trascrivere quegli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso, lo hanno fatto lo stesso, chissà come gesto provocatorio, esemplare, coraggioso, gesto di sfida… Fatto sta che ne risulta un pasticcio che può provocare molto dolore. Personalmente, quando si fa politica sulla pelle della gente la politica mi fa orrore, la temo.

Di fronte alla decisione della Procura di Padova, facendo leva su un certo sentimentalismo, si è detto che si creano orfani per legge.

Per far passare la maternità surrogata si mettono avanti i bambini e il loro già esserci, anche questo è puro cinismo. Ma questa strategia non riesce a farmi dimenticare chi questi bambini ha messo al mondo e in quali condizioni e perché. Si raccontano falsità su falsità, si tenta la via del patetismo. Non è vero che l’aspirante genitore non possa andare a prendere i bambini a scuola, basta un permesso e così per le visite in ospedale. È falso che i bambini con un genitore non abbiano diritto al pediatra, al rimborso delle medicine, alla scuola. Ma di una cosa questi bambini avranno sicuramente bisogno forse più degli altri, avranno bisogno di un amore speciale, che dia loro la certezza di essere ben accolti. Sarà duro per loro il racconto della nascita, racconto che spesso i bambini chiedono, una nascita “scomposta” fra due o tre soggetti attivi e diversi: ovulo, seme, utero, impossibile riunirli in una prossimità e la prossimità per un bambino è un grande valore.

La sentenza della Cassazione del dicembre scorso prevede in questi casi ladozione in casi particolari: perché non va bene?

La strada c’è ed è quella dell’adozione. Il genitore non biologico deve adottare, solo che la procedura per farlo è troppo lenta, come sempre e come tutto in questo Paese, e anche poliziesca per di più. L’aspirante genitore viene trattato come un indiziato e questo non va bene. Tutto questo deve essere semplificato, velocizzato e fatto con serenità.

Perché i genitori arcobaleno non accettano di percorrere questa strada e provano a mettere sotto accusa lordinamento italiano strappando dalla Corte europea, che peraltro lo ha negato, il consenso alle trascrizioni e la liberatoria per la surrogazione?

Perché il movimento ha scelto un confronto duro.

Ideologico, quindi?

Assolutamente sì, non c’è nulla di nuovo. Arrivano a rifiutare l’adozione perché hanno scelto una linea dura. Non c’è altro da dire.

Ma così non si va da nessuna parte.

Esatto.

La proposta della ministra Eugenia Roccella di applicare una sanatoria per i bambini nati con la maternità surrogata rischia di indebolire la proclamazione dellutero in affitto reato universale?

È una possibile mediazione, ma sono perplessa anch’io. L’iniziativa della sanatoria non mi convince, ma d’altra parte è necessario trovare una soluzione. Non so se lo sia la sanatoria. Ci troviamo in una situazione nella quale il movimento arcobaleno ha scelto una posizione rigida, non accettano nemmeno la stepchild adpotion.

Come, a suo avviso, si potrà arrivare a una sintesi accettata dalla maggioranza dellopinione pubblica su questi temi?

La madre è una sola, è quella che ti ha fatto nascere, è quella che ha pronunciato quel sì necessario ad aprirti le porte del mondo. È quella da cui sempre ti aspetti il bene, anche se la odi, e se il bene non arriva, perché può succedere, allora sono guai per te e per la società dove vivi, probabilmente porterai la tua ferita per tutta la vita. Un tempo le donne facevano figli anche quando non volevano. Ma adesso, che le donne sono libere, per entrare nel mondo ci vuole il loro “sì”. Difficile cancellare la madre, essere due in un corpo lascia tracce indelebili. Due donne che vogliono essere madri dei figli che solo una di loro ha partorito non mi spaventa, perché le donne sanno amare. Solo auguro loro che il loro amore reciproco sia durevole. Mi spaventa invece quando due uomini vogliono essere padri dei loro figli senza madre. Sono sincera. Temo che non basti entrare in sala parto e farsi mettere il bambino sul petto. Non basta rubare la scena per cancellare la madre. Che potrà succedere quando verrai a sapere che quel suo “sì” è stato pagato?


(La Verità, 24 giugno 2023)

di Clara Jourdan


«L’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa». Quando Jennifer Guerra lo ha detto all’incontro di Via Dogana 3 (Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023) mi è tornata in mente, e ho finalmente capito, una frase di Luisa Muraro che anni fa mi aveva colpito: «Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è amare». Non essere all’altezza, saperlo, e starci lo stesso è precisamente come io vivo la politica delle donne da quando faccio parte della Libreria, cioè da trentacinque anni. Leggere che questo è amare mi sorprese, perché avevo un’idea diversa dell’amore, più un sentimento che una pratica. Mentre avevo ben chiaro quello che mi succedeva e mi succede quando mi viene proposto o richiesto di fare qualcosa, parlare, scrivere…: non sono all’altezza. Eppure ci sto, lo faccio lo stesso (quasi sempre…). Adesso so che la mia pratica – e sicuramente di tante altre – rivela che la natura del femminismo è amore.

Chiara Zamboni, nella sua introduzione allo stesso incontro, dice forse la stessa cosa in altre parole: «il mondo è la nostra passione». Per non dimenticare che nell’amare c’è anche il patire.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 24 giugno 2023)


Nuove teorie sul sogno, cioè ritorno all’antico: il dono del sogno


Conduce la filosofa Annarosa Buttarelli


Un progetto di: Scuola di Alta Formazione per Donne di Governo

In collaborazione con: Libreria delle donne di Milano


L’incontro si terrà in presenza dalle 10.30 alle 13.00 presso la Libreria delle donne di Milano, in via Pietro Calvi, 29.
Per iscrizioni scrivere a prenotazione@libreriadelledonne.it

Contributo richiesto: € 15 euro per singolo incontro; gratuito per chi possiede la Tessera Accademica (costo annuale della tessera € 70, per info: info@scuoladonnedigoverno.it). Possibilità di partecipazione online.

di Alessandra Pigliaru


Si intitola Maleficia. Storie di streghe dallAntichità al Rinascimento (Carocci, pp. 281, euro 27) ed è un volume scritto da Marina Montesano, docente di storia medioevale all’Università di Messina e collaboratrice di queste pagine. Disponibile per la prima volta nel 2018 in lingua inglese per l’editore Palgrave Macmillan, il lavoro ora tradotto in italiano dall’autrice si prefigge di dimostrare come antiche credenze e descrizioni della magia nella letteratura sia greca che romana abbiano inciso sulla composizione dell’immagine della stregoneria in epoca moderna, quindi sulla caccia alle streghe.

L’impianto del testo segue con rigore scientifico le fonti storiche, avviando il ragionamento da alcuni luoghi simbolici che l’autrice chiama «prototipi» e che restituiscono in particolare diverse eppure irrinunciabili figure della storia culturale occidentale: Circe, Medea ma anche Teoride, o ancora lamie, arpie e empuse, tenendo presente il depositarsi di significati relativi a parole che per Marina Montesano (il 23 giugno alle 18, ospite all’Aquila con Franco Cardini al Festival delle città del Medioevo per presentare il volume Medioevo globale. Avventurieri, viandanti e narratori a Samarcanda, edito da Piemme) sono da osservare nella loro valenza semantica, come nel caso di «pharmaka» e «veneficia».

Pratiche necromantiche, pozioni mortali, abominevoli incantesimi, empietà varia ma anche pallore infernale, insieme alla Grecia anche Roma aveva i suoi «riferimenti» riguardo la magia: per esempio in Canidia, Sagana, Folia e Veia, fino alla tessala Eritto e Meroe. Utile la connessione che l’autrice fa nella comprensione di parti della cultura latina e legislazione romana sopravvissute nell’alto Medioevo e nei codici giuridici dei «barbari», seguendo anche qui l’ordito e la stratificazione di alcune parole emblematiche; per esempio «strix» (e le meno classiche «striga» e «stria») tradotta dal francese «estrie», trovando le numerose occorrenze nella letteratura medioevale.

In Maleficia, dalle prime litanie incarnate fino ad arrivare al sistema dei processi e alle mitologie, si può scorgere la differenza femminile, parabole dell’eccedenza la cui forza è stata di presentarsi – avrebbero detto decenni dopo – come «soggetti imprevisti della storia».

Se allora è cruciale osservare il solco imperituro delle fonti, delle narrazioni scelte, per conoscere a fondo la radice di tanta sottocultura contemporanea, è altrettanto decisivo attraversare le riscritture di quelle stesse vicende.

Dalla parola diretta delle protagoniste che acquistano una voce, grazie soprattutto al lavoro di disseppellimento attuato negli anni dal femminismo e dai saperi critici delle donne a proposito di stregoneria; a tal proposito si può citare Luisa Muraro e, per altri versi, Silvia Federici.


(Il manifesto, 23 giugno 2023)

Intervista a Graziella Bernabò di Luciana Tavernini


Graziella Bernabò, saggista e critica letteraria, si è a lungo dedicata ad Antonia Pozzi. Dopo aver collaborato a diverse iniziative su di lei – quali convegni universitari, film, percorsi sul territorio – e dopo un decennio di lavoro d’archivio con Onorina Dino, finalizzato alla pubblicazione integrale della sua opera, ha completamente riscritto, per la nuova edizione, la biografia Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia. Un libro che, con un linguaggio chiaro e avvincente, ci permette di cogliere appieno l’intensità del suo percorso di vita e l’originalità della sua poesia, ormai apprezzata a livello mondiale. Con Bernabò, che si è occupata in modo simile anche di Elsa Morante, parleremo del metodo personale con cui scrive biografie e della complessità e ricchezza della figura di Pozzi come donna e come poeta.


Qual è l’immagine di fondo di Antonia Pozzi che scaturisce dalla tua nuova biografia e qual è la caratteristica principale della sua poesia, che tu hai definito come “poesia della relazione”?

Pozzi era interiormente libera rispetto agli schemi sociali, culturali e letterari degli anni Trenta, tutti improntati al maschile; perciò allora fu poco compresa.

Nel libro non ho voluto nasconderne l’inquietudine e mi sono tanto interrogata sulla sua morte volontaria a soli ventisei anni; ma non ho appiattito la sua vita sulla tragedia del suicidio, su cui pesarono oltretutto varie circostanze negative, alcune delle quali storiche. Antonia, infatti, soffriva moltissimo per le nefandezze fasciste, soprattutto per le sciagurate “leggi razziali”. Non a caso nella lettera di addio ai genitori scrisse: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite».

In realtà Antonia Pozzi, di per sé, era molto innamorata della vita e del mondo, come risulta da vari scritti. Per esempio, ragazzina di quattordici anni, nel diario parlava della «gioia» di sentirsi dentro «un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata». Elvira Gandini – sua amica-sorella e importante testimone per il mio libro – ne ricordava sia i momenti di tristezza sia quelli di spensieratezza e allegria. Se la sua vitalità si mutò spesso in dolore e sgomento, ciò dipese, oltre che dalla sua spiccata sensibilità, dall’intervento inibitore del mondo esterno: famiglia, uomini da lei amati e amici del suo ambiente intellettuale. Nonostante tutto, Pozzi era capace di una grande forza interiore nel restare fedele al proprio più autentico sentire e alla poesia, con la quale lo esprimeva e in cui trovava una vera libertà.

Apparteneva a una famiglia aristocratico-borghese; tuttavia alla frequentazione dei salotti preferiva il contatto con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, e il rapporto schietto e solidale con gli altri, compresi i contadini di Pasturo (suo paese d’elezione) e, a un certo punto, le famiglie operaie dei sobborghi di Milano Sud. A tutto questo si ispirava nella poesia e nella fotografia, praticate entrambe a partire dai diciassette anni.

La sua è la poesia per eccellenza della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi non solo con le persone ma anche con la natura, i luoghi, gli animali, e perfino le cose, le «cose sorelle» (Largo).

In parallelo, partendo dalla concretezza di esperienze personali, Pozzi riesce a dar voce con ampio respiro alle profondità del cuore umano, alla ricerca di un significato autentico della vita e della scrittura; a un certo punto anche alle tragedie della storia: quelle di sempre, cioè la guerra e la miseria dei ceti sociali più svantaggiati.

La sua produzione poetica era tanto ricca nei contenuti quanto colta e stilisticamente raffinata.

Perché allora la sua poesia non fu compresa nel suo contesto intellettuale e come avvenne la sua scoperta?

Pozzi frequentava il gruppo che all’Università Statale faceva riferimento al filosofo Antonio Banfi, estraneo alla retorica fascista e aperto alla più moderna cultura europea. In tale ambito era apprezzata per i suoi saggi, compatibili con le idee del Maestro, mentre era del tutto ignorata per la sua poesia.

In realtà la filosofia di Banfi, il cosiddetto “razionalismo critico”, bandiva drasticamente il sentire in genere e, per pregiudizi storici comuni anche agli ambienti più aperti, quello della donna in particolare. Perciò, con suo grande dolore, le veniva rimproverato ciò che oggi più apprezziamo in lei: la «troppa vita» che aveva nel «sangue» (Sgorgo), che in realtà era la premessa della sua totale apertura all’esistente, base della sua “poesia della relazione”.

In seguito Roberto Pozzi esercitò sugli scritti della figlia una tremenda e sistematica censura, per consegnarne un’immagine corrispondente a una vieta e convenzionale visione della donna.

Negli anni Quaranta Eugenio Montale ne valorizzò la poesia, ma con qualche riserva, perché non poteva leggerla nella sua integralità e autenticità. La vera riscoperta di Antonia Pozzi è iniziata perciò solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando Onorina Dino, creatrice e responsabile dell’Archivio Pozzi di Pasturo, oggi trasferito presso il Centro Internazionale Insubrico dell’Università di Varese – ha reso disponibilI i manoscritti per pubblicazioni sempre più ampie.

Perché hai sentito il bisogno di riscrivere la tua biografia e quali sono le principali novità?

Prima di tutto ho voluto dialogare con la ricca bibliografia su di lei apparsa negli ultimi anni.

Fondamentale è stato inoltre il lungo lavoro con Onorina Dino per le edizioni integrali delle poesie, delle lettere e dei diari. Un lavoro condotto accuratamente ex novo, che mi ha chiarito l’entità della censura di Roberto Pozzi sulle carte della figlia e che mi ha anche consentito – grazie all’esame delle lettere indirizzate ad Antonia e di quelle giunte alla famiglia dopo la sua morte – di comprendere meglio la sua straordinaria capacità di relazione e la fisionomia di alcune persone per lei importanti: genitori, parenti, amiche e amici.

Inoltre nuove testimonianze mi hanno permesso di circostanziare ulteriormente momenti ed episodi della sua vita e lo stesso suicidio.

Ho poi aggiunto un capitolo sul percorso editoriale delle poesie, mettendo in evidenza come gli amici banfiani le abbiano sottovalutate anche dopo la sua morte.

Scrivendo le biografie di Elsa Morante e di Antonia Pozzi hai elaborato un tuo personale metodo di lavoro. Puoi parlarcene?

Ho voluto scrivere due vere e proprie biografie, non due biografie romanzate. A questo proposito concordo con quanto scrisse Virginia Woolf nell’articolo del 1939 L’arte della biografia: «La biografia è la più ristretta di tutte le arti […] essa impone delle condizioni, e queste condizioni sono che deve basarsi sui fatti […] fatti che possono essere confermati da altri oltre l’artista. Se costui inventa fatti […] come li inventa un artista e tenta di combinarli con fatti dell’altro tipo, essi si distruggono a vicenda.

Perciò sono sempre partita dalle testimonianze e dai documenti, incrementandoli da un’edizione all’altra, nella persuasione che una biografia onesta debba intendersi umilmente in fieri. Peraltro ho voluto scrivere due biografie letterarie, in cui l’attenzione principale è rivolta ai testi delle autrici.

Nel mio lavoro ho sempre cercato di muovermi tra empatia e distanza. L’empatia è fondamentale in una biografia, ma non può coincidere con una semplice proiezione personale, che porterebbe a una destoricizzazione delle vicende e a fraintendimenti. Comunque non mi sono negata una soggettività di scrittura: sono partita da forti emozioni personali di fronte ai romanzi di Morante e alle poesie di Pozzi; non ho rinunciato alla passione della ricerca e della narrazione; e ho utilizzato le categorie interpretative in modo ben diverso rispetto alle biografie tradizionali. Per tutto questo sono stata sempre sorretta dal confronto con il gruppo di Storia della Libreria delle donne di Milano. Mi sono stati molto utili anche libri come Scrivere la vita di una donna di Carolyn Heilbrun e Tu che mi guardi, tu che mi racconti di Adriana Cavarero, e l’idea di Gianna Pomata che la storia delle donne debba partire dalla ricostruzione delle loro “reti di relazioni”.

Quali sono gli aspetti più originali e interessanti della poesia di Pozzi rispetto al suo tempo e all’oggi?

Pozzi era lontana dalla poetica dell’«assenza», dalle rarefazioni e dalle oscurità degli ermetici, ma non si identificava nemmeno con la disciplinata poesia affidata ai soli oggetti dell’amico Vittorio Sereni.

La sua è la poesia del radicamento forte e vivo nel reale e, pur nell’ambito di una rigorosa ricerca formale, testimoniata dalle molte varianti presenti negli autografi, procede attraverso immagini sensoriali e materiche, quindi con un linguaggio metonimico di grande impatto emozionale. In questo modo Pozzi supera la frattura tra parola e corpo tipica degli autori del suo tempo, e riesce a esprimere un inedito e libero immaginario di donna, anticipando quella “poesia del corpo”, del corpo vivo e desiderante come del corpo negato, che sarà fondamentale in alcune grandi autrici del secondo Novecento, quali Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli e Alda Merini.

Corporea e viva è anche la sua rappresentazione della natura, in particolare della montagna, soprattutto della Grigna di Pasturo, che appare come una mitica montagna madre, ma non perde mai una fisica concretezza e una forte capacità di accogliere e rigenerare.

Questa aderenza fenomenologica alla natura incontaminata e alla sostanza profonda del vivere costituisce oggi, in un pianeta sempre più sconvolto, un richiamo decisamente attuale: non a caso la poesia di Antonia Pozzi è oggetto di grande interesse da parte dell’ecocritica.

E interessante per il nostro difficile presente è anche il graffiante linguaggio espressionistico delle poesie in cui condanna le guerre del suo tempo e la desolazione delle periferie milanesi.


BIBLIOGRAFIA

Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Áncora, Milano 2022, 350 pagine, 26 euro

Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci Roma 2012, 340 pagine, 26 euro, 2016 euro 11,90, e-book 10,71 euro

Graziella Bernabò, Come leggere «La Storia» di Elsa Morante, Mursia, Milano 1991, 160 pagine

Graziella Bernabò – Onorina Dino – Silvia Morgana – Gabriele Scaramuzza (a cura di), …e di cantare non può più finire… Antonia Pozzi (1912-1938), Atti del Convegno, Milano, 24-26 novembre 2008, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Filologia Moderna – Dipartimento di Filosofia, Viennepierre, Milano 2009, 433 pagine

Adriana Cavarero, Tu che mi leggi tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, ora Castelvecchi, Roma 2022, 192 pagine, 17,50 euro

Carolyn Heilbrum, Scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990, 172 pagine

Gianna Pomata, “La storia delle donne: una questione di confine” in “Il mondo contemporaneo, vol. X (Gli strumenti della ricerca), tomo II/2 (Questioni di metodo)”, a cura di Nicola Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 1434-69

Antonia Pozzi, A cuore scalzo. Poesie scelte (1929-1938) Graziella Bernabò e Onorina Dino

(a cura di), Áncora, Milano 2019, 128 pagine, 12 euro, e-book 9,99 euro

Antonia Pozzi, Mi sento in un destino. Diari e altri scritti, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), Áncora, Milano 2018, 157 pagine, 18 euro, e-book 9,99 euro

Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), Áncora, Milano 2015 (ristampa 2017), 464 pagine, 27euro, e-book 19,99 euro

Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, Áncora, Milano 2014, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), 390 pagine, 26 euro, e-book 9,99 euro

Virginia Woolf, “L’arte della biografia”, in Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, il Saggiatore, Milano 2011, pp. 389-395


Film

Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, Il cielo in me – Vita irrimediabile di una poetessa-Antonia Pozzi (1912-1938), 67’, Italia 2014

Ferdinando Cito Filomarino, Antonia, 1h e36’, Italia 2015

Marina Spada, Poesia che mi guardi, 50’, Italia 2009


(Leggendaria n° 158/2023, pp. 23-24)

di OIVD – Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne


L’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle Violenze contro le Donne) dialoga con Luciana Tavernini e Marina Santini della Libreria delle donne sulla loro storia e le loro pratiche femministe. Introduce Doranna Lupi.



YouTube, 9 maggio 2023