di Fulvia Bandoli


Dopo una malattia che ha vissuto così serenamente da farci credere che l’avrebbe vinta lei ci lascia Bianca Pomeranzi.

Mi chiedo da dove prendesse le forze per risponderci sempre che stava bene e per fare tante cose. Credo di averlo capito. Per non far soffrire Maria Rosa, la sua amata compagna e le amiche e gli amici più stretti, Bianca usava tutto l’amore e la cura possibili per mantenere le relazioni vive, allegre e fattive. Ognuna/o di noi affronta come può i duri incroci della vita. Lei lo ha fatto con grande serenità. Anche nelle ultime settimane non voleva parlare di salute, ma di attualità. Amava la politica, quella delle donne, dei partiti, delle istituzioni.

L’affascinavano il confronto delle idee e il conflitto. Quel suo inalberarsi improvviso era frutto della passione forte che la animava. Ma nessun conflitto poteva incrinare relazioni e amicizie. Bianca Pomeranzi è stata una femminista storica, protagonista delle prime battaglie del movimento lesbico italiano. Ha animato il Collettivo Pompeo Magno negli anni Settanta. E da allora ogni snodo del dibattito femminista l’ha vista partecipe in vari modi e in vari Gruppi, Balena tra questi, durante la guerra in Kossovo. E Dirigente della Cooperazione internazionale presso il Ministero degli Esteri, esperta Onu nel Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne alla Conferenza di Pechino del 1995. E tuttora nella presidenza dell’Ars di Aldo Tortorella. Cattolica di formazione, ma donna di Sinistra, era attratta soprattutto dai molti travagli dopo la svolta dell’89.

Ci sarà tempo per riflettere e raccogliere tutto il suo lavoro di femminista e di esperta di diritto internazionale e di cooperazione tra i popoli.

Oggi per me Bianca è una compagna preziosa, persa troppo presto. La conobbi nel 1971 a Firenze. Lei più grande mi diede consigli. Io non ancora femminista mi iscrissi alla sezione universitaria del Pci, lei no. Frequentava gruppi femministi fiorentini e Maria Luisa Boccia, Tamar Pitch, Ida Dominijanni che in quegli anni erano a Firenze. Dopo l’università ci perdemmo di vista ma nel ’91 con il mio trasferimento a Roma la nostra relazione ricomincia e non termina più. Vissi con lei e tante altre un bel pezzo della straordinaria stagione del Virginia Woolf, nel gruppo B animato da Bocchetti in collaborazione poi con Franca Chiaromonte. Poi nel 2008 fondammo insieme a Boccia, Deiana, Gallucci, Paolozzi, Sarasini, Stella e Vulterini il gruppo Femminista del Mercoledì, che ha scritto testi sulle pratiche, sulla politica e sul mondo. Ci eravamo dette che ti aspettavamo per riprendere gli incontri. Ora penso si debba accettare che il tempo e la realtà delle cose, privando il nostro gruppo di troppe energie umane in questi 15 anni, chiedono a noi, adesso, di avere “il coraggio di finire”.


(il manifesto, 23 luglio 2023)

di Vita Cosentino


Ho letto con grande interesse Il capitale amoroso di Jennifer Guerra e sono felice della nostra collaborazione nel realizzare questo numero di Via Dogana 3 dedicato alla forza politica dell’amore e all’amicizia politica.

Dell’autrice ho apprezzato subito il coraggio di essersi impadronita di un tema così spinoso, come è quello dell’amore, e di insistere nel proporlo come una forza politica, come una pratica politica da esercitare nella quotidianità. 

Ci accomuna la scommessa di pensare che il femminismo sia una forza trasformativa in grado di cambiare questo mondo alla radice: anche lei, infatti, parte dalla consapevolezza che la questione non è essere incluse in un mondo che non ci prevede.

Naturalmente l’interrogazione sul come farlo è sempre aperta.

La strada di orientarsi con l’amore, proposta in questo numero, delinea il terreno di una vicinanza di idee in grado di alimentarsi a vicenda.

Jennifer Guerra nella sua introduzione dice: «la tesi di questo libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente. La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro».

Al Capitale amoroso di Jennifer Guerra fa eco un filone di pensiero e di esperienze presente da decenni nel femminismo della differenza, per impulso soprattutto di Luisa Muraro. È un filone che ha interessato alcune (tra cui mi metto anche io) e non altre e non si è mosso in modo lineare, ma carsico, con insorgenze e momenti sotterranei, rimanendo però costante, a mo’ di segnale, la circolazione di gioia e di erotismo che si avvertiva nei momenti di incontro.

Sulla nostra rivista questo tema è presente fin dagli inizi: come già ricordava Laura Colombo, nel terzo numero, Luisa Muraro scrive un articolo intitolato L’amore come pratica politica (dicembre ’91). Dieci anni dopo la stessa autrice, in Far essere, passaggi per la politica del simbolico, riprende da Heidegger “il potere del voler bene” e scrive: «Il possibile vero e proprio, che non si oppone alla realtà e che può far essere, il potere che vuole bene, dotato di una tacita forza che si manifesta con l’accadimento del nuovo, che cos’è infatti se non la potenza del simbolico materno?» (VD 54, marzo 2001).

Si deve ancora a lei la ripresa dalla tradizione mistica della formula “dell’intelligenza dell’amore». Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), scrive che quella formula può nominare qualcosa che ha scoperto con il femminismo: «Passando dalle rivolte del Sessantotto al movimento delle donne, ho scoperto che l’esporsi agli incontri e ai rapporti diventa fonte di esistenza libera non per quello che con gli altri e degli altri si può fare, ma per quello che di sé cambia in quella esposizione. E ho capito che, fuori dalla violenza, aperta o occulta, del potere sugli altri, non c’è altro modo di cambiare le cose che essere disposti al cambiamento di sé, il paradigma perenne di questa disponibilità essendo l’innamoramento». Secondo Muraro mentre i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo, «il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro» (pag. 155).

Nella redazione aperta di Via Dogana 3 Jennifer Guerra, a partire da una dolorosa esperienza personale, ha messo fortemente l’accento sull’amore di sé, sentendosi vicina a Carla Lonzi quando ne parla come «esperienza di combaciare con sé stessa». Io sono pienamente d’accordo con lei. Il per sé è imprescindibile in una politica che proprio dal sé muove e si alimenta di quell’irrinunciabile che ciascuna si porta dentro assieme a desideri e bisogni.

La porta stretta sembra essere, dunque, come tenere insieme l’amore di sé con l’amore per gli altri.

Se l’amore di sé è imprescindibile, è tuttavia esposto al rischio di trasformarsi in puro egoismo sulle difensive, in ricerca di successo individuale così consono ai tempi neoliberisti in cui viviamo; mentre la seconda polarità, l’amore per gli altri, è sì apertura al mondo, ma apre anche al rischio di reintrodurre quella logica del sacrificio tipicamente femminile che il femminismo ha combattuto in tutte le sue forme oppure quella logica della politica come dover essere, come sforzo della buona volontà.

L’amore di sé e l’amore per gli altri non sono tuttavia componenti che si possono dosare con il bilancino, si nutrono invece di invenzione simbolica e creatività politica.

Nel libro di Jennifer Guerra mancano esempi, per cui può essere inteso come uno slancio teorico e utopistico destinato a rimanere tale. Io so, invece, che pratiche in tal senso ci sono state, ci sono e potranno esserci ancora. Vorrei, quindi, arricchire la proposta politica di orientarsi con l’amore richiamando due esperienze: una geograficamente lontana, che ha avuto significativi scambi con la nostra libreria, l’altra vicinissima a me in quanto vi ho partecipato intensamente.

Le Madres de Plaza de Mayo rappresentano un esempio mirabile che tiene insieme il per sé e per gli altri attraverso invenzioni simboliche e politiche. Erano per la maggior parte semplici casalinghe quando sono state colpite dall’immane tragedia della scomparsa di figli e figlie ad opera della dittatura militare in Argentina, dopo il golpe del 1976. La loro storia è nota in tutto il mondo e rimando al bel libro di Daniela Padoan, Le pazze (Bompiani 2005).

Pazze. Da sole si definiscono tali: «pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i figli», rovesciando l’insulto che veniva loro rivolto per andare in Piazza ed essere arrestate tutti i giovedì. La loro invenzione è stata la “socializzazione della maternità”: madri non solo dei singoli figli e figlie ma di tutti i trentamila desaparecidos e poi di tutti e tutte quelle che patiscono un’ingiustizia e soffrono. Scrive Daniela Padoan: «le Madri hanno reso politico il “lavoro dell’amore” attraverso una legittimazione che si sono date l’un l’altra, riconoscendosi l’autorevolezza e la necessità della parola detta in pubblico» (pag.408). Si dicono sempre “incinte” dei loro figli e di questa maternità sempre in fieri fanno un luogo di creatività politica che orienta in altro modo il contesto in cui vivono. Durante la crisi economica argentina, le Madres partecipano al trueque e portano al mercato del baratto tutto: dalle scarpe usate, ma risuolate, ai dolci fatti in casa da loro stesse, agli strumenti per la scuola, ma si muovono nel mercato con un senso del collettivo diverso per cui non chiamano la polizia se qualcuno ruba o fa incetta. Intervengono in modo relazionale perché «con tuo figlio o tua figlia non scambi scarpe bucate, non chiami la Polizia se vogliono più torte di quelle che hai». (Gianna Mazzini, Scarsità e abbondanza, VD 64, marzo 2003).

L’altro esempio che mi coinvolge di persona, insieme a tante altre insegnanti, riguarda la scommessa di politicizzare la scuola, di farne un luogo di politica delle donne.

La relazione come forma politica contiene già in sé potenzialmente un diverso orientamento di fondo e per me introdurla nella quotidianità dell’insegnamento, sia nel rapporto con le colleghe che con studenti e studentesse, ha significato scoprire che «il motore di questa scuola, per cui continuo ad appassionarmi a ciò che faccio, con gioia, con sofferenza, a volte con irritazione, ha una radice di amore. Per quanto ne so dalla mia esperienza, l’amore è molteplice: è per il proprio lavoro, e stimola a continuare a imparare per farlo bene; è per il sapere, e lascia vivere la curiosità e il gusto; è quel sentire interno che muove al rispetto di bambini e bambine, di chi per età, per cultura, per posizione nella struttura scolastica, è in una situazione di dipendenza» (Buone notizie dalla scuola, pag. 69, Pratiche Editrice, 1998). La relazione a scuola non ha niente a che fare con lo psicologismo pietistico che intende un atteggiamento sempre accogliente che procede distaccato dall’insegnamento. Significa invece trasformare in profondità le pratiche: la relazione in presenza fa rientrare in modo dirompente i corpi con il loro sesso, la loro storia e la vita concreta, introduce l’implicazione soggettiva, compresa quella dell’insegnante, sposta inevitabilmente dal ruolo di trasmissione di un sapere prodotto altrove, aprendo a qualcos’altro in cui può accadere l’imprevisto. Con la relazione sono soprattutto le procedure di controllo a perdere di senso e infatti nell’Autoriforma gentile molto abbiamo lavorato per dismettere le misurazioni oggettive come i voti e i test e praticare forme più amichevoli e colloquiali, che possano dare continuità alla relazione stessa attraverso il parlarsi e la rinnovata possibilità di fare delle mediazioni nel linguaggio.

Le pratiche di relazione orientate dall’amore per la comunità, che sia una scuola come nel mio passato lavorativo o la redazione di una rivista come nel mio presente, contengono un elemento che trascende l’egoismo, va oltre l’io perché c’è qualcosa di più grande di cui si è parte, c’è una dimensione collettiva in carne ed ossa da cui non si prescinde nel pensare e nell’agire. In questa logica, un successo è sì personale, ma non solo personale, sia perché è stato sostenuto da una rete di relazioni sottostante sia perché a sua volta la sostiene. Molto lavoro di tessitura fatto dall’una o dall’altra, di scambio, di messa a punto, di attenzione al dettaglio, ha contribuito a quel successo. La consapevolezza di ciò diventa alimento per le une e per le altre e trasmette forza sia alla singola che all’impresa in comune.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 23 luglio 2023)

di Pasquale Coccia


Il collettivo prima del singolo, i contenuti prima del merito, i principi prima di ogni cosa. Era tutto questo Lica Covo Steiner, moglie di Albe Steiner, entrambi hanno segnato la storia del design e della grafica in Italia dando un contributo fondamentale nel Dopoguerra alla formazione di generazioni di grafici presso l’Umanitaria di Milano. Lica ha contribuito in maniera determinante a tutti i lavori di Albe Steiner, ma non ha mai voluto che comparisse il suo nome, diceva che contava il messaggio.

Furono loro a progettare i Convitti Rinascita, luoghi di formazione per i figli di partigiani rimasti orfani. Furono loro a disegnare i fazzoletti dei partigiani nella Val d’Ossola durante la Repubblica partigiana durata quaranta giorni e quelli dell’Anpi, ma anche la copertina della rivista Il Politecnico diretta da Vittorini e tantissimi manifesti di anniversari politici.

Un libro della collana Electa dedicata alle donne sul lavoro Vorrei far vedere una strada che va all’infinito scritto da Chiara Alessi, ricorda la figura straordinaria di Lica Covo Steiner. A scorrere le pagine del libro si resta meravigliati dalle persone che frequentavano casa Steiner: Elio Vittorini e sua moglie Ginetta, Giulio Einaudi e la moglie Renata, Gillo Dorfles, Ernesto Treccani, Italo Calvino, Giangio e Julia Banfi, Gabriele e Genni Mucchi, i pittori di «Corrente», e negli anni a seguire Neruda, Picasso, Rivera incontrati in America Latina grazie ai contati forniti dal Pci. C’erano le riunioni del mercoledì di intellettuali antifascisti che preparavano la Resistenza, nel corso delle quali vi erano scontri dialettici duri sul da farsi ma anche grande solidarietà, una delazione poteva costare loro la vita.

Albe aveva avuto lo zio, Giacomo Matteotti, trucidato dai fascisti, fu a seguito di quel tragico evento che all’età di 11 anni affisse nell’atrio del suo stabile un disegno con la scritta: «Abbasso Mussolini gran capo degli assassini» e forse fu allora che decise di fare il grafico.

A Lica i fascisti ammazzarono il padre e fu subito dopo che decise con il marito di entrare nella Resistenza, raggiunsero Mergozzo, nel Cusio-Ossola, dove avevano la casa di famiglia, poi distrutta dai fascisti. Lica fece la staffetta partigiana, Albe il commissario politico di una brigata. Furono loro a disegnare la carta stampata della Repubblica partigiana della Val d’Ossola, i timbri, i manifesti.

Nonostante i fatti tragici che avevano colpito le loro rispettive famiglie, Lica e Albe per tutta la vita mantennero un’allegria costante, sapevano divertirsi e soprattutto sapevano guardare al futuro: «Lica ha mantenuto intatta la sua inimitabile levità disse Gillo Dorfles nel corso di una commemorazione. Affetti da levità bisognava esserlo per natura e per contagio, visto che quando il Pci le assegnò la pagina sulle donne su l’Unità, Lica condivideva il tavolo con Fortebraccio, i cui feroci strali in prima pagina erano accompagnati da grande ironia.

Al futuro guarda il titolo di questo libro che Chiara Alessi ha reso lieve nel tratteggiare la figura di Lica Covo Steiner, prendendo a pretesto una sua frase, quando all’età di 93 anni frequentava ancora quotidianamente lo studio di via Elvezia a Milano. Il comune di Paderno Dugnano, nell’hinterland milanese, aveva commissionato un manifesto per il 25 aprile del 2008, priva di forze ma lucida Lica si faceva aiutare dalla figlia Anna, che ha proseguito il lavoro dei genitori. Alla richiesta su che cosa volesse che il manifesto rappresentasse, immediata fu la risposta di Lica: «Vorrei far vedere una strada che va all’infinito».

In quel desiderio di futuro c’era un grande passato vissuto con intensità. Fu Lica nel 1986 a curare una mostra iconografica dedicata a Vittorini dopo la sua morte, solo lei e Albe erano riusciti a fotografarlo nei momenti intimi, visto che dopo la perdita del figlio Giusto Vittorini non comparve più in pubblico.

Nel 1945 Lica Covo Steiner curò la mostra sulla Liberazione e quella sulle Donne, fu la segreteria nazionale del Pci a incaricarla di curare nel 1954 i manifesti per la campagna di propaganda «Educhiamo alla gioia» e nel 1963 la mostra «Donna a metà», il suo impegno sui diritti di genere le aprirono le porte al femminismo internazionale. Fu sempre lei a curare i manifesti della «Mostra della realtà» del 1953 e nel 1955 quella su Marx ed Engels.

La segreteria nazionale del Pci la ringraziò con una lettera inviata non all’indirizzo di casa o dello studio, ma a quello di via Cicogna 6 a Milano, dove aveva sede il Collettivo di Architettura del quale Lica era grande animatrice. Il suo impegno politico la portò a stabilire profondi rapporti di amicizia con la sorella di Marcella Ferrara, segretaria di Palmiro Togliatti, fin da quando giovanissima curava la pagina delle Donne sull’Unità, anche se, ironizzava, da un punto di vista grafico non era granché.

«Nella nostra professione siamo stati militanti, il nostro lavoro non è mai stato individuale» soleva dire alla figlia Anna Steiner, che incontriamo a Milano in occasione della presentazione del libro. Alla nipote di 11 anni diceva che non avrà mai nessuna risposta fino a quando non imparerà a fare domande, racconta Anna Steiner, che nello studio ci mostra i tanti manifesti disegnati dai genitori e i libri autografati dagli autori con le copertine originali di Feltrinelli ed Einaudi, nonché la fittissima corrispondenza internazionale avuta dai suoi genitori con artisti, grafici e intellettuali, sulla quale qualche studioso dovrebbe cominciare a lavorare.

La gran parte dell’archivio Steiner è stato donato al Politecnico di Milano. La corrispondenza privata per volontà di Lica è rimasta nello studio, ma la sua è stata una vita intensa sotto il profilo grafico e politico. Rendere pubblica questa documentazione visto che «il personale è politico» significa fare nostra una vita di passione politica e civica caratterizzata sempre da uno sguardo allegro e ottimista.


(il manifesto – Alias, 22 luglio 2023)

di Letizia Paolozzi


Bianca Pomeranzi è stata con me, con noi nelle feste, nei dolori, nei balli di fine Anno, nell’accensione dei fuochi d’artificio che facevano tanto, troppo fumo, nelle assemblee infuocate, in quelle noiose, nelle discussioni furibonde del Gruppo del mercoledì (Luisa, Fulvia, Stefania e prima Elettra, Rosetta, Bia, Laura), nelle rappacificazioni istantanee, nei viaggi che duravano un’eternità, nel mare di Carloforte, nel tramonto di Vico Equense, nelle cene con le finestre aperte durante il Covid, nei balli di Fine Anno, nelle telefonate mattutine con la geopolitica a portata di mano, nelle serate di cibo relazionale, nell’amore dichiarato per Maria Rosa. Ora non c’è più e non sappiamo come faremo.


(DeA donne e altri, 22 luglio 2023)

di Giulia Giaume


Dopo anni di carenza, la casa editrice La Tartaruga ripubblicherà l’intera opera di Carla Lonzi, tra le più importanti teoriche del femminismo italiano degli anni Settanta, se non la prima in assoluto. Ad annunciare la decisione della Tartaruga – fondata nel 1975 dalla leggendaria editrice femminista Laura Lepetit – è la sua curatrice Claudia Durastanti, che ha anticipato la prima pubblicazione disponibile dal 5 settembre 2023: Sputiamo su Hegel e altri scritti. Parliamo di una pietra miliare della saggistica femminista, uscita per la prima volta negli anni Settanta e diventato per decenni quasi introvabile.


L’eredità di Carla Lonzi

Carla Lonzi (Firenze, 1931 – Milano, 1982) rappresenta e ha rappresentato per il femminismo italiano un punto di riferimento di spicco, per molti mai eguagliato. Dopo gli studi in lettere e una prima fama nel mondo dell’arte – dal cui allontanamento scaturirono gemme come il volume Autoritratto con interviste a Consagra, Fontana, Kounellis, Pascali, Twombly e altri – fondò insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti il movimento Rivolta Femminile. Il manifesto del movimento, uscito nel 1970, è considerato da molti l’inizio formale del femminismo italiano. A questo primo testo segue il rivoluzionario Sputiamo su Hegel, che interseca i temi già trattati a una più ampia lotta anti-patriarcale, che Lonzi realizza qui attaccando le lezioni dei giganti novecenteschi Hegel, Freud e Marx. “Smentire la cultura significa smentire i fatti in base al potere”, scriveva, contrapponendo alla visione del “femminile passivo” teorizzato in diverso modo dai tre uomini una donna libera, autentica e dotata di una propria coscienza e un proprio volere da manifestarsi al di fuori dei ruoli imposti (quelli della moglie e della madre) attraverso una necessaria ribellione.


La casa editrice La Tartaruga

Il legame tra la casa editrice e l’autrice è dopotutto strettissimo. Prima di aprire la libreria “Milano Libri” in via Verdi e fondare la casa editrice La Tartaruga, Laura Lepetit (nata Maltini) aveva lavorato e militato proprio insieme a Lonzi e al gruppo di Rivolta Femminile. Con gli anni, Lepetit si era allontanata per diventare un grande nome dell’editoria milanese, ottenendo il titolo di cavaliera del lavoro “per meriti morali e professionali”. La Tartaruga – rilevata dopo la scomparsa della fondatrice nel 2021 dalla Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi – ha pubblicato in tanti anni di attività le opere di grandissime scrittrici prima ignote in Italia come Margaret Atwood, Ivy Compton-Burnett, Nadine Gordimer, Barbara Pym, Virginia Woolf, Gertrude Stein, Grace Paley, Doris Lessing e Alice Munro, e ha riportato alla luce testi di autrici italiane come Anna Banti, Paola Masino e Gianna Manzini e scoperto esordienti come Francesca Duranti, Silvana Grasso e Silvana La Spina.


Intervista alla curatrice Annarosa Buttarelli

La curatela del progetto – che va a sanare una grande lacuna editoriale, per anni percepita come una mancanza imperdonabile da studiose, appassionate e lettrici – è stata affidata a un nome di primo piano del femminismo italiano, Annarosa Buttarelli, senza accompagnamenti critici di alcun tipo. Filosofa, autrice, giornalista e docente dell’Università di Verona, Buttarelli ha costituito insieme a un folto gruppo di professioniste la Fondazione Scuola di Alta Formazione Donne di Governo di Mantova, sua città d’origine, ed è tra le fondatrici di Festivaletteratura. Le abbiamo posto qualche domanda sul nuovo progetto, e sull’importanza della lettura di Lonzi.

A chi è indirizzata questa ripubblicazione: a studiose e studiosi che da tempo la attendevano, o anche un pubblico più ampio, che possa riscoprire il primo femminismo italiano e avvicinarvisi? 
L’opera di Carla Lonzi è così rivoluzionaria che la sua lettura si può considerare necessaria per chiunque abbia a cuore il “cambio di civiltà” auspicato dalle persone più sensibili e oneste intellettualmente. Certamente andrebbe proposta, ora che diventerà disponibile, alle giovani donne prima di tutto. Auspico che la leggano anche gli uomini, e non solo i filosofi più raffinati.

I testi di Lonzi, e Sputiamo su Hegel in particolare, sono di una impressionante attualità: la decisione di ripubblicare l’opera in questo momento deriva anche dall’attuale clima socio-politico italiano? 
Come tutti i testi destinati all’immortalità, quelli di Lonzi parleranno sempre, in tutte le epoche. Ma direi che qui in Italia Sputiamo su Hegel potrebbe essere particolarmente utile a chi si ritiene di sinistra. Vi troverebbe le indicazioni di molti errori logici ed etici che continuano a essere fatti…

Una scelta coraggiosa, quella di non includere accompagnamenti critici, che invoca una fiducia nella capacità di pensiero di lettori e lettrici: questa presa di responsabilità e comprensione è parte integrante e necessaria del “risveglio” avanzato da Lonzi stessa? 
Certo! Sono contenta che si comprenda quanto coraggio ci vuole a far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé. Carla Lonzi è un’autrice che insegna a entrare in rapporto diretto con gli scritti che derivano dalla trasformazione di chi li ha creati, e augura la trasformazione di chi osa leggerli senza ringhiere accademiche.

Se fosse possibile dare una prima scaletta del progetto, quando usciranno e quali testi interesseranno le prossime pubblicazioni? 
Il 5 settembre uscirà Sputiamo su Hegel in occasione di Festivaletteratura a Mantova, dove saranno dedicati tre incontri a Carla Lonzi. Seguiranno altre quattro opere, secondo un calendario che verrà reso noto dalla casa editrice. Le opere sono: Taci, anzi parla. Diario di una femminista; Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra; Scacco ragionato. Poesie; e Scritti sull’arte.


(Artribune, 21 luglio 2023)

di Ilaria Sirito


Una delle prime urgenze che io e le mie compagne, le Compromesse, abbiamo portato sulla tavola virtuale dei nostri incontri settimanali su Meet, in piena pandemia, è stata quella di costruire rapporti profondi con le altre donne. Tutte quante volevamo ricominciare una relazione lasciata in sospeso, quella con l’altra, relazione messa alla prova dalle invidie e dalle competizioni che la socializzazione femminile innesca in adolescenza, per farla evolvere in una dimensione che partisse sì da noi, ma coinvolgesse il mondo intero. Ci siamo riuscite: Le Compromesse sono le mie prime amicizie politiche. Le parole di Chiara Zamboni nel descrivere questo tipo di amicizia hanno risuonato molto in me e non ho potuto fare a meno di pensare a questo bellissimo gruppo di donne che ho la fortuna di frequentare.

Anche il racconto di Jennifer Guerra, intensamente personale, ha toccato alcune corde che proprio adesso sono più importanti che mai. Jennifer ha trovato nel femminismo una forma di amore, un amore come pratica politica quindi, a cui si dedica da diversi anni. Ha parlato di letture, manifestazioni, impegno nei centri antiviolenza. Tutto questo però ha subito una piccola frenata in seguito a un momento di crisi personale, nel quale però ha riscoperto un altro amore, quello per sé stessa, che non significa abbandonare gli altri amori e passioni, ma soltanto ascoltarsi e adeguare il proprio ritmo. Questa è la nota del racconto di Jennifer che più ha risuonato in me. Anche io ho attraversato un periodo di crisi, terminato poi con la fine di una storia d’amore molto importante, nel quale mi sono ritrovata – senza esplicitamente esprimerne il desiderio o nemmeno rendermi conto che lo desideravo – ad assecondarmi come mai nella mia vita da adulta avevo fatto: vivendo giorno per giorno, dedicandomi più ai piaceri piccoli ma quotidiani che a progetti dilatati nel tempo, anche a costo di rimandarli un po’; un assecondarmi che mi ha portata a finire la mia relazione senza strappi bruschi, ma che mi ha anche allontanata momentaneamente dall’impegno politico. Tuttavia è stato un periodo ugualmente fervido e pieno. Guardandolo in retrospettiva mi sono accorta che, anche mettendo in pausa certi elementi della mia vita, questi non sono affatto scomparsi, anzi. Le amicizie che ho coltivato – con molta più cura rispetto a periodi più “impegnati” – e che hanno composto gran parte dei “piccoli piaceri quotidiani” che mi sono concessa, sono state quasi tutte amicizie a tre: io, te e il mondo. Sono sicura che il mio coinvolgimento nel femminismo ormai non possa non coinvolgere a sua volta le persone a cui voglio bene; domenica all’incontro di Via Dogana ho portato una mia amica, che non era mai stata in Libreria prima. La sera prima mi aveva detto che, conoscendo il “femminismo mainstream” e neoliberista del sex work, si vergognava di definirsi femminista. Era un’affermazione che denotava sfiducia, ma in cui ho intravisto un desiderio di essere smentita. Così d’istinto le ho risposto proponendole di partecipare alla redazione aperta; dopo l’incontro mi ha detto che aveva capito perché lo avevo fatto e ne era grata. È bastato così poco! Eppure credo che quel semplice scambio abbia portato qualcosa di molto rilevante per me e per lei, sia dal punto di vista affettivo che dal punto di vista politico.

Nel suo racconto, Jennifer menzionava centri antiviolenza, manifestazioni, piazze e letture messe in pausa. Io credo che la politica come amore non possa essere messa in pausa. Le parole stesse di Jennifer lo fanno trasparire, e nel mio piccolo lo osservo anche nella mia esperienza: dal piccolo gruppo di studio o dalla piazza, si trasferisce inevitabilmente nel rapporto con l’altro – che in fondo è politica.


(Via Dogana – Tre www.libreriadelledonne.it, 21 luglio 2023)

di Nicola Mirenzi


«Io sono una donna, ancor prima di essere lesbica, e non ho alcuna intenzione di farmi cancellare da un asterisco. È chiaro?». Anna Paola Concia – ex parlamentare del Pd, oggi coordinatrice di Didacta Italia, da sempre militante per i diritti omo e transessuali – è ferita e arrabbiata. «Ora basta», dice. «Sono stata zitta abbastanza. Perché di questo si tratta: della rimozione della donna, dell’annientamento della differenza femminile, trasformata in un problema, in un ostacolo da spazzare via». 
In un impeto, martedì, Concia ha commentato su Twitter il manifesto dei Radicali italiani che invita a firmare a favore di una legge per l’aborto libero, definita «una legge per tutt*», scrivendo: «Tutte chi? Asterisco? Ma quale asterisco? Ma smettetela, per favore, state facendo un danno incalcolabile al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza delle #donne». Ne è nata una polemica furibonda. 
Tutta interna al movimento Lgbtq+ [acronimo di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer, Ndr]. Che non nasce però dal fastidio di un giorno. Ma è l’esito di una lunga meditazione. 
«Sono anni», dice Concia, «che osservo in silenzio quello che sta succedendo. Studio, mi informo, cerco di capire. Ma non mi riconosco nella piega che hanno preso le cose. La lingua si può cambiare. Ma è un percorso lungo e graduale. Che non può essere imposto. Il culmine l’ho raggiunto il 15 giugno. Quando ho letto che la John Hopkins University ha redatto un glossario per l’inclusività nel quale definisce persona lesbica un “non-uomo attratto da un non-uomo”». La rabbia nasce qui. «Ho lottato una vita per essere una donna e una lesbica libera e vorrebbero farmi credere che ciò che fa di me quel che sono è un la particella “non” davanti alla parola “uomo”?». 
Dopo le polemiche, la John Hopkins University ha rettificato il glossario. Ma nella proposta di legge “trans-inclusiva” dei radicali italiani si trova qualcosa di analogo. L’articolo 17 comma 2 stabilisce, infatti, che nella legge 194 si sostituisca la parola “donna” con il termine “persona gestante”. «Lo schema mentale è sempre quello», dice Concia, «eliminare la donna». 
Altro esempio: «La rivista Lancet, quasi due anni fa, definì le donne “corpi con vagina”. Ma non ricordo che qualcuno abbia mai descritto l’uomo come un “corpo con scroto”». 
Ma, nel caso specifico, quanti sono i trans nati donna discriminati al momento dell’aborto? 
«Io non conosco nemmeno un caso concreto. Ho chiesto altre informazioni ai miei interlocutori. Nessuno ne ha aggiunte». Eppure, si fa di tutto con le parole per evitare che si dica che il diritto all’aborto non è di tutti perché non tutti possono avere una gravidanza. «Si vuole tutelare il trans in linea di principio? Benissimo. Lo si tuteli. Ma non abolendo il riconoscimento delle donne, perché sono le donne quelle che poi in grandissima parte abortiscono». 
L’accusa, automatica in questi casi, è la transfobia. Da qui il dolore di Concia. «È solo una strategia per tapparti la bocca. Un ricatto. Ti danno della transfobica per farti stare zitta. Io sono stata la prima a proporre una legge per l’autocertificazione del proprio genere, già prima del cambiamento di sesso chirurgico. È folle essere tacciata di transfobia. Ecco perché in questi anni non ho mai parlato. Per la paura di essere ricoperta di insulti e di odio. E, come me, tante altre hanno paura di parlare». La accusano anche di fare il gioco della destra. 
«Ma è un altro ricatto per ridurti al silenzio. Le sembra un modo di confrontare opinioni diverse, questo? Se non se ne abusasse a ogni fascista. Con la precisazione che non è per paura della destra che sono stata in silenzio. Ma per paura degli inclusivi, dei tolleranti, insomma dei miei compagni». 
Prima parlamentare italiana a sposarsi con una donna, nella Germania di Angela Merkel, Anna Paola Concia è stata sposata anche con un uomo, «negli anni in cui facevo di tutto per negare chi ero». Ha abortito a ventitré anni. Nel 2000 ha fatto outing. Nella legislatura 2008-2013, era l’unica parlamentare omosessuale dichiarata. «Quello che non mi hanno mai perdonato, anche i dirigenti del mio partito che oggi stanno con Schlein, è aver cercato di togliere la questione dal terreno dello scontro politico, per farla diventare una pura materia di diritti civili». Cioè? «Mi sono posta l’obiettivo di sensibilizzare la destra. Farle capire che era antimoderno negare i diritti trans-omosessuali. In Parlamento, ho dialogato con Gianfranco Fini, Mara Carfagna. Era pronta una legge contro l’omofobia. Furono il mio partito e Forza Italia a bloccarla». Perché? «Perché dovevano dimostrare che anche sui diritti c’era la barricata: eccoci qui. Di nuovo alla politica dell’amico/ nemico. La Roccella da una parte, il movimento Lgbtq+ dall’altra. E anziché i diritti, avanza la guerra civile».


(Il Foglio, 20 luglio 2023) 

di Alessandra Pigliaru


Ieri, durante la cronaca della finale dei Mondiali di nuoto in corso a Fukuoka, in Giappone, a proposito del «trampolino femminile sincronizzato» e andata in onda su RaiPlay 2, il giornalista di Rai Sport Lorenzo Leonarduzzi e il collaboratore tecnico Massimiliano Mazzucchi avrebbero pronunciato frasi sessiste e denigratorie sulle atlete in gara.

A segnalarlo sono stati spettatori dello streaming (non più disponibile in rete), uno di loro ha inviato una pec alla Rai e poi lo ha raccontato sui social. Le trascrizioni della «barzelletta da bar» (così si è difeso Leonarduzzi) mostrano quanta frizzante creatività risieda in una penosa e ritrita questione maschile che affligge non solo questa vicenda ma riguarda in generale un modo scadente di osservare il mondo. Quindi «Le olandesi sono grosse». «Ma tanto a letto sono tutte alte uguali». Oppure: «Si la do. È questo il vantaggio, gli uomini devono studiare sette note, le donne soltanto tre». E via discorrendo.

Se il microfono di RaiPlay «non è stato chiuso» e dunque è tutto un giustificarsi sulla incomprensibilità di quanto accaduto, è pur vero che in un altro breve video si può ascoltare sempre Leonarduzzi che appella l’atleta Riccardo Giovannini come farebbero i cinesi quindi «Liccaldo». Per tacere delle ulteriori «battute», sempre a sfondo sessista, dedicate nel 2020 al cognome del pilota estone Ott Tanak che gli erano valse una sospensione. Ora la Rai ha avviato «una procedura di contestazione disciplinare» verso i due telecronisti.

Se non fosse noioso ripetere quanta sottocultura risieda in episodi simili, sia che si svolgano in privato che in pubblico, come se poi «inter nos» risultasse meno grave insultare a vanvera chi capita a tiro, si potrebbe dire l’imbarazzo e il veleno che ogni volta suscitano. Se non facesse venire una discreta nausea e non si rischiasse, nel rispondere, di allinearsi al livello di questo perenne disprezzo, in nome di una (finta) goliardia buzzurra, infantilizzata e inconsapevole, verso i corpi delle donne, o di chi viene prescelto di volta in volta, ci sarebbe da scatenare tempeste.

Perché la sensazione è che, alla prima occasione utile, chiunque si debba sorbire questi reflussi gastrici da quattro soldi e a ben pensarci, in effetti, non se ne può più. Ne abbiamo piene le tasche, di essere il cassonetto biologico di chiunque ci voglia investire del proprio disagio da incontinenza verbale. Non ne possiamo più della (finta) sbadataggine che arriva alla mente una mattina qualunque, da un cronista o un ministro, per dire che in fondo no, c’è troppa suscettibilità di reazione e le cose non sono come sembrano.

Sarebbe invece interessante dirsi esauste, ed esausti (lo siamo in molti, e a diverse latitudini) e intervenire non solo per descrivere questo guasto, piuttosto cialtronesco oltre che ripetitivo. Basterebbe cominciare a prenderne atto, con serietà. Se fossero tempi seri, e non buttati nello scherzo che non fa ridere nessuno. Nel frattempo, una tra le tante opzioni potrebbe essere quella di ricevere delle scuse. Possibilmente vere.


(Il manifesto, 18 luglio 2023)

di Simone Paliaga


Per la prima volta in italiano le lettere della futura filosofa al fidanzato Gregorio del Campo. Il tema della nascita si insinua ovunque, sotto diversi aspetti

La ferita del nascere è il «non essersi accontentati di essere stati semplicemente creati? L’aver bramato di nascere? Perché nascere è possibile solo fuori dal Paradiso», scrive María Zambrano (1904-1991) nel suo Aurora. Ma a questa considerazione che rimodula il Calderón de la Barca di La vita è sogno ne fa seguire un’altra, di segno opposto. In Delirio e destino, testimonia la meraviglia che scaturisce dall’«aprire gli occhi alla luce sorridendo, benedire il nuovo giorno, l’anima, la vita ricevuta, la vita… Un regalo di Dio che ci conosce, che sa il nostro segreto, la nostra inutilità». La nascita dunque, per la grande pensatrice iberica, è la cifra della vita. È l’evento che incombe sull’uomo e sulla donna, da intendersi però insieme al dis-nascere o al ri-nascere. La creatura umana vive in cammino tra Scilla e Cariddi, tra «il voler dis-nascere o il voler ri-nascere.

Ci sono religioni del dis-nascere e quelle del ri-nascere. La storia della creatura umana a partire dall’orrore per la nascita è infatti una lotta tra il disinganno e la speranza, tra realtà possibili e sogni impossibili, tra mistero e delirio» ammonisce in Verso un sapere dellanima. Intorno a questo passaggio gravita il pensiero della pensatrice. Fino a qualche tempo fa, pretestuose interpretazioni psicoanalizzanti attribuivano l’attenzione al problema della nascita al fatto che Zambrano non fosse stata madre, alla pari dell’altra imponente filosofa della nascita del Novecento, Hannah Arendt.

Ora questa speciosa argomentazione si sgretola a fronte della pubblicazione della corrispondenza di María Zambrano con il fidanzato Gregorio del Campo, disponibile per la prima volta in italiano con l’uscita in libreria di Lamore a Segovia (pagine 270, euro 22,00), con cui la casa editrice Morcelliana continua la pubblicazione delle opere della filosofa. Il volume è corredato, oltre che dalla postfazione della curatrice Manuela Moretti, anche da una perspicua prefazione di Silvano Zucal e dall’introduzione di María Fernanda Santiago Bolaños, a cui si deve la scoperta di questo epistolario nell’estate del 2009 presso gli eredi di Del Campo, incarcerato il 19 luglio 1936 a Saragozza dai franchisti e poi fucilato il 6 settembre a Pamplona. Si tratta di un fidanzamento durato dal 1921 al 1926, che però nell’esistenza terrena di Zambrano getta un’ombra lunga quanto una vita.

Dalle lettere filtrano le emozioni di una ragazza innamorata che con il suo fidanzato (delle cui missive purtroppo non disponiamo) commenta libri, autori e film. Racconta vicende riguardanti le amiche, i propri studi, timori e le speranze di una ragazza che a Segovia, dove visse tra il 1908 e il 1924, incontrò i primi amori, tra cui quello con del Campo, conosciuto nel 1921, dopo la partenza del cugino Miguel Pizarro per il Giappone. Non sono molti gli anni del legame e verde è l’età di entrambi, eppure con il futuro capitano accarezzerà il sogno di un matrimonio e avrà pure un bambino morto poco dopo la nascita. Sta qui la novità rivelata dalle lettere, di cui due sono pubblicate qui a fianco.

Esse rivelano l’ingenuità degli anni giovanili e di certo un pensiero aurorale e grezzo, che si aspetta ancora di essere ampiamente dirozzato dagli studi e dalla vita. Ma rivelano già temi che staranno al cuore del pensiero della Zambrano matura. Il tema della nascita, anche per quanto provato nelle viscere, nelle entrañas, per la precoce scomparsa del figlio, si insinua ovunque, sotto diversi aspetti, anche quello del mistero della generazione femminile, del dono della nascita. «Considero il matrimonio qualcosa di sacro, in grado di commuovermi nel mio essere più profondo, in ciò che mi unisce all’intera Natura, alla vita degli astri, alla vita del Cosmo, al gran principio universale della femminilità (il femminile ha un’essenza più profonda rispetto al maschile) – scriverà al fidanzato – L’intera Natura dovette sentirsi donna nel momento in cui venne fecondata dal soffio divino del Creatore.

E la terra? Quando il seme viene depositato in essa, che cosa significherà per il seminatore? (qualcosa di grande, in ogni caso); ma [cosa significherà] per la terra, quando si sente scossa nell’accogliere amorevolmente il seme che la rende feconda, che la fa sentire terra, e senza il quale sarebbe un povero masso! E io sono questo, vita mia, con te sono una donna, sono terra che produce e dà frutto, senza di te sarei un povero masso arido e sterile, un masso più o meno forte e di valore ma sempre un povero masso sterile, secco e arido».


Le lettere / «Bimbo mio, perché te ne sei andato senza salutare?»

Due missive testimoniano il dolore per la perdita del figlio neonato e per la lontananza del fidanzato


Lettera XVII

Bimbo mio, perché te ne sei andato senza salutare tua madre, perché te ne sei andato prima che tuo padre potesse darti un bacio? Figlio mio, perché te ne sei andato dove tua madre non può vederti, dove resterai tutto solo? Anche se sei andato in cielo, perché ti interessa Dio e quell’altra gente? Non saresti stato meglio con la tua mammina, che presto se ne sarebbe andata via con te? Bimbo mio, come ti sentirai solo! Avrai freddo sotto la terra, ti mancherà la tua piccola culla, la tua coperta e la tua mantellina bianca? Ahi, se fossi lì con te ti metterei tutto, tutto per non farti avere freddo: i pantaloncini che ho fatto per te, tutti i tuoi vestitini, e ti metterei nella tua piccola culla per continuare a ninnarti e a cullarti.

Mi porterà mia madre un tuo capellino, di quei tuoi capelli così neri che avevi, come quelli di tuo padre? Quanta tristezza, se premo i seni esce ancora latte, quel latte che era per te, bimbo, e che non hai fatto in tempo a bere! Bimbo, figlio mio, piccolo bebè, dove sei, perché te ne sei andato se eri così bello e avevi degli occhietti neri così grandi e pieni d’intelligenza? Li avrai ancora, bimbo mio, ma ormai chiusi; il tuo faccino così carino sembrerà di cera, [così come] le tue manine piccoline che sostenevano la tua testolina quando avevi un giorno; bimbo, povero bimbo mio, quegli occhi che andavano verso la luce ormai non la vedranno più, la terra cadrà su di essi, nell’oscurità eterna.


Lettera XVIII

Martedì 29 – Che bel sole! Mi sono svegliata presto e sono rimasta sul balcone aspettando il postino; e il postino è passato (ovviamente!) ma non mi ha portato nulla. In questi giorni, senza ricevere tue lettere, ho avuto pazienza, ma oggi inizio già a disperarmi! Non voglio parlarti riguardo alla tua desiderata e attesa, tanto attesa lettera, se arriverà o se tarderà ad arrivare ancora quindici o venti giorni, perché quando arriverà sarò già morta: alla fine è quello che tu desideri e quello che accadrà. Il bimbo, poverino, è già morto (non so perché nei giorni di sole lo ricordo più spesso) e ora muoio io, così te ne stai tranquillo. Ora non ti potrai lamentare.

Con questo sole, ti immagino senza far nulla, senza pensare a nulla, senza sentire nulla, nella dolce sophrosine degli Dèi greci, che ormai sembra siano il tuo ideale. Tu sei felice, e comprendo bene perché non vuoi scrivere alla tua chonflica che qui, sola, muore di tristezza. È chiaro! Ti trovi a tuo agio lì: se il tempo è bello ne approfitterai e godrai della natura che ti circonda; e se invece c’è una tempesta? Molto meglio, sarà un gran divertimento per il tuo spirito! L’attività che il tuo spirito vuole esercitare, la puoi già realizzare nella tua postazione, quindi niente; tanto piacere! Cosa ti importa delle chonflicas che hanno perso il loro bimbetto e che muoiono dal dolore? Perché disturbarsi a scrivere una parolina di consolazione? Che muoiano, così la facciamo finita una volta per tutte. Che giorno triste sarà per me oggi! E che giorno meraviglioso per essere allegri e sentirsi giovani! E che tristi una vita e una gioventù trascorse sempre così, con tristezza e amarezza, sempre con il fantasma del dolore che oscura le cose e non consente di poterle godere.

Che cosa si può chiedere di più che poter godere dell’aria e del sole, come gli animali? Poiché la felicità, quella felicità buona che noi desideriamo, non la possiamo raggiungere, e nemmeno quell’altra di cui beneficiano gli animali. Ma è impossibile (almeno per me) separare la parte umana per lasciare solo l’altra. Magari [fosse possibile]! Almeno potrei godere dei beni materiali (che sono anche spirituali). Se oggi avessi ricevuto una tua lettera, nonostante tutto, starei bene (anche se, come ti ho detto, nei giorni di sole mi ricordo spesso del bambino) ma non mi è arrivata e penso al mio bimbo, che dorme, solo soletto, sottoterra, gli arriverà il sole? povero bimbo, così carino e vestito di bianco, che dorme sottoterra! Speriamo sia felice; almeno più di sua madre, che in questo giorno in cui tutto vive, vive anche lei nel peggiore dei modi, rendendosi conto della vita e delle cose.

Mi trovo sulla terrazza rialzata, dove arriva il sole e soffia un venticello molto piacevole (per chi può provare piacere per qualcosa) ma mi sembra di soffocare e mi manca il respiro. Già lo so: quando sono così angosciata il petto mi si blocca a tal punto da non lasciarmi respirare e questo è normale, per questo quando una persona esce da un periodo difficile si è soliti dire: “ora avrà ripreso a respirare”; ma quando riprenderò a respirare, io? A Madrid, quando non ricevevo alcuna lettera da parte tua, c’erano notti in cui dovevo sporgere le braccia fuori dal letto e alzarle, e a volte persino sedermi sul letto perché mi sembrava di soffocare. Povero lo stolto essere umano che in una splendida giornata di sole, quando tutta la Natura si risveglia, si sente mancare l’aria! Come può mancargli l’aria, se c’è aria per tutti! Che assurda la vita umana, che enorme sciocchezza! A cosa servono il pensiero, il progresso, la scienza e l’arte? A cosa l’amore? Perché arrivi un giorno di splendida vita e uno si senta morire, morire vivendo, che è la cosa peggiore.

È molto meglio immedesimarsi nell’insensibilità animale. Immagino che gli indiani che incontrarono i soldati di Alessandro [Magno] dovessero provare qualcosa di simile, immobili, con le unghie affondate nella carne e gli uccelli che facevano il nido sulle loro spalle, sommersi nel Nirvana. Avrebbero voluto essere alberi, piuttosto che uomini. E troviamo anche questo nella filosofia volontarista di Schopenhauer, che deriva dall’India, secondo la quale la volontà è l’anima della vita e l’origine di tutti i dolori; pertanto, la felicità risiederebbe nel non averla; ci deve essere qualcosa di tutto questo anche nel Cristianesimo. Mi starai già dicendo che mi fido troppo di quello che pensano gli altri. Non mi fido di quello che penso io, o meglio, [mi fido di] quello che sento e una volta che ne sono consapevole, spontaneamente, ricordo tutto ciò che di simile o somigliante ho trovato nel mondo; cosa vuoi? fa sempre piacere trovare un’eco della propria voce; la solitudine assoluta è insopportabile.


María Zambrano


(Avvenire.it, lunedì 17 luglio)

di Valentina Parisi


A dispetto della loro più che ventennale relazione, Wisława Szymborska non volle mai andare a convivere con il suo compagno, lo scrittore Kornel Filipowicz, sostenendo che il ticchettio simultaneo di due macchine da scrivere in due stanze diverse del medesimo appartamento avrebbe creato un effetto ridicolo, oltre che insopportabile. Nulla valse a farle cambiare idea, nemmeno la consapevolezza che quell’odioso, nevrotico baccano sarebbe stato ogni tanto attenuato dal serico fruscio di un paio di forbici: dotata di un estro artistico non comune, la poetessa polacca era infatti una infaticabile creatrice di collage, ironici e talvolta spiazzanti, realizzati ad personam per i suoi amici.

Apparentemente ideate per sopperire alla penuria, negli anni Sessanta, di cartoline postali accettabili sotto il profilo estetico, quelle composizioni irriverenti costituivano in realtà un vero e proprio termometro delle simpatie personali dell’autrice: l’invio per posta dei collage era riservato esclusivamente ai conoscenti provvisti di senso dell’umorismo in grado di apprezzarne la stralunata logica; agli altri toccavano invece semplici biglietti prestampati. Tuttavia, i fortunati eletti non dovevano essere pochi, a giudicare da quanto scrive il segretario ingaggiato all’indomani del premio Nobel, Michał Ruszynek, che nel volume di memorie Nulla di ordinario, pubblicato da Adelphi nel 2019, ricorda come a novembre, nell’imminenza delle feste di fine anno, Szymborska si rifiutasse categoricamente di ricevere ospiti, perché doveva (così dichiarava) «fare l’artista». D’altronde, ammettere visitatori nel suo appartamento non sarebbe stato semplice: l’intero pavimento era ingombro di ritagli di vecchi giornali e riviste; Szymborska «ci passava sopra come una cicogna, li accoppiava, scoppiava a ridere e li incollava sui cartoncini».

A illuminare questo aspetto poco noto della creatività della poetessa, nata a Kòrnik nel 1923 e scomparsa a Cracovia nel 2012, provvede ora la mostra Wisława Szymborska – La gioia di scrivere (a cura di Sergio Maifredi e con la consulenza di Andrea Ceccherelli e Luigi Marinelli) visibile al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova fino al 3 settembre. Un progetto ambizioso che, alternando tracce visive e memorabilia, archivalia a testimonianze inedite, si propone di esplorare le frange più collaterali dell’opera di Szymborska, ormai divulgata e tradotta pressoché nella sua interezza.

In questa ottica, particolarmente rilevanti appaiono i suoi divertissement letterari, ovvero anzitutto limericks improvvisati in viaggio (sull’esempio dell’amico di gioventù, il poeta Maciej Slomczynski) e, per l’appunto, i wyklejanki o «ritaglini» – così aveva soprannominato Szymborska i suoi collage. Sono inopinate, fatue estensioni della sua produzione poetica «seria», quegli episodici sconfinamenti nel regno del nonsense, dove la lingua prende imperiosamente il comando e «le rime trascinano l’autore verso l’abisso» (come ammetteva Szymborska con la consueta ironia).

Basati per lo più sulla giustapposizione di un’immagine spesso leziosa e modée attinta alla collezione di cartoline d’anteguerra della poetessa e di una didascalia fulminante, i collage esposti in mostra (ben 85, ora sparpagliati per le varie sale, ora occasionalmente riprodotti in gigantografie) sembrano dunque ricreare l’incontro casuale «di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio» tanto caro a Comte de Lautréamont e, in genere, alla poetica surrealista. Al contempo però il carattere «individuale» dei «ritaglini» suggerisce che questi momentanei accoppiamenti di realtà inconciliabili sulla superficie precaria del cartoncino nascondano allusioni comprensibili soltanto ai destinatari che, magari, riconoscevano nei collage ricevuti per posta una qualche incauta osservazione sfuggita loro in presenza della poetessa. Così queste composizioni appese in cornici invariabilmente identiche, quasi a mimare la loro appartenenza a una collezione ideale, possono essere anche lette come frammenti di dialoghi interrotti o schermaglie a distanza tra Szymborska e i protagonisti della vita intellettuale polacca – tra i corrispondenti più bersagliati da «ritaglini» figurano il critico Edward Balcerzan e il poeta Jarek Mikołajewski; e c’è, inoltre, un omaggio verbovisivo trasmesso dalla poetessa all’amato Woody Allen.

Altrove, il collage, mischiando alto e basso, sublime e dozzinale, condensa una immagine straniante, che verrà poi ripresa in un componimento poetico. È il caso del brutale gorilla che afferma «la scimmia è una canna pensante», in cui i curatori dell’esposizione hanno individuato un legame con la chiusa della poesia Disattenzione: «Il savoir-vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa da noi: / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote».

L’esposizione genovese procede infatti su due binari paralleli: da un lato cerca di dimostrare come questi divertissement apparentemente frivoli non siano in contraddizione con l’opera maggiore della poetessa; d’altra parte utilizza proprio questa ripetuta immersione della Szymborska «artista» nell’immaginario kitsch di rotocalchi e cartoline per spiegare (e assecondare) l’appropriazione che della sua figura, ancor prima che dei suoi testi, è stata fatta da varie voci dei media italiani. Un esito davvero imprevisto, considerando la propensione quasi speculativa di molte poesie di Szymborska, nonché la sua leggendaria ritrosia.

Fa parte dell’allestimento un florilegio di citazioni, riprodotto a parete, da Jovanotti, Roberto Vecchioni e Roberto Saviano, che hanno usato versi della poetessa cracoviana, ora trasformata in (improbabile) icona pop; d’altra parte, però, altre sale sembrano rivolgersi a un visitatore animato da robusti appetiti filologici, capace di apprezzare le varianti testuali di alcune celebri poesie, nonché di godere della lettura di alcuni inediti degli anni Sessanta (non proprio travolgenti, a dir la verità), emersi di recente dalle carte dell’ex marito di Szymborska Adam Wlodek.

Altrettanto raffinata è la ricostruzione degli «esordi» dell’autrice in Italia, prima all’interno dell’antologia di poesia polacca curata da Carlo Verdiani nel 1961 per l’editore Silva e poi, grazie a Vanni Scheiwiller, con la plaquette La fiera dei miracoli, uscita nel 1993 e accompagnata da delicati disegni a matita di Alina Kalczyńska, autrice anche di vari libri d’artista.

Di tutti gli elementi in mostra – dalla veste dattiloscritta degli inediti a quella tipografica dei volumi a stampa – a prevalere visivamente è senz’altro la grafica imprevedibile, coloratissima e strampalata dei collage, con sorridenti donnine che scavalcano d’un balzo la Torre di Pisa, la medesima torre trapiantata nel deserto, oppure i monoliti di Stonehenge tramutati in puzzle e accompagnati dall’imperativo: «Componili da te». D’altronde, a detta di Ruszynek, l’appartamento stesso di Szymborska a Cracovia sembrava progettato secondo i princìpi contrastivi che regolavano i suoi «ritaglini»: l’eleganza dei mobili era bruscamente contrastata da oggetti come un maialino rosa con la coda a manovella, e di fronte al quadro monumentale di Maria Jarema, pittrice di culto dell’avanguardia cracoviana, nonché prima moglie di Kornel Filipowicz, era appesa «una forchetta con i denti fantasiosamente intrecciati, trovata in un mercato delle pulci a Breslavia». Assai azzeccata appare dunque la scelta dei curatori di piazzare all’ingresso della mostra una macchina per scrivere Predom degli anni Ottanta – proprio quell’oggetto insieme amato e odiato che i collage dovevano momentaneamente zittire.


(Alias – Il manifesto, 16 luglio 2023)

di Paola Mammani


Davvero preziosa la tempestiva pubblicazione dell’intervento di Silvia Niccolai su il manifesto di mercoledì 12, intitolato “Gpa, non confondiamo libertà con subalternità”, in risposta all’articolo di Lea Melandri, pubblicato il giorno precedente sullo stesso quotidiano. La subalternità cui la costituzionalista si riferisce è la posizione che molte assumono nei riguardi dei partiti politici e che Melandri esplicita nel dettato stesso del titolo del suo pezzo «La Gravidanza per altri è un’arma che parte del femminismo regala alla destra». Niccolai le ricorda «le molte donne di ogni età e di ogni paese che, del tutto indipendentemente da chi è, è stato, o sarà al governo, sono da sempre contrarie alla surrogazione di maternità». Melandri, che pare sorda a qualunque argomentazione contraria alla gpa, le accusa invece di dare man forte alla destra, svelando dunque che cosa è prioritario nei suoi pensieri: la destra, la sinistra, quella dei partiti. Ma l’invito radicale di Niccolai è che «serve un femminismo capace di criticare le forze politiche e di opinione […] capace cioè di guidare le forze politiche (di destra e di sinistra), anziché di limitarsi a rincorrerle».

È interesse di tutte/i, credo, interrogarsi sulla vittoria delle destre in tanta parte di Europa ed è strano che Melandri non si accorga che anche posizioni come le sue ne hanno favorito la vittoria nel nostro e in altri paesi. L’acquiescenza, se non l’appoggio attivo dei partiti di sinistra all’affitto dell’utero, spacciato come libero dono o semplice transazione, alla prostituzione intesa come lavoro, o addirittura come lavoro di cura, alle pretese LGBTQ+ quando si configurano come negazione delle donne, stanno gettando più di una democrazia occidentale nelle braccia della destra, dalla Spagna a molti stati degli Usa, perché si tratta di posizioni che vanno a cozzare con i sentimenti più intimi e profondi di donne e uomini che sulla dignità delle donne e dei loro figli non sembrano voler fare un passo indietro.


(www.libreriadelledonne.it, 13 luglio 2023)

di Franca Fortunato


La pratica della maternità surrogata ha avuto inizio nel 1976 negli Stati Uniti, quando una donna si rese disponibile a partorire gratuitamente per altri. Un’altra nel 1980, accettando di essere pagata, ha dato inizio alla “maternità surrogata commerciale” di cui poi si pentì per le conseguenze negative sulla sua vita e divenne un’attivista per la sua abolizione. È da qui che inizia il libro Per l’abolizione della maternità surrogata a cura di Marie-Josèphe Devillers, attivista dei movimenti lesbici, e Ana-Luana Stoicea-Deram, attivista per i diritti delle donne. Il libro raccoglie scritti, contributi e testi di donne di ogni parte del mondo e di un uomo gay, attivista per i diritti dei gay, con l’obiettivo di “passare il testimone tra generazioni, paesi e continenti”. Con l’avvento della maternità surrogata, negli Stati Uniti inizia la lotta delle femministe radicali per la sua abolizione. Una lotta che continua al presente. Nel 2015 nasce la “Coalizione internazionale per l’abolizione della maternità surrogata” (CIAMS). Una coalizione globale come lo è diventato il mercato dell’industria della maternità surrogata, utero in affitto o gestazione per altri (GPA), con profitti crescenti per agenzie, cliniche, medici, laboratori, avvocati, intermediari, case farmaceutiche. Si stima che entro il 2025 raggiungerà a livello mondiale i 27,5 miliardi di dollari. Che cos’è la maternità surrogata? È innanzitutto il controllo patriarcale del corpo riproduttivo delle donne con gli uomini che ne gestiscono il mercato e le tecniche di riproduzione il cui traguardo è un “utero artificiale” per lo “sviluppo di un essere umano fuori dal corpo materno” in un mondo senza madri. In quali Paesi è legale e in quali no? Quali i rischi, a breve e a lungo termine, per le “madri surrogate” e le donatrici di ovuli, per lo più giovani, per la somministrazione di pericolosi farmaci ormonali? Domande che nel libro trovano risposte. Che libertà è se una donna, che non desidera diventare madre, si mette a disposizione, dietro pagamento con un contratto formale o meno, “per portare avanti una gravidanza con l’obiettivo di separarsi dal bambino alla nascita, per consegnarlo alle persone che le hanno chiesto di darlo alla luce”, un bambino sano? Che libertà è sottostare alla violenza di distaccarsi emotivamente dalla creatura che si nutre e cresce attraverso la placenta e il sangue della madre naturale? Che libertà è essere disponibili a farsi “vasi vuoti”, “contenitori” di spermatozoi e ovociti assembrati in embrioni da selezionare e testare, facendo scomparire “la donna incinta e il parto”, la relazione madre figlia/o, la madre naturale? È una “libertà spazzatura” al servizio di un’industria che sfrutta le donne e le trasforma in macchine per partorire. “Noi nasciamo, non siamo fabbricati, e nasciamo da una donna”. Si può donare, vendere, un essere umano a “clienti” che hanno il potere di pagare: uomini gay, donne o lesbiche sterili che pensano che il loro desiderio di avere un figlio sia un loro diritto – così non è – e lo vogliono a ogni costo? Come siamo arrivati a questo punto? Dove stiamo andando? Domande esistenziali per noi donne, per le creature nate con questa pratica, che prima o poi scopriranno di essere state comprate e private senza necessità della madre naturale, per l’umanità intera. Domande a cui i vari scritti danno una risposta, rompono lo stereotipo della “madre surrogata felice e altruista” e mettono a nudo la pratica della maternità surrogata perché, al di là se “sia forzata o volontaria, se le donne abbiano o meno il “diritto”, la “libertà”, di vendere il proprio corpo”, è la pratica in sé che è inaccettabile e va abolita. Un libro che fa riflettere e dà consapevolezza.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 13 luglio 2023)

di Francesco Raiola


La Tartaruga ripubblicherà tutta l’opera di Carla Lonzi a partire da una pietra miliare del femminismo “Sputiamo su Hegel e altri scritti”


C’era una mancanza incomprensibile nel mondo dell’editoria italiana, un nome che aleggiava da anni e della quale non si trovavano i libri: quel vulnus era Carla Lonzi. Ci penserà La Tartaruga, marchio fondato nel 1975 da Laura Lepetit, che ha storicamente trattato solo libri scritti da donne, a ripubblicare i suoi scritti a partire da una pietra miliare della saggistica e del femminismo italiano, ovvero “Sputiamo su Hegel e altri scritti”, curato da Annarosa Buttarelli. Ad annunciarlo sui social è stata Claudia Durastanti, scrittrice, giornalista e dal 2021 curatrice del marchio che dopo la morte della fondatrice è stato rilevato da Elisabetta Sgarbi e dalla sua La Nave di Teseo.

Sputiamo su Hegel lo si poteva leggere nelle biblioteche o grazie a una circolazione quasi clandestina, che aveva permesso solo in parte, però, alle nuove generazioni di poter approcciare un testo che è fondamentale per la costruzione del pensiero femminista italiano. Il libro, pubblicato nel 1970, è stato scritto assieme al collettivo femminista di Rivolta Femminile lo stesso con cui nello stesso anno avrebbe pubblicato il Manifesto di Rivolta femminile, basato su un testo elaborato proprio da Carla Lonzi e da Carla Accardi ed Elvira Banotti che raccoglie quelli che sono i punti fondamentali della battaglia femminista.

«La notizia della ripubblicazione delle opere complete di Carla Lonzi è un grande motivo di gioia. Non solo Carla Lonzi è la più importante pensatrice femminista in Italia, ma è stata anche una grande filosofa il cui pensiero è stato spesso escluso dal canone tradizionale. Fino ad ora i suoi scritti erano difficili da reperire e si è davvero corso il rischio che rimanessero accessibili a “poche elette”, perdendo un patrimonio così prezioso per il femminismo – ha detto a Fanpage.it la scrittrice e attivista Jennifer Guerra, autrice di libri come “Il capitale amoroso”, “Il corpo elettrico” e l’ultimo “Un’altra donna”, e profonda conoscitrice di Lonzi – Oggi il femminismo ha raggiunto nuovamente una dimensione di massa, ma spesso chi si avvicina a questo tema si trova disorientata di fronte alla miriade di testi e libri che ne parlano e che spesso ignorano la tradizione teorica italiana o la peculiare storia del nostro femminismo. Spero che la ripubblicazione di Lonzi consenta di rendere il suo pensiero un punto di partenza per costruire una coscienza femminista originale e più radicale, che guardi anche all’eredità che il femminismo degli anni ’70 ci ha lasciato».


(Fanpage.it, 12 luglio 2023)

di Silvia Niccolai


Il femminismo di ogni tempo lotta contro la subalternità delle donne, ma che cosa significa essere “subalterne”? Farsi dettare l’agenda, sia pure per reazione, dalla politica dei partiti, ecco la vera subalternità: non c’è modo migliore di mostrare che la politica delle donne viene dopo, e sta letteralmente sotto, l’unica politica vera e che conta (per le subalterne), cioè quella dei partiti.

Di questa subalternità dà prova chi, come ha fatto Lea Melandri su queste colonne, accusa di dare argomenti alla destra le molte donne di ogni età e di ogni paese che, del tutto indipendentemente da chi è, è stato, o sarà al governo, sono da sempre contrarie alla surrogazione di maternità. Ma bisogna esser grate all’autorevole scrittrice perché ha messo il dito sulla piaga, mostrando un tema di cui sarebbe davvero ora di (tornare a) discutere: quale sarebbe lo spazio di un’autonoma presa di parola femminile se dovessimo ogni volta preoccuparci di modulare questa presa di parola a seconda di chi governa? Dove starebbe la radicalità, in questi esercizi di timorata moderazione, con cui il discorso femminile scade a brutta copia di quello dominante?

Per esempio, invocare l’autocoscienza, come fa Melandri, per poi confondere la surrogazione di maternità (o gpa, gestazione per altri) con l’esistenza di famiglie omogenitoriali, quando alla gpa ricorrono al 90% coppie etero, e per il resto non le “coppie omogenitoriali” ma, solitamente, le coppie maschili, è fare qualcosa di molto simile al populismo. Il quale per l’appunto – a destra come a sinistra – si basa sulla confusione, sull’alzare polveroni e far di tutta l’erba un fascio. A vantaggio di chi? Certo non della Costituzione che pure, a colpi di Bella ciao, di tanto in tanto si ama invocare contro il governo “fascista”.

È in nome della Costituzione che la giurisprudenza, in un percorso complesso, tanto impegnativo quanto luminoso, ha riconosciuto che la gpa contrasta coi valori di dignità e libertà della persona umana (i più alti consessi internazionali, penso tra molti esempi a una dichiarazione del Consiglio Onu per i diritti dei bambini del 2018, la definiscono senz’altro un mercato dei bambini). Per questo non è possibile in quei casi trascrivere in modo automatico e integrale gli atti di nascita. La trascrizione integrale e automatica è funzionale alle esigenze dei mercanti di gpa, poiché riduce “i costi amministrativi e processuali che impediscono la più efficace allocazione delle risorse nel mercato transnazionale della riproduzione” (così, criticamente, la privatista Valentina Calderai), non risponde al diritto del bambino allo status di figlio. Questo è garantito naturalmente nei confronti del genitore biologico e viene realizzato col dovere dell’altro di ricorrere all’adozione in casi particolari.

Soluzione quest’ultima del tutto compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma la Corte di Strasburgo, e certamente non discriminatoria per orientamento sessuale. Sta scritto a chiare lettere ovunque, nella nostra giurisprudenza (ma qualcuna la ha letta?), che il rifiuto della gpa non ha a che vedere con dubbi sull’idoneità genitoriale degli omosessuali, ma col divieto costituzionale di disporre di altri esseri umani per soddisfare i bisogni di taluno, di qualunque natura quei bisogni siano.

Finalmente è dunque stato riconosciuto che una cosa è la gpa, con cui una donna si impegna a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, e altra cosa è la procreazione medicalmente assistita (pma), in cui la donna che si sottopone al trattamento intende diventare madre del bambino che ne nascerà; ed è stato riconosciuto che solo la prima offende il nostro ordine pubblico costituzionale, fatto di libertà, eguaglianza, tutela delle persone vulnerabili (i bambini, in questo caso, di cui gli adulti, surrogate comprese, dispongono). Ora si tratta di fare passi avanti, e per questo serve un femminismo capace di criticare le forze politiche e di opinione se travisano questi importanti arresti giurisprudenziali facendone mazze di una politica difensiva della famiglia tradizionale, come mi pare sia accaduto, e soprattutto capace di essere propositivo e di sviluppare temi e urgenze in maniera autonoma e non reattiva, capace cioè di guidare le forze politiche (di destra e di sinistra), anziché di limitarsi a rincorrerle.

In particolare, a me sembra che, con le cose messe in chiaro sulla gpa, ora siamo a un passo dal riconoscere l’evidenza: tutte le famiglie sono generate da una donna, ed è questa la “essenziale funzione familiare della donna” di cui parla la Costituzione, con un vasto guadagno per tutte (non sta forse qui il vero superamento della “famiglia tradizionale”?), ma anche con l’apertura di questioni molto delicate che andrebbero discusse con la più autentica libertà, cioè autonomia. Per esempio, riformare la legge 40 per autorizzare anche in Italia la pma alle coppie di donne o alle donne singole può chiamare in causa i danni alla salute legati alle tecniche più invasive di eterologa, che allarmano molte, e in specie le ecofemministe.

Parliamone, litighiamo, ma per favore non mettiamoci da sole il bavaglio (questo non si dice perché somiglia a quel che dice la Meloni…). È tempo di pensiero. Certo, ci si può sempre accontentare di confondere libertà con trasgressione, sposando un ribellismo reattivo che ci configge nella nostra subalternità (mi avete voluto madre, ora guardate un po’ io ci sputo sopra e faccio business del mio pancione). Sarebbe però onesto dire, almeno, che proprio sulla confusione tra mero ribellismo e ricerca di libertà corre, da sempre, la “spaccatura” del femminismo moderato e subalterno con quello radicale, il vituperato femminismo della differenza che Melandri dipinge come vecchio e superato, datandolo agli anni Ottanta. Potrebbe ben dire i Settanta, se per questo, quando alcune, per contrapporsi al patriarcato, non trovarono di meglio che chiedere il diritto di abortire a nove mesi e le radicali fecero notare che non si fa politica con richieste irreali come il diritto all’infanticidio. Oggi, per sentirsi libere, si reclama il diritto di vendere o regalare i bambini. Chi mette vino vecchio in otri nuovi?


(il manifesto, 12 luglio 2023)

di Alberto Leiss


Giovedì 13, alle 21,20 è in programma su Rai 3 il film “Nel cerchio degli uomini”, ideato e realizzato dalla regista Paola Sangiovanni e prodotto da Kon-Tiki Film in collaborazione con Rai Documentari (in seguito disponibile su RaiPlay).

Per quasi un’ora e mezzo la macchina da presa scandaglia parole, racconti, scambi di gruppo, confessioni, espressioni dei volti, delle mani, dei corpi di uomini che si interrogano su che cosa sia e che cosa potrebbe essere l’identità maschile. In un mondo cambiato dalle donne che cercano la loro identità, libertà, il loro desiderio. Oltre i condizionamenti, l’oppressione violenta dell’ordine patriarcale.

Il “cerchio degli uomini” è una postura, fisica e dialogica, ma è anche un gruppo, una associazione che esiste da molto tempo a Torino. Alcuni di questi uomini li ho conosciuti nella rete di Maschile plurale. Come hanno raccontato, l’idea di formare il “cerchio” è nata dalla semplice constatazione di come cambia il modo di parlare se sono presenti anche donne: amiche, compagne, mogli.

È scattato il desiderio di approfondire l’esperimento di “parlarsi tra uomini”, non per ritrovare l’agio e le complicità tipiche in certi luoghi “naturalmente” separati, al lavoro, al bar, in palestra, allo stadio o sul campetto da pallone. Ma per scovare i non detti, i non pensati. Provare a mettere in parola i disagi, che si provano proprio in quei luoghi per soli uomini. O uomini soli.

Dopo qualche anno il gruppo ha affrontato anche il nodo, durissimo, della violenza. E questo ha prodotto la volontà di avere a che fare con altri uomini consapevoli di aver agito violenza, e in cerca della capacità di liberarsene. È stato a lungo un “servizio” offerto a maschi che imboccavano volontariamente questo percorso. Oggi, e in forza di leggi recenti come il cosiddetto “codice rosso” (2019), arrivano al “cerchio” anche uomini obbligati a farlo dalle norme. Qualcosa di molto diverso, e problematico.

Ho visto il film a un’anteprima a Roma. Ero molto teso. Ho sempre il timore che presentare pubblicamente queste esperienze possa creare l’equivoco: ecco a voi, finalmente, i “maschi buoni”. In questa pioggia di notizie quotidiane su violenze fisiche e psicologiche contro le donne, di frasi indecenti pronunciate da uomini in delicate posizioni istituzionali, pure esistono da qualche parte. Per esempio in quel “cerchio” di Torino.

Ma il rischio di questo malinteso “edificante” mi sembra che il film lo sappia evitare, come lo evitano i protagonisti. Non aggiungo altro perché temo di non essere obiettivo, trattandosi come ho detto di vecchi e cari amici.

Mi piacerebbe però che il film fosse visto, e discusso. Del resto questa è l’idea sulla quale anche l’autrice ha insistito: farne uno strumento di dibattito pubblico.

Alla presentazione ci sono stati molti spunti per una discussione che la cronaca rende sempre più necessaria. Nel film – è stato detto da qualcuno del “cerchio” – c’è poco un pezzo di storia che è partita da scambi molto intensi col femminismo. Scambio che oggi andrebbe riaperto con le donne impegnate nei Centri antiviolenza, sul tema controverso dei servizi rivolti agli uomini autori di violenza.

Finanziare queste pratiche danneggia il lavoro dei centri per le donne? Come se ne misura l’efficacia? Quanto può la legge, davvero, contro la violenza maschile? Registro, tra le altre, la disponibilità al confronto venuta nell’occasione dalle amiche dell’Associazione Be Free e dell’Associazione D.i.Re.

Credo che il lavoro di chi si mette a tu per tu con la violenza maschile sia irrinunciabile non solo per tentare di cambiare la vita di alcuni, ma – forse ancor più – per aumentare la consapevolezza di tutti.


(Il manifesto – IN UNA PAROLA. La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss, 11 luglio 2023)

di Antonella Mariani


E così, una presunta violenza sessuale diventa argomento di conversazione davanti ai banconi dei bar, nelle cene tra amici, sotto gli ombrelloni. È sempre stato così, si dirà, e nel dramma milanese (perché di dramma si tratta, qualunque sarà l’esito delle indagini e di un eventuale processo) che coinvolge Leonardo Apache La Russa e una – chissà per quanto ancora – anonima ventiduenne, gli elementi per tener desta l’opinione pubblica estiva ci sono tutti. C’è il potere, ci sono i soldi, c’è la politica, c’è la droga. E c’è il sesso, o, meglio, il tema, delicatissimo e che “appassiona” oggi più che mai, del consenso femminile a un rapporto sessuale.

L’opinione pubblica italiana si divide come sempre tra innocentisti e colpevolisti; a seconda anche delle preferenze politiche, i commentatori da bar si collocano di qua o di là. È sempre stato così, si ripeterà, e difatti lo stesso copione era andato in scena nel caso che ha coinvolto Ciro Grillo e tre amici genovesi di cui si sta celebrando il processo in Sardegna. Il cicaleccio però non si ferma ai bar, alle terrazze estive, alle spiagge – già questo, peraltro, suona leggermente osceno.

No, il cicaleccio purtroppo riempie le pagine dei giornali e dei siti web; si nasconde dietro le dichiarazioni più o meno “estorte”, sollecitate o estrapolate, delle amiche o del padre della presunta vittima (anche il padre dell’indagato ha fatto – maldestramente – la sua parte). Dietro le trascrizioni delle conversazioni online della ragazza ancora nella camera da letto di La Russa jr. Dietro i referti degli specialisti che visitarono la giovane alla Clinica Mangiagalli.

Da queste righe, allora, viene un sommesso appello almeno alla sobrietà. Sappiamo quanto costa alle donne denunciare una violenza. Se poi a quella denuncia seguono paginate sui giornali con ogni piccolo particolare della visita medica, delle sostanze chimiche rilevate nel sangue, addirittura delle modalità del rapporto sessuale, allora si capisce che l’intimidazione subita da una colpisce tutte le altre. Anche questa è una violenza: sapersi sotto i riflettori, sentirsi radiografata nei comportamenti e nello stile di vita. Da qui a trasformarsi da vittima a colpevole in un processo mediatico, prima ancora che le indagini siano iniziate, il passo è breve.

Sappiamo peraltro che spesso le “veline” sono trasmesse ai giornali dagli stessi team legali, che intravvedono nella delegittimazione della controparte una buona strategia. Ebbene, i giornali e i siti non sono obbligati, nemmeno o forse a maggior ragione sotto la spinta dell’interesse morboso dei lettori/utenti, a sottostare a logiche estranee a una professione che ha a che vedere con l’informare correttamente, non con il solleticare il voyeurismo del pubblico.

Ci sono diversi codici deontologici e di autoregolamentazione giornalistica, peraltro, che nei casi di violenza sessuale obbligano a fornire solo cronache essenziali, senza indulgere in particolari che non aggiungono nulla se non alimento alla curiosità. Per tacere poi degli sguaiati “commenti” che pretendono di anticipare le sentenze. Noi di Avvenire ci impegniamo a informare su questa triste vicenda, così come in altre circostanze, secondo una linea di sobrietà ed essenzialità. Un conto sono le polemiche politiche, un altro il racconto di un dramma – lo ripetiamo – che tocca gli aspetti più intimi e la dignità delle persone: tutto ciò che conta, solo ciò che serve.


(Avvenire.it, martedì 11 luglio 2023)

di Eliana Di Caro


In alto sulla porta c’è scritto “Primo Presidente della Cassazione”, tale era la certezza che a occupare l’ufficio nel monumentale palazzo dovesse essere un uomo. Certezza infranta e superata il 1° marzo di quest’anno, quando all’unanimità è stata nominata al vertice della giurisdizione Margherita Cassano: è la prima volta di una donna in sessant’anni, da quando cioè è possibile per le italiane partecipare al concorso in magistratura. Un traguardo sottolineato anche dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un passaggio del suo discorso all’Assemblea plenaria del Csm.

Chi è, dunque, Margherita Cassano? Qual è il suo percorso e le sue caratteristiche professionali? Ne parliamo con lei nella sua stanza al “Palazzaccio”. Un sorriso caldo, empatico, comunicativo che nulla toglie a una naturale autorevolezza (nelle scuole la chiamano “attitudine alla leadership”), Cassano è figlia d’arte. Il padre Pietro era magistrato a Firenze – dove lei è nata nel ’55 – ma originario di un paesino della provincia di Matera, San Mauro Forte. Della Basilicata, regione in cui la Presidente torna con regolarità, era anche la mamma, la professoressa Anna Materi: veniva da Grassano, prima breve tappa del confino di primo Levi (seguita da Aliano). Una generazione cresciuta con sacrifici pari alla forza di volontà, costretta a emigrare fin da subito: «Dopo le elementari, a dieci anni, mia mamma fu mandata dai miei nonni, insieme ai fratelli maggiori, a studiare a Firenze da un parente, mentre mio padre frequentò il liceo classico nel convitto nazionale a Matera, poi si laureò in Giurisprudenza a Napoli». Si spiega, dunque, «quanto sia forte, sia in me che in mia sorella Alessandra (è oncologa, ndr) la consapevolezza della storia impegnativa dei miei genitori e come abbia influito sulla nostra formazione, soprattutto nell’idea di doverci impegnare al massimo negli studi e fornire alla collettività ciò che potevamo dare». L’esempio del padre è cruciale nella scelta di Margherita Cassano: Pietro ha celebrato tutti i processi di terrorismo, dalle Brigate Rosse di Curcio all’Ordine Nuovo dell’omicidio Occorso, nel ruolo di Presidente della Corte d’Assise tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’80. «Credeva profondamente nel lavoro, è stato sempre impermeabile ai fattori emotivi esterni, per me incarnava la figura del magistrato per eccellenza: terzo, imparziale, molto sereno e senza pregiudizi di alcun tipo», afferma, scegliendo con cura ogni parola. «Ha vissuto per anni sotto scorta, ma non ha mai lasciato trasparire nessuna forma né di turbamento né di preoccupazione», aggiunge. La Presidente si laurea in diritto privato nel giugno del ’78 con Lapo Puccini; tra i professori che hanno inciso sulla sua preparazione compaiono Giorgio Collura, Giuliano Amato, Berardino Libonati, Paolo Grossi. Vince il concorso nel ’79 e nel maggio dell’anno seguente, a neanche venticinque anni, comincia a lavorare alla Procura della Repubblica di Firenze. «Ho avuto l’opportunità di avere maestri veramente speciali come Piero Vigna e Gabriele Chelazzi che all’epoca si occupavano di terrorismo. Successivamente hanno seguito le indagini relative all’attentato di via Georgofili del 27 maggio ’93». La quotidianità incalzante della Procura si palesa subito, non appena la giovane uditrice prende possesso delle funzioni: «Mi misero di turno immediatamente, dopo 24 ore. Ci furono una rivolta in carcere e delle indagini su una brutta rapina, poi venti giorni più tardi il caso di omicidio volontario di un ex fidanzato in danno di una donna… ricordo il sopralluogo, l’ansia del momento, all’epoca non c’erano gli strumenti tecnici di oggi, bisognava fermarsi a lungo sul luogo del delitto, far fotografare i particolari e ricostruire con correttezza la scena del crimine». A quegli esordi farà seguito nell’81 l’ingresso nel gruppo criminalità organizzata e reati in materia di stupefacenti con la collega Silvia Della Monica, a cui si aggiunge Giuseppe Nicolosi. Per anni curano le indagini in questo settore con l’obiettivo finale (tra gli altri) di favorire – grazie all’aiuto del servizio sul territorio – il reinserimento di tante persone che commettevano reato in materia di droga a causa dello stato di tossicodipendenza, per le quali il carcere era il luogo meno opportuno. Promuovemmo il cosiddetto “tavolo tecnico sulle tossicodipendenze” coinvolgendo rappresentanti delle forze dell’ordine, la prefettura, il Comune di Firenze con l’Assessorato alla Sicurezza e ai servizi sociali, associazioni di volontariato: un’esperienza bellissima».

Il cammino verso la Corte di Cassazione è lungo e si sostanzia di tante altre esperienze che fanno di Margherita Cassano una magistrata dal profilo articolato e completo. Dal ’91 entra in vigore la legge della direzione distrettuale antimafia, guidata sempre da Vigna: ne fa parte fino al ’98 («la Toscana era un territorio privilegiato per le possibilità economiche che offre ai gruppi criminali…omicidi, sequestri di persona») quando viene eletta al Consiglio Superiore della Magistratura. «Ricordo che a darmi la notizia fu Elena Paciotti (la prima togata all’interno del Csm nel 1986, ndr), mi chiamò per complimentarsi e mi fece molto piacere». I quattro anni spesi nell’organo di autogoverno dei giudici, istituito per legge nel 1958, le lasciano un’utile conoscenza della macchina organizzativa. In particolare, ricorda, «a orientare le mie scelte successive è stata l’esperienza quale componente effettivo della sezione disciplinare, che svolgeva attività giurisdizionale ed era presieduta dal professor Verde, giurista raffinato». Nel 2003 Cassano approda in Cassazione, diventandone più tardi componente delle sezioni unite. Sono passati oltre ventitré anni dall’ingresso in magistratura, e qui il suo lavoro è completamente diverso, l’attività è quella del giudice, la definisce «una riconversione» che risulta «stimolante: mi è sempre piaciuto studiare». È assegnata alla prima sezione penale «con maestri grandissimi come Torquato Gemelli, Giorgio Santacroce, Gianni Canzio e poi un magistrato come Giovanni Silvestri: le sue sentenze sono una pietra miliare per tutti noi». La diversità delle funzioni svolte offre una riflessione sulle caratteristiche che si devono avere in ciascun ambito e sull’opportunità o meno della cosiddetta “separazione delle carriere”. Margherita Cassano risponde in modo netto: «Esiste un complesso di valori fondamentali che devono appartenere al magistrato in quanto tale, non esistono differenze di doti per fare il pubblico ministero e per fare il giudice. Alcuni prerequisiti sono essenziali per entrambi a partire dalla consapevolezza della grandissima responsabilità che nell’esercizio di ogni funzione ci compete. Noi svolgiamo un servizio in favore dei cittadini, dobbiamo impegnarci per svolgerlo al meglio con attenzione al rispetto dei diritti fondamentali della persona e delle sue esigenze difensive». Chi sceglie questo lavoro deve essere guidato dal «rifiuto di partire da preconcetti o idee precostituite, per il pubblico ministero nella ricostruzione del fatto e per il giudice nella lettura degli atti. Bisogna sempre essere aperti alle tesi contrapposte che vengono sottoposte al nostro esame, e soprattutto adottare la metodica del dubbio come regola logica imprescindibile». Eppure le perplessità, anche in una parte dell’opinione pubblica, permangono. «È con l’esempio quotidiano che si dimostra l’adesione a questi valori, bisogna inverarli costantemente. Non basta proclamarli» conclude Cassano risoluta.

In lontananza si sente un brusio di voci, una riunione è alle porte, il tempo è praticamente scaduto. Il percorso della Presidente, però, non è completo: nel 2016 lascia “momentaneamente” la Cassazione per andare a presiedere la Corte d’Appello di Firenze. Dopo quattro anni arriva un nuovo primato: torna nella Suprema Corte come Presidente aggiunto, cioè una specie di vicepresidente. Anche in questo caso è la prima donna in quel ruolo, l’anticamera della nomina dello scorso 1° marzo. «Io firmo la Presidente. Ce lo dice l’Accademia della Crusca, e anche la nostra sensibilità» commenta. Sul tema dei diritti delle donne – che nella magistratura vanta un passato spinoso, visto il divieto a partecipare al concorso addirittura sino al 1963 – Cassano tiene a trasmettere un messaggio alle nuove generazioni: «Dico sempre alle giovani colleghe che è importante avere memoria storica, essere consapevoli del fatto che la situazione può sempre cambiare, quindi a ciascuno di noi compete la responsabilità di non vanificare l’impegno culturale di tante donne e uomini che hanno reso possibile il conseguimento dì traguardi non individuali ma collettivi. Valorizzare in ogni attività professionale il ruolo della donna è un fattore di democrazia e un arricchimento perché garantisce una pluralità di punti di vista. Un’altra cosa ritengo doveroso sottolineare: le donne che ricoprono ruoli ni precedenza appannaggio esclusivo degli uomini devono avere il coraggio di essere sé stesse e mantenere la propria identità culturale, senza cercare, come forma quasi di insicurezza, di adeguarsi a modelli maschili».


(Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2023)

di Giuseppe Cassini*


Al crollo dell’Urss il politologo Arbatov, grande esperto d’America, aveva ironizzato: «Vi faremo una cosa terribile, vi priveremo del Nemico». Si sbagliava. Washington individuò presto nuovi nemici, dando ragione alla profezia dell’ex-ambasciatore Usa a Mosca, George Kennan: «Anche se l’Urss sprofondasse nell’oceano domani, il complesso militare-industriale degli Usa resterebbe intatto in attesa di inventarsi altri avversari». Ecco, infatti, Bush invadere l’Afghanistan (e poi l’Iraq) con due ambiziose operazioni di nation building senza fare appello all’Onu; preferì ricorrere alla Nato, ossia a quell’Alleanza atlantica creata nel 1949 per difenderci dai sovietici.

Che c’entrava con l’Afghanistan, distante 5000 km dall’Atlantico? Chi conosceva il Paese meglio di tutti era l’ambasciatore russo a Kabul, Zamir Kabulov, il quale ripeteva gli americani: «I militari della Nato si stanno alienando le simpatie degli afghani, con cui comunicano dalle canne dei mitra protetti dalle corazze degli Humvee. I sovietici sbagliavano allora e le forze Nato sbagliano ora ad uccidere tanti civili. La Nato sta vincendo le battaglie ma perderà la guerra». Infatti. La banale realtà è che, crollata l’Urss, la Nato doveva riciclarsi e volentieri accettò il nuovo ruolo affidatogli da Washington: esportare la democrazia.

Un compito non proprio adatto per un organo istituito per altri fini. Se è vero che la funzione crea l’organo, qui è stato l’organo a creare la funzione, nella peggior tradizione delle burocrazie.

Subito si mossero i fabbricanti d’armi: negli Usa finanziarono persino un Committee to Expand Nato, in modo da aprire un nuovo gigantesco mercato per i loro prodotti. Da allora la Nato ha raddoppiato il numero di Stati membri: sempre più a est, fino a vellicare il “ventre molle” della Russia, ossia Ucraina e Georgia. Nel 2008 un diplomatico americano dal naso fine, William Burns, era ambasciatore a Mosca. Il 1° febbraio inviò a Washington questo dispaccio (pubblicato grazie a Wikileaks): «Le aspirazioni di Ucraina e Georgia di entrare nella Nato toccano qui un nervo scoperto e generano serie preoccupazioni per la stabilità della regione. La Russia non solo si sente accerchiata, ma teme anche conseguenze incontrollabili e lesive della propria sicurezza. L’Ucraina in particolare, abitata da tanti russi contrari ad aderire alla Nato, potrebbe incorrere in una guerra civile. In tal caso Mosca dovrebbe decidere se intervenire: una decisione che non vuole dover affrontare». E sottolineava: «La graduale svolta dell’Ucraina verso l’Occidente è una cosa; accoglierla de jure tra i nostri alleati militari è ben altra cosa».

Come mai Burns inviava a febbraio quell’avvertenza? Perché sapeva quale piatto la cucina neocons dello sprovveduto presidente Bush intendeva ammannire al Vertice della Nato fissato per aprile a Bucarest. Quel Vertice del 2008 fu molto più che l’usuale appuntamento annuale. Vi parteciparono 48 capi di Stato o di governo, incluso Putin, perché a latere del Consiglio Nato si teneva anche il Consiglio Nato-Russia e la riunione del Partenariato per la Pace. Davanti a quella platea Putin venne umiliato dall’invito a Georgia e Ucraina ad entrare nella Nato. Nella Dichiarazione finale, infatti, fu inserita la frase seguente (par. 23): «La Nato accoglie con favore le aspirazioni euro-atlantiche di Ucraina e Georgia di farne parte. Oggi abbiamo convenuto che i due Paesi diventeranno membri della Nato».

Era stato l’entourage di Bush a pretendere l’inserimento di quel paragrafo, contro le resistenze degli europei (e dell’ambasciatore Burns). Non solo, poco dopo gli Usa piazzarono in Polonia una batteria di missili interceptors, con la giustificazione che servivano a parare un’aggressione missilistica dall’Iran (sic).

Sarebbe bene tener conto di questi e di altri precedenti: non per giustificare ma per capire l’aggressiva paranoia del Cremlino. L’Occidente proclama il «diritto» (irrealistico) di Kiev di accedere alla Nato in base al principio (capzioso) che rifiutarlo sarebbe – parole di Stoltenberg – «una violazione dei nostri principi di autodeterminazione dei popoli». In base al Trattato, infatti, può aderire all’Alleanza «qualsiasi Stato europeo in grado di contribuire alla sicurezza dell’area del Nord Atlantico», ma non si vede come l’Ucraina e la Georgia possano contribuire alla «sicurezza del Nord Atlantico». Tutt’altro.

Ora la Nato si appresta a riunirsi a Vilnius, una città a due passi da Mosca e uno da Minsk. A maggior ragione, riproporre al Vertice di invitare l’Ucraina nell’Alleanza sarebbe l’ennesimo errore. Finché ci ostiniamo a metterlo nero su bianco, la maggioranza dei russi – ritenendosi a torto o a ragione minacciata – sosterrà la guerra in corso e finché la maggioranza dei russi sosterrà la guerra in corso, la pace non sarà possibile. Significativo è un recente sondaggio del Pew Research Center in Russia: in dieci anni i sentimenti anti-americani sono cresciuti dal 32% al 71% della popolazione.

Non aver ascoltato le avvertenze dell’ambasciatore Burns nel 2008 è costato parecchio e costerebbe ancor più adesso. Nominato nel frattempo direttore della Cia, Burns, forte della sua comprovata arte diplomatica è stato di recente a Kiev per parlare chiaramente a Zelensky (sarebbe la rara volta in cui la Cia agisce per calmare le acque invece che pescare nel torbido). È noto che i diplomatici vengono allenati a capire e a dosare le «ragioni dell’altro». Anche noi, che abbiamo un bagaglio diplomatico, auspichiamo che nel prossimo Vertice di Vilnius non siano adottate precipitose decisioni sul futuro status dell’Ucraina, che priverebbero il negoziato di un importante elemento di trattativa.


(*) Giuseppe Cassini è stato un diplomatico italiano. Ha lavorato in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU), Somalia e infine come ambasciatore in Libano. Autore di Gli anni del declino. La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra. Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013).


(Il manifesto, 7 luglio 2023)

di Graziella Tron


Toti Rochat, nata a Pavia nel 1937 in una famiglia protestante, è stata una attiva e impegnata pensatrice e scrittrice. Punto di riferimento per diverse generazioni di donne e uomini. Ci ha lasciato il 27 giugno 2023.


Quando una persona cara se ne va, siamo soliti dire, giustamente, che ha lasciato un grande vuoto. Forse, per chi ha conosciuto Toti Rochat da vicino, è più giusto dire che la notizia della sua malattia, del suo ricovero e della sua morte ha lasciato un grande dolore. Vuoto e dolore non sono sinonimi. Accanto al dolore di chi la piange, si sente nascere spontaneo anche il sentimento della riconoscenza, in tutti i suoi significati. Riconoscenza per averla avuta accanto per tanti anni, in tante diverse occasioni, e gratitudine per essere state sempre da lei “riconosciute e riconosciuti”. Non un vuoto, dunque, ma una grande pienezza. Quando, nei primi anni ’90, Toti Rochat è tornata a vivere sul territorio della Val Pellice, ha saputo avvicinare, armonizzare e mettere in relazione, in forme differenti, molteplici realtà legate alla ricerca e alle pratiche del movimento delle donne. Ha arricchito il suo lavoro di guida presso “il barba”, l’ufficio di promozione di itinerari valdesi del Centro culturale (Ccv), trasformandolo in feconde occasioni di incontro fra realtà diverse, delle quali non ha mai smesso di occuparsi.

Non si possono non ricordare, accanto al suo, anche i nomi di Donatella Sommani e di Francesca Spano. Donatella, che dal 1996 aveva accettato di dirigere il Centro, al termine della direzione del pastore Giorgio Tourn; Francesca, fino al 2007 insegnante presso l’Istituto Buniva a Pinerolo e membro del Comitato direttivo del Ccv. Fu insieme a Donatella, e con l’apporto di altre sei disposte a impegnarsi in ricerche d’archivio, che si procedette, sotto la guida di Toti, alla ristrutturazione del Museo della donna del Serre, in val d’Angrogna, già allestito fin dal 1990 su iniziativa della locale Unione femminile. Ne sono scaturite, avvalendosi anche di lettere, fotografie, diari, alcune biografie di donne vissute in quell’area geografica. Accomunate alle donne valdesi dalla familiarità con il testo biblico, anche le storiche, le teologhe e predicatrici del primo femminismo statunitense e le valdesi del Medioevo e della Riforma.

Grazie alla collaborazione con Francesca e ai fecondi legami da lei stabiliti con la città e la sua vita pubblica, politica e culturale, nasce alla metà degli anni ’90 a Pinerolo il “Gruppo donne per la ricerca teologica”, formato da cattoliche, protestanti, delle comunità cristiane di base, oppure senza alcuna relazione con le chiese. Un luogo di incontro nel quale “pensare in presenza”, sul “pensiero della differenza” e sul percorso di fede, partendo da sé e dalla propria esperienza.

Tutto questo è stato riassunto da Toti Rochat stessa nella postfazione al libro del quale era coautrice: La Parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi (Claudiana, 2007), uscito quando Francesca, che a quel progetto teneva moltissimo, era già stata portata via da un male devastante. Uno degli ambienti, il luogo magico per eccellenza, in cui prima o poi le donne di questi diversi gruppi si sono ritrovate negli anni, nella gioia dello stare insieme di fronte alle montagne è stata la casa di Toti de “la Ramà”, nella borgata Martel di Angrogna, appartenente alla famiglia Bonnet.


(Riforma, n. 27, 7 luglio 2023)


Segnaliamo il Video della regista Lidia Meriggi, girato per conto delle donne della Comunità cristiana di base di Pinerolo: Toti Rochat. La saggezza del cuore. https://youtu.be/hK4zqcYTvTQ


Nota di Doranna Lupi:


Toti nel suo racconto parla molto del gruppo donne di Pinerolo. Il nostro gruppo si definiva Gruppo donne per la ricerca teologica. Nato alla fine degli anni ’80, ne hanno fanno parte donne valdesi, cattoliche, delle comunità cristiane di base e non credenti. Il gruppo ha mantenuto fin dall’inizio fedeltà al desiderio di incontrarsi per pensare in relazione. Luogo di produzione di pensieri e di relazioni, pertanto luogo politico, ha cambiato profondamente l’atteggiamento di ognuna di noi, il modo di vivere, di rapportarsi al sociale, di stare nelle relazioni. Una ricchezza esportata, oltre che nel privato, nei contesti dove ognuna lavora e opera. Abbiamo lentamente ruminato-rimuginato su alcune pratiche elaborate dal pensiero della differenza come il partire da sé, l’affidamento, il riconoscimento di autorità, la riconoscenza, la restituzione. Alla luce di queste pratiche abbiamo tentato di elaborare in forma teologica i nostri vissuti di fede: le immagini di Dio, il Dio delle donne, la preghiera, la nostra lettura biblica