di Roberto Ciccarelli


Intervista. Parla Renata Puleo, già dirigente scolastica e oggi socia dell’Associazione lavoratori scuola (Alas) che partecipa alla mobilitazione contro la digitalizzazione imposta dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): «Serve una critica all’uso capitalistico delle piattaforme digitali impiegate anche nella didattica in funzione di una loro concezione democratica, solidale e conviviale»

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di luddismo. Cosa rispondete? Più che altro questa è una critica all’uso capitalistico della tecnologia in funzione di una sua concezione cooperativa, solidale e conviviale. Ma voglio cogliere la provocazione e rilanciarla. Dato che è inevitabile usare le macchine parlerei al limite di un «luddismo riflessivo». Si tratta cioè di imparare a governare le macchine e il tempo. Non è la macchina che gestisce il mio tempo, ma sono io che decido quando la macchina mi serve.

Si parla anche di diffondere luso del software libero nelle scuole. Crede sia possibile farlo oggi? Non sono un’informatica, come tutte le persone della mia generazione sono approdata tardi all’uso delle tecnologie digitali. Ma conosco la storia e i problemi del software libero. Al fondo mi sembra che ci sia un problema di cambio di una mentalità strutturata, non solo nei giovani, ma anche negli adulti. Il trattamento amichevole che riserva Google, o lo stesso registro elettronico, è seduttivo, mentre il software libero ha bisogno di formazione. Dev’essere più semplice da usare, è vero. Ma è questo che andrebbe insegnato nella scuola. L’accesso e gli strumenti tecnici ed intellettuali vanno garantiti a tutti. In fondo i docenti affrontano problemi assai complessi, è il loro lavoro. Che va valorizzato e riconosciuto diversamente da quanto accade oggi. La cooperazione con gli studenti potrebbe sviluppare le tecnologie liberate. Sarebbe un modo per garantire il ruolo democratico e pluralistico della scuola pubblica.

Quali sono gli obiettivi della mobilitazione alla quale partecipate? Cercare di mantenere i collegamenti tra scuole, docenti, genitori e studenti organizzando un coordinamento sulla digitalizzazione problematica del Pnrr. E poi lavorare sul dialogo istituito all’Albertelli, e in altre scuole in Italia, tra il consiglio di istituto, quello dei docenti e le organizzazioni studentesche su questo e altri problemi. Dalla pandemia la vita democratica nella scuola sembra che si sia spostata online. Sempre meno è possibile usare le assemblee sindacali (quando si tengono) per fare informazione. Non è facile quando quasi tutto il sistema mediatico è indifferente o attacca chi critica la trasformazione neoliberale che ha investito la scuola e il mondo della riproduzione sociale. E propone di sperimentare le alternative. Oggi è importante restare svegli.


(Il manifesto, 27 giugno 2023)

di Maurizio Caverzan


Femminista storica sebbene abbia frequentato la scuola delle Orsoline, già regista nella casa di produzione del Pci e fondatrice del collettivo Studio Ripetta di Roma, scrittrice e autrice di Basta lacrime. Storia politica di una femminista 1995-2020 (Vanda edizioni), Alessandra Bocchetti, esponente del “femminismo della differenza”, è delusa dalla sinistra, Pd compreso, per l’ambiguità in tema di maternità surrogata e diritti civili: «Il mercato dei corpi», dice, «un tempo si chiamava schiavismo».

Alessandra Bocchetti, che cos’è il femminismo della differenza?

È un femminismo che crede profondamente che una donna sia differente da un uomo per il corpo, per la sua esperienza e per la sua storia, di uguale uomini e donne hanno solo la dignità che spetta a tutti coloro che condividono la vita su questa terra, compresi gli animali. Con la coscienza della propria differenza la donna non è più a fianco dell’uomo ma di fronte. Uomini e donne si guardano, finalmente, da questo si dovrà lavorare per un modo nuovo di stare insieme per governare i beni comuni. A questo cambiamento lavora il femminismo della differenza.

In che cosa si diversifica da altre correnti femministe?

Adesso si dice che ci sono tanti femminismi… Che vuole che le dica… Senza l’idea di differenza, per me, non è dato femminismo. Comunque sì, c’è il femminismo della parità, quello che io chiamo femminismo di Stato. Il cui punto di arrivo è far avere alle donne quello che hanno già gli uomini. Questo femminismo vuole riparare un’ingiustizia ma là si ferma. È un progetto corto. Sinceramente, io voglio di più e meglio di quanto ha un uomo oggi e non do affatto valore ai privilegi di cui ancora gode, anzi. E poi ci sono i femminismi delle giovani donne con uomini accanto, e questi mi sembra che prendano energia e senso soprattutto dall’essere antagonisti, essere contro. Manca, a mio avviso, l’idea di governo, manca un progetto. E poi c’è il transfemminismo, che guardo con stupore, dove quello che le donne possono fare non si deve nominare. Non si può parlare di partorire, di mestruazioni, di allattamento perché sennò sei discriminante e poco accogliente. Fatto sta che il risultato è non nominare quello che un uomo non può fare. E l’uomo, con il suo corpo chiuso, resta la misura. Questo trovo che sia il patriarcato peggiore, quello che buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra, perché la sua verità è che le donne, quelle biologiche, le vorrebbe cancellare dalla faccia della terra, definitivamente.

Molte sigle del femminismo internazionale hanno accolto con favore la proposta di legge di Fratelli dItalia di proclamare il ricorso allutero in affitto reato universale, lei cosa ne pensa?

Ho poca dimestichezza con le leggi. Su questa proposta se ne dicono tante: che non si può fare, che è anticostituzionale, che è ridicola… Per quanto mi riguarda mettiamola così: non vorrei che in nessuna parte del mondo una donna fosse costretta a fare del suo corpo un contenitore di figli altrui. E quando mi si dice che una donna è libera di fare del suo corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri.

Come valuta il fatto che i partiti di sinistra e il Pd in particolare con una segretaria donna abbiano una posizione poco chiara su questi temi?

Sinceramente non me lo spiego. Non riconosco la mia sinistra e non mi spiego come possa una femminista essere favorevole alla maternità surrogata. Senta, io sono stata comunista e ancora oggi penso che il comunismo abbia fallito non perché fosse una cattiva idea, ma perché era un’idea troppo alta, troppo nobile per il cuore umano, che nobile non è. Non siamo stati capaci di costruire una società dove tutti abbiano ciò di cui hanno bisogno senza sfruttare nessuno, né credo lo saremo mai e me ne rammarico. Ero una ragazza borghese, educata dalle orsoline fino a diciott’anni. Mi sono scritta alla cellula [del Pci, Ndr] della facoltà di lettere perché mi era insopportabile l’idea dello sfruttamento dei corpi, del lavoro alla catena di montaggio. Sono scesa in piazza per il corpo dei metalmeccanici contro il lavoro alienante della fabbrica. Vuole che io possa essere favorevole all’utero in affitto? Esiste lavoro più alienato? Una donna che per bisogno mette a disposizione di coppie danarose il suo corpo, che convive per nove mesi, sentendolo crescere dentro di sé, con un perfetto sconosciuto – e guai se non fosse così – uno sconosciuto che non ha di suo neanche mezzo gamete e per questo lei deve essere imbottita di ormoni, per scongiurare il rigetto, per tutto il tempo della gravidanza, ormoni, si sa, altamente cancerogeni. A lei, mi dicono, arriveranno tra i 15 e i 20.000 euro, per i più cinici basta fare i conti, per nove mesi, 24 ore su 24: una miseria. Tutta l’impresa costerà invece circa 200.000 euro se non di più, soldi che finiranno in altre tasche. Ma non è questo il punto. Si fa mercato. C’è un contratto. Che invenzione il contratto, una vera magica potenza che può rendere lecito ciò che lecito non è. Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo.

La soluzione potrebbe essere la Gpa solidale e altruistica ora promossa dalle Famiglie Arcobaleno? Si eliminerebbe il mercato…

Non c’è che da leggere questa proposta con animo sereno. Il pagamento diventa “congruo compenso” e la povera donna rischia una mancia. Il mercato entra sempre, non si fa mettere da parte tanto facilmente. Di questi tempi l’interesse ha la meglio sui buoni sentimenti, ahimè, quasi sempre. Mi meraviglia che la Cgil caldeggi questa proposta, o forse no, non più di tanto, in fin dei conti la Cgil caldeggia anche la regolamentazione della prostituzione, altro bel lavoro alienato. È un lavoro come un altro, dicono. Ma allora è meglio farne un altro, dico io.

Perché ha suscitato scandalo limpugnazione della Procura di Padova delle trascrizioni dei bambini figli di coppie composte da due mamme?

L’impugnazione della Procura di Padova ha fatto scandalo perché se questo gesto non fosse tragico sarebbe ridicolo. Un risveglio improvviso della Procura, perfettamente a tempo con la discussione della gravidanza per altri come reato universale. Ai sindaci non era dato per legge trascrivere quegli atti di nascita con due genitori dello stesso sesso, lo hanno fatto lo stesso, chissà come gesto provocatorio, esemplare, coraggioso, gesto di sfida… Fatto sta che ne risulta un pasticcio che può provocare molto dolore. Personalmente, quando si fa politica sulla pelle della gente la politica mi fa orrore, la temo.

Di fronte alla decisione della Procura di Padova, facendo leva su un certo sentimentalismo, si è detto che si creano orfani per legge.

Per far passare la maternità surrogata si mettono avanti i bambini e il loro già esserci, anche questo è puro cinismo. Ma questa strategia non riesce a farmi dimenticare chi questi bambini ha messo al mondo e in quali condizioni e perché. Si raccontano falsità su falsità, si tenta la via del patetismo. Non è vero che l’aspirante genitore non possa andare a prendere i bambini a scuola, basta un permesso e così per le visite in ospedale. È falso che i bambini con un genitore non abbiano diritto al pediatra, al rimborso delle medicine, alla scuola. Ma di una cosa questi bambini avranno sicuramente bisogno forse più degli altri, avranno bisogno di un amore speciale, che dia loro la certezza di essere ben accolti. Sarà duro per loro il racconto della nascita, racconto che spesso i bambini chiedono, una nascita “scomposta” fra due o tre soggetti attivi e diversi: ovulo, seme, utero, impossibile riunirli in una prossimità e la prossimità per un bambino è un grande valore.

La sentenza della Cassazione del dicembre scorso prevede in questi casi ladozione in casi particolari: perché non va bene?

La strada c’è ed è quella dell’adozione. Il genitore non biologico deve adottare, solo che la procedura per farlo è troppo lenta, come sempre e come tutto in questo Paese, e anche poliziesca per di più. L’aspirante genitore viene trattato come un indiziato e questo non va bene. Tutto questo deve essere semplificato, velocizzato e fatto con serenità.

Perché i genitori arcobaleno non accettano di percorrere questa strada e provano a mettere sotto accusa lordinamento italiano strappando dalla Corte europea, che peraltro lo ha negato, il consenso alle trascrizioni e la liberatoria per la surrogazione?

Perché il movimento ha scelto un confronto duro.

Ideologico, quindi?

Assolutamente sì, non c’è nulla di nuovo. Arrivano a rifiutare l’adozione perché hanno scelto una linea dura. Non c’è altro da dire.

Ma così non si va da nessuna parte.

Esatto.

La proposta della ministra Eugenia Roccella di applicare una sanatoria per i bambini nati con la maternità surrogata rischia di indebolire la proclamazione dellutero in affitto reato universale?

È una possibile mediazione, ma sono perplessa anch’io. L’iniziativa della sanatoria non mi convince, ma d’altra parte è necessario trovare una soluzione. Non so se lo sia la sanatoria. Ci troviamo in una situazione nella quale il movimento arcobaleno ha scelto una posizione rigida, non accettano nemmeno la stepchild adpotion.

Come, a suo avviso, si potrà arrivare a una sintesi accettata dalla maggioranza dellopinione pubblica su questi temi?

La madre è una sola, è quella che ti ha fatto nascere, è quella che ha pronunciato quel sì necessario ad aprirti le porte del mondo. È quella da cui sempre ti aspetti il bene, anche se la odi, e se il bene non arriva, perché può succedere, allora sono guai per te e per la società dove vivi, probabilmente porterai la tua ferita per tutta la vita. Un tempo le donne facevano figli anche quando non volevano. Ma adesso, che le donne sono libere, per entrare nel mondo ci vuole il loro “sì”. Difficile cancellare la madre, essere due in un corpo lascia tracce indelebili. Due donne che vogliono essere madri dei figli che solo una di loro ha partorito non mi spaventa, perché le donne sanno amare. Solo auguro loro che il loro amore reciproco sia durevole. Mi spaventa invece quando due uomini vogliono essere padri dei loro figli senza madre. Sono sincera. Temo che non basti entrare in sala parto e farsi mettere il bambino sul petto. Non basta rubare la scena per cancellare la madre. Che potrà succedere quando verrai a sapere che quel suo “sì” è stato pagato?


(La Verità, 24 giugno 2023)

di Franca Fortunato


Nella notte tra il 13 e il 14 giugno davanti alla costa greca si è ripetuta la strage di Steccato di Cutro con un naufragio rivelatosi una ecatombe (564 dispersi, 104 sopravvissuti, 82 cadaveri recuperati). Questa volta il mare era calmo non in tempesta, non pioveva, non c’era vento ma faceva un caldo soffocante. Sul ponte di quel peschereccio erano ammassati l’uno sull’altro solo uomini, stipate “come sardine in scatola” nella stiva c’erano invece solo donne, minori e bambine/i (oltre cento). Moriranno tutte/i ingabbiati in quella stiva che diventerà la loro tomba. Per ore, col motore in avaria, il peschereccio è rimasto a galleggiare sulle acque placide del mare, a bordo non c’era né cibo né acqua ma sei cadaveri, tra cui un ragazzo di sedici anni, uccisi dagli scafisti dopo una rivolta per il cibo e l’acqua. Come a Cutro, la Guardia costiera, anche se allertata, prima da Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, poi dalla ong Alarm Phone, non interviene se non dopo sedici ore dalla prima comunicazione e dodici dalla seconda. Un’eternità. C’è chi piange, chi prega, chi si dispera. Si susseguono le telefonate satellitari alla ong per chiedere disperatamente aiuto. La prima arriva da una giovane siriana, anche lei dispersa nel naufragio. L’ultima alle ventitré, quando ormai ogni speranza sembra perduta. «Sento che sarà la nostra ultima notte di vita». Quando la Guardia costiera greca è arrivata, tutti e tutte avranno pensato che ormai erano in salvo. Avranno pianto, gioito, ringraziato il loro Dio. Senza distribuire giubbotti salvagente la motovedetta ha agganciato il peschereccio a una fune per trainarlo. Manovra azzardata. Il barcone si è ribaltato e in un attimo si è inabissato con tutto il suo carico umano. Non so nemmeno immaginare le condizioni in cui quelle vittime innocenti chiuse nella stiva hanno vissuto quelle interminabili ore di attesa né tantomeno la loro morte tanto è atroce e crudele. Una morte ingiusta. So solo che sento un grande dolore per quelle donne, quelle madri annegate con le loro creature e quei minori come il tredicenne siriano Lakub che il padre, la madre e le sorelle avevano “prescelto” per allontanarlo dalla guerra e mandarlo in Svezia dai nonni, “per una vita migliore”. Era partito con un amico di famiglia che è sopravvissuto. Avevano attraversato, come tutte/i, il deserto e conosciuto l’inferno libico. Della maggior parte di loro non conosceremo mai i volti, i nomi, le storie, le paure, le speranze, i desideri e i sogni che li avevano sostenuti e spinti ad attraversare il Mediterraneo su quel barcone carico fino all’inverosimile. Per loro nessuna bandiera a mezz’ asta, nessun lutto europeo, nessun funerale a reti unificate, nessuna operazione internazionale di soccorso. Per loro, come per quelli di Cutro, solo parole prive di pietas: «non dovete partire», «il mare ha dei confini, e quei confini possono e devono essere custoditi» in difesa della fortezza Europa di cui la Grecia «è lo scudo», come disse la presidente Ursula von der Leyen nel 2020. Ad ogni naufragio (27.000 vittime accertate dal 2014) è un pezzo di umanità che si inabissa insieme a quei figli di un dio minore, la cui vita non conta. E perché dovrebbe contare? Contro di loro, l’Europa porta avanti da anni una guerra, combattuta con fili spinati, muri, respingimenti e rimpatri forzati, mancati soccorsi o tardivi, criminalizzazione delle ong, fiume di denaro per tenerli nei lager libici e nei centri di detenzione turchi. Quando la guerra conta più degli esseri umani, la morte più della vita, come sta avvenendo anche in Ucraina dove soldati ucraini e russi si stanno massacrando in una guerra fratricida, è l’umanità che muore.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io donna”, 24 giugno 2023)

di Alessandra Pigliaru


Si intitola Maleficia. Storie di streghe dallAntichità al Rinascimento (Carocci, pp. 281, euro 27) ed è un volume scritto da Marina Montesano, docente di storia medioevale all’Università di Messina e collaboratrice di queste pagine. Disponibile per la prima volta nel 2018 in lingua inglese per l’editore Palgrave Macmillan, il lavoro ora tradotto in italiano dall’autrice si prefigge di dimostrare come antiche credenze e descrizioni della magia nella letteratura sia greca che romana abbiano inciso sulla composizione dell’immagine della stregoneria in epoca moderna, quindi sulla caccia alle streghe.

L’impianto del testo segue con rigore scientifico le fonti storiche, avviando il ragionamento da alcuni luoghi simbolici che l’autrice chiama «prototipi» e che restituiscono in particolare diverse eppure irrinunciabili figure della storia culturale occidentale: Circe, Medea ma anche Teoride, o ancora lamie, arpie e empuse, tenendo presente il depositarsi di significati relativi a parole che per Marina Montesano (il 23 giugno alle 18, ospite all’Aquila con Franco Cardini al Festival delle città del Medioevo per presentare il volume Medioevo globale. Avventurieri, viandanti e narratori a Samarcanda, edito da Piemme) sono da osservare nella loro valenza semantica, come nel caso di «pharmaka» e «veneficia».

Pratiche necromantiche, pozioni mortali, abominevoli incantesimi, empietà varia ma anche pallore infernale, insieme alla Grecia anche Roma aveva i suoi «riferimenti» riguardo la magia: per esempio in Canidia, Sagana, Folia e Veia, fino alla tessala Eritto e Meroe. Utile la connessione che l’autrice fa nella comprensione di parti della cultura latina e legislazione romana sopravvissute nell’alto Medioevo e nei codici giuridici dei «barbari», seguendo anche qui l’ordito e la stratificazione di alcune parole emblematiche; per esempio «strix» (e le meno classiche «striga» e «stria») tradotta dal francese «estrie», trovando le numerose occorrenze nella letteratura medioevale.

In Maleficia, dalle prime litanie incarnate fino ad arrivare al sistema dei processi e alle mitologie, si può scorgere la differenza femminile, parabole dell’eccedenza la cui forza è stata di presentarsi – avrebbero detto decenni dopo – come «soggetti imprevisti della storia».

Se allora è cruciale osservare il solco imperituro delle fonti, delle narrazioni scelte, per conoscere a fondo la radice di tanta sottocultura contemporanea, è altrettanto decisivo attraversare le riscritture di quelle stesse vicende.

Dalla parola diretta delle protagoniste che acquistano una voce, grazie soprattutto al lavoro di disseppellimento attuato negli anni dal femminismo e dai saperi critici delle donne a proposito di stregoneria; a tal proposito si può citare Luisa Muraro e, per altri versi, Silvia Federici.


(Il manifesto, 23 giugno 2023)

Intervista a Graziella Bernabò di Luciana Tavernini


Graziella Bernabò, saggista e critica letteraria, si è a lungo dedicata ad Antonia Pozzi. Dopo aver collaborato a diverse iniziative su di lei – quali convegni universitari, film, percorsi sul territorio – e dopo un decennio di lavoro d’archivio con Onorina Dino, finalizzato alla pubblicazione integrale della sua opera, ha completamente riscritto, per la nuova edizione, la biografia Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia. Un libro che, con un linguaggio chiaro e avvincente, ci permette di cogliere appieno l’intensità del suo percorso di vita e l’originalità della sua poesia, ormai apprezzata a livello mondiale. Con Bernabò, che si è occupata in modo simile anche di Elsa Morante, parleremo del metodo personale con cui scrive biografie e della complessità e ricchezza della figura di Pozzi come donna e come poeta.


Qual è l’immagine di fondo di Antonia Pozzi che scaturisce dalla tua nuova biografia e qual è la caratteristica principale della sua poesia, che tu hai definito come “poesia della relazione”?

Pozzi era interiormente libera rispetto agli schemi sociali, culturali e letterari degli anni Trenta, tutti improntati al maschile; perciò allora fu poco compresa.

Nel libro non ho voluto nasconderne l’inquietudine e mi sono tanto interrogata sulla sua morte volontaria a soli ventisei anni; ma non ho appiattito la sua vita sulla tragedia del suicidio, su cui pesarono oltretutto varie circostanze negative, alcune delle quali storiche. Antonia, infatti, soffriva moltissimo per le nefandezze fasciste, soprattutto per le sciagurate “leggi razziali”. Non a caso nella lettera di addio ai genitori scrisse: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite».

In realtà Antonia Pozzi, di per sé, era molto innamorata della vita e del mondo, come risulta da vari scritti. Per esempio, ragazzina di quattordici anni, nel diario parlava della «gioia» di sentirsi dentro «un’anima palpitante, ridente, nostalgica, appassionata». Elvira Gandini – sua amica-sorella e importante testimone per il mio libro – ne ricordava sia i momenti di tristezza sia quelli di spensieratezza e allegria. Se la sua vitalità si mutò spesso in dolore e sgomento, ciò dipese, oltre che dalla sua spiccata sensibilità, dall’intervento inibitore del mondo esterno: famiglia, uomini da lei amati e amici del suo ambiente intellettuale. Nonostante tutto, Pozzi era capace di una grande forza interiore nel restare fedele al proprio più autentico sentire e alla poesia, con la quale lo esprimeva e in cui trovava una vera libertà.

Apparteneva a una famiglia aristocratico-borghese; tuttavia alla frequentazione dei salotti preferiva il contatto con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, e il rapporto schietto e solidale con gli altri, compresi i contadini di Pasturo (suo paese d’elezione) e, a un certo punto, le famiglie operaie dei sobborghi di Milano Sud. A tutto questo si ispirava nella poesia e nella fotografia, praticate entrambe a partire dai diciassette anni.

La sua è la poesia per eccellenza della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi non solo con le persone ma anche con la natura, i luoghi, gli animali, e perfino le cose, le «cose sorelle» (Largo).

In parallelo, partendo dalla concretezza di esperienze personali, Pozzi riesce a dar voce con ampio respiro alle profondità del cuore umano, alla ricerca di un significato autentico della vita e della scrittura; a un certo punto anche alle tragedie della storia: quelle di sempre, cioè la guerra e la miseria dei ceti sociali più svantaggiati.

La sua produzione poetica era tanto ricca nei contenuti quanto colta e stilisticamente raffinata.

Perché allora la sua poesia non fu compresa nel suo contesto intellettuale e come avvenne la sua scoperta?

Pozzi frequentava il gruppo che all’Università Statale faceva riferimento al filosofo Antonio Banfi, estraneo alla retorica fascista e aperto alla più moderna cultura europea. In tale ambito era apprezzata per i suoi saggi, compatibili con le idee del Maestro, mentre era del tutto ignorata per la sua poesia.

In realtà la filosofia di Banfi, il cosiddetto “razionalismo critico”, bandiva drasticamente il sentire in genere e, per pregiudizi storici comuni anche agli ambienti più aperti, quello della donna in particolare. Perciò, con suo grande dolore, le veniva rimproverato ciò che oggi più apprezziamo in lei: la «troppa vita» che aveva nel «sangue» (Sgorgo), che in realtà era la premessa della sua totale apertura all’esistente, base della sua “poesia della relazione”.

In seguito Roberto Pozzi esercitò sugli scritti della figlia una tremenda e sistematica censura, per consegnarne un’immagine corrispondente a una vieta e convenzionale visione della donna.

Negli anni Quaranta Eugenio Montale ne valorizzò la poesia, ma con qualche riserva, perché non poteva leggerla nella sua integralità e autenticità. La vera riscoperta di Antonia Pozzi è iniziata perciò solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando Onorina Dino, creatrice e responsabile dell’Archivio Pozzi di Pasturo, oggi trasferito presso il Centro Internazionale Insubrico dell’Università di Varese – ha reso disponibilI i manoscritti per pubblicazioni sempre più ampie.

Perché hai sentito il bisogno di riscrivere la tua biografia e quali sono le principali novità?

Prima di tutto ho voluto dialogare con la ricca bibliografia su di lei apparsa negli ultimi anni.

Fondamentale è stato inoltre il lungo lavoro con Onorina Dino per le edizioni integrali delle poesie, delle lettere e dei diari. Un lavoro condotto accuratamente ex novo, che mi ha chiarito l’entità della censura di Roberto Pozzi sulle carte della figlia e che mi ha anche consentito – grazie all’esame delle lettere indirizzate ad Antonia e di quelle giunte alla famiglia dopo la sua morte – di comprendere meglio la sua straordinaria capacità di relazione e la fisionomia di alcune persone per lei importanti: genitori, parenti, amiche e amici.

Inoltre nuove testimonianze mi hanno permesso di circostanziare ulteriormente momenti ed episodi della sua vita e lo stesso suicidio.

Ho poi aggiunto un capitolo sul percorso editoriale delle poesie, mettendo in evidenza come gli amici banfiani le abbiano sottovalutate anche dopo la sua morte.

Scrivendo le biografie di Elsa Morante e di Antonia Pozzi hai elaborato un tuo personale metodo di lavoro. Puoi parlarcene?

Ho voluto scrivere due vere e proprie biografie, non due biografie romanzate. A questo proposito concordo con quanto scrisse Virginia Woolf nell’articolo del 1939 L’arte della biografia: «La biografia è la più ristretta di tutte le arti […] essa impone delle condizioni, e queste condizioni sono che deve basarsi sui fatti […] fatti che possono essere confermati da altri oltre l’artista. Se costui inventa fatti […] come li inventa un artista e tenta di combinarli con fatti dell’altro tipo, essi si distruggono a vicenda.

Perciò sono sempre partita dalle testimonianze e dai documenti, incrementandoli da un’edizione all’altra, nella persuasione che una biografia onesta debba intendersi umilmente in fieri. Peraltro ho voluto scrivere due biografie letterarie, in cui l’attenzione principale è rivolta ai testi delle autrici.

Nel mio lavoro ho sempre cercato di muovermi tra empatia e distanza. L’empatia è fondamentale in una biografia, ma non può coincidere con una semplice proiezione personale, che porterebbe a una destoricizzazione delle vicende e a fraintendimenti. Comunque non mi sono negata una soggettività di scrittura: sono partita da forti emozioni personali di fronte ai romanzi di Morante e alle poesie di Pozzi; non ho rinunciato alla passione della ricerca e della narrazione; e ho utilizzato le categorie interpretative in modo ben diverso rispetto alle biografie tradizionali. Per tutto questo sono stata sempre sorretta dal confronto con il gruppo di Storia della Libreria delle donne di Milano. Mi sono stati molto utili anche libri come Scrivere la vita di una donna di Carolyn Heilbrun e Tu che mi guardi, tu che mi racconti di Adriana Cavarero, e l’idea di Gianna Pomata che la storia delle donne debba partire dalla ricostruzione delle loro “reti di relazioni”.

Quali sono gli aspetti più originali e interessanti della poesia di Pozzi rispetto al suo tempo e all’oggi?

Pozzi era lontana dalla poetica dell’«assenza», dalle rarefazioni e dalle oscurità degli ermetici, ma non si identificava nemmeno con la disciplinata poesia affidata ai soli oggetti dell’amico Vittorio Sereni.

La sua è la poesia del radicamento forte e vivo nel reale e, pur nell’ambito di una rigorosa ricerca formale, testimoniata dalle molte varianti presenti negli autografi, procede attraverso immagini sensoriali e materiche, quindi con un linguaggio metonimico di grande impatto emozionale. In questo modo Pozzi supera la frattura tra parola e corpo tipica degli autori del suo tempo, e riesce a esprimere un inedito e libero immaginario di donna, anticipando quella “poesia del corpo”, del corpo vivo e desiderante come del corpo negato, che sarà fondamentale in alcune grandi autrici del secondo Novecento, quali Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli e Alda Merini.

Corporea e viva è anche la sua rappresentazione della natura, in particolare della montagna, soprattutto della Grigna di Pasturo, che appare come una mitica montagna madre, ma non perde mai una fisica concretezza e una forte capacità di accogliere e rigenerare.

Questa aderenza fenomenologica alla natura incontaminata e alla sostanza profonda del vivere costituisce oggi, in un pianeta sempre più sconvolto, un richiamo decisamente attuale: non a caso la poesia di Antonia Pozzi è oggetto di grande interesse da parte dell’ecocritica.

E interessante per il nostro difficile presente è anche il graffiante linguaggio espressionistico delle poesie in cui condanna le guerre del suo tempo e la desolazione delle periferie milanesi.


BIBLIOGRAFIA

Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Áncora, Milano 2022, 350 pagine, 26 euro

Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci Roma 2012, 340 pagine, 26 euro, 2016 euro 11,90, e-book 10,71 euro

Graziella Bernabò, Come leggere «La Storia» di Elsa Morante, Mursia, Milano 1991, 160 pagine

Graziella Bernabò – Onorina Dino – Silvia Morgana – Gabriele Scaramuzza (a cura di), …e di cantare non può più finire… Antonia Pozzi (1912-1938), Atti del Convegno, Milano, 24-26 novembre 2008, Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Filologia Moderna – Dipartimento di Filosofia, Viennepierre, Milano 2009, 433 pagine

Adriana Cavarero, Tu che mi leggi tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, ora Castelvecchi, Roma 2022, 192 pagine, 17,50 euro

Carolyn Heilbrum, Scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990, 172 pagine

Gianna Pomata, “La storia delle donne: una questione di confine” in “Il mondo contemporaneo, vol. X (Gli strumenti della ricerca), tomo II/2 (Questioni di metodo)”, a cura di Nicola Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 1434-69

Antonia Pozzi, A cuore scalzo. Poesie scelte (1929-1938) Graziella Bernabò e Onorina Dino

(a cura di), Áncora, Milano 2019, 128 pagine, 12 euro, e-book 9,99 euro

Antonia Pozzi, Mi sento in un destino. Diari e altri scritti, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), Áncora, Milano 2018, 157 pagine, 18 euro, e-book 9,99 euro

Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), Áncora, Milano 2015 (ristampa 2017), 464 pagine, 27euro, e-book 19,99 euro

Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, Áncora, Milano 2014, Graziella Bernabò e Onorina Dino (a cura di), 390 pagine, 26 euro, e-book 9,99 euro

Virginia Woolf, “L’arte della biografia”, in Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, il Saggiatore, Milano 2011, pp. 389-395


Film

Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, Il cielo in me – Vita irrimediabile di una poetessa-Antonia Pozzi (1912-1938), 67’, Italia 2014

Ferdinando Cito Filomarino, Antonia, 1h e36’, Italia 2015

Marina Spada, Poesia che mi guardi, 50’, Italia 2009


(Leggendaria n° 158/2023, pp. 23-24)

di OIVD – Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne


L’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle Violenze contro le Donne) dialoga con Luciana Tavernini e Marina Santini della Libreria delle donne sulla loro storia e le loro pratiche femministe. Introduce Doranna Lupi.



YouTube, 9 maggio 2023

di Reem Alsalem*


Ginevra, 22 maggio 2023 – Reem Alsalem, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, ha dichiarato oggi che le minacce e le intimidazioni contro le donne che esprimono le loro opinioni sul sesso e sull’orientamento sessuale sono profondamente preoccupanti. Nell’attuale situazione che vede disaccordi tra alcune attiviste per i diritti delle donne e attivisti transgender in un certo numero di paesi del Nord del mondo, Alsalem ha messo in guardia riguardo al la violenza contro le donne e l’intimidazione contro le persone che esprimono opinioni diverse.


Secondo la relatrice speciale ONU, «la discriminazione basata sul sesso e sull’orientamento sessuale è vietata dal diritto internazionale e regionale sui diritti umani. Sono preoccupata per la progressiva riduzione delle possibilità di riunirsi e/o esprimersi pacificamente chiedendo rispetto per i propri bisogni basati sul loro sesso e/o orientamento sessuale che sto verificando in diversi paesi del Nord del mondo per le donne, le organizzazioni femministe e i loro sostenitori.

Proteggere i raduni legittimi delle donne, il loro diritto di riunione, la loro libertà di parola e garantirne la sicurezza a fronte di intimidazioni, coercizioni o tentativi di metterle a tacere è un compito cruciale delle forze dell’ordine. Laddove le forze dell’ordine non sono riuscite a fornire le necessarie garanzie, abbiamo assistito a episodi di abusi verbali e fisici, molestie e intimidazioni tese a sabotare o a far saltare le loro iniziative, nonché a impedire di intervenire alle donne che volevano interloquire con i loro avversari.

Sono turbata dalle frequenti campagne diffamatorie contro le donne, le ragazze e i loro sostenitori a causa delle loro convinzioni contro le discriminazioni sessuali e di orientamento sessuale. Tacciarle di essere “naziste”, “genocide” o “estremiste” è una tattica di aggressione e intimidazione per impedir loro di parlare e di esprimere le proprie opinioni. Queste azioni sono profondamente inquietanti, perché hanno lo scopo sia di terrorizzarle e di costringerle al silenzio, sia di incitare all’odio e alla violenza contro di loro. Sono atti che compromettono gravemente una partecipazione dignitosa delle donne e delle ragazze alla vita pubblica.

Sono preoccupata anche per il modo in cui in alcuni paesi si interpretano le disposizioni che criminalizzano l’incitamento all’odio per una serie di motivi, tra cui l’espressione di genere o l’identità di genere. Le donne e le ragazze hanno il diritto di discutere qualsiasi argomento senza subire intimidazioni e minacce di violenza. Sono questioni importanti per loro, in particolare se si riferiscono alla loro identità innata, che è vietato discriminare. La facoltà di avere ed esprimere opinioni in ambito di diritti basati sul sesso e sull’identità di genere non dovrebbe essere delegittimata, banalizzata o respinta.

Secondo il diritto internazionale, ogni restrizione alla libertà d’espressione dovrebbe attenersi strettamente agli standard dei diritti umani in materia di legalità, necessità, proporzionalità e avere uno scopo legittimo. Anche coloro che non sono d’accordo riguardo ai punti di vista di donne e ragazze su identità di genere e sesso hanno diritto a esprimere la propria opinione. Tuttavia nell’esprimersi non devono minacciare la sicurezza e l’integrità di quelle che contestano e con cui sono in disaccordo. Restringere pesantemente la facoltà di critica di donne e uomini in ambito di diritti fondati sull’identità di genere e sul sesso viola i fondamenti della libertà di pensiero e di espressione ed equivale ad agire una censura ingiustificata o generalizzata.

Particolarmente preoccupanti sono le varie forme di ritorsione contro le donne, tra cui censura, persecuzioni legali, licenziamenti e ritorsioni economiche, rimozione dalle piattaforme social, cancellazioni da dibattiti e conferenze e rifiuto di pubblicare articoli di ricerca e le conclusioni degli stessi. In alcuni casi, le donne politiche vengono sanzionate dai loro partiti, anche con minacce o con la destituzione vera e propria».


(*) Reem Alsalem è la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, le sue cause e conseguenze. I relatori speciali fanno parte dell’organismo di esperti indipendenti del Consiglio dei diritti umani detto Procedure speciali, con mandato di indagare, monitorare e riferire su questioni relative ai diritti umani. Le esperte e gli esperti delle Procedure Speciali operano su base volontaria, non sono funzionari delle Nazioni Unite e non sono remunerati per il loro incarico, che svolgono a titolo individuale e indipendente da qualsiasi governo o organizzazione.


(ONU – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani, 22 maggio 2023. Traduzione nostra – Documento originale: https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/05/allow-women-and-girls-speak-sex-gender-and-gender-identity-without)

di Clara Jourdan


Lettera inviata a La Stampa il 17 giugno 2023 e non pubblicata.


Ho letto con interesse l’articolo di Lucetta Scaraffia che tenta una breve ricostruzione storica del femminismo dal Novecento a oggi (Il femminismo non difende più le donne perché nega la specificità dei generi, La Stampa 25 maggio 2023) a partire dalla nota affermazione di Eric Hobsbawm «che l’unica rivoluzione vittoriosa del Novecento è stata quella delle donne». Fa piacere che la studiosa riconosca l’importanza storica del movimento delle donne, tuttavia trovo sbagliata l’idea che lei avanza sul femminismo «che ha preso il sopravvento nel secondo dopoguerra»: «ottenere la parità […] diventare come gli uomini».

L’autrice – come molti e molte non femministe – confonde il femminismo del movimento delle donne con l’interpretazione divulgata dai mass media e fatta propria dalle istituzioni (femminismo di stato), che lo intendono come un movimento per la parità, appunto, per un superamento dello svantaggio storico del sesso femminile commisurato al sesso maschile. In realtà non è stato e non è questo il femminismo per chi ha vissuto e vive in prima persona il movimento che si è diffuso dagli anni Sessanta in poi e ha portato alla trasformazione del mondo citata all’inizio. È stato proprio il disagio rispetto all’emancipazione, in cui una donna era libera “nonostante” fosse una donna, a spingere alcune a riunirsi tra donne a parlare, del disagio e del desiderio di essere libere “perché” si è donne. Con questa pratica, chiamata autocoscienza, è cambiato il rapporto di molte donne con sé stesse, con le altre e gli altri e con il mondo: si è scoperta l’esistenza della libertà femminile e la possibilità di un senso libero della differenza sessuale. Così si è originato quel movimento che si trova dappertutto, non solo in Occidente.

Il femminismo essendo un grande movimento comprende idee e posizioni diverse, anche in contrasto tra loro. È stato così fin all’inizio (per esempio sul rapporto con la legge), ma questo non va inteso come uno svilupparsi di correnti, o “movimenti” che esprimono un evolversi ideologico, come sembra pensare Lucetta Scaraffia, saldamente ancorata all’idea di parità come motore del femminismo contemporaneo: «Questo tentativo delle donne di diventare “un uomo come gli altri” – scrive – si è esteso successivamente alla cancellazione dell’identità sessuale. Nell’ultima fase femminista, infatti, si è cercato di rendere più evidente e sicura la parità proponendo una cancellazione dell’identità sessuale biologica». Certamente ci sono donne e femministe che sostengono tale posizione, anche in relazione con uomini attivisti, ma questo non va assolutizzato in “fasi” seguendo una impostazione teorica maschile: si tratta del continuo cercare e significare la realtà, che caratterizza il femminismo dalle sue origini e che porta a discussioni e conflitti anche aspri tra donne. Il moltiplicarsi di aggregazioni e differenze tra donne è un arricchimento e un allargamento del movimento. Una donna nel femminismo cerca la libertà, a partire da sé e in relazione.


(www.libreriadelledonne.it, 23 giugno 2023)

di Eleonora Porcu*


La gravidanza crea un legame profondo e indissolubile, che viene spezzato con la consegna del bambino ai committenti. Le ragioni della scienza 


I sostenitori della gravidanza surrogata (o gestazione per altri) considerano questa procedura come una terapia per l’infertilità disponibile nell’armamentario della Procreazione medicalmente assistita. In realtà questa procedura non ha nulla di terapeutico e non può essere considerata un progresso scientifico bensì la cessione temporanea di un organo, l’utero. Infatti, per definizione, la gravidanza surrogata è una forma di riproduzione in cui una donna (definita madre surrogata, gestante d’appoggio, gestante per altri o portatrice gestazionale) provvede alla gestazione per conto di una o più persone committenti al quale/ai quali, dopo il parto, consegnerà il nato cedendo i diritti genitoriali attraverso un vero e proprio contratto tra le parti interessate che stabilisce anche la forma della prestazione in lucrativa (con compenso) o altruistica (con “ragionevole” rimborso spese). Di fatto, chi sostiene la legittimità o l’opportunità di questa prestazione riproduttiva dovrebbe sapere che l’utero non è meramente un contenitore-incubatore intercambiabile ma è il raffinato strumento di comunicazione tra due esseri umani che si parlano in modo singolare e irripetibile costruendo un legame indissolubile tra gestante e feto che contribuirà a costituire non solo il corpo ma anche la struttura psico-affettiva del nuovo individuo. In effetti il feto riceve dalla gestante non solo il nutrimento ma esiste tra loro uno scambio di ormoni, di varie molecole, di cellule che attraverso la placenta entrano nella circolazione sanguigna della madre col fenomeno del micro-chimerismo andando a risiedere stabilmente all’interno di un tessuto, entrando a far parte integrante degli organi della gestante. Inoltre, attraverso il processo del cosiddetto imprinting materno-fetale, il nascituro percepisce le emozioni della madre, naturale o surrogata, costruendo una memoria a livello biochimico, epigenetico e somatico e modellando le strutture fondanti della personalità nella struttura psico-neuroendocrina. In conclusione, è un dato di fatto che vi è un dialogo molecolare continuo tra l’embrione e la madre fin dai primissimi giorni di gestazione. La gestante surrogata inevitabilmente vivrà la gravidanza in modo diverso da una madre naturale, ripetendosi che il bambino che cresce dentro di lei non è suo, che non lo potrà tenere e, comprensibilmente ergerà barriere per non affezionarsi. Il senso di accoglienza limitata potrà essere recepito dal bambino. Dal punto di vista psicologico le maggiori criticità si sono verificate nella madre surrogata al momento del distacco dal bambino per la difficoltà di “consegnare” il figlio surrogato al/ai committenti. La madre surrogata è certamente la persona fragile che rende questa pratica discutibile. La maggior parte delle madri surrogate, oltre al compenso finanziario, chiede di avere una relazione calorosa con i genitori previsti come parte della famiglia. La grande maggioranza dei genitori genetici rifiuta e vuole cancellare questa parte della storia del loro bambino, e questa cancellazione può portare a un disagio molto profondo per la madre surrogata. Da non dimenticare che nelle gravidanze surrogate vengono segnalati nella letteratura scientifica maggiori incidenze di complicanze gravidiche come diabete gestazionale, ipertensione gestazionale, preeclampsia, distacco di placenta, parto pretermine, basso peso alla nascita, emorragie post-partum. Sono stati riportati anche casi di isterectomia post-partum. Abbiamo il diritto di esporre una persona a questi rischi per soddisfare il nostro desiderio di un figlio genetico o semigenetico? La crescente industria riproduttiva internazionale, non sempre al servizio dei pazienti, in caso di insuccesso delle tecniche tradizionali, propone con sconcertante disinvoltura il passaggio dal concepimento extracorporeo della classica provetta al successivo cambiamento di ovuli e spermatozoi con quelli di donatori, seguito, se la gravidanza ancora tarda ad arrivare, dalla proposta di cambiare l’utero. Questa deriva sta trasformando la Procreazione medicalmente assistita in Procreazione medicalmente sostituita. Ma sostituire l’utero significa sfruttare donne con vari gradi di indigenza e umiliare la loro dignità. Una società civile a misura d’uomo deve affrancare le donne dal commercio del loro apparato riproduttivo, che costituisce una moderna forma di schiavitù femminile, con i mercanti di riproduzione che comprano gli uteri delle donne indigenti riducendole a contenitori-incubatori magari da abbandonare, a “prodotto” finito e consegnato, come accadde alle madri surrogate nepalesi durante il catastrofico terremoto del 2015. Ma non è solo lo sconcio del mercimonio a rendere non cedibile l’utero: l’utero non può essere ceduto neppure a un parente come presunto gesto oblativo proprio per la relazione unica e irripetibile che si instaura tra il feto e la donna che possiede l’utero nel quale il feto risiede temporaneamente, relazione che rischia di minare i rapporti tra consanguinei suscitando la competizione sulla titolarità del ruolo materno. Sradicare il vissuto prenatale di questa relazione gestante-feto significa infliggere una ferita perpetua nel nuovo nato e in chi lo ha dato alla luce. Nessuna giurisprudenza al mondo può regolamentare, misurare, censire, valutare gli scambi biologici dinamici, le emozioni e le tracce cellulari permanenti che restano nei due corpi e nelle due menti alla fine di quella intensa relazione. La pulsione a realizzare una qualche forma di genitorialità può diventare un desiderio tormentoso e doloroso per una coppia che tuttavia non deve mai dimenticare i diritti del bambino tanto desiderato. E il primo diritto di un bambino è conoscere la propria origine e non essere usato come un genere di consumo ottenuto a ogni costo.


(*) Eleonora Porcu è medica chirurga specialista in ostetricia e ginecologia, professoressa dell’Università di Bologna, membro del Consiglio superiore di Sanità


(Avvenire, inserto È vita, 22 giugno 2023)

di Marina Terragni


Sulla questione della possibile incostituzionalità del disegno di legge in discussione alla Camera abbiamo interpellato la costituzionalista Silvia Niccolai, ordinaria di Diritto costituzionale all’Università di Cagliari che studia da tempo la questione della gestazione per altri.


Il cosiddetto reato universale di surrogazione di maternità potrebbe essere incostituzionale?

Vi sono al contrario buone ragioni per ritenere che si tratti di una soluzione del tutto compatibile col nostro ordinamento costituzionale, cosa che peraltro lascia impregiudicata la valutazione politica sull’opportunità di adottarla.

Quali ragioni?

Anzitutto l’ipotesi della punibilità in Italia per fatti commessi all’estero è prevista in generale dal Codice penale (art. 7) ed è già operante: ad esempio per reati di violenza sessuale e tratta di esseri umani. In questi casi in accordo con convenzioni internazionali, ma la presenza di una previa convenzione internazionale non è richiesta dall’art. 7.

Potrebbe valere anche per la gestazione per altri?

La GPA consiste nella programmata separazione di un bambino dalla madre di parto al momento della nascita e nell’esercizio da parte di adulti di un complesso di poteri nei confronti di una creatura inerme. Per il nostro ordinamento costituzionale, così come per la stragrande maggioranza dei Paesi al mondo e per gli orientamenti di molti organismi internazionali, si tratta di una pratica disumana. Discussioni accademiche sul diritto delle donne di autodeterminarsi e la comprensione verso chi desidera un figlio a ogni costo non devono celare che, nella realtà delle cose, la GPA è commercio di bambini e di status parentali. Data la gravità e la natura del fenomeno vi sono, almeno in linea di principio, i presupposti affinché la legge penale nazionale sia applicata a fatti commessi all’estero come già accade ad esempio per i reati di sfruttamento della prostituzione. In particolare la struttura transfrontaliera del fenomeno, che si realizza con il cosiddetto turismo procreativo, può far apparire ragionevole e proporzionata questa soluzione.

La legge potrebbe colpire retroattivamente anche chi ha già avuto dei figli da utero in affitto?

Evidentemente no. Ogni bambino già nato (anzi già solo concepito, forse già solo commissionato fino al giorno di entrata in vigore della nuova fattispecie) non vedrà i suoi committenti interessati dalle nuove previsioni. Anche successivamente all’eventuale entrata in vigore delle nuove norme la violazione del divieto non avrebbe di per sé ricadute sugli status familiari e/o sui modi di acquisirli: il genitore biologico resterebbe ovviamente tale e quello intenzionale resterebbe tenuto a intraprendere i passi necessari per assumere i propri impegni verso il bambino (oggi: adozione in casi particolari). È innegabile che, di fatto, la consapevolezza di andare incontro a una sanzione potrebbe scoraggiare il genitore intenzionale dal fare questi passi ma l’argomento, come si dice, “prova troppo”. Esso dimentica molte cose: chi intraprendesse la GPA con le nuove norme sarebbe pienamente consapevole delle conseguenze cui va incontro sia verso il bambino sia verso l’ordinamento; lo scopo della nuova legge è scoraggiare le persone a intraprendere la GPA in modo che nessun bambino nasca più da questa pratica. Non esiste alcun diritto a diventare genitori e tanto meno a diventarlo con la GPA. Non ci si può nascondere che il tema dei diritti dei bambini è spesso invocato per legittimare la GPA. Personalmente ritengo che proprio una chiara presa di posizione contro il fenomeno, quale quella rappresentata dalla proposta oggi in discussione, agevolerebbe il legislatore a regolamentare la posizione dei bambini nati da GPA, sviluppando le soluzioni, molto accurate, individuate dalla giurisprudenza.

Non vi è il rischio che la nuova legge sia discriminatoria?

Il divieto già in vigore non discrimina e vale per tutti coloro che fanno ricorso alla GPA indipendentemente dal loro orientamento sessuale. Come tale non sarebbe discriminatoria la sua estensione.

Questa legge potrebbe riguardare anche le donne che ricorrono a fecondazione eterologa all’estero?

In nessun modo. La donna che intraprende l’eterologa è la stessa che diventerà madre del bambino che nascerà, mentre la madre detta “surrogata” si obbliga a lasciar portare via la creatura che ha partorito. Sono due cose diverse.

E se si trattasse di GPA cosiddetta “altruistica”, senza alcun compenso (casi peraltro rarissimi)?

Come ha chiarito di recente la Corte di Cassazione (sentenza S.U. 28162/2022) il «valore fondamentale della dignità umana» è offeso in ambo i casi, per questo la GPA è vietata dalla nostra legislazione «in qualsiasi forma».

Secondo alcuni è inutile che un singolo stato “universalizzi” il divieto: semmai il governo dovrebbe operare nelle sedi internazionali.

L’una cosa non esclude l’altra. Anzi: è evidente che un divieto universale in Italia rafforzerebbe enormemente la capacità del nostro Paese di operare in modo influente nelle sedi internazionali. Lo testimoniano anche iniziative esistenti per la creazione del reato universale, numerose e senza colore politico: recentemente (Dichiarazione di Casablanca del 6 marzo 2023) un centinaio di firmatari di 76 diversi Paesi ha chiesto agli Stati di «sanzionare le persone che ricorrono alla GPA sul loro territorio; sanzionare i loro cittadini che ricorrono alla GPA al di fuori del loro territorio; adoperarsi per l’adozione di uno strumento giuridico internazionale che porti all’abolizione universale della GPA».


Feministpost, 20 giugno 2023 – (https://feministpost.it/italy/utero-in-affitto-reato-universale-la-sinistra-contro/)

di Corrado Speziale


Un corteo partecipatissimo, denso di temi e motivazioni, sabato 17 giugno ha percorso le vie del villaggio Torre Faro nel segno del dissenso verso la realizzazione del ponte sullo Stretto.

Un successo che premia il movimento No ponte, nell’insieme dei comitati che lo compongono e che hanno fatto da traino a tantissime associazioni, partiti, movimenti, sindacati, centri sociali, ma soprattutto a una “marea” di gente comune, fuori da sigle politiche e organizzazioni, che ha voluto urlare il proprio No al ponte per difendere il territorio. I colori No ponte hanno fatto bella mostra di sé anche su una barca a vela che ha solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto all’inizio della manifestazione.


Una manifestazione così intensa e partecipata a Torre Faro (Messina) non si era mai vista. Tremila persone, giusto per quantificare la folla, è un numero che neppure descrive l’effetto di una marea umana i cui colori si stagliavano tra l’azzurro del mare e del cielo, in un bel pomeriggio di partecipazione, di festa e di protesta.

Gli effetti dello Stretto, la spiaggia del Faro, il popolo No ponte che ha invaso con colori e slogan le vie del villaggio, il coinvolgimento della gente del luogo, hanno costituito un tutt’uno che sabato pomeriggio ha spostato la “geografia” e la politica del territorio verso un deciso No alla realizzazione dell’opera più controversa della storia, “riesumata” dal governo, attraverso la riedizione della società Stretto di Messina.

Cosicché, se da un lato il governo è ripartito a suon di provvedimenti urgenti per riavviare le procedure, dall’altro il dissenso dei No ponte non si è fatto attendere. «Sabato prossimo scriveremo la storia», era la sfida lanciata da tanti attivisti in vista della manifestazione, e così è stato. Ed era “solo” il primo corteo della nuova stagione. Secondo i tempi dettati da Salvini la fase apicale sarà raggiunta a luglio 2024, data della fatidica “prima pietra”.

Ciò, al netto delle complesse procedure che ancora il progetto deve affrontare, quantunque sia oggetto di apparenti semplificazioni.

Intanto, la gente del luogo si chiama a raccolta: «Forza faroti, tutti fuori, prima che il ponte ci divori», recitava uno dei tanti slogan che risuonava in maniera veemente tra le vie del villaggio. Anche perché la cosa avrebbe il sapore di un «futuro amaro» da evitare ad ogni costo, perché «il ponte sullo Stretto distruggerebbe Faro…», con tanto di dati alla mano illustrati, tra l’altro, nella conferenza stampa di mercoledì scorso, e non solo. Un altro fatto a prova di smentita, alla luce della storia che si ripete, è stato urlato dai manifestanti: «Valutate i vostri danni, il cantiere durerà centanni”. E ancora, un tema sul quale si potrebbe scrivere un romanzo, quello dei posti di lavoro: «Ma che progresso, ma che occupazione, il ponte sullo Stretto è solo distruzione». Aspetto supportato da un appello alla comunità locale: «Difendete il vostro mestiere, in questo posto ci va un cantiere». Dopodiché: «Il ponte sullo Stretto è un disastro, al posto delle case ci va un pilastro». Dunque, motivazioni, esempi e temi sono stati intercalati nella protesta anche in frasi essenziali, simboliche, ma dal grande effetto. Ma visto il momento che stanno vivendo gli abitanti di Messina in una zona del centro storico cittadino, lo slogan che più risaltava era tra quelli più longevi: «Vogliamo lacqua dal rubinetto, vaff… al ponte sullo Stretto». In questo momento, dai rubinetti di centinaia di appartamenti fuoriesce acqua inquinata da idrocarburi, nella fattispecie gasolio.

Per cui la domanda è ovvia, al netto della comprensibile rabbia: come si fa a lasciar realizzare una tale mega opera, secondo volontà ben distanti dalla città, quando Messina ha persino condotte idriche fatiscenti che creano disagi intollerabili e mettono seriamente a rischio la salute dei cittadini?

Tornando nel cuore del corteo, «Non rovinate lo Stretto», ammoniva uno striscione, «Salvini levici manu», si leggeva in un altro. E al ministro non sono mancati neppure alcuni inviti “affettuosi” e “propositivi”, affinché si rechi in riva allo Stretto. Ma sulla terraferma, non certo su una nave “blindata” come lo scorso 6 giugno.

Il corteo, partito alle 18 dall’inizio di via Palazzo, si è concluso intorno alle 21 dinnanzi al parco Horcynus Orca, dove hanno preso la parola alcuni rappresentanti delle organizzazioni che hanno partecipato alla manifestazione. Alla partenza, i colori No ponte sono stati esibiti anche da una barca a vela e da un surf a pedali che hanno solcato il bellissimo mare azzurro dello Stretto, mentre alle loro spalle faceva capolino una feluca.

Per la prossima manifestazione bisognerà attendere gli esiti di altre assemblee e riunioni programmate dal movimento No ponte.


(https://www.scomunicando.it/, 19 giugno 2023

di Franca Fortunato


Il 3 e 4 giugno ho partecipato alla Libreria delle donne di Milano al convegno nazionale voluto da Anna Di Salvo delle “Città Vicine” e da Adriana Sbrogiò di “Identità e Differenza” per riflettere sulle «relazioni di differenza tra donne e uomini nel nostro presente» dove la violenza maschile si è fatta sempre più insopportabile con orrendi femminicidi e la guerra in Ucraina. Relazioni di differenza che nel passato si sono viste tra donne e uomini, consapevoli della propria differenza, apertisi allo scambio e al confronto reciproco e che da qualche tempo – come ha detto in apertura Di Salvo – «stanno incontrando un punto d’arresto» e gli uomini si sono chiusi tra loro. E se le donne – come hanno ripetuto in tutti gli interventi – non ci stanno a farsi schiacciare dalla disperazione, gli uomini sono consapevoli che “senza autocoscienza maschile non cambia nulla” perché la guerra, che è esercizio della forza, e la violenza sulle donne come sulla Madre Terra li riguarda come uomini. «Come testimoniare il male senza dimenticare il bene» è una delle pratiche quotidiane di donne che parlano, scrivono della guerra con parole di donne, di scrittrici, di pensatrici, sottraendosi così alla disperazione. Una pratica che porta a parlare di pace non in contrapposizione alla guerra, come fanno gli uomini, anche quelli che hanno parlato di “no armi” e di “obiezione di coscienza”. Un modo «per salvaguardarsi dalla forza del male e salvaguardare uno sguardo lucido su ciò che accade». «La pace non è l’assenza di guerra ma è un modo di vivere, di abitare il pianeta, un modo di essere esseri umani», «pace da sempre è una parola che si usa a conclusione della guerra, ma nessuna guerra si è chiusa con la pace ma con trattati a cui è seguita un’altra guerra», «la pace va costruita fuori dalla guerra, dentro di noi», vogliamo «una civiltà in cui i conflitti si risolvano diversamente». Le donne di potere belliciste, che in nome dell’uguaglianza e della parità con gli uomini non portano sulla scena pubblica la loro differenza, fanno paura quanto gli uomini perché «possono distruggere l’umanità». L’uguaglianza con gli uomini «non ci porta in avanti e va ripudiata». «Non dimenticare il bene» è saper vedere la speranza nel buio del male, per sottrarci alla disperazione. Speranza nel «desiderio che dà energia», «nelle relazioni», «nelle buone notizie» come quella che a Vicenza ha vinto un giovane sindaco che sa ascoltare le donne e prendersi cura della città. Speranza nel cambiamento della relazione tra donne che hanno provocato e che «non sta dove l’avevano messa gli uomini nel patriarcato» come nel caso della madre dell’assassino di Giulia Tramontano, uccisa con la creatura che portava in grembo, «che si è appellata alla madre della ragazza per cercare un filo» che le unisse, due donne non “rivali” ma “solidali”. Speranza «nella mediazione della relazione materna come mediazione con gli uomini». Speranza viene da storie dove agisce il materno come nel fabbricante di mine antiuomo che quando il figlio piccolo gli dice «ma tu sei un assassino», abbandona quel mestiere di morte e diventa un volontario sminatore nei Balcani per salvare vite. Speranza nella pratica artistica dove – come ha detto Katia Ricci, curatrice della mail art “Donna vita, libertà” che ha accompagnato il convegno – agisce già la mediazione materna perché gli artisti «parlano in lingua materna». Un «servizio di cura obbligatorio per gli uomini» aprirebbe alla mediazione materna? Idea avanzata da Alberto Leiss e rimasta aperta così come aperto ad altri incontri tra donne e uomini è rimasto il convegno di Milano.


(Il Quotidiano del Sud, 17 giugno 2023)

di Marta Dal Corso,


Diventare madre oggi è una scelta personale e sociale. Come le trasformazioni sociali stanno cambiando il concetto di maternità e quale ruolo giocano le donne oggi nel definire nuovi modelli di sviluppo? Ne abbiamo parlato con Riccarda Zezza e Anna Fiscale.


Il report “Italia Generativa” definisce l’Italia un Paese surplace: come un ciclista fermo sul posto, impegnato a mantenere un equilibrio ma incapace di darsi uno slancio nei confronti del futuro. Il tasso di natalità incide in un quadro politico che riflette una generale staticità. D’altronde le trasformazioni della struttura demografica rispecchiano anche i mutamenti culturali della società odierna: nonostante le giovani donne siano oggi più istruite, il tasso di inclusione lavorativa, il livello degli stipendi e le possibilità di carriera restano inferiori, mentre il 71% del carico familiare è ancora responsabilità delle donne. Diventare madre è oggi sia una scelta personale che sociale!

Nella festa che celebra la figura della madre, ci chiediamo cosa sta cambiando, cosa possiamo imparare dalla maternità e come questa possa diventare motore di crescita per uno sviluppo personale, culturale, economico e sociale. Ne abbiamo parlato insieme a Riccarda Zezza, CEO e Founder di Lifeed – l’azienda che dal 2015 sta cambiando il mondo del lavoro trasformando le esperienze di vita in competenze funzionali alla crescita di persone e imprese; e ad Anna Fiscale, ideatrice e Presidente dell’Impresa Sociale di moda etica Quid.

– Riccarda, cosa significa oggi diventare madre?

Credo che oggi questa domanda sia più importante della risposta perché ad essere sinceri non ce la facciamo mai. Oggi ci chiediamo: Perché non nascono più figli? Qual è il tasso di occupazione femminile? Ci soffermiamo a parlare di maternità surrogata senza nemmeno definire cos’è la maternità! Ci facciamo quindi domande su quei temi che provocano problematiche politiche mentre le madri, per loro natura, sono portate a fornire soluzioni immediate. Ecco perché non interessa chiederselo! Invece penso che iniziare a farci questa domanda ci porterà a nuove opportunità perché ci obbliga a riconoscere la complessità dei fenomeni umani. L’effetto? Usciremo da risposte parziali e stereotipate!

– Credi che ci sia una narrazione che ha cullato la nostra idea di maternità?

Nel genere umano sono insiti due istinti: quello della caccia (che oggi si è tradotto nel gioco a somma zero dove o si vince o si perde) e quello della cura. La maternità è un modello primordiale e istintivo. Il cervello produce ormoni che premiano il comportamento di cura. Di fatto la maternità è diventata un modello di potere, solo che nella storia è stato limitato all’ambito familiare.

Ma cosa accade quando questo modello viene portato nel mondo sociale? Possiamo prenderci cura del mondo con il lavoro! Possiamo trasferire quegli elementi istintivi che caratterizzano la maternità per favorire lo sviluppo dell’Altro. Per farlo dobbiamo agire sulla Cultura, fare spazio a nuove narrazioni ed essere disponibili a ripartire da pagine bianche, da nuovi tavoli collaborativi.

–Quale valore emerge dalla maternità?

La maternità sviluppa nella donna una leadership femminile molto forte. Le ricerche ci dicono che quando si pensa ad un leader si immagina una persona che guidi con l’esempio, che sappia far crescere, che ascolti e comprenda. Una persona con visione capace di creare progetti che gli sopravvivono. Non sono forse qualità che le madri esercitano quotidianamente nella dimensione privata?

In Lifeed abbiamo lavorato con oltre 40mila persone e abbiamo rilevato che in media le persone hanno almeno cinque ruoli sociali. Solo il 30% delle energie sono spese nel contesto lavorativo, il 70% delle proprie risorse, di carattere creativo e relazionale, vengono espresse dove ci si sente coinvolti a livello espressivo, liberi di esprimere il proprio talento.

Il tema è importante per le organizzazioni perché è evidente che la persona, nel lavoro, non è considerata nella sua interezza e non utilizza a pieno tutte le proprie capacità: se questo è un limite per tutti, per le donne lo è ancor di più.

– Le trasformazioni sociali degli ultimi decenni verso quale idea di maternità ci stanno portando?

Quando parlo con le ragazze mi rendo conto che hanno paura della maternità. Vedono qualcosa di oscuro, solitario, problematico, che mette a rischio la loro indipendenza sociale ed economica perché oggi la maternità viene raccontata con due assunti: o è ultra-cool (e quindi sei una mamma super) o è limitante (e sei una mamma affaticata). Non ci sono viene di mezzo.

Invece quando sono diventata madre io mi sono accorta improvvisamente che tutto l’amore che avevo cercato era entrato nella mia vita. La maternità libera la possibilità di amare prima ancora di essere amato e questo non ce lo racconta nessuno. Il tema quindi è vedere la maternità come un pezzo di noi che dialoga con le nostre anime, prende spazio ma non può essere nostro antagonista. Siamo un complesso di desiderio, leggerezza e amore. Dobbiamo scrollarci di dosso quell’idea sacrificale che per anni ha portato le donne a dimenticarsi di loro stesse nella relazione con il figlio. Dobbiamo anche scrollarci di dosso quella patina di perfezionismo che fa credere che tutto sia idilliaco. Dobbiamo dare alle donne nuovi specchi con cui guardarsi perché la questione riguarda la crescita della donna che si abbina, ma non si estingue, alla relazione materna.

Esistono quindi scelte individuali che generano un impatto sociale, leadership femminili che emergono e che ci portano verso nuovi modelli culturali. Ma come gestire tutto questo?

– Anna, sempre più le donne sono spaventate dall’idea che la maternità possa essere un freno al proprio sviluppo. Tu, come hai vissuto le tue scelte?

Donna, moglie, madre: mi sono sempre vista così, in scala, e sono consapevole che non potrei essere me stessa se dovessi scegliere di essere solo una di queste parti. Non mi sentirei compiuta fino in fondo! Sono una donna appassionata e dedita al mio lavoro, in fin dei conti sono madre anche del mio progetto, ma per me era fondamentale accompagnare al mio sviluppo lavorativo anche uno sviluppo familiare, con le sfide che questo comporta!

La prima maternità l’ho vissuta quando Quid era a metà della sua strada. Io ancora non delegavo, non sapevo ancora farlo. Le riunioni le facevamo nel salotto di casa dopo tre settimane dal parto. In quel periodo non ero ancora abbastanza attrezzata ma mi è servito per capire come ridefinire il mio ruolo professionale, bilanciare la maternità e il lavoro, come dare vita ad un’organizzazione familiare equilibrata e paritaria con mio marito. È stato un percorso di consapevolezza.

– Da un lato donna e dall’altro madre. Esiste un modo per non scindersi in più identità?

Sapersi ascoltare e saper leggere i segnali che il nostro corpo ci dà. Facendolo riusciamo a fidarci della vita perché se si aspetta il momento perfetto per fare le cose, non ci sarà mai! Invece possiamo diventare consapevoli che le cose andranno anche diversamente da come le immaginavamo. Io, ad esempio, non pensavo che essere madre sarebbe stato così bello. Ma è anche faticoso e totalizzante! Ho scoperto che sapermi adattare alle situazioni mi permette di trovare soluzioni che mi aiutano a stare bene e farmi crescere.

– Incontri tutti i giorni donne e madri provenienti anche da culture diverse dalla nostra: quali abitudini ti colpiscono?

Mi colpisce molto il concetto di maternità diffusa che hanno le donne africane in cui è il villaggio che educa i bambini. La comunità diventa quindi educante. È un aspetto che mi fa ragionare sull’importanza di creare anche nei nostri contesti una rete relazionale tra donne, ma non solo, che diventi fonte di supporto e sviluppo per tutti.

– Quali soluzioni si potrebbero adottare per consentire alle donne scelte più includenti?

Spesso la maternità viene percepita dalle aziende come un periodo destabilizzante. Credo che gli incentivi economici possano essere un supporto però non bastano. Seguo il lavoro di Gigi De Palo sul Forum della Natalità e penso che siano necessarie scelte politiche lungimiranti. Ma anche nei luoghi di lavoro si può fare qualcosa! In Quid, ad esempio, abbiamo scelto di lavorare in produzione con orari positivi per le donne, dalle 8 alle 15.30 per permettere loro di avere un tempo oltre al lavoro. Rispetto agli uffici e alle aree commerciali le dinamiche cambiano ma un lavoro che offre flessibilità e che consente di lavorare per obiettivi può favorire il lavoro femminile e diventare un incentivo ambizioso!


(Fondazione CattolicaVerona, 12 maggio 2023)

di Clara Jourdan


Introduzione all’incontro con Ida Dominijanni, autrice del libro Il truccoSessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, Roma 2014). Libreria delle donne, Milano, sabato 3 ottobre 2015 ore 18.


Buonasera. Siamo qui per parlare con Ida Dominijanni della sfida politica del tempo che stiamo vivendo, a partire dal suo libro Il truccoSessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, che ricostruisce e analizza le vicende che vanno dall’accusa pubblica di Veronica Lario, nel 2009, che denuncia l’uso delle donne da parte dell’ancora per poco suo marito e allora presidente del consiglio e di chi «tutto gli concede» (p. 76), fino all’esito del processo d’appello all’ex presidente del consiglio per prostituzione minorile (caso Ruby) nel 2014, vicende in cui viene svelata l’esistenza non di «un’anomalia italiana», bensì – leggiamo nel libro – di «un caso estremo delle trasformazioni antropologico-politiche che attraversano e minacciano tutte le democrazie occidentali» (p. 33). Da qui il taglio che abbiamo voluto dare all’incontro di stasera: Capitalismo, giù la maschera!

Il libro, uscito nel novembre scorso presso Ediesse, ha subito suscitato voglia di confrontarsi e alcune lettrici si sono riunite in gruppi di lettura a Lecce e a Milano, stasera sono qui Fiorella Cagnoni, venuta da Lecce, e altre che contribuiranno alla discussione. Fiorella ha scritto una bella recensione pronunciata alla XIII edizione della Scuola Estiva della Differenza (Lecce, 7-10 settembre 2015) e pubblicata nel sito della Libreria (Il Trucco: un’esperienza di scrittura e di lettura, www.libreriadelledonne.it, 12 settembre 2015).

Ida Dominijanni, saggista, giornalista, conduttrice radiofonica (tra cui di Prima pagina, Faccia a faccia), docente di teoria femminista in università italiane e estere, è ben conosciuta nel movimento delle donne. Voglio approfittare dell’occasione per ringraziarla non solo di questa sua ultima fatica ma dell’impegno di tanti anni nel pensiero della differenza sessuale, attraverso i suoi scritti pubblicati sulle riviste Reti (che ha contribuito a fondare nel 1988), democrazia e dirittoDWFSofiaNoidonneVia Dogana, in volumi collettanei e in internet, e le introduzioni a La politica del desiderio di Lia Cigarini (Pratiche, 1995) e a Maglia o uncinetto di Luisa Muraro (2° ed., manifestolibri, 1998). La ringrazio in particolare del suo lavoro al manifesto, dove ha scritto per trent’anni (1982-2012): i suoi editoriali sono stati un riferimento unico nella stampa italiana per pensare l’attualità e la politica con il taglio della differenza sessuale e della libertà femminile. Io quando insegnavo usavo spesso in classe i suoi articoli. Leggendo Il trucco mi è tornato in mente un articolo del 1998 sulla vicenda Clinton-Monica Lewinski, intitolato Cercando la privacy perduta (22 settembre 1998): ricordo quanto aveva colpito le studentesse e gli studenti di diritto costituzionale comparato e anche i loro genitori con cui avevano poi parlato a casa.

Il libro di stasera è frutto di questo costante lavoro di attenzione, ricerca di linguaggio, informazione e riflessione sul mondo. Lo si vede nella ricchezza della documentazione, nella vastità delle letture, nella profondità dell’analisi di fatti e parole, e nel dare un senso complessivo nuovo, originale, vero a una realtà che ha toccato tutte e tutti e ha occupato i mass media ma senza adeguata comprensione, e che sembrava essere stata archiviata quando aveva ancora molto da dirci. Così questo libro fa innanzitutto un’operazione storiografica importante, riraccontando al presente e quindi ripensando cose, vicende, fatti, pensiero, che se no si perdono. L’autrice prende in mano una materia prima che lei stessa ha vissuto e anche contribuito a far esistere con i suoi puntuali interventi ma che rischia di essere portata via dal tempo e dalle cose che succedono e la trasforma in storia. Su questo spero che interverranno le amiche della Comunità di storia vivente (sabato scorso abbiamo discusso qui del libro di Marina Santini e Luciana Tavernini Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, il Poligrafo 2015).

Fiorella Cagnoni nella recensione menzionata dice una cosa che vorrei riprendere, dice che nel libro Il trucco c’è «un pensiero capace contemporaneamente di fare ordine e di essere insurrezionale». Insurrezionale, una parola d’altri tempi che trovo efficace per evocare la potenza politica dirompente che può avere un parlare pubblico femminile conflittuale che domanda di essere ripreso da altre. Come il parlare di Veronica Lario (v. p. 76), che nella primavera del 2009 ha fatto fare una svolta decisiva alla vicenda incarnata da suo marito perché la verità che lei ha detto è stata ascoltata e rilanciata da altre donne (Patrizia D’Addario e le femministe), dando avvio al pensare confluito nella scrittura di questo libro, e questo libro a sua volta ci chiama alla politica necessaria in questo momento storico, che ha bisogno di noi, noi femministe intendo. Ci fa capire che c’è, aperto da noi ma che non sappiamo fino a quando resterà aperto, un conflitto simbolico di enorme portata: «una delle poste in gioco è la “rottamazione” del femminismo stesso e del cambiamento che ha innescato nelle donne e negli uomini, nei rapporti sociali, nella concezione della politica» (p. 228).

Perché nelle note vicende si tratta di un «rovesciamento perverso» delle «domande poste dalla congiuntura Sessantotto-femminismo e lasciate senza risposta dalla politica ufficiale» (pp. 33-34) ma piegate ai propri fini dal capitalismo grazie alla sua capacità di rinnovarsi (ivi). Pensiamo all’importanza della libertà, al protagonismo femminile, alla fine della separazione tra sfera pubblica e sfera privata, alla politicità del personale e alla centralità della sessualità… L’uomo di Arcore è in realtà un’invenzione del capitalismo di cui ha assorbito la natura e l’evoluzione. Se rivediamo il suo percorso, da giovane imprenditore a uomo politico a «Lupo di Wall Street» (p. 239), con l’esibizione dell’etica del consumo e del godimento (p. 34), vediamo la storia del capitalismo. Vediamo la concezione della libertà del neoliberalismo, che ha piegato in senso individualistico e consumistico la libertà soggettiva, e vediamo l’impegno a sfruttare per i suoi scopi i desideri femminili di realizzazione, in particolare nel lavoro, piegandoli alla autoimprenditorialità. «Il permanere oggetto e il diventare soggetto si toccano. Si diventa soggetti solo interiorizzando il dispositivo di soggettivazione neoliberale che comanda di autogestirsi e autovalorizzarsi come oggetti di scambio, nel mercato del lavoro come nel mercato del sesso» (p. 229). E nell’epoca della finanziarizzazione del capitale il sesso stesso si trasforma, è «sesso-valuta, ancor più che sesso-merce: […] il corpo e il sesso diventano moneta, equivalente generale per scambiare altro: favori, tangenti, posti di lavoro, o più semplicemente l’ingresso nei circoli che contano» (p. 239). E proprio «nella “verità” del sesso c’è la trasparente verità dell’epoca – continua Ida -, in cui solo il gioco della differenza sessuale sembra introdurre quel margine di opacità necessario all’apertura di una contraddizione o di un conflitto. Pur in un così intenso e affollato scambio di equivalenti, infatti, il gioco fra i due sessi non va mai in pari» (p. 240).

Allora, è qui che si può far leva, sulla differenza sessuale. Sulla differenza come è venuta fuori nel movimento delle donne, dove si è generata un’altra concezione e un’altra pratica della libertà su cui si può puntare per rilanciare il gioco, perché è da quest’altro punto di osservazione che si vede che la biopolitica capitalista del ventennio che continua ancora nei successori, è in realtà truccata. Da qui il titolo del libro: «l’immagine del trucco allude a una fantasia di potenza mossa da un fantasma di impotenza» presente non solo nel personaggio principale della vicenda ma anche nella fascinazione soprattutto maschile e anche negli oppositori al regime, a cui abbiamo assistito. L’ipotesi dell’autrice è che nel consenso a quel personaggio «abbia agito certamente un’identificazione di superficie con il suo stile di vita, la sua ricchezza, il suo successo, la sua ostentazione di una virilità inattaccabile dall’età, ma che in modo più decisivo abbia agito un’identificazione inconscia con il trucco che c’era sotto» (pp. 241-242). Infatti, la caduta della maschera «non è stata accompagnata da euforia liberatoria». Quel personaggio è finito, ma «la sua eredità è viva e vegeta» (p. 245). «Insistere sulla sua anomalia proietta nel futuro gli stessi errori di valutazione del passato: avalla l’illusione, ad esempio, che tolti di mezzo il conflitto d’interessi, le leggi ad personam e gli scandali sessuali, il grosso sia finito» (p. 249).

Di cosa abbiamo bisogno allora? «Dopo vent’anni di colonizzazione dell’immaginario, serve un’altra immaginazione politica» (p. 250), abbiamo bisogno della «generatività della differenza femminile, e forse finalmente di quella maschile» sono le parole con cui chiude questo libro (p. 251). Parole di speranza, a condizione che si tengano ben presenti i due fili che percorrono tutto il libro:

1– «Non si parte da zero. […] un’altra idea e un’altra pratica della soggettività […] ha continuato a giocare le sue carte» in questi anni (p. 250). «La concezione di una libertà relazionale, in atto e in contesto, garantita non dalle regole e dai diritti ma dalla pratica, diffidente del potere (maschile) ma forte dell’autorità e dell’autorizzazione (materna) è la grande risorsa che resta nelle nostre mani per schivare questa doppia offensiva liberaldemocratica e neoliberale» (p. 232).

2– C’è anche conflitto tra donne e nel femminismo. Perché da un lato «il massiccio ingresso delle donne nelle liste elettorali» mostra un «progetto perseguito per decenni sui media e controfirmato oggi da una generazione femminile neoemancipazionista, teso a superare il femminismo storico spuntandolo della sua carica più critica e […] a pareggiare i conti della distribuzione delle risorse e del potere» (p. 226). E dall’altro c’è «la sua speculare trasgressione: un femminismo che non taglia i ponti con la radicalità delle origini, anzi la rivendica, ma piegandola in senso compiutamente neoliberale. È il libertarismo di chi rivendica la piena padronanza del proprio corpo nel mercato dell’immagine» (p. 226). Che mostra «quanto sia fragile il confine che separa la libertà femminile dall’adesione alla norma neoliberale e l’autodeterminazione dall’onnipotenza individualistica, se entrambe, libertà e autodeterminazione, vengono sganciate dalla pratica della relazione, dal senso della differenza, dall’analitica del potere» (p. 227). C’è dunque da confliggere, e la questione è quella della libertà, a cui ci chiama questo libro.


(www.libreriadelledonne.it, 5 ottobre 2015)

di Lia Cigarini, Luisa Muraro e Luisa Cavaliere


Ripubblichiamo questo del 17 gennaio 2022.

La redazione del sito


Tre partiti che siedono in parlamento hanno proposto per il Quirinale il nome di un autentico puttaniere. E intanto tutti gli altri e loro stessi si lamentano vacuamente che in quel posto dovrebbe finalmente essere eletta una donna. C’è una logica in questa situazione?

Bisogna sapere che il candidato dei tre partiti si è reso indegno della carica di Presidente della repubblica per più ragioni, a cominciare dalla iscrizione alla P 2 passando per una condanna definitiva per evasione fiscale e per tutta una serie di prescrizioni arrivando ai processi ancora in corso.  Ma quello che brilla sopra tutto nel ricordo generale è il suo comportamento sessuale, a suo tempo denunciato anche dalla moglie, che comprendeva l’uso disinvolto del corpo femminile e la corruzione di donne giovani e giovanissime.

Che ne pensa di tutto questo Giorgia Meloni che diceva di volere un patriota a quel posto? Che ne pensano Carfagna e Gelmini? Per parte nostra, siamo pronte ad emigrare in qualunque altro paese dell’Europa qualora sull’Italia cadesse la vergogna di un simile Presidente. Che il suo nome sia stato fatto basta a riempirci d’indignazione.

 
(libreriadelledonne.it, 17/1/2021)

di Ida Dominijanni


La prospettiva della malattia e della morte ha accompagnato la vita di Silvio Berlusconi come uno spettro, o meglio come un doppio innominabile che egli allontanava da sé ed esorcizzava con ogni mezzo, dall’ottimismo illusorio dell’eterna giovinezza alla chirurgia plastica alla costruzione della propria tomba monumentale nel giardino di Arcore. Era probabilmente, come si direbbe in termini psicoanalitici, il suo fantasma fondamentale, l’ossessione rimossa che muoveva tutto il resto, come un generatore di energia piantato su un terreno franoso. Ma si sa, tutti gli umani sappiamo e anche Berlusconi non poteva non saperlo, che quello spettro, quale che sia la sua presa sul nostro inconscio, è destinato prima o poi a materializzarsi. L’ora della fine arriva, per tutti. Una biografia politica che ha fatto epoca si chiude, senza che sia risolta una sola delle immani questioni che essa ha aperto in un paese plasmato a propria immagine e somiglianza.

La matrioska vincente

Per soli sei mesi Berlusconi ha mancato il trentesimo anniversario della sua famosa “discesa in campo” del 26 gennaio 1994, diventata nella memoria collettiva l’evento periodizzante che segna il confine tra la (cosiddetta) prima e la (cosiddetta) seconda repubblica italiana. Nessuno dei commentatori più autorevoli credette, all’epoca, che quella dichiarazione emessa via etere dal fondatore di Fininvest – «l’Italia è il paese che amo» – avrebbe davvero conquistato il cuore di un elettorato traumatizzato da Tangentopoli e dalle stragi di mafia, che cercava nella magistratura la via d’uscita dalle macerie del sistema politico. Invece – amor ch’a nullo amato amar perdona – lo conquistò, con la promessa di un futuro radioso che come per magia avrebbe riscattato «un passato politicamente ed economicamente fallimentare».

Il voto del 27 marzo 1994 consegnò dunque l’Italia a Silvio Berlusconi mutandone radicalmente l’assetto politico con tre novità, incastrate l’una dentro l’altra come una matrioska vincente. Per la prima volta un partito-azienda, interamente incentrato sulla figura del leader e conformato al linguaggio della televisione commerciale e della pubblicità, irrompeva nell’arena politica. Per la prima volta questo partito – centrista, ma con riconoscibili ascendenze culturali craxiane – si alleava stabilmente con due formazioni di destra, sdoganando il partito neofascista di Gianfranco Fini, fino ad allora confinato fuori dall’arco costituzionale, e regalando uno statuto nazionale alla Lega nord di Bossi, fino ad allora confinata in una dimensione regionale. Per la prima volta, questa coalizione di centrodestra realizzava – intestandosi un processo più largo e già in corso – la bipolarizzazione di un sistema politico che per mezzo secolo aveva funzionato su base proporzionale.

L’insieme di queste tre mosse conferì a un’avventura spiccatamente personale come quella di Berlusconi un rango sistemico, facendogli guadagnare sul campo quel ruolo di fondatore della seconda repubblica che egli non riuscirà a inscrivere nella tanto agognata quanto mancata riscrittura della costituzione, ma che gli assicurerà una centralità più solida dei suoi quattro governi (1994-95; 2001-05; 2005-06; 2008-11) e un’influenza più duratura della sua stagione trionfante. Il che spiega perché il (quasi) ventennio successivo alla sua discesa in campo sia passato alla storia come “ventennio berlusconiano” pur essendo stato interrotto da cinque governi dell’Ulivo (dal 1996 al 2001 e dal 2006 al 2008), e perché il suo ruolo sia rimasto importante anche dopo la sua definitiva defenestrazione da Palazzo Chigi nel 2011, sotto il tiro incrociato degli effetti del sexgate, della crisi finanziaria e della condanna per frode fiscale, quando inizia irrimediabilmente la sua parabola discendente.

Impronte di granito

Se è vero infatti che l’ultimo decennio fa storia a sé (con l’ingresso in scena di un soggetto politico “né di destra né di sinistra” come il Movimento 5 Stelle, la conseguente ancorché temporanea rottura della logica bipolare, l’alternanza di governi “tecnici” di larghe intese e di governi “populisti” trasversali), è altrettanto vero che Berlusconi ha continuato a condizionarne l’andamento, oltretutto trasformando con notevole sapienza la propria immagine di politico dell’eccezione permanente in quella più rassicurante di garante moderato (e moderatore) del sistema, fino a proporsi come candidato alla presidenza della repubblica nel 2022. Ed è vero, soprattutto, che l’assetto politico con cui ci troviamo ad avere a che fare oggi è interamente debitore di quella decisiva svolta impressa da Berlusconi alla storia politica nazionale del lontano 1994.

Per quanto trasformata da centro-destra in destra-centro, con Forza Italia in posizione minoritaria rispetto ai più estremisti alleati, la bizzarra e contraddittoria coalizione che allora venne messa al mondo è di nuovo saldamente al governo, con scarsissime speranze per il centrosinistra di scalzarla. E per quanto il sovranismo postfascista di Giorgia Meloni urti per più di un verso con la visione del mondo berlusconiana, indubitabilmente assai più gaudente e meno illiberale, nessuna delle guerre culturali di oggi – dal revisionismo storico galoppante alle professioni di anti-antifascismo, dal razzismo anti-migranti alla crociata anti-gender – sarebbe stata possibile senza lo sdoganamento delle destre radicali antiche e nuove che ha contrassegnato il ventennio berlusconiano. Ben prima dell’ascesa di Meloni, del resto, bastano i fatti di Genova 2001, dove Fini fu il braccio armato di un Berlusconi che preferiva badare alle fioriere, per testimoniare il sodalizio tutt’altro che contingente tra due destre pure così diverse; anche se da questo punto di vista Berlusconi se ne va nel momento meno opportuno, quando avrebbe forse potuto calmierare gli spiriti bellicisti e i disegni europei della presidente del consiglio.

Per restare al piano politico, l’impronta di Berlusconi permane peraltro, granitica, sull’intero catalogo delle forme dell’agire pubblico che con lui e dopo di lui si sono imposte sulla crisi senza ritorno della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il partito personale e la personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del discorso politico e la trasformazione dell’agorà democratica in arena televisiva, l’appello al popolo senza intermediazioni come cifra del populismo, l’identificazione tra il popolo e il capo e la democrazia dell’applauso, l’intreccio tra biografia personale, interessi patrimoniali privati ed esercizio della funzione pubblica disegnano la fenomenologia di una decomposizione della politica e di una deformazione della democrazia che dilagano ormai su scala planetaria, e che nel berlusconismo hanno trovato un laboratorio anticipatore e a suo modo, occorre riconoscerlo, geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati.

Il nocciolo insondato

E tuttavia, quando parliamo di berlusconismo, ognuno/a di noi sa che parliamo anche di qualcos’altro, di un nocciolo che rimane per molti versi insondato, che ha sedotto e plasmato la società italiana e attorno al quale si annoda tuttora il rapporto tra l’immaginario collettivo e lo spettro di un leader da tempo finito eppure tuttora incombente. Per mettere a fuoco questo nocciolo è mancata a lungo, e tuttora manca, la giusta distanza, in una società divisa verticalmente tra l’ammirazione prona e il disprezzo altero nei confronti di Berlusconi («Ci alziamo troppo di fronte alla sua presupposta bassezza. Ci abbassiamo troppo di fronte alla sua presupposta altezza», scrisse profeticamente Alberto Abruzzese nel 1994). Tanto meno ha aiutato questa messa a fuoco il moralismo giustizialista di cui si è nutrito un vasto fronte antiberlusconiano, pago di liquidare come escrescenza immorale e illegale un fenomeno che rinvia a trasformazioni antropologico-politiche irriducibili al trentennale duello tra l’ex premier e le procure (36 processi, cento avvocati al lavoro e una sola condanna definitiva tra assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e amnistie).

Se dall’imponente bibliografia sull’avventura biografica e politica del Cavaliere si sottraggono i troppi titoli che la riducono a colore e folklore, tre sono gli approcci critici più ricorrenti. Il primo approccio imputa a Berlusconi la sua radicale anomalia (conflitto d’interessi, leggi ad personam, attacchi reiterati alla costituzione) rispetto alla norma e alla normalità liberaldemocratica, alla faccia della “rivoluzione liberale” da lui sbandierata agli esordi. È un approccio depistante, che riporta al modello liberaldemocratico classico la controrivoluzione prettamente neoliberale che Berlusconi ha guidato in Italia e che da mezzo secolo in qua demolisce la liberaldemocrazia in tutto l’occidente, sottomettendo la vita individuale, le relazioni sociali e l’architettura istituzionale al codice della merce e del mercato, all’etica dell’autoimprenditorialità e della concorrenza, a una concezione della libertà svincolata dalla responsabilità e dalla legge.

Il secondo approccio insiste giustamente sulla potenza dell’impero televisivo di Berlusconi nella costruzione del consenso politico, ma rischia di sottovalutare la valenza seduttiva di una operazione programmatica di trasposizione della realtà in reality e fiction che prima del voto ha cambiato la testa e la pelle di un popolo ridotto a audience, dalla capacità di discernere tra vero e falso alla sensibilità estetica.

Il terzo punta il dito sullo sfondamento della proposta berlusconiana nel blocco sociale nato sulle ceneri del fordismo (piccola impresa, partite iva, lavoro cognitivo e creativo) e privo di ascolto e rappresentanza a sinistra, ma non spiega come questo radicamento originario si sia immediatamente trasformato in un consenso trasversale, nazionale e interclassista, base rocciosa di un populismo che Berlusconi ha inaugurato e che dopo di lui ha solo cambiato forma e interpreti. Nessuno di questi tre approcci, infine, spiega fino in fondo l’installazione così duratura dell’icona di Berlusconi nell’immaginario italiano, una installazione che al di là della fascinazione per il self-made man di successo e per il tycoon miliardario chiama in causa il rapporto tra le identificazioni collettive, consce e inconsce, e il profilo della leadership politica.

Un capo post-edipico

L’esperimento berlusconiano andrebbe più precisamente collocato all’incrocio fra tre tendenze: la già menzionata controrivoluzione neoliberale; il cambiamento del regime del vero e del falso, del visibile e dell’invisibile, del dicibile e dell’indicibile innescato dalla mediatizzazione della sfera pubblica; e la trasformazione dell’ordine simbolico che nella letteratura psicoanalitica va sotto il nome di eclissi della legge del padre, con le relative conseguenze sul declino dell’autorità e della legalità, e nella letteratura femminista va sotto il nome di fine del patriarcato, con le relative conseguenze sul ruolo della virilità, sulle relazioni tra i sessi e sullo stato complessivo del legame sociale. Collocata all’interno di questa trasformazione dell’ordine simbolico, l’icona di Berlusconi acquista il profilo più preciso e più inquietante di un leader post-edipico e post-patriarcale, che non incarna la legge ma il godimento e la trasgressione, e che tenta di ripristinare il ruolo perduto di una virilità vacillante seducendo le donne con l’arma ricattatoria del potere e della ricchezza. Uno specchio riflettente ideale per un paese che con la legalità ha sempre avuto un problema e che con la libertà femminile non ha mai fatto i conti.

È il profilo di Berlusconi che emerge dal cosiddetto sexgate, quando, grazie alla presa di parola pubblica di alcune donne, prima tra tutte l’allora moglie del premier Veronica Lario, venne alla luce il sistema di scambio tra sesso, potere e denaro che legava senza soluzione di continuità la vita privata di Berlusconi e la sua vita pubblica, accomunate dallo stesso regime del godimento, dalla stessa amoralità, dalla stessa concezione della libertà come libertà di mercato, dalla stessa convinzione che tutto si può ridurre a merce e tutto si può vendere e comprare, dalla stessa ingiunzione alla trasgressione, dallo stesso esercizio di un potere sorretto da una corte di imitatori e di ruffiani. Lungi dall’essere l’incidente di percorso secondario cui fu ridotto all’epoca e cui tuttora il coro celebrativo post-mortem di Berlusconi tenta di ridurlo, il sexgate fu l’imprevisto che squarciò il velo del sistema, e per giunta all’indomani del tentativo più riuscito di Berlusconi di legittimarsi, col celebre discorso di Onna, come padre della patria.

Ma sotto quel velo squarciato non c’era un padre della patria, c’era il Papi delle “cene eleganti”. Non c’era l’identificazione conscia con un leader ricco e potente, ma l’identificazione inconscia con un trucco: il trucco di una potenza millantata, sessuale e politica, a copertura del fantasma persecutorio dell’impotenza, politica e sessuale. Il re era nudo, a denudarlo erano state le sue stesse donne, la moglie e la favorita in sequenza, e a dichiarare la sua parabola conclusa furono le centinaia di migliaia di donne scese in piazza per dire basta, ben prima che i leader europei, approfittando della sua ormai acclarata vulnerabilità, inchiodassero l’ex premier alle sue responsabilità sul debito pubblico italiano e sullo spread.

Un lutto inaggirabile

L’ultima polemica, in morte di un leader divisivo, spacca ora il paese tra chi accetta e chi rifiuta il lutto nazionale che dovrebbe unificarlo. Sono sacrosante le ragioni di chi lo rifiuta, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a sé stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti, disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.

Come tutti i leader narcisisti che infestano la scena mondiale, Berlusconi non ha allevato successori in casa, anche se può rivendicare molti imitatori all’estero a partire da Donald Trump. Lascia un paese che sotto la sua egemonia luccicante ha imboccato trent’anni fa una via del declino senza ritorno, una politica stravolta nella grammatica e nella sintassi, un’informazione definitivamente trasformata nei contenuti e nel linguaggio, una giustizia perennemente sotto attacco, una società modificata nel corpo e nell’anima, una erede riluttante che ambisce a siglare con un sigillo femminile il ripristino dell’ordine tradizionale dopo il disordine post-patriarcale in cui lui navigava col vento in poppa. Ma soprattutto lascia sottotraccia quell’identificazione inconscia nella maschera di una potenza che copre l’impotenza, un’identificazione depressiva che continua ad ammutolire la protesta sociale e a fare la fortuna di leader inventati, votati non per quello che sanno fare ma per come riescono a nascondere quello che non sanno o non possono fare. Elaborare il lutto della fine di Berlusconi significa farla finita con questa identificazione depressiva, e voltare finalmente pagina.


(Internazionale.it, 14 giugno 2023)

di redazione


Nell’intervista rilasciata oggi a La Stampa, la sondaggista di fiducia di Berlusconi Alessandra Ghisleri ricorda che nell’aprile 2009 furono le dichiarazioni dell’ex-moglie Veronica Lario sul ciarpame senza pudore e le figure di vergini offerte al drago a sfatare il mito di Berlusconi, che aveva resistito fin lì a tutte le denunce politiche e all’azione della magistratura.

Veronica Lario tolse all’ex-marito il credito che lo teneva in piedi con la forza della sua verità soggettiva. Ma tutto era cominciato il 13 gennaio 2007 con la prima lettera che scrisse a Repubblica, esemplare nella semplicità di linguaggio, nella forza femminile che esprime e nella radicale consapevolezza.

La ripubblichiamo, seguita da uno stralcio dell’intervista di Annalisa Cuzzocrea a Ghisleri, come esempio della potenza trasformativa dell’autorità femminile.

La redazione del sito


la Repubblica, 13 gennaio 2007


Lettera al Direttore

di Veronica Lario*


Egregio Direttore, 
con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto ad un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, qual è mio marito. Ho ritenuto che il mio ruolo dovesse essere circoscritto prevalentemente alla dimensione privata, con lo scopo di portare serenità ed equilibrio nella mia famiglia. Ho affrontato gli inevitabili contrasti e i momenti più dolorosi che un lungo rapporto coniugale comporta con rispetto e discrezione. Ora scrivo per esprimere la mia reazione alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti, dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti, si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: «… se non fossi già sposato la sposerei subito», «con te andrei ovunque». 
Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l’età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni. A mio marito e all’uomo pubblico chiedo quindi pubbliche scuse, non avendone ricevute privatamente, e con l’occasione chiedo anche se, come il personaggio di Catherine Dunne, debba considerarmi “La metà di niente”. Nel corso del rapporto con mio marito ho scelto di non lasciare spazio al conflitto coniugale, anche quando i suoi comportamenti ne hanno creato i presupposti. Questo per vari motivi: per la serietà e la convinzione con la quale mi sono accostata a un progetto familiare stabile, per la consapevolezza che, in parallelo alla modifica di alcuni equilibri di coppia che il tempo produce, è cresciuta la dimensione pubblica di mio marito, circostanza che ritengo debba incidere sulle scelte individuali, anche con il ridimensionamento, ove necessario, dei desideri personali. Ho sempre considerato le conseguenze che le mie eventuali prese di posizione avrebbero potuto generare a carico di mio marito nella sua dimensione extrafamiliare e le ricadute che avrebbero potuto esserci sui miei figli. 
Questa linea di condotta incontra un unico limite, la mia dignità di donna che deve costituire anche un esempio per i propri figli, diverso in ragione della loro età e del loro sesso. Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l’esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un’importanza particolarmente pregnante, almeno tanto quanto l’esempio di madre capace di amore materno che mi dicono rappresento per loro; la difesa della mia dignità di donna ritengo possa aiutare mio figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne, così che egli possa instaurare con loro rapporti sempre sani ed equilibrati. 
RingraziandoLa per avermi consentito attraverso questo spazio di esprimere il mio pensiero, La saluto cordialmente.


(*) seconda moglie di Silvio Berlusconi


La Stampa, 13 giugno 2023


Ghisleri: “Berlusconi cambiò linguaggio alla politica, più dei processi poté la moglie”

Intervista di Annalisa Cuzzocrea


[…]


Spesso sembrava voler sedurre anche gli avversari.

«Dopo il discorso di Onna, quando mise il fazzoletto dei partigiani, lo chiamai, era in elicottero con Bonaiuti. Gli dissi che aveva il 75 per cento di indice di fiducia. Ci fu un momento di silenzio».

E poi?

«Chiese: quell’altro 25 per cento che non mi ama, perché? Quando fece il predellino mi spiegò, dalla macchina, le sue ragioni: doveva tenere unita una situazione che si stava sfarinando».

C’erano i problemi con la giustizia, il rapporto difficile con la stampa, il controllo dell’informazione.

«Nonostante tutto quel che accadeva la fiducia non veniva scalfita. A farlo, più di tutto, è stata la seconda lettera della moglie Veronica».

Più dei processi?

«Assolutamente. Mi chiamò nella notte dicendo che dovevamo gestire questa cosa e per dirmi quali avrebbero potuto essere le conseguenze».

Perché il colpo veniva dall’interno?

«Perché veniva dalla famiglia. Berlusconi era un uomo con diciassette nipoti, ha sempre messo al centro della sua narrazione il valore della famiglia».

E quindi, la frase sulle «vergini che si offrono al drago» lo ha danneggiato più di ogni altra cosa?

«Sì, soprattutto per il voto delle donne, che era sempre stato un suo punto di forza».


[…]


(www.libreriadelledonne.it, 13 giugno 2023)

di Tomaso Montanari


Scrivo a tutta la comunità per assumermi la responsabilità di una scelta, evidentemente controcorrente, in occasione della scomparsa di Silvio Berlusconi.

Di fronte a questa notizia naturalmente non si può provare alcuna gioia, anzi la tristezza che si prova di fronte ad ogni morte. Ma il giudizio, quello sì, è necessario: perché è vero che Berlusconi ha segnato la storia, ma lo ha fatto lasciando il mondo e l’Italia assai peggiori di come li aveva trovati. Dalla P2 ai rapporti con la mafia via Dell’Utri, dal disprezzo della giustizia alla mercificazione di tutto (a partire dal corpo delle donne, nelle sue tv), dal fiero sdoganamento dei fascisti al governo alla menzogna come metodo sistematico, dall’interesse personale come unico metro alla speculazione edilizia come distruzione della natura. In questo, e in moltissimo altro, Berlusconi è stato il contrario esatto di uno statista, anzi il rovesciamento grottesco del progetto della Costituzione. Nessun odio, ma nessuna santificazione ipocrita. Ricordare chi è stato, è oggi un dovere civile.

Per queste ragioni, nonostante che la Presidenza del Consiglio abbia disposto (https://www.governo.it/it/articolo/bandiere-mezzasta-sugli-edifici-pubblici-e-lutto-nazionale-la-scomparsa-del-presidente) le bandiere a mezz’asta su tutti gli edifici pubblici da oggi a mercoledì (giorno dei funerali di Stato e lutto nazionale), mi assumo personalmente la responsabilità di disporre che le bandiere di Unistrasi non scendano.

Ognuno obbedisce infine alla propria coscienza, e una università che si inchini a una storia come quella non è una università.


Col più cordiale saluto,

il Rettore

Tomaso Montanari

Professore ordinario di Storia dell’arte moderna

Rettore dell’Università per Stranieri di Siena


(Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2023)

di Mariangela Mianiti


C’è un preciso momento in cui Silvio Berlusconi comincia a scendere dal piedistallo di uomo vincente in cui si è avvolto. C’è un preciso momento in cui la sua aura comincia a perdere smalto. Non sono i processi, non sono i guai giudiziari, ma la chiamata in causa di due donne: la seconda moglie Veronica Lario, e Patrizia D’Addario, che i giornali amano definire «escort di lusso».

Siamo nel 2007. Il 31 gennaio Repubblica mette in prima pagina una lettera con cui Veronica Lario chiede al marito pubbliche scuse per aver offeso la sua dignità di donna. Alla cena di gala che segue la premiazione dei Telegatti, Berlusconi si era avvicinato a una signora dicendole: «… se non fossi già sposato ti sposerei subito. Con te andrei ovunque». La lettera di Lario non è, come molti si affrettano a minimizzare, una banale scenata pubblica fra due coniugi. È una ribellione meditata e così motivata: «Oggi nei confronti delle mie figlie femmine, ormai adulte, l’esempio di donna capace di tutelare la propria dignità nei rapporti con gli uomini assume un’importanza particolarmente pregnante; la difesa della mia dignità di donna ritengo possa aiutare mio figlio maschio a non dimenticare mai di porre tra i suoi valori fondamentali il rispetto per le donne, così che egli possa instaurare con loro rapporti sempre sani ed equilibrati».

Due anni dopo, il 28 aprile 2009, in un’email all’Ansa Lario scrive cose molto più esplosive. Prende le distanze da due fatti: l’uso delle donne nelle candidature per le imminenti elezioni europee, la partecipazione del presidente del consiglio alla festa per i diciott’anni di una ragazza di Casoria, Noemi Letizia. Scrive Lario: «La strada del mio matrimonio è segnata. Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni. Chiudo il sipario sulla mia vita coniugale. Io e i miei figli siamo vittime e non complici di questa situazione.

Non posso più andare a braccetto con questo spettacolo. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido. Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere. Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà… e per una strana alchimia, il paese tutto concede e tutto giustifica al suo imperatore. Quello che emerge oggi attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, e che è ancora più grave, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte».

Riguardo alla presenza di suo marito alla festa per Noemi Letizia, Lario aggiunge: «La cosa ha sorpreso molto anche me, anche perché non è mai venuto a nessun diciottesimo dei suoi figli pur essendo stato invitato».

Il caso Ruby, con tutto quel che ne consegue, scoppierà a fine ottobre 2010, ma è Patrizia D’Addario la prima a parlare dei festini che si svolgevano a palazzo Grazioli e lo fa con un’intervista al Corriere della sera del 17 giugno 2009. Tuttavia è su questo giornale, «il manifesto, che Ida Dominijanni, colloquiando con lei, sposta l’attenzione dall’etichetta di escort per fissarla sulla donna. È qui che D’Addario si svela testimone, come scrive Dominijanni, di «un sistema di scambio corpo-danaro-potere che a suo dire è molto più esteso e radicato di quanto si pensi, incardinato su una colonizzazione dell’immaginario femminile che sogna solo comparsate in tv».

Berlusconi darà le dimissioni da capo del governo l’8 novembre 2011 e non tornerà più a Palazzo Chigi. Sarà lo spread alle stelle la ragione conclamata della fine di una stagione politica. Ma prima, molto prima, sono state due donne a tirarlo giù dal piedistallo.


(Il manifesto, 13 giugno 2023)

di Redazione Online del Corriere della Sera


«La volta in cui Berlusconi mi disse in tv “lei è più bella che intelligente”, io gli risposi “non sono una donna a sua disposizione”. Fu una reazione non pensata, sono parole che escono perché le hai dentro. Dopo quella volta non ho mai fatto pace, né ho parlato di nuovo con Berlusconi, lui non mi ha mai più chiesto scusa ma io non ho rimpianti: non so se quelle scuse le avrei accettate». Sono le parole che Rosy Bindi, ex ministra ed esponente del Partito democratico, ha detto alla trasmissione di Rai Radio1 Un giorno da pecora, mentre commentava la decisione del governo di proclamare il lutto nazionale a seguito della morte del leader di Forza Italia: «I funerali di Stato sono previsti ed è giusto che ci siano ma il lutto nazionale per una persona divisiva com’è stato Berlusconi secondo me non è una scelta opportuna».

Una voce fuori dal coro quella di Bindi, visto che nelle ultime 24 ore anche i “nemici” di sempre di Silvio Berlusconi, si sono uniti ai ricordi e agli addii.

La ex ministra continua: «In questo momento siamo nella fase della santificazione, a parte qualche eccezione, e questo non va bene. I conti col berlusconismo non sono stati fatti quando era vivo spero che verranno fatti ora. Berlusconi – ha proseguito Bindi – non è stato solo un politico, ha fatto l’imprenditore in un certo modo, porta con sé tanti misteri e non riesco a esaltarlo nelle sue capacità imprenditoriali. Se non avesse avuto la protezione della politica non sarebbe stato un grande imprenditore», ha concluso Bindi.

È intervenuta anche alla trasmissione di La7 Tagadà e anche lì ha confermato la sua contrarietà al lutto nazionale e ha aggiunto: «Che sia stato un promotore delle donne questo no. Ha usato le donne. Il senso di proprietà che esprimeva nei confronti delle istituzioni lo esprimeva nei confronti delle donne. Era innamorato di sé stesso. Una cosa buona? La determinazione, il coraggio. Si è sempre rialzato, anche se rialzandosi non è che facesse cose migliori delle precedenti. Però a me i combattenti piacciono, questo l’ho sempre apprezzato».


(Corriere della Sera, 13 giugno 2023)