di Shendi Veli


«Ti rissi no», tre parole che la forma dialettale, in palermitano, rende ancora più efficaci: ti ho detto no. Perché il consenso di cui tanto si parla e che molto si indaga è in fondo una cosa semplice. Lo hanno scritto a caratteri cubitali su uno striscione le attiviste di Non Una Di Meno Palermo, dopo lo stupro di gruppo avvenuto nella loro città.

«A Palermo in questi giorni si parla tanto di quello che è successo. È una cosa positiva che ci sia attenzione sul tema della violenza di genere ma questo episodio, emerso come un fatto eccezionale, in realtà è simile a tanti altri casi che avvengono ogni giorno. Quello che ha fatto la differenza è il modo in cui i media lo hanno raccontato. Ne hanno svelato ogni minimo dettaglio in una forma quasi morbosa». A parlare è Roberta Ferruggia, giovane attivista del collettivo transfemminista “Non Una di Meno Palermo”, che racconta i passaggi di una mobilitazione cittadina che mercoledì scorso ha dato vita a un’assemblea pubblica partecipata da diverse centinaia di persone.

Cosa vi ha spinto a convocare un’assemblea in piazza?

Avevamo già lanciato degli appuntamenti pubblici nei giorni precedenti. Una “passeggiata rumorosa” organizzata in poche ore appena è uscita la notizia e poi un presidio davanti al Tribunale, qualche giorno dopo, mentre erano in corso gli interrogatori dei giovani identificati come colpevoli. Ci siamo rese conto, anche da tutti i messaggi che sono arrivati sulle nostre pagine social, che la città ma anche noi stesse avevamo bisogno di un momento di confronto pubblico e collettivo. Molte reazioni di questi giorni sono state di pancia, l’obiettivo era canalizzare questo sdegno dentro un percorso cittadino ampio che metta al centro il contrasto alla violenza di genere.

Cosa è emerso da questo confronto pubblico?

Siamo rimaste colpite da come è andata. Non solo perché c’erano tantissime persone, molte lontane dai circuiti militanti, ma anche perché abbiamo elaborato un punto di vista davvero condiviso. Il fatto che non si tratta di un episodio isolato ma di un fenomeno strutturale che va affrontato nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Dai fischi per strada al gender pay gap, fino al lavoro di cura non retribuito. I femminicidi e gli stupri sono solo l’apice di una piramide che è la violenza di genere. E poi bisogna smettere di chiamarli “mostri, bestie, orchi” e riconoscere invece come la cultura dello stupro sia radicata nella società. È chiaro che fa paura pensare che tuo padre, tuo fratello, il tuo compagno, tuo zio possano fare qualcosa del genere. Ma è così. Non è una favola e non ci sono lupi cattivi.

Gli uomini hanno preso parola in questo momento di confronto?

Ha parlato solo un ragazzo del Palermo Pride. Ma in piazza c’erano tantissimi maschi. In questa occasione sono rimasti più che altro in ascolto.

Che risposte sono arrivate in questi giorni dalle istituzioni?

Questo è stato un altro tema centrale dell’assemblea pubblica. Un assessore della giunta di Palermo ha subito proposto di incrementare la presenza delle forze dell’ordine. Ma noi non vogliamo una militarizzazione dello spazio pubblico, perché le violenze sessuali avvengono ovunque. Stesso errore di chi ricerca la soluzione solo nei tribunali, senza dire che a volte chi denuncia una violenza viene messa a sua volta in qualche modo sotto processo.

Come Non Una Di Meno Palermo in quali ambiti siete attive maggiormente?

Questo collettivo nasce intorno al 2018. Negli hanno abbiamo costruito un gruppo ampio e un’ampia rete di alleanze cittadine. Noi ci occupiamo molto di salute, gestiamo uno sportello ginecologico all’interno di un ambulatorio popolare che si trova a Borgo Vecchio, dentro il centro sociale Anomalie. Qui a Palermo i consultori ci sono anche ma c’è un grande problema di personale che manca e soprattutto di attrezzature. Poi siamo attive nelle scuole dove facciamo degli incontri di educazione sessuale e di genere. Da lì ci rendiamo conto che tra i ragazzi e le ragazze c’è consapevolezza ma anche tanto bisogno di spazio per parlare di sé, di relazioni, di quello che gli accade.

Avete avuto contatti con la ragazza sopravvissuta alla violenza?

No, non la conosciamo e non abbiamo cercato in alcun modo di contattarla, per una forma di rispetto e di tutela, immaginando la pressione che starà subendo. Ma si può dire che tutto quello che abbiamo fatto pubblicamente in questi giorni ha voluto essere anche un messaggio a lei, che speriamo le sia arrivato in qualche modo. Volevamo dirle che non è e non sarà mai sola.


(il manifesto, 25 agosto 2023)

di Chiara Maria Lazzaretto


Chiara vive in Spagna da 18 anni, ha 39 anni, due bambini, segue molto da vicino il movimento femminista spagnolo e quello italiano.


21 Agosto 2023: le calciatrici della nazionale spagnola sono in prima pagina. Hanno vinto il campionato mondiale di calcio. Domenica in varie piazze si sono visti megaschermi e nei bar erano in molti sintonizzati ed emozionati per i successi della “Roja femenina” (“Rossa femminile”).

Puro entusiasmo e euforia, un successo della squadra, di tutte le donne e dello sport. Ma presto i toni festosi si sono affievoliti, ricordandoci che il cammino è ancora lungo.

In poche ore la notizia è diventata il bacio in bocca (rubato) che il presidente della federazione di calcio ha dato a una giocatrice a fine partita, al momento della premiazione. Il fatto che sia scoppiato lo scandalo è un buon segno, ma è comunque molto grave che sia successo e che ancora una volta sia caduta l’ombra su queste brillanti donne. Il terribile gesto è riuscito infatti a monopolizzare il momento di gloria della squadra, così faticosamente raggiunto.

Si è detto e scritto molto sia in Spagna e all’estero, su questa azione di puro maschilismo, sbattuto sugli schermi in modo così plateale, sull’abuso di potere e sulla difficile posizione della ragazza. Però, a mio avviso, non si è detto abbastanza sul mancato consenso. Eppure proprio il consenso è il nodo centrale di molte situazioni di abuso e l’aspetto fondamentale nella valutazione sociale e giudiziaria dei vari casi.

Per interi secoli non è mai stata neppure contemplata la questione di cosa potesse pensare la donna sull’uso del proprio corpo da parte dell’altro. Che lei fosse d’accordo non era condizione necessaria per il piacere dell’uomo.

La lotta femminista è riuscita a includere in questa equazione la donna che, passando da oggetto a persona, si è caricata di una serie inedita di caratteristiche. Le donne possono provare piacere o no. Possono voler avere rapporti o no. Possono persino arrivare a protestare. Non che questo potere abbia poi portato a un annullamento delle violenze sessuali, come è evidente, però ha aperto la porta alla questione del consenso. E così, per l’era moderna, il concetto è più o meno questo: il rapporto sessuale può essere consenziente o no. Il rapporto non consenziente è uno stupro.

Ma non è ancora così, perché il mondo cambia molto velocemente e il patriarcato ha la sorprendente capacità di adattarsi benissimo e in modo automatico ad ogni nuova situazione.

Nel libro Esto no es sexo- otra educazione sexual es urgente, Marina Marroquí Esclápez ha visto la necessità di includere una lista di segnali che può mandare la donna al momento del corteggiamento e avvicinamento sessuale che rendono chiaro il mancato consenso. L’autrice ha spiegato che alla fine delle sue lezioni nei licei, spesso i giovani le si avvicinano per dirle che non sono sicuri di capire quando la ragazza è d’accordo. E così nella lista ha dovuto includere dettagli per una donna vergognosamente ovvi come “chiude le gambe”, “stringe i pugni”, “le cade qualche lacrima”.

Nel libro non si mette in dubbio che i giovani siano confusi quando si fa riferimento al consenso, anzi. Ciò che fa l’autrice è spiegare il motivo di questa sorta di ottusità mentale di molti giovani maschi.

Il porno, ormai accessibile a tutti, che arriva da solo ai giovanissimi senza essere cercato, ha normalizzato un tipo di sesso fittizio e basato sulla dominazione maschile.

Da pochi giorni abbiamo potuto confermare le parole della Marroquí: a Firenze un gruppo di ragazzi, accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nel settembre del 2018, sono stati assolti perché, “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica della relazione con il genere femminile” (motivazioni della sentenza), non avevano capito che la ragazza non fosse consenziente.

Non è ammissibile giustificare uno stupro con l’ignoranza però è altrettanto fondamentale portare al centro del dibattito la gravità della situazione e l’urgenza di un’educazione specifica.

In un momento in cui la realtà virtuale sembra prendere il sopravvento senza nessun controllo su quella tangibile, esiste un mondo che a noi donne, non più bambine né adolescenti, appare alquanto distante, invece è molto presente nella quotidianità della maggioranza dei giovani. Credo sia fondamentale conoscerlo, cercare di capirlo e frenarne le tragiche conseguenze. 


(www.libreriadelledonne.it, 24 agosto 2023)

di Maria Cafagna


Non ho molto da aggiungere sui tragici fatti che hanno coinvolto una giovane donna a Palermo, semmai credo avremmo tutte e tutti bisogno di fare un grande lavoro di sottrazione rispetto a quello che sappiamo, che abbiamo voluto sapere, che abbiamo cercato e su quello che abbiamo appreso contro la nostra volontà.

Partiamo dai fatti e da qui in poi si parlerà si stupro, quindi se questo argomento risulta in qualche modo traumatico, chiudete questa mia e ci sentiamo la settimana prossima.

Una giovane donna ha denunciato di essere stata violentata da 7 uomini – di cui uno minorenne – nella notte tra il 6 e 7 luglio scorsi. Le indagini, le intercettazioni e le immagini delle telecamere di sorveglianza avrebbero confermato la versione fatta dalla vittima alle forze dell’ordine: la donna ha raccontato di essere stata invitata da una persona di sua conoscenza per un’uscita di gruppo al mercato della Vucciria di Palermo; lì la ragazza sarebbe stata indotta a bere e trascinata in stato di incoscienza in un’area isolata del Foro Italico dove sarebbe stata ripetutamente abusata dal branco. La ragazza avrebbe chiesto a più riprese di chiamare un’ambulanza ma ha chiamato prima il suo fidanzato e poi i soccorsi.

A seguito della denuncia, le indagini che hanno portato all’individuazione dei presunti colpevoli. Della violenza esisterebbe anche un video filmato da uno dei componenti del branco che avrebbe detto agli altri di averlo cancellato subito dopo i fatti, ma che invece avrebbe conservato. Secondo quanto riportato da diversi organi d’informazione, nell’ordinanza il gip ha scritto che gli indagati sarebbero stati “capaci tutti insieme di esprimere un comportamento altamente antisociale e devastante, nelle conseguenze fisiche e psichiche arrecate alla vittima” e avrebbero dimostrato una “elevatissima pericolosità sociale, di totale assenza di freni inibitori e di violenza estrema e gratuita ai danni di una vittima inerme, trattata come un oggetto, senza alcuna pietà”.

Fin qui i fatti terribili di quella sera che dovrebbero farci rabbrividire dall’orrore anche così. Eppure dopo che la notizia è stata resa nota molti giornali, diversi programmi televisivi e un numero imprecisato di account social hanno pubblicato molti dettagli sulla vicenda tra cui le immagini di video-sorveglianza che vedevano la ragazza scortata dal branco e i profili social dei presunti colpevoli.

Giova a questo punto ricordare che le sentenze le fanno i tribunali e non X o, come lo chiamavano tutti, Twitter: questo non vuol dire che dobbiamo accettare passivamente quello che ci dicono i giudici che, come abbiamo visto, in moltissimi casi si sono dimostrati incapaci di pene esemplari in casi di molestie o violenza sessuale e di genere; ma siamo davvero sicure che sia la giustizia sommaria la soluzione? Che alla violenza brutale con cui anche queste ore i maschi (e purtroppo moltissime femmine) si stanno trincerando al grido di not all man, occorra rispondere con altra violenza?

C’è chi ha chiesto la castrazione in caso di condanna (per poi fare marcia indietro quando a chiedere la castrazione chimica è stato Matteo Salvini), chi invocava la lotta armata, chi chiede di punire tutti gli uomini con la stessa medaglia con cui per secoli sono state sottomesse le donne: coprifuoco, censura, violenza.

Premesso che queste barricate io ancora non le ho viste forse perché molte persone sono ancora in ferie, ma anche se fosse la mia domanda è: a chi giova? A cosa serve invocare la violenza fisica (a parte ad alzare l’engagement)? E ancora, a cosa serve sapere cosa è stato fatto esattamente a quella povera ragazza, cosa si sono detti i presunti violentatori prima, dopo, durante? Che ci importa dove sono andati dopo aver commesso il reato? Perché aggiungere orrore ad altro orrore?

Molte persone hanno chiesto di smettere di pubblicare questo tipo di contenuti per non far rivivere il trauma alla vittima, ma io vi chiedo di tenere in considerazione anche un altro elemento: a chi è già sensibile a questo genere di tematiche, basta la fredda cronaca di quanto accaduto per provare rabbia e per chiedere che vengano applicate pene esemplari; ma credete davvero che le persone ignoranti, le persone malintenzionate, i porci e i pervertiti proveranno umana pietà leggendo quelle intercettazioni? La risposta è semplice ed è no. Prova ne è che in questi giorni su Telegram molti uomini stanno chiedendo la pubblicazione del video girato durante lo stupro da uno degli indagati. Cosa pensate che facciano queste persone davanti a questi racconti dettagliati, che corrano a mettersi il cilicio intorno alla coscia?

In uno dei suoi ultimi scritti Michela Murgia ha parlato di come i giornali trattano i casi di femminicidio perpetuando, di fatto, lo stigma della vittimizzazione secondaria; noi che diciamo di avere a cuore la giustizia, la solidarietà e la tutela delle persone più fragili, dovremmo domandarci anche qual è il modo corretto per raccontare uno stupro e dovremmo farlo non tanto e non solo per non dare in pasto alla feccia dei dettagli per loro “intriganti”, ma per tutelare le vittime.

Dovremmo lavorare di sottrazione e non di addizione alla violenza, specie se quella violenza che applichiamo seppur con nobili intenti, ricalca nelle forme e nei contenuti la violenza sessista e machista a cui siamo state e a cui siamo ancora sottoposte in varie forme, nei contesti più disparati, tutti i giorni.

Lo so, spaccare tutto in senso fisico e metaforico ha un che di liberatorio, ma alla lunga non serve. Come dice Niccolò Fabi in un bellissimo pezzo, nel mezzo c’è tutto il resto e tutto il resto è giorno dopo giorno e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire.

Bene, non dico di farlo silenziosamente, anzi, ma ora come ora e specie dopo la scomparsa di Michela Murgia, occorre costruire un’alternativa al pietoso stato delle cose e lasciarci alle spalle un modo di raccontare, vivere e guarire il mondo che ha portato a ingiustizie, squilibri e infelicità. Dovremmo farlo a cominciare dalle parole che, come diceva un certo neo-settantenne, sono importanti.


(Newsletter Wired – Roba da femmine, 23 agosto 2023)

di Francesco Vignarca*


Il film sulla figura di Oppenheimer, coordinatore scientifico del Progetto Manhattan, può essere una buona occasione per continuare a riflettere sul pericolo ancora oggi rappresentato dalle armi nucleari. Una consapevolezza riemersa dopo decenni di sottovalutazione (nei quali solo le organizzazioni della società civile hanno continuato a sottolineare la necessità di arrivare a un disarmo completo) a seguito dell’uso latentemente “ricattatorio” che Putin ne fa nel contesto della guerra in Ucraina.

Ben venga quindi aprire una finestra sul percorso che ha portato all’utilizzo come arma delle forze nascoste negli atomi (e poi nei nucleari), progetto inedito per complessità e dimensioni e di certo guidato da ingegni eccezionali. Senza però cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata.

E, soprattutto, dimenticare la questione più grave e concreta: gli impatti sulle persone, non solo in Giappone ma anche in tutti quei luoghi in cui sono stati condotti i circa 2.000 test nucleari dal 1945 in poi.

IN PRATICA occorre evitare di farsi trascinare nei soli incubi personali del fisico protagonista di questa biografia per immagini: il vero delirio è stato (e continua ad essere) collettivo. Tanto più che Oppenheimer, tormentato per anni da visioni di funghi atomici su città e ondate di radiazioni distruttive come conseguenza della potenza che il suo lavoro stava scatenando come moderno vaso di Pandora, non poteva nemmeno avere la consapevolezza degli scenari ancora peggiori che gli studiosi hanno potuto elaborare successivamente.

Oggi infatti sappiamo che una singola guerra nucleare, anche una combattuta con sole poche decine di testate, potrebbe mandare la Terra in uno stato apocalittico chiamato inverno nucleare (un raffreddamento anche di 15 gradi indotto da un inquinamento così forte da bloccare i raggi solari) con miliardi di persone che morirebbero di fame. Senza dimenticare che buio, freddo e radiazioni nucleari distruggerebbero gran parte della vita animale e vegetale della Terra.

Gli analisti ritengono che una guerra nucleare tra Stati uniti e Russia potrebbe far morire di fame cinque miliardi di persone, cioè un numero di vittime più di dieci volte superiore a quelle che morirebbero per gli effetti diretti delle bombe lanciate. Una guerra nucleare di minore entità tra India e Pakistan porterebbe invece a una scenario con circa due miliardi di morti.

Oltre il ricordo di una storia di certo spartiacque nella storia umana, il film di Christopher Nolan avrà una reale utilità culturale solo se porterà gli spettatori a domandarsi perché nel XXI secolo esistano ancora armi nucleari, come potrebbero essere usate e le motivazioni di chi continua a volerle. Rigettando ogni deriva di “fascinazione” per la grande impresa tecnologica realizzata che un racconto così epico potrebbe invece generare.

La genialità scientifica è infatti inevitabilmente accompagnata da fallimenti e fragilità umane. E le scelte di molte persone se corrotte da ego, potere e ambizione, possono plasmare la storia portandola quasi alla folle autodistruzione. Senza però dimenticare che il Gadget – soprannome della prima bomba fatta esplodere nel luglio del 1945 durante il Trinity Test – e tutti gli ordigni a esso successivi sono strumenti costruiti dall’umanità che possono (devono!) essere smantellati dall’umanità.

LA SPERANZA è che anche questo film stimoli molti a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale nucleare globale rappresenta per tutti noi, ancora oggi. Rendendosi conto che un qualsiasi uso di armi nucleari (anche se presentato come razionale, o derivante dalla falsa teoria della deterrenza) sarebbe una catastrofe senza limiti per la quale non sarebbe possibile alcuna gestione emergenziale.

E in questo l’opera di Nolan commette un grave errore: concentrandosi così intensamente sul dramma di una persona riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali.

Mancano all’appello l’esproprio delle famiglie locali e delle popolazioni indigene a Los Alamos, la mancanza di misure di protezione per le popolazioni sottovento al fallout del Trinity Test (che oggi sappiamo aver coperto quasi tutti gli Stati uniti arrivando fino al Canada e al Messico) che ha causato per decenni malattie legate alle radiazioni e persino la morte di due scienziati del Progetto Manhattan.

E ovviamente l’incenerimento degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki con bombe lanciate espressamente per causare il massimo numero di vittime umane: due armi nucleari di dimensioni tattiche relativamente piccole per gli standard odierni) capaci di uccidere 230mila persone. Nessuna considerazione sulle armi nucleari dovrebbe essere separata da ciò che tali armi effettivamente provocano.

Perché invece le elucubrazioni del potere sui temi legati allo sviluppo di armamenti cercano sempre di massimizzare i “vantaggi” politici e strategici (spesso più teorici che reali) eliminando dall’equazione le persone e i popoli.

Lo dimostra la stessa storia del Progetto Manhattan, la cui motivazione di base derivava dal timore che la Germania nazista fosse in vantaggio nello sviluppo della bomba atomica e che, se fosse arrivata prima, non avrebbe esitato a usarla con effetti terrificanti. Ma già alla fine del 1944 era diventato chiaro come il programma tedesco fosse in fase di stallo per nulla vicino ad ottenere un ordigno funzionante.

Perché a quel punto il progetto statunitense non fu abbandonato? Perché ormai l’investimento politico, finanziario e scientifico che vi era stato riversato aveva acquisito uno slancio tale da farlo proseguire a pieno ritmo in una maniera ormai inarrestabile. Solo uno degli scienziati coinvolti, Joseph Rotblat, in seguito insignito del Premio Nobel per la pace per i suoi sforzi a favore del disarmo, ebbe l’integrità e il coraggio morale di abbandonare il Programma quando le ragioni per cui era stato istituito, e per cui lui stesso vi si era associato, svanirono.

L’USO della bomba contro il Giappone non faceva parte di tali ragioni originarie e già nel 1944 l’obiettivo politico principale del programma era diventato quello di massimizzare l’influenza e il potere postbellico degli Stati uniti d’America contro l’Unione sovietica.

Addirittura fino al primo test nucleare Trinity del 16 luglio 1945 vi era incertezza scientifica sulla possibilità che l’esplosione potesse incendiare l’atmosfera terrestre e porre fine alla vita sulla Terra (fino all’ultimo momento lo stesso Enrico Fermi aveva raccolto scommesse a riguardo…): anche se l’evidenza scientifica lo considerava molto improbabile, il fatto che il test sia stato condotto nonostante non si potesse escludere una possibilità così devastante è profondamente inquietante. E significativo: come si è potuto decidere di correre un rischio così terribile?

Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Oppenheimer e molti altri scienziati del Progetto Manhattan erano profondamente preoccupati per le implicazioni del frutto del loro lavoro sul futuro dell’umanità: “L’atomo lacerato, non controllato, può essere solo una minaccia crescente per tutti noi”, scrisse profondamente convinto che l’accesso alla bomba atomica si sarebbe inevitabilmente allargato in assenza di un controllo internazionale.

Non a caso in una conferenza stampa del marzo 1963 l’allora presidente degli Stati uniti John F. Kennedy disse chiaramente: “Vedo la possibilità che negli anni Settanta il presidente degli Stati uniti debba affrontare un mondo in cui 15 o 20 o 25 nazioni possano avere armi nucleari. Lo considero il più grande pericolo e rischio possibile”. Tra questi c’era anche l’Italia, con il proprio programma nucleare militare implementato vicino a Pisa.

UNA STRADA ben diversa, e ancora oggi pericolosa, da quanto scritto invece nel 1948 da Robert Oppenheimer: “Se la bomba atomica doveva avere un significato nel mondo contemporaneo, doveva essere quello di dimostrare che non l’uomo moderno o i suoi eserciti, ma la guerra stessa era obsoleta. Cosa si può fare con questo terribile sviluppo per renderlo uno strumento per la conservazione della pace?”.

Per decenni non si è fatto nulla ma ora non c’è più tempo da perdere: le armi nucleari sono “kamikaze globali” che potrebbero colpire tutti. Sono state create in maniera collettiva, perciò anche la loro totale eliminazione dalla storia dovrà nascere da uno sforzo allargato, in cui tutti (persone, comunità, istituzioni) sono chiamati a dare il proprio contributo.


*Francesco Vignarca è Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo e autore del libro Disarmo nucleare


(il manifesto, 23 agosto 2023)

di Jennifer Guerra


Non è trascorsa nemmeno una settimana dalla divulgazione della notizia, che il nome della vittima dello stupro di gruppo avvenuto a Palermo sta già circolando su Internet, specie su TikTok dove in queste ore i video dedicati alla vicenda stanno diventando sempre più virali. Dopo l’esposizione di nomi e profili social degli indagati, oltre che dei loro genitori, quella curiosità morbosa fatta passare per desiderio di giustizia si è spinta là dove non c’è alcuna giustificazione che tenga.

Le generalità di una vittima di violenza sessuale, però, non vanno divulgate. La regola non si limita ai soli reati sessuali, ma in questi casi le accortezze dovrebbero essere moltiplicate, perché la violenza di genere non è un fatto di cronaca come un altro. La violenza di genere non è un fatto di cronaca come un altro

Quando si parla di violenza sessuale si tende a non pensare che la vittima sia una persona in carne e ossa, che vive nel presente, che usa i nostri stessi social, legge i nostri stessi quotidiani e guarda i nostri stessi telegiornali. La figura della vittima, nel nostro immaginario, diventa quasi un fantasma. Sappiamo che c’è, ma la rimuoviamo, la trasformiamo in qualcosa – una vittima, appunto – dimenticandoci che è qualcuno.

Questo accade spesso anche per le vittime di femminicidio, la cui identità spesso viene cancellata in favore di un racconto morboso di chi è l’assassino, che lavoro fa, quanto guadagna, cosa scrive su Facebook e così via. Le vittime di femminicidio non possono assistere a tutto questo processo che le riguarda, ma chi sopravvive a uno stupro sì.

Dobbiamo immaginarci questa giovane donna che dopo l’enorme trauma che ha subìto, dopo aver visto su tutti i social il volto dei suoi stupratori, dopo che ha scoperto il contenuto delle chat che si sono scambiati, dopo che ha assistito alla creazione di gruppi Telegram per scambiarsi il video del suo stupro, ora si ritrova taggata in migliaia di post su Instagram e si ritrova protagonista di altrettanti video su TikTok che macinano news sulla sua storia.

L’invisibilizzazione delle vittime può far pensare erroneamente che sia giusto valorizzare la loro presenza quando si parla di casi come questo: perché sappiamo tutto dei sette indagati e non sappiamo nulla di lei? Perché loro possono rilasciare dichiarazioni e lei no? Il problema è che lei non ci ha chiesto di essere visibile, non si è fatta avanti, non ha detto: “Eccomi qui” e soprattutto non ci deve alcuna di queste cose, se non lo desidera. I comportamenti successivi alla violenza sessuale possono essere i più diversi, dall’isolamento, alla negazione, alla rabbia incontrollabile, al desiderio di essere viste e riconosciute. Ma nessun comportamento è giusto o sbagliato, oppure dovuto, a maggior ragione se parliamo di qualcosa di emotivamente sfiancante come l’esposizione mediatica.

Non è difficile capire perché una vittima non voglia esporsi. Anche di fronte a un caso così terribile, corroborato da numerose prove e testimonianze, c’è chi ha il coraggio di scagliarsi contro di lei o di attribuirle parte della colpa. Figuriamoci se questa generica “lei” diventa una persona identificata da un nome e un cognome.

Nel 1991, due anni dopo il gravissimo caso di stupro a Central Park che ridusse in fin di vita una jogger di 29 anni, la scrittrice statunitense Joan Didion scrisse un lungo articolo sul New York Review in cui ragionava sull’opportunità dell’anonimato per le vittime di stupro. Negli Stati Uniti non c’è questo obbligo (anzi, la libertà di espressione protetta del primo emendamento dà tutto il diritto di rendere noto il nome), ma è comunque una convenzione abbastanza diffusa. Didion si chiedeva se l’anonimato non finisse con il creare ancora più stigma rispetto a questo crimine, alimentando l’idea che una vittima di violenza dovrebbe vergognarsi o nascondersi per quanto subìto. In fondo, i giornali avevano già divulgato tutti i dettagli possibili su di lei, dall’indirizzo di casa, al posto di lavoro, al fatto che fosse vegetariana. Decine di dettagli, tranne il nome.

L’anonimato, scriveva Didion, si basa su una convenzione basata su “un numero di assunzioni dubbie, addirittura magiche. La convenzione dà per scontato, fornendo alle vittime di stupro una protezione che non è garantita alle vittime di violenze diverse, che lo stupro implichi una violazione assente da altri tipi di violenza”. Il ragionamento di Didion è molto complesso e fa riferimento al concetto di onore, nonché al razzismo (all’epoca si pensava che a commettere lo stupro fossero stati cinque giovani uomini di colore, che molti anni dopo si scoprirono essere innocenti).

Ma il motivo per cui in queste ore il nome della vittima di Palermo sta circolando è del tutto estraneo a ragionamenti come quelli di Joan Didion, che puntavano proprio a valorizzare l’autonomia decisionale. Dietro la diffusione della sua identità si cela piuttosto un meccanismo che ricorda il controverso caso di stupro dell’Università della Virginia del 2014, poi rivelatosi infondato. In quel caso il nome e i profili social della presunta vittima furono divulgati su Twitter da un blogger dell’estrema destra americana con l’intento di screditarla. Nel giro di poche ore si consumò un fuoco incrociato di tweet tra troll conservatori e social justice warrior, ciascuno con la propria agenda politica: i primi volevano attaccare la presunta vittima, i secondi sentirsi dei salvatori nei suoi confronti. Il problema è che mentre il nome di questa donna continuava a circolare e diventava il centro dell’ennesima guerra culturale, a nessuno importava davvero di lei (o della fondatezza delle sue accuse).

In questo caso ci troviamo di fronte ad accuse ben documentate e fondate, ma la sostanza non cambia: taggando questa donna sui social, svelando il suo nome in post e video, vogliamo davvero esprimerle la nostra vicinanza, vogliamo spostare i riflettori su di lei con le nostre migliori intenzioni o vogliamo fare qualcos’altro? Ad esempio, alimentare il nostro ego ricompensandolo in like, condivisioni e visualizzazioni, sentirci dalla parte giusta della storia, fare la nostra “buona azione” quotidiana sui social per poi aspettare il prossimo caso che ci indignerà e ricominciare da capo? Anche se adesso scriviamo un nome e un cognome, stiamo comunque costruendo un fantasma, dimenticandoci che in questa storia c’è una persona che non ci ha chiesto di fare niente per lei. E se ci importasse davvero qualcosa di lei, o della violenza di genere, rispetteremmo questa sua volontà.


(fanpage.it, 22 agosto 2023)

di Chiara Saraceno


L’accavallarsi di femminicidi, stupri o tentati stupri, molestie sessuali più o meno pesanti, ma anche ritardi negli interventi giudiziari, sottovalutazione delle denunce e richieste di aiuto, sentenze di assoluzione con argomentazioni sorprendenti, mostra che siamo di fronte ad un enorme problema culturale. Riguarda trasversalmente tutti i ceti sociali e tutte le istituzioni, in particolare di quelle – polizia, carabinieri e magistratura – che avrebbero il compito non solo di evitare che accada il peggio e di proteggere le vittime, ma anche di ribadire l’inviolabilità del corpo femminile. «Il corpo è mio e lo gestisco io» cantavano le femministe negli anni Settanta, per denunciare il divieto di contraccezione e aborto, la doppia morale che consentiva agli uomini ogni libertà sessuale, ma divideva le donne in “perbene” e “puttane” solo in base al loro comportamento sessuale. A cinquant’anni di distanza, non solo la cultura che il femminismo denunciava continua a lavorare sotterraneamente, ma quel canto liberatorio da troppi uomini viene rovesciato in “la donna è mia e ne faccio quello che voglio io”. Sono gli uomini che uccidono le proprie compagne o ex compagne perché non ne accettano comportamenti e decisioni, come se la ferita narcisistica di una separazione o dell’essere sostituiti con qualcun altro potesse essere solo sanata con il sangue – con il buon vecchio delitto d’onore. Sono gli uomini che ubriacano le proprie amiche o chi incontrano per caso una sera al bar o in discoteca, o aspettano che lo facciano da sole, per poi stuprarle. Sono gli uomini che aggrediscono e violentano, anche in pieno giorno, una donna che passeggia, va al lavoro, corre in un parco. Sono gli uomini che mettono le mani addosso, palpeggiano, si strusciano, sui mezzi pubblici, al lavoro, persino sulle scale di una scuola. Purtroppo questi uomini talvolta trovano responsabili della sicurezza che non ascoltano con abbastanza attenzione le denunce e richieste di aiuto delle donne, come è avvenuto da ultimo ad Anna Scala, uccisa dall’ex marito nonostante mesi di denunce che non sono bastate a far scattare il codice rosso e relativo protocollo di messa in sicurezza. Talvolta trovano giudici che giustificano il femminicidio con l’attenuante della provocazione da parte della vittima, non perché questa avesse iniziato per prima ad aggredire chi poi la ha uccisa, ma perché con il suo comportamento (rapporti con altri uomini) lo aveva offeso, una riedizione del delitto d’onore.

Oppure lo giustificano, come è avvenuto di recente al tribunale di Roma in un caso di stupro di gruppo, perché gli autori «condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile hanno errato nel ritenere sussistente il consenso».

Analogamente significativa è stata la sentenza che ha mandato assolto il bidello che aveva messo le mani nelle mutandine di una ragazza che saliva le scale, sollevandola poi di peso. La brevità dell’atto, il fatto che sia avvenuto in luogo pubblico, ha indotto la giudice a valutarlo come gesto scherzoso. Poi ci si stupisce che le donne facciano così fatica a denunciare.

Minacciare la castrazione chimica, come periodicamente propone Salvini, non serve. Il timore della pena non è mai stato un deterrente efficace per i delinquenti, non si vede come possa esserlo per chi non è capace culturalmente di accettare l’autonomia delle donne e l’inviolabilità dei loro corpi. Occorre certo rafforzare gli strumenti che rendono operativo il codice rosso. Ma occorre anche un lavoro culturale diffuso che aiuti a costruire un modello di maschilità che non dipenda da un malinteso senso di superiorità e possesso nei confronti delle donne, e anche che sia meno animalesco – «Faceva un po’ schifo – ha scritto in una chat uno dei sette stupratori di una ragazza di Palermo – eravamo come cento cani sopra una gatta, ma la carne è carne». Un lavoro che deve iniziare dai bambini e dai loro educatori/educatrici, rafforzare il processo già iniziato nelle Forze dell’ordine, investire sistematicamente la magistratura. Anche il sistema di comunicazione deve fare la sua parte e le sue autocritiche.


(la Repubblica, 21 agosto 2023, pubblicato con il titolo “Come educare i maschi”)

di Shendi Veli


Un agosto difficile per le donne in Italia. Ai casi di violenza domestica e femminicidio si aggiunge il sessismo dei tribunali. In questi giorni sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza del Gup di Firenze, emessa il 28 marzo 2023, con la quale il giudice ha assolto due ragazzi accusati di stupro, ritenuti non punibili perché avrebbero commesso «un errore di percezione del consenso». Elena Biaggioni, avvocata penalista e vice presidente della rete dei centri anti-violenza Dire, commenta la decisione.

Nella sentenza di assoluzione si parla di «errore sul fatto che costituisce reato» e di «errata percezione» del consenso. Quale è la cornice giuridica di queste motivazioni?

Attualmente il modello normativo italiano non è consensualistico. Nella legge che regola la violenza sessuale, la 609 bis del codice penale, non è mai citato il consenso. La rilevanza del consenso è tuttavia pacificamente riconosciuta dalla Corte di Cassazione da tempo con una giurisprudenza consolidata. Il tema del consenso è entrato nella pratica dei tribunali anche con le convenzioni internazionali. La Convenzione di Istanbul sancisce che la mancanza del consenso è la base giuridica della definizione di violenza sessuale e, ripeto, la Corte di Cassazione ha recepito da tempo la necessità di interpretare le norme interne anche alla luce di quelle sovranazionali. Ora gli strumenti giuridici ci sono, ma il percorso di applicazione è complesso.

Cosa impedisce in sede processuale di dare rilevanza all’elemento del consenso?

Il problema è soprattutto culturale. Giudici e operatori del diritto ragionano in termini di «violenza, minaccia, abuso di autorità», continuando a interpretare la violenza sessuale come un’azione annunciata da gesti brutali. Per riconoscere la violenza è necessario emanciparsi da tale lettura. Indagare il consenso è un’operazione più complessa che rischia di introdurre elementi utili alla ricostruzione, che spesso si rivelano intrisi di pregiudizi e stereotipi sessisti. Si chiama cultura dello stupro e indica proprio questo: nella società, come nelle aule di tribunale, si attribuiscono significati impliciti ai comportamenti della vittima che vanno nella direzione di minimizzare la gravità del fatto e di fornire una giustificazione ai colpevoli.

Nella sentenza di Firenze vengono elencati come elementi a favore dell’assoluzione il fatto che «la ragazza era in uno stato di alterazione più o meno accentuato e non appariva in grado di esprimere un valido consenso» e che «aveva avuto, nei mesi precedenti, dei rapporti sessuali con un imputato».

Entrambi questi elementi dovrebbero costituire delle aggravanti. Si dovrebbe protestare per il modo in cui vengono impostati questi processi. Essere ubriachi semmai può ostacolare la formazione del libero consenso quindi la logica sarebbe inversa. Se qualcuno entra in casa mia il giudice non si preoccupa di capire se ero ubriaca e se ho manifestato abbastanza dissenso ma si basa sul fatto che la persona è entrata senza un mio invito. Per lo stupro invece si parte dal presupposto che la donna sia costantemente disponibile al rapporto sessuale e che in caso contrario debba fornire le prove evidenti della sua contrarietà. Il fatto di aver avuto in precedenza un flirt con uno degli imputati invece mostra un pregiudizio ancora più duro da estirpare: quello per il quale la violenza sessuale è un reato commesso da estranei. Secondo i dati dell’Istat sono soprattutto persone conosciute dalla vittima, partner o ex partner, a commettere questo crimine.

Questa sentenza non è l’unica ad aver suscitato critiche.

Nel 2021 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per una sentenza ritenuta discriminatoria su un caso di violenza sessuale. In quel caso la ragazza che aveva denunciato era stata definita «disinibita», specificando che indossava degli «slip rossi». Un altro esempio è la recente sentenza del Tribunale di Roma sul caso del collaboratore scolastico accusato di palpeggiamento. I due motivi principali alla base dell’assoluzione sono la breve durata del gesto e il fatto che sia avvenuto in pubblico. Due condizioni che sappiamo bene caratterizzano questo tipo di azioni, come nel caso delle molestie sui mezzi pubblici.

Quali sono gli strumenti per portare la cultura del consenso nelle aule di tribunale?

Bisogna fare un grande lavoro di formazione degli operatori della giustizia. Ma non basta un corso di due giorni. Bisogna insegnare a riconoscere gli stereotipi e i pregiudizi in materia di violenza sessuale, serve una rivoluzione culturale all’interno dei tribunali, in Spagna per una sentenza su un caso simile ci sono state manifestazioni oceaniche. Forse dobbiamo ricominciare a presidiare questi processi.

Stiamo andando nella direzione giusta o c’è una regressione?

Credo che dei progressi siano stati fatti, soprattutto perché sentenze di questo tipo ci sono sempre state ma ora finalmente, anche grazie al lavoro dei media, se ne parla. Analizzare il linguaggio, le parole di queste sentenze, più che gli esiti dei singoli casi, è utile a capire le distorsioni del nostro sistema culturale.

Il Gup di Firenze spiega che tra i motivi della non punibilità c’è il fatto che i ragazzi non avrebbero avuto gli strumenti per riconoscere il mancato consenso a causa di una «concezione pornografica o distorta della sessualità» o di « deficit educativi».

Innanzitutto bisogna evitare qualsiasi parallelismo tra il sesso e la violenza sessuale. In alcuni paesi del nord Europa il termine è mutato in violenza sessualizzata (sexualized violence) proprio per sottolineare che si tratta di una forma specifica di violenza che usa la sessualità per opprimere e annientare l’altro. Aggiungo che sono anni che chiediamo incessantemente di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole, l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non averla. Non solo, non si fanno nemmeno campagne pubbliche per sensibilizzare sul consenso. Continuiamo a trattare questo argomento come un tabù.


(il manifesto, 19 agosto 2023)

di redazione


Olga Karatch, la pasionaria nonviolenta pacifista bielorussa, giornalista, politica e nemico pubblico numero uno del regime di Lukashenko, dal quale è accusata di terrorismo, ora si ritrova nel mirino anche della Lituania.

Sembra incredibile, ma è vero. Anche se è avversaria del regime di Minsk, di Putin e dell’intervento militare russo in Ucraina, per Vilnius ha un difetto, evidentemente: è bielorussa e quindi pericolosa. Come se tutti gli italiani venissero considerati mafiosi.

Infatti, Olga vive in esilio a Vilnius perché in patria l’attende una condanna a morte, ma si è vista rifiutare la domanda di asilo politico e protezione presentata un anno fa al governo della Lituania. La motivazione, incredibile, è che la Karatch rappresenterebbe “una minaccia per la sicurezza nazionale della Repubblica di Lituania”.

Evidentemente le sue posizioni contrarie alle armi e al diritto all’obiezione di coscienza danno fastidio danno fastidio non solo in Russia e Bielorussia, ma anche in Lituania, che, ricordiamo, è un Paese d’Unione Europea.

Fondatrice e leader dell’organizzazione internazionale Our House per i diritti umani, Olga Karatch, ha fatto parte dell’opposizione a Lukashenko e per questo è stata classificata come “terrorista” dal Kgb bielorusso e inserita nell’elenco dei nemici del regime.

Espatriata in Lituania, ha proseguito l’attività pacifista soprattutto a favore degli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva bielorussi, con la campagna “No significa No” contro la mobilitazione e la coscrizione militare, per sottrarre braccia e fucili all’esercito di Lukashenko, che a suo avviso si appresterebbe a preparare un secondo fronte contro l’Ucraina, a fianco della Russia di Putin.

“Questa decisione mira a screditarmi come difensora dei diritti umani – dice a caldo Olga Karatch – è un tentativo di costringermi al silenzio anche come femminista e limitare le mie attività per la pace e i diritti di chi rifiuta le armi e l’esercito”.

Consola che il provvedimento di diniego non prevede un decreto di espulsione, estradizione e rimpatrio, proprio in considerazione del fatto che in Bielorussia l’attenderebbe la pena capitale, e anzi le viene rinnovato il permesso di soggiorno in Lituania per altri due anni. In qualche modo lo standard europeo viene rispettato, ma resta il fatto politico, grave, del rifiuto di protezione a una persona minacciata, che non ha compiuto alcun reato sul territorio dell’Unione Europea.

La Campagna di Obiezione alla guerra ha espresso immediata solidarietà e ha garantito le risorse necessarie per la difesa legale e il ricorso alla Corte Suprema e se necessario alla Corte europea per i diritti umani, con il patrocinio dell’avvocato Nicola Canestrini, legale del Movimento Nonviolento, che subito si è messo a disposizione.

Olga Karatch rappresenta una figura di spicco del movimento pacifista europeo, insieme a Yurii Sheliazhenko anche lui proprio in questi giorni sotto attacco, accusato ingiustamente e falsamente di “giustificare la guerra di aggressione russa” e per questo sottoposto agli arresti domiciliari.

“La verità – spiega Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento – è che l’obiezione di coscienza, la diserzione, la renitenza alla leva, sia in Bielorussia che in Russia come in Ucraina, sono ormai un fenomeno di massa che inizia a fare paura ad entrambi i fronti. Sottrarre persone agli eserciti, rifiutare la logica delle armi, opporsi alla mobilitazione militare, è la strategia della nonviolenza, che è efficace perché senza soldati che sparano, la guerra non si può fare. È necessaria ora un’azione politica che punti a un obiettivo preciso: chiediamo all’Unione Europea e ai governi nazionali (dunque anche al governo italiano) che venga riconosciuto lo status di rifugiati politici a tutti quei giovani russi, bielorussi e ucraini che rifiutano di combattere e si tolgono la divisa. La via della pace passa innanzitutto dal ripudio concreto della guerra.»


(Avvenire, 18 agosto 2023)

di Susanna Ronconi


Il carcere delle Vallette a Torino ha un tragico primato di morte delle donne: nel 1989 nove detenute e due agenti morirono nell’incendio del braccio femminile. Una morte evitabile, causata dall’incuria e dai ritardi nei soccorsi. Oggi, di nuovo, le donne pagano il prezzo di una detenzione che porta alla disperazione e all’impotenza. In quel carcere tre donne sono morte dalla fine di giugno: Graziana e Azzurra si sono suicidate, una sarebbe uscita dopo pochi giorni, l’altra tra meno di un anno. Non è la durata della pena a fare paura, è il vuoto, è l’incertezza del domani, è un carcere che inchioda all’impotenza mentre spreca retorica sul reinserimento.

Susan è stata lasciata morire per uno sciopero della fame e della sete, nell’attesa di poter rivedere suo figlio, senza che nessuno si interrogasse – ben prima di psichiatrizzarla – sulla ragione del suo gesto e su come quella ragione si potesse rispettare, soccorrendola non attraverso l’alimentazione forzata ma riconoscendo la legittimità del suo bisogno. Trattandola da donna, persona, madre. Sarebbe stato davvero così difficile darle una qualche certezza sul rivedere suo figlio, sul mantenere un rapporto materno con lui?

Non sappiamo se questo sarebbe bastato a salvarla, certo avrebbe almeno colmato quel vuoto oscuro di etica, diritti e di rispetto della vita che questa morte ci mostra, impietosamente e oscenamente.

Il carcere delle donne è segnato da dolore al pari di quello degli uomini, ma non nello stesso modo. Non è solo il peso del doppio stigma, per aver commesso un reato e per aver infranto i copioni di genere patriarcali, che le segna con un giudizio che la lotta delle donne non ha ancora sconfitto; e non è solo nemmeno il di più di abbandono che opprime il carcere femminile, costruito dentro un universo maschile, carcere dei piccoli numeri, su cui non si investe. È che le donne portano su di sé, per storia, ruolo sociale e cultura, la bellezza, la responsabilità, il peso della cura delle relazioni affettive, famigliari, amicali, e la deprivazione di questa dimensione in particolare le mortifica, le umilia, le fa soffrire, attacca e invalida una parte importante del loro essere donne adulte.

Questa sofferenza è anche più grande quando la relazione negata è quella materna. Ma va detto, va urlato, che è una sofferenza non necessaria, che un carcere dei diritti, un carcere costituzionale, avrebbe il compito di limitare, compiendo ogni sforzo per salvaguardare il legame materno, rendendo accessibili pene alternative al carcere per le donne madri, sostenendole nella continuità genitoriale quando sono povere di risorse e di rete sociale.

Non è così, anche se le leggi ci sono. Anzi, il carcere del populismo penale si prepara non solo a stravolgere l’articolo 27 della Costituzione, ma per le donne ha in serbo anche la perdita della potestà genitoriale come pena aggiuntiva, sempre e comunque in caso di pena superiore a cinque anni. È la recente proposta di Fratelli d’Italia, contro cui nei mesi scorsi la campagna Madri fuori dal carcere e dallo stigma ha lanciato opposizione e resistenza. È il fantasma patriarcale della «cattiva madre» che torna a colpire le donne detenute e a imporre alle madri e ai loro bambini e bambine un’inaccettabile sofferenza.


(il manifesto, 13 agosto 2023)

di Vanessa Roghi


Ho letto il primo libro di Agatha Christie intorno ai 12 anni. Me l’ha dato mia zia Grazia in una delle lunghe estati che passavo con lei sul Monte Amiata. Si intitolava L’assassinio di Roger Ackroyd. Non era il primo libro che Christie aveva scritto, non lo sapevo ovviamente, né mi interessava allora, ma avevo già una certa attenzione per le cronologie perché, l’anno prima, Sandro detto il Polpo, un amico dei miei genitori, aveva iniziato a regalarmi i dischi dei Beatles registrati su audiocassetta, in ordine cronologico. Mi aveva detto che bisognava ascoltarli così.

In effetti, a pensarci bene, anche mia zia mi disse subito qualcosa che aveva a che fare con la cronologia, se non dei libri, certo dei personaggi. Mi disse che dovevo stare molto attenta a non leggere Sipario, l’ultima avventura di Poirot, e il motivo era evidente. In quel libro Poirot moriva. Ubbidii, e iniziai a passare le mie giornate a leggere quei romanzi color giallo che, però, trovavo solo a casa sua. Quindi, d’inverno, continuavo a saccheggiare la biblioteca della mia mamma e leggevo quello che leggeva lei: Hermann Hesse, Raymond Queneau, Linus (la rivista) e FMR (la rivista). Nemmeno a scuola c’era Agatha Christie. La mia biblioteca scolastica delle elementari mi aveva introdotto al Corriere dei piccoli, a Asterix e a Piccole donne, La figlia del capitano, Pattini d’argento, ma di gialli nemmeno l’ombra. Doveva essere una cosa che riguardava pochi iniziati come me e mia zia e quindi era chiaramente bene non parlarne né a scuola né con nessuno.

Così ho attraversato gli anni delle scuole superiori e poi quelli dell’Università coltivando questa passione in segreto. C’era sempre qualcuno che per fare il ganzo citava Georges Simenon. Grazie, erano buoni tutti a citarlo: a quel tempo (e ancora oggi) lo pubblicava già Adelphi. Ma Christie no, non la citava nessuno intorno a me. Se ci penso, adesso, mi sembra che il momento in cui questa passione è stata sdoganata ha coinciso con l’esplosione della moda dei gialli “blu” di Sellerio e io ho iniziato a non sentirmi più sola. Grazie mille, Andrea Camilleri (e Leonardo Sciascia), sempre. La verità è che sola, ovviamente, non lo ero mai stata. Noi lettori appassionati eravamo e continuiamo a essere miliardi, eppure la letteratura cosiddetta di genere continua a essere considerata letteratura di serie B, come la chiamava Gianni Rodari. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, sono diventata adulta leggendo tutti i romanzi di Agatha Christie per poi dimenticarli e rileggerli fino alla scoperta della sua autobiografia, bellissima, dove ho incontrato una donna dalla vita sorprendente: gli inverni dell’infanzia in Francia perché il padre affittava casa ai ricchi americani; i viaggi in giro per il mondo, il surf, la scrittura e l’inatteso successo, i due matrimoni, la misteriosa scomparsa, la passione per l’archeologia… Ma la scoperta più grande è avvenuta nel 2021 durante un periodo di qualche mese che ho passato a New York.

Dormivo poco e ogni mattina andavo a fare lunghe passeggiate ascoltando gli audiolibri di Agatha Christie, a volte in inglese a volte in italiano tanto mi piaceva la lettura di Alberto Onofrietti. Così, camminando per Central Park, le cuffie in testa, e la città che si svegliava, mi sono persa nel racconto stando attenta non solo alla trama, ai risvolti storici che costellano tutti i romanzi, alle tecniche di investigazione (entusiasmanti per chi come me è cresciuta nel segno di Miti emblemi e spie di Carlo Ginzburg), ma anche a particolari linguistici cui non avevo mai prestato attenzione. Forse perché ero negli Stati Uniti, forse perché il momento storico lo rendeva inevitabile, ho iniziato a notare, per la prima volta e con un certo disagio, il modo in cui in alcuni romanzi venivano tratteggiati alcuni caratteri di ebrei, greci, italiani. Non accadeva sempre. Ogni tanto.

Ho iniziato a farci caso, e mi è tornata in mente la questione della cronologia: ho iniziato a mettere in ordine i libri nei quali le connotazioni negative legate all’origine o alla religione erano più evidenti e mi sono resa conto che erano in gran parte libri scritti prima della Seconda guerra mondiale. Devo dire, mi sono molto rilassata, perché ho pensato che, raccontando quei tipi umani, Christie restituiva non tanto il suo sguardo quanto quello del suo tempo, di certi ambienti, di una certa borghesia (qui una interessante riflessione su lei e Roald Dahl). Uno sguardo che, per fortuna, è cambiato con il passare degli anni e che ce la fa apprezzare ancora di più perché non è semplice fare i conti con le strutture mentali dell’epoca in cui ci si trova a crescere, come lei, evidentemente, era riuscita a fare.

Eppure sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe accusato Agatha Christie di razzismo e antisemitismo, e infatti è accaduto, sta accadendo. Razzista, ha detto Sam Naidu, professoressa di Letteratura inglese alla Rhodes University in Sudafrica, in una intervista alla BBC data dopo l’annuncio dell’ultimo film di Kenneth Branagh, Assassinio a Venezia in uscita il 14 settembre. Razzista e antisemita.

Approfondendo la questione mi sono accorta che era già successo. Leggendo un bel saggio del 1987 (Detecting Social History: Jews in the Works of Agatha Christie) ho ripensato a quello che mi aveva detto tanti anni fa David Elwood, storico inglese studioso del fascismo italiano. Stavamo a casa sua a Oxford, dovevo intervistarlo per un documentario su Mussolini, e lui, parlando dell’aviazione durante la guerra di Etiopia, mi aveva fatto notare come i giovani aviatori, italiani o inglesi che fossero, appartenevano tutti alla stessa classe sociale e condividevano le stesse idee razziste nell’Europa degli anni Trenta.

Non si capisce perché un’eco di queste idee non dovrebbe esserci anche nei libri di Christie, donna del suo tempo ma anche oltre il suo tempo, se si pensa al fatto che scelse di fare di un profugo belga, Hercule Poirot, uno dei personaggi più importanti della letteratura del XX secolo. Un profugo belga, costretto a emigrare in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, vittima di continui insulti da parte di esponenti di quello sciovinismo razzista e classista che Christie demolisce un pezzo per volta nei suoi romanzi (ne parla qui Igiaba Scego).

Quando Christie iniziò a scrivere i suoi “gialli” era ancora largamente condivisa l’idea che il crimine fosse una prerogativa dei poveri e dei viziosi. I maggiordomi erano spesso, davvero, gli assassini e difficilmente un delitto poteva aver luogo fra un tè del pomeriggio e una messa domenicale. Nei romanzi di Christie, invece, la classe sociale non conta. E questo è davvero un elemento rivoluzionario. Se i suoi libri raccontano prevalentemente i bianchi perché bianca e coloniale era la società inglese in cui i suoi personaggi si muovono, bianchi sono anche gli assassini. Bianchi e benestanti.

Lo sottolinea lei stessa attraverso lo sguardo di uno dei suoi personaggi: «“Quello che è successo ha dell’inverosimile! Non l’avevo mai neanche sentito dire… intendo che non è mai avvenuto tra gente della nostra classe”. Era evidente che la signorina Carroll era convinta che gli omicidi venivano commessi solo da alcolizzati appartenenti alle classi inferiori» «“I’m sure it was a most extraordinary thing to happen. I’ve never heard of such a thing happening – I mean to anyone in our class of life”. It was clearly Miss Carroll’s idea that murders were only committed by drunken members of the lower classes» (traduzione di Rosalba Buccianti).

È un estratto da Lord Edgware Dies/Se morisse mio marito, uscito nel 1933, novant’anni fa. È un romanzo che ci viene in aiuto anche rispetto al tema del razzismo e dell’antisemitismo, ma in un modo inatteso. Come fa notare, infatti, Francesco Spurio in un bell’articolo di qualche anno fa, è accaduto spesso che le traduzioni italiane degli anni del fascismo riscrivessero interamente dei passaggi in chiave razzista: «Basta rivolgere l’attenzione alle prime pagine di Lord Edgware Dies, tradotto da Tito N. Sarego e, come si ricorderà, apparso nei “Libri Gialli” nel 1935 col titolo Se morisse mio marito. Nel presentare infatti l’attrice Carlotta Adams, nella traduzione si mettono in bocca a Poirot e al suo fedele compagno di avventure Hastings frasi palesemente antisemite che non trovano traccia alcuna nel testo originale. La Christie si limita a descrivere, per bocca di Poirot, l’attrice come una donna scaltra e attratta dal denaro: “Miss Adams, I think, will succeed. She is shrewd and that makes for success. Though there is still an avenue of danger – since it is of danger we are talking. – You mean? – Love of money. Love of money may lead such a one from the prudent and cautious path” (Christie 1933, 6). Nell’edizione italiana, ben prima che si scatenasse la campagna razziale sul modello nazista, si rispolvera invece il risaputo cliché dell’ebreo gretto e avido, creando dal nulla uno sproloquio lungo ben nove righe. Si fa in modo che Poirot dapprima domandi a Hastings: “Si sarà accorto, spero, che è ebrea?”, per poi constatare che “quando ci si mettono, questi ebrei, sanno arrivare molto in alto … e costei non manca certo di attitudini”. Nella libera “reinterpretazione” italiana, è invece attribuito a Hastings il seguente commento: “A dire il vero non ci avevo fatto caso, ma l’osservazione del mio amico mi aprì gli occhi e notai anch’io sul bel volto bruno le inconfondibili stigmate della sua razza” (Sarego 1935a, 7-8)».

Quello che pare incredibile è che le traduzioni razziste degli anni Trenta abbiano continuato a circolare per tutto il dopoguerra, e che nessuno si sia preso la briga di rifarle da capo. Neppure Oreste Del Buono, nella prefazione a Assassinio sull’Orient Express del 1970, ha pensato che fosse importante ripartire dalle traduzioni. Lo sottolinea Eleonora Federici in un volume collettaneo su fascismo, franchismo e traduzioni. Per cui il destino di Agatha Christie è sempre stato questo: essere adattata ai tempi in cui veniva letta per motivi politici e pedagogici.

Esemplare in questo senso la battaglia di HarperCollins, editore di Christie, per uniformare in tutto il mondo il titolo di Dieci piccoli indiani (già Ten little niggers) in E non rimase nessuno (And then there were none). Una storia raccontata molto bene nella nota dell’Editore posta in fondo all’edizione del 2019 del romanzo (traduzione di Lorenzo Flabbi). Il titolo, come è noto, deriva da una filastrocca popolare negli Stati Uniti le cui varianti riportano, a partire dalla fine del XIX secolo, sia niggers che indians che soldiers.

«Il crime novel che esce nel novembre 1939 da Collins a Londra si intitola Ten Little Niggers; la vicenda si svolge a Nigger Island e le statuette rappresentano “ten little Niggers”. Il termine nigger però è inaccettabile negli Stati Uniti, dove il romanzo fu pubblicato da Dodd, Mead & Co. nel gennaio del 1940 col titolo And Then There Were None, tratto dall’ultimo verso della filastrocca anziché dal primo; Soldier Island è il nome dell’isola e i dieci sono “little soldier boys”. (Sempre negli USA per qualche anno si affacceranno in libreria anche dei paperback col titolo Ten Little Indians e con le conseguenti modifiche dei nomi dell’isola e dei protagonisti)». Oggi il titolo più usato è And Then There Were None, l’isola si chiama Soldier Island e i dieci sono “little soldiers”. La prima edizione italiana del 1946 era già E poi non rimase nessuno. Fu, del resto, Christie stessa a cambiare il titolo la prima volta, quindi sono sicura che non avrebbe avuto problemi a cambiarlo una seconda.

E degli stereotipi cosa avrebbe fatto? Recentemente si è parlato del caso Dahl e anche in quella circostanza si è arrivati a decidere che alcune sensitive words dovessero essere eliminate dai suoi libri. Mi è parsa una decisione infelice: se Dahl era un antisemita (e l’ha rivendicato fino alla fine), sarà il caso di saperlo, non di dare una bella passata di vernice alle sue pagine, restaurandole per il pubblico di oggi.

Io sono della scuola dello storico dell’arte Cesare Brandi che non c’entra niente con la traduzione ma un po’ c’entra. Ci ho pensato spesso viaggiando in oriente, in Thailandia per esempio, dove i templi vengono “restaurati” rifacendoli da capo. La scuola di Brandi, invece, è quella del restauro conservativo: si interviene perché le opere non reggono al passare del tempo, ma si lascia traccia dell’intervento. Lo stesso metodo dovrebbe essere usato con le opere di scrittori come Dahl, e come Christie. Non possiamo cancellare i pregiudizi dalla letteratura degli anni Trenta, è pericolosissimo, si potrebbe arrivare a credere, così, che la Shoah per esempio sia stata il prodotto delle decisioni di un singolo pazzo furioso e non di una società nella quale l’antisemitismo e il razzismo erano parte anche della cultura dei liberali, persino di alcuni progressisti. E si dovrebbe farlo non solo per capire il passato, ma anche per evidenziare la pericolosità di molti stereotipi dei quali, certo, non ci siamo liberati.

Alla fine la scelta filologica e critica pare sempre la più giusta. È la strada intrapresa (per ora) qui da noi: a settembre Mondadori, da sempre editore italiano di Christie, pubblicherà una serie bilingue dei romanzi della “regina del delitto”, pensata non solo per mettere in luce la bellezza della scrittura di Christie, ma anche la sua immensa capacità di rievocare la tradizione letteraria inglese che, da Shakespeare in poi, è rintracciabile in tutte le sue opere (cura la collana Federico Biolchi). In attesa dell’uscita del Meridiano di Christie (la selezione delle opere sarà dello scrittore Antonio Moresco), continuo a rileggerla trovando sempre nuove notazioni acute e ironiche sulle trasformazioni della società inglese. Qualche giorno fa, per esempio, mi sono accorta di una scena di Polvere negli occhi (A pocket full of Rye, 1953): di fronte al malore del capoufficio, un gruppo di segretarie di solito estremamente efficienti non sa dove andare a cercare un medico. Lo scambio di battute è fantastico, come il commento di Agatha Christie: «Come cittadine di uno Stato ove esisteva un servizio nazionale di Sanità, si dimostravano piuttosto ignoranti» (traduzione di Silvia Boba). In questa direzione di scavo, che punta a chiarire la lettura collettiva e la contestualizzazione storica delle diverse edizioni di Christie, stanno lavorando da qualche anno due giovani e bravissimi critici, Marco Amici e Davide Astegiano, che cureranno parte dell’apparato critico del Meridiano, ma il cui lavoro è già visibile qui (ed è davvero imperdibile per noi devoti lettori).

Infine: un mese fa ho deciso di leggere Sipario, contravvenendo a quanto mi aveva detto mia zia nel 1984. Forse il fatto di aver compiuto cinquant’anni mi ha fatto pensare che non mi sarei perdonata se mi fosse successo qualcosa senza averlo letto, e poi anche Agatha che prima di morire ha deciso di far morire il suo eroe. È andata bene, ho retto il colpo. E non è escluso che anche di questa morte mi dimenticherò, come faccio ormai da anni con tutte le altre, sorprendendomi ogni volta di aver dimenticato trama, personaggi, vittime e colpevoli, e di tornare a essere ancora per qualche ora quella bambina di 12 anni, con il suo libro “giallo” tra le mani, alle pendici del Monte Amiata, in un’assolata estate di tanti anni fa.


(dedicato a mia zia Grazia)


(Il Post.it, 12 agosto 2023)

di Paola Tavella


La filosofa femminista Adriana Cavarero contro la neolingua che parla di “persone con utero”


Elena Ferrante l’ha indicata come ispiratrice dell’Amica geniale, solo un esempio dell’ammirazione e dell’importanza riconosciute alla filosofa politica femminista Adriana Cavarero. Fondatrice con altre, negli anni Novanta, di Diotima, comunità filosofica che ha influito su generazioni di pensatrici, attiviste, artiste e politiche in tutto il mondo, Cavarero ha insegnato all’Università di Verona e pubblicato, fra l’altro, Il pensiero della differenza sessuale e Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. Ora Castelvecchi ripropone tutta la sua opera, oltre al nuovo Donne che allattano cuccioli di lupo, mentre a dicembre Mondadori manderà in libreria Essere una donna (titolo provvisorio). Un anno fa, intervistata per L’Arena da Stefano Lorenzetto, osservava: “La teoria del gender fluid sostenuta dalle avanguardie lgbt è che ci sono persone le quali fanno esperienza del cambio di sesso e verrebbero escluse dalle categorie uomo e donna. La loro polemica più accentuata è verso l’uso della parola donna. Vogliono che non si dica che le donne partoriscono, ma che ‘le persone con utero’ partoriscono… dopo duecento anni di lotte delle donne per avere una soggettività politica femminista, si elimina il soggetto che ha compiuto questa rivoluzione… Si tratta di un’operazione metafisica, fondata sulla cancellazione della realtà e della percezione, oltraggiosa per il movimento delle donne. Ora che gliel’ho detto, voleranno gli stracci “.

Adriana Cavarero, che cosa è successo, dopo quell’intervista?

Sapevo che il semplice dire una fattualità di cui rende conto, per esempio, la scienza biologica, avrebbe provocato la reazione della galassia lgbtqi+, ed è accaduto. È vietato dichiarare che i sessi sono due, la censura è fortissima. Chi lo fa, secondo costoro, si pone automaticamente a destra, con conservatori, neocattolici, reazionari. La neolingua proibisce la parola “donna”, non può essere detta né scritta. In un saggio per un libro collettaneo in inglese ho usato “women” e l’editor ha proposto, per il mio bene, di sostituirla con “persone con utero”. Il tema del mio saggio sarebbe così diventato: “Le persone con utero nella narrativa del Novecento”. Mi sono rifiutata, ho lasciato “women”. Ma io sono in pensione, libera, mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti ti licenziano.

I censori impongono la neolingua in nome di un dogma quasi religioso: bisogna credere a qualcosa che non si vede, si fa anzi l’esperienza opposta.

I fautori della neolingua contestano il dato, o meglio il fatto, della differenza sessuale, per cui gli esseri umani, come gli altri animali, sono divisi in individui di sesso femminile e maschile – noi li chiamiamo uomini e donne. Questa realtà sarebbe una gabbia teorica, un pregiudizio che escluderebbe coloro che transitano da un sesso all’altro o che non si riconoscono in nessuno dei due sessi o si auto percepiscono come fluidi.

Transitare da un sesso all’altro non significa che i sessi sono due?

All’interno ci sono tante sfumature, ma dal punto di visto logico il transito avviene fra i due poli della differenza sessuale. L’obiezione abituale a chi afferma il fatto che i sessi sono due è l’esistenza di persone intersex, che alla nascita presentano organi genitali maschili e femminili e un quadro ormonale che non permette di catalogarli. Prima della medicina moderna non si interveniva, poi è invalsa la pratica di “correggere” chirurgicamente queste persone alla nascita, conformandole a uno dei due sessi. Oggi si riconosce che questa operazione precoce crea enormi problemi e molta sofferenza. La tesi lgbtqi+ sostiene che le persone intersex sono nel mondo tante quante quelle con i capelli rossi, ma altri studi negano che il numero sia così alto. Eppure, in nome di questa realtà marginale rispetto al funzionamento del genere umano e animale, si dice che, quando scriviamo o diciamo che i sessi sono due, noi compiamo un colpevole atto di esclusione nei confronti delle persone intersex, oltre che delle persone fluide su base non biologica. La minoranza di persone intersex assurge a paradigma regolativo, da cui la famosa frase “sesso assegnato alla nascita”, che io ritengo una summa della neolingua, visto che non vale per la stragrande maggioranza degli esseri umani, che è maschio oppure femmina perché tale “appare alla nascita” come direbbe Hannah Arendt.

I protocolli della neolingua vietano le desinenze finali o frasi come “tutti e tutte”: va usato l’asterisco o la schwa.

L’effetto della neolingua che neutralizza la differenza sessuale è la cancellazione del femminile, e per una femminista è stupefacente, perché noi abbiamo lottato contro l’uso del maschile universale. Ricordo la mia contentezza nel sentire per la prima volta dire alla radio “ascoltatori e ascoltatrici”. Ora si dovrebbe dire “Buongiorno a tutt coloro che ascoltano? A tuttu coloro che ascoltano”? Ridicolo, oltre che cacofonico. Il femminismo ha combattuto perché la lingua riconoscesse la differenza sessuale, ora il sesso femminile è occultato e ricompreso in un neutro universale che è in verità maschile.

Ma il movimento lgbt non era nostro alleato?

La lotta delle donne è stata condotta anche attraverso l’alleanza con i movimenti delle minoranze sessuali. Da queste minoranze viene ora la pretesa di cancellare attraverso la neolingua la soggettività femmnile, che ha sempre combattuto accanto a loro. Una situazione che giudico ingiuriosa. 

Eppure alcune femministe sembrano d’accordo.

Parte del femminismo, e della sinistra, subisce l’eterno fascino delle avanguardie sovversive, e il mondo lgbtqi+ è, in tal senso, un’avanguardia. Il femminismo si è sempre considerato un’avanguardia in lotta contro l’oppressione patriarcale e il sistema autoritario, in posizione di rottura rispetto alla tradizione. Ora una rottura clamorosa ci è piombata addosso con la neolingua di minoranze sessuali che vogliono cancellare la parola “donna”. A prima vista la neolingua sembra sovversiva, e i suoi i fautori si presentano come rivoluzionari, pronti ad abbattere il castello patriarcale. Ma è un abbaglio, il cui risultato è un rafforzamento del patriarcato. Non a caso, nella galassia lgbtqi+ gli omosessuali maschi sono largamente egemoni. La mia posizione è combattere per la libertà delle donne, contro lo sfruttamento e la cancellazione della soggettività femminile. Le femministe alleate con la neolingua sbagliano, perché aderiscono a posizioni che cancellano la storia del femminismo, usato come un qualunque brand, senza rispetto né conoscenza della sua storia e del suo pensiero. In che senso sei femminista, se accetti di sostituire la parola “donna” con l’espressione “persona con utero”? Come mai la neolingua non è altrettanto accanita nel sostituire la parola “uomini” con “persone con testicoli”?

Uno degli argomenti dei sostenitori della neolingua è che sarebbe uno strumento di inclusione.

La neolingua ruota intorno alla parola “inclusione” come bene assoluto, mentre il male è l’esclusione. Io diffido del concetto di inclusività. Nella mia storia di studiosa di filosofia ho sempre combattuto le parole inclusive universali, come la parola “uomo”, che ha sempre preteso di essere universale e di includere l’intero genere umano, perché sono espressione di volontà di dominio. Nella storia politica cui appartengo, quella femminista, il termine inclusione era assente, perché rimanda a una pretesa universalità. Al centro della storia del femminismo non c’è affatto la ricerca di parole inclusive bensì di parole che sottolineano la differenza, la pluralità. Quella femminista è una soggettività che sottolinea innanzitutto la sua parzialità, una parzialità reale, in carne e ossa, la parzialità reale delle donne che rivendicano un ordine simbolico e un immaginario per il loro sesso.

Un altro tema centrale sul quale la polemica è aspra, perfino fra femministe, è la maternità.

La critica della mistica della maternità, il rifiuto della maternità come destino, trappola funzionale all’oppressione patriarcale, fa parte della storia del femminismo. È prevalsa nel femminismo, soprattutto angloamericano, una tendenza a trascurare il tema della maternità. Ora ne paghiamo lo scotto, perché si è imposto un nuovo discorso sulla maternità che io chiamo un “perfezionamento della tesi di Aristotele”. Per Aristotele l’utero è un contenitore organico, addetto alla maturazione del feto che poi viene espulso. Si tratta della riduzione della donna a utero e dell’utero a contenitore del bambino che poi, però, appartiene al padre e non alla madre. Un immaginario che preannuncia l’utero in affitto. L’ingegneria genetica ha reso possibile il sogno di Aristotele: la madre gestante viene considerata un puro utero, un contenitore al servizio di altri, adatto a far crescere l’embrione, che le è stato impiantato, e a farlo diventare un bambino, che però non è suo. Gli antichi, con Eschilo, dicevano che la madre non è la generatrice bensì solo la nutrice del feto, e il bambino che partorisce è perciò del padre. Adesso invece il bambino è dei committenti. L’industria della procreazione sfrutta soprattutto le donne più povere, le costringe dentro contratti in base ai quali la donna-utero deve mangiare, curarsi, abortire o non abortire, regolare i suoi rapporti affettivi, partorire in un modo o in un altro, essere sedata dopo il parto per non disturbare i committenti con il suo dolore. Perfino i pensieri e i sentimenti delle donne-utero sono colonizzati, devono accettare consulenze psicologiche per non legarsi al feto che portano in grembo. E affrontano rischi per la salute, per via delle stimolazioni ormonali, e perché il loro corpo deve adattarsi a ospitare l’ovulo di un’altra, con un diverso patrimonio genetico. Per non parlare del neonato, di cui sono violati i diritti umani fondamentali, nessuno escluso.

Eppure ci sono donne favorevoli in nome dell’autodeterminazione.

Si tratta piuttosto un’accettazione pedissequa del principio individualista neoliberale moderno, quello che nasce con Locke e con Kant. Fossero oneste, direbbero: io abbraccio affettuosamente il paradigma dell’individualismo neoliberista funzionale al mercato globale, contrariamente al femminismo che ha invece sempre parlato di soggettività relazionale e ha nutrito un’estrema diffidenza verso il feticcio dell’individuo che si autodetermina. Non solo la critica femminista, ma pressoché tutte le scienze umane hanno da tempo denunciato la figura dell’individuo che si autodetermina come fasulla, mostrando come qualsiasi decisione sia condizionata dalla situazione in cui ci troviamo: le donne povere affittate come uteri subiscono moltissimi condizionamenti materiali e culturali, altro che autodeterminazione. Un altro aspetto del tutto estraneo alla critica femminista è l’assolutizzazione del desiderio di maternità e di paternità, la trasformazione in diritto, un delirio fomentato e indotto dall’industria della procreazione. Il femminismo teorizza e pratica la cultura del limite e della parzialità, in diretto contrasto con il sogno maschile di onnipotenza. Mi indigna l’ipocrisia di coloro, miei fratelli e sorelle di sinistra, che si dicono contrari alla gestazione per altri commerciale ma salvano quella “solidale”, in cui la madre surrogata “dona” il bambino ai committenti. Come prova portano i racconti delle “donatrici” che esprimono felicità, frutto di un marketing della narrazione che sa il fatto suo. Ammettiamo che ci siano casi in cui una donna fa dono di un figlio a una sorella sterile, casi rarissimi che non mobiliterebbero l’opinione pubblica e la legge. Ma non nascondiamoci dietro un dito: si tratta di dire sì o no a mercati procreativi che sfruttano i corpi delle donne e riducono i bambini a oggetti producibili e scambiabili. Il problema non è complesso, come ipocritamente si dice, e la soluzione è ancor più semplice: allargare l’adozione.

La teoria gender viene fatta risalire alla filosofa americana Judith Butler. Avete collaborato e anche scritto insieme: credi che delle sue teorie sia stato fatto un uso che va oltre le intenzioni dell’autrice?

Butler è una pensatrice geniale, generosa e capace di evoluzione, perché i suoi interessi sul gender, sviluppati negli anni Novanta, si sono ora spostati su temi quali la vulnerabilità, la precarietà e la non violenza. All’epoca imperava nel femminismo angloamericano la tesi di una distinzione fra sex (sesso biologico) e gender, inteso come costruzione culturale del femminile e del maschile. Butler sostiene che non solo il gender, ma anche il sex è una costruzione culturale, ossia che anche il sesso biologico, lungi dall’essere un mero fatto, è effetto del discorso. Nasce da qui la riappropriazione da parte del mondo queer della tesi di Butler, enfatizzata nel suo permettere di dire che il sesso con cui nasciamo non è un fatto che ci inchioda a un’identità sessuale bensì qualcosa che dipende dalla nostra auto percezione, fluido e modificabile. Estremizzando queste premesse, dal mondo queer è sorta la neolingua di cui abbiamo parlato. Non credo che questo esito fosse nelle intenzioni di Butler. Credo che in lei ci sia ascolto rispetto agli esiti delle sue tesi giovanili ma anche un certo imbarazzo rispetto al danno che ne è venuto al femminismo, di cui sempre si è dichiarata paladina.


(il Foglio Quotidiano, 12-13 agosto 2023)

di Franca Fortunato


Relazioni di differenza e confronti tra donne e uomini è il titolo del convegno nazionale, voluto da Anna Di Salvo delle “Città Vicine” e Adriana Sbrogiò di “Identità e Differenza”, che il 3 e 4 giugno 2023 si è svolto alla Libreria delle donne di Milano. L’intento – come ha detto Anna Di Salvo in apertura – era di «mettere a fuoco, oltre agli aspetti che fanno inciampo alla fiducia nella relazione di differenza, le questioni più importanti del nostro presente: la pace, la guerra e il militarismo, le città e la convivenza tra i sessi, la crisi ambientale, il divario tra economia del desiderio ed economia del profitto, l’esperienza artistica che si esprime con sguardi differenti». Relazioni di differenza, una pratica politica che nel passato ha visto donne e uomini, consapevoli della propria differenza, aprirsi allo scambio e al confronto reciproco come negli incontri annuali di Identità e Differenza, di cui le protagoniste e i protagonisti danno testimonianza nel libro di Teresa Lucente Il luogo accanto. Libro scritto durante la pandemia, come ha ricordato Adriana Sbrogiò nella sua relazione, e che è stato presentato per la prima volta a Spinea nel giorno in cui è stata annunciata la consegna alla Biblioteca e all’Archivio comunale del Fondo archivistico dell’associazione (22 faldoni che testimoniano 50 anni di storia-attività delle donne di Spinea, a partire dai quartieri negli anni ’70). A che punto sono le relazioni di differenza tra donne e uomini?  A che punto è il confronto e lo scambio con gli uomini di “Maschile Plurale”? A «un punto d’arresto», ha risposto Anna Di Salvo, perché «la differenza maschile da qualche tempo si è concentrata maggiormente in un confronto e scambio prevalentemente tra uomini». Vero, ha risposto Alberto Leiss, «gli uomini di Maschile Plurale stanno troppo tra di loro e non è cosa buona anche se è importante che parlino tra di loro. C’è chi vorrebbe creare un’associazione di soli uomini e io non sono d’accordo». Pace, guerra, disperazione, speranza sono le parole da cui è partito il confronto e se le donne si sono dette stanche di parlare di guerra e non ci stanno a farsi schiacciare dalla disperazione, gli uomini si sono mostrati consapevoli di non fare abbastanza contro la violenza maschile, divenuta insopportabile con femminicidi orrendi e con la guerra in Ucraina. «Sarebbe il momento – ha detto Alberto Leiss –, di dire noi uomini “basta con la violenza bellica che, come la violenza maschile sulle donne, ci riguarda come uomini”», questo per rendere gli altri uomini consapevoli che «senza autocoscienza maschile non cambia nulla». Adriana Sbrogiò, come altre, ha espresso il desiderio di non parlare di guerra perché «sono un residuato di guerra – ha detto – e ho paura, fin da quando sono nata ho sentito che ero dalla parte di chi “si arrende” piuttosto di venire uccisa. Se si vive, poi ci si può riprendere. Non intendo scappare, mai, resisto, può anche accadere un miracolo. Provo disperazione e speranza contemporaneamente e mi lascio prendere da altro, scrivo e cucio, intanto. Oggi la mia speranza è ancora nelle relazioni». Donne, relazioni, politica della differenza sono per Giusi Milazzo «una lente attraverso cui guardare il futuro sottraendosi a questo trionfalismo della guerra, della morte». «Testimoniare il male senza cancellare il bene» è la pratica di cui ha parlato Maria Concetta Sala, portata avanti con altre «per non essere intrappolate nella questione guerra-pace» ma parlando «della guerra attraverso alcune scrittrici». Il parlare o scrivere della guerra con parole di donne, di scrittrici, di pensatrici, consente di parlare di pace non in contrapposizione alla guerra, come fanno gli uomini, come ha fatto Giuseppe Russo a cui sembra che «si parli in astratto se non si parla di guerra e di pace senza parlare di armi» o Alfonso Navarro che ha parlato della lotta per la legge sull’obiezione di coscienza come «difesa popolare non violenta», in opposizione alla violenza bellica. «La pace non è l’assenza di guerra ma è un modo di vivere, di abitare il pianeta, un modo di essere esseri umani», ha detto Stefania Tarantino che ha presentato un video girato da “Studi femministi” nel Museo archeologico di Napoli dove con voce di donne, di scrittrici, hanno fatto parlare di pace le statue, «non in contrapposizione alla guerra ma per se stessa, come principio che va da sé». «Pace è una parola bellissima ma è accompagnata dalla parola guerra. Da sempre la si usa a conclusione della guerra ma nessuna guerra si è chiusa con la pace ma con trattati a cui è seguita un’altra guerra. Bisogna eliminare la parola guerra e fare in modo che a poco a poco possa sparire», ha aggiunto Anna Potito. «La pace non si fa tra una guerra e l’altra, ma va costruita a partire da sé, dentro di noi e poi la portiamo fuori», ha detto Adriana Sbrogiò che rispondendo a Dorella Marchi che si augurava «un grande desiderio collettivo alla pace» ha aggiunto che «il desiderio profondo è personale, è quello che ci dà forza, energia e non è mai collettivo». Per Donatella Franchi «dobbiamo dire che non ci importa delle cause della guerra ma noi vogliamo una civiltà in cui i conflitti si risolvano diversamente»; a lei fa eco Paola Mammani che dice di smetterla di parlare «delle cause geopolitiche della guerra». Ad Anna Potito che chiedeva di riflettere di più sulla guerra che «è nei geni maschili», Marco Cazzaniga harispostoche «la guerra e la violenza sono nei geni maschili, anche in me, perciò sto lì a vegliare», mentre per Stefano Sarfati «la violenza è nella cultura maschile. Attiene alla sfera del linguaggio non ai geni maschili dove, invece, c’è il duello, la sfida, e la guerra è un duello». Per Clelia Mori «il linguaggio sta nei corpi, il materno è già presente nei nostri corpi. Non si può parlare di guerra partendo dai geni». Per Donatella Franchi gli uomini dovrebbero dire «basta con l’obbligo di fare la guerra, come lo dicono le donne». D’accordo con lei Leiss che si è chiesto «cosa può sostituire la convinzione maschile che sia giusto andare in guerra?» Da qui la sua proposta di «un servizio di cura obbligatorio per gli uomini» che, forse «aprirebbe alla mediazione materna». Proposta respinta da Stefano Sarfati perché «bisogna insistere sulla presa di coscienza», mentre Gianni Ferronato l’ha definita “una buona cosa” visto che «il cambiamento che vorremmo avviene uno per uno e mi pare che il tempo stia per scadere». Per Laura Colombo «la presa di coscienza è imprescindibile. Cosa si sostituisce alla virilità che poi sfocia nella guerra? Non si sa se il servizio civile di cura obbligatorio sia efficace», mentre per Luisa Muraro «può essere un modo per fare passare negli uomini qualcosa del materno», anche perché per Lia Cigarini, che cita Dino Leon, «qualcosa della madre si può trasferire nel figlio». Sulla “mediazione materna” nelle relazioni di differenza Beppe Pavan di “Uomini in cammino” in una lettera inviata al convegno tramite Anna Di Salvo che l’ha letta, ha detto che, nel suo percorso, quella mediazione a lui è arrivata tramite la moglie, il che per Vita Cosentino è motivo di speranza perché «può darci qualcosa di nuovo nella relazione di differenza». La speranza nel materno che agisce dentro gli uomini, a Katia Ricci viene dalla storia di un fabbricante di mine antiuomo che dopo che il figlio piccolo gli dice “ma tu sei un assassino”, abbandona quel mestiere di morte e diventa un volontario sminatore nei Balcani per salvare vite. «La mediazione materna tra donne e uomini agisce già nella pratica artistica» ha aggiunto Katia nel presentare la mostra di mail art Donna, Vita, Libertà che ha accompagnato il convegno. Mostra alla sua sesta edizione, organizzata dalla Merlettaia di Foggia e dalle Città Vicine e allestita da Katia. «Vedo nella mail art come se il conflitto tra uomini e donne venga meno perché gli artisti parlano in lingua materna. Chi fa pratica artistica sa che c’è una parte che riguarda l’inconscio e nell’inconscio si incontra la mediazione materna, la matrice, la lingua materna, quel tipo di comunicazione affettiva e corporea, molto più che informativa tra madre e figlio/a. Questo porta donne e uomini a ricercare una pratica, un’espressione artistica che non può non essere di origine materna». Concetto ripreso da Donatella Franchi aggiungendo che «la differenza tra artisti e artiste sta nel fatto che per gli uomini il rapporto con la lingua materna rimane chiuso nell’opera e quindi la lingua materna non funziona, diventa strumentale». Per Luciana Talozzi, che da anni fa «arte in relazione con la “Festa della Riconoscenza” a Chioggia che quest’anno avrà come titolo Il giardino fatato», la speranza «è il desiderio, fondamento della nostra politica, e le relazioni sono la mediazione per realizzare il desiderio». Per Antonella Cunico la speranza è «nella buona notizia» della vittoria alle amministrative nella sua città, Vicenza, di un giovane sindaco che ha coinvolto le donne che come lei si sono opposte alla costruzione della base militare americana. Un giovane che sa ascoltare le donne e prendersi cura della città. Lo stesso non si può dire per Milano, che per Bianca Bottero è diventata una città «invivibile, dove tutto è relegato al privato che adesso abbatterà anche lo stadio, un grande polmone verde, per fare spazio alla cementificazione». Il disagio “profondo” che investe le ragazze e i ragazzi, ha continuato Bottero, è stato espresso dall’«azione radicale» di Ilaria, la ragazza che ha dormito in tenda davanti al Politecnico, azione che «superficialmente è stata ridotta al caro affitti». Per Laura Giordano «le cose che gli uomini fanno in positivo vengono esaltate, così a risulta che lui sa prendersi cura ma poi si blocca e non va avanti». La speranza per Loredana Aldegheri è nell’economia a cui lei «è arrivata dal senso di giustizia sociale, che dovrebbe orientare oggi l’economia. Dell’economia non dovrebbero occuparsi gli economisti di mestiere ma chi si prende cura della casa». Speranza e disperazione per Laura Colombo stanno nell’uccisione di Giulia Tramontano da parte del fidanzato: «La disperazione sta nel fatto che quando Giulia è scomparsa sapevamo già cosa fosse successo. La speranza è nella relazione tra donne che non sta dove l’avevano messa gli uomini nel patriarcato. Le due donne, Giulia e l’amante del fidanzato, non sono più rivali, si incontrano, si abbracciano, solidarizzano, e la madre di lui cerca un filo con la madre di lei». Madre che per Vita Cosentino dà speranza nel dire «mio figlio è un mostro, non lo perdonerò mai» spezzando così il copione della madre sempre dalla parte del figlio. Nessuna speranza, invece, nelle donne di potere belliciste che a Adriana Sbrogiò fanno paura quanto gli uomini perché «possono distruggere l’umanità». Questo perché, come ha detto Luisa Muraro, «le donne nella vita pubblica vanno all’insegna dell’uguaglianza con gli uomini. Non è l’uguaglianza che ci porterà avanti ma la differenza da mettere in pratica e rendere pubblica. Bisogna fare azioni eloquenti, convinte, e dire che nella vita pubblica non cerchiamo uguaglianza, parità con gli uomini. Siamo concentrate a ripudiare l’uguaglianza, la parità, per andare nella vita pubblica». Per Simonetta Patané «la lotta per la parità distrugge il desiderio». E per Clara Jourdan, che ha coordinato gli interventi, «nel cambio di civiltà che stiamo attraversando la questione è che non si instauri il fratriarcato, come stanno cercando di fare gli uomini appunto all’insegna dell’uguaglianza».

Da tutti gli interventi quello che emerge è la ripresa di un percorso delle relazioni di differenza tra donne e uomini, fatte di scambio, di riflessione, di ascolto, di riferimento l’una/o all’altra/o. Percorso che, chiuso il convegno, apre ad altre occasioni di incontro tra donne e uomini consapevoli della propria differenza.  


(AP autogestione e politica prima, a. XXXI, n. 3/4, luglio-dicembre 2023)

di Laura Fortini


Il corpo ha un suo sapere e forse per questo Michela Murgia ha vissuto così intensamente la sua vita, attraversando modi e stili assai diversi di scrittura, ma sempre con grandissimo amore per la parola, detta e scritta. Si può provare oggi solo ammirazione e gratitudine per la sua passione per il mondo e l’empito corale che accompagna la sua morte è partecipazione viva e commossa che la riconosce interamente.

Passione partigiana quella di Michela Murgia e la parola partigiana non è scelta a caso e nel senso orgogliosamente migliore del termine, perché Michela si è posizionata sempre in modo esplicito e senza infingimenti o tatticismi di sorta, cosa assai rara di questi tempi, capace di una non facile ma voluta esposizione pubblica della propria differenza, che ha rappresentato in un modo originale e creativo, facendone leva per un dibattito pubblico assai asfittico e a volte, anche troppo spesso purtroppo, violento. Con il quale Murgia ha interloquito con ironia e intelligenza già a partire da Il mondo deve sapere, romanzo tragicomico di una telefonista precaria, che raccontò nel 2006 la realtà dei call center di cui oggi nessuno parla più perché ritenuti ormai la prassi normale del lavoro precario e ingiusto cui non riusciamo a trovare limiti né contenimento, del quale il lavoro femminile costituisce la forma più sfruttata.

In esso Murgia rielabora, come poi farà con continuità, una sua propria esperienza, perché Michela è sempre partita da sé, esercitando una pratica del movimento femminista prima ancora di divenire femminista: a partire dal lavoro, argomento della sua opera prima, e dal suo essere nata in Sardegna, con cui si confronta in Viaggio in Sardegna nel 2008 nel quale riflette anche sugli scrittori e scrittrici della Sardegna e sulla complessa eredità deleddiana, che valorizzerà nelle sue prove drammaturgiche nel 2017 nello spettacolo Quasi Grazia, scritto da Marcello Fois con la regia di Veronica Cruciani. Per affrontare poi in modo del tutto originale e nuovo il tema del fine vita nel bellissimo Accabadora del 2009, di cui rimane stagliata nella memoria collettiva la figura della fill’e anima, nome della forma con cui in Sardegna ci si è presi cura in famiglie diverse da quelle cosiddette naturali di figli e figlie d’altri senza con questo passare necessariamente attraverso forme di adozione normata, che anticipa di molto quanto è oggi al centro di un dibattito molto acceso.

La Sardegna come terra d’elezione, di memoria e d’affezione oltre che di nascita, è al centro di molti suoi racconti, come quello scritto nel 2012 per la raccolta a più mani Piciocas. Storie di ex bambine dell’isola che c’è, e quello del 2014 nel volume Sei per la Sardegna, insieme a Salvatore Mannuzzu ed altri, i cui proventi sono andati per l’alluvione in Sardegna: e chi ricorda più la rovinosa alluvione della Sardegna insieme alle innumerevoli altre di questo nostro devastato territorio? Michela insieme ad altre e altri non ha dimenticato e la sua è stata una scrittura orgogliosamente e dichiaratamente partigiana sempre, anche quando apparentemente lontana dalla forma saggistica.

Come avviene altrimenti in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, del 2011, dove Murgia ha messo a tema la sua formazione religiosa indagando il difficile rapporto tra il cattolicesimo e le donne a partire anche dai suoi studi teologici, affrontando poi in moltissimi libri scritti a più mani temi e questioni apparentemente meno letterarie e sempre più politiche con titoli di per sé parlanti: nel 2013 con Loredana Lipperini L’ho uccisa perché l’amavo: falso!, nel 2019 con Chiara Tagliaferri Morgana, storie di ragazze che tua madre non approverebbe, e ancora con Chiara Tagliaferri nel 2021 Morgana. L’uomo ricco sono io, mentre interamente a lei si devono libri come Istruzioni per diventare fascisti, del 2018, tradotto anche negli Stati Uniti come molte altre sue opere, Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (2021) e Good Save the Queer. Catechismo femminista, del 2022.

In realtà, il corpo politico della sua scrittura è sempre stato saldamente nelle mani di Michela Murgia nella sua breve e intensissima vita, intessuta e arabescata di una miriade di parole nei modi più diversi, in rete come sulle pagine di carta, negli interventi sui media e nelle infinite e più varie modalità che ha esercitato. Un pensiero e una pratica politica volte alla nascita di nuove forme di scrittura anche quando ha parlato di morte e ne ha fatto volutamente tema pubblico: l’esposizione del corpo malato è così divenuta forma politica della rappresentazione della famiglia queer che ha scelto come forma elettiva del proprio vivere e insieme della malattia come preannuncio del decadere del corpo biologico ma non del corpo politico della sua scrittura, che ha sovvertito il binomio letteratura/saggistica facendone qualcosa di altro e diverso.

Così anche nella sua opera Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, del 2023, che si potrebbe definire ultima se non fosse che Murgia ha continuato a scrivere in rete e a intervenire su tutto quello che riteneva essenziale e importante fino a tre giorni fa.

Molto si sta scrivendo e molto si scriverà di lei, molti i nomi che si sono fatti e che si faranno per collocarla in una tradizione che va da Gramsci a Pasolini, ma si potrebbero fare anche molti nomi di donne altrettanto rivoluzionarie, diverse e simili a lei tanto quanto Gramsci e Pasolini: occorrerà tempo per trovare i modi per nominare adeguatamente una scrittura così precursora nel suo essere partigianamente volta al presente e ancora di più al futuro, ma intanto la sua scrittura ci accompagna e ci accompagnerà con le parole e il mondo così tanto appassionatamente amato da Michela Murgia.


(il manifesto, 12 agosto 2023)

di Donatella Borghesi


La filosofa Rosella Prezzo riflette sulla procreazione assistita, realizzazione dell’antico mito di una nascita senza madri


Niente divide la società progressista occidentale come la Gpa (la gravidanza per altri, detta più volgarmente utero in affitto), nemmeno la guerra in Ucraina riesce a tanto. Rischia di far inciampare anche Elly Schlein, che tentenna tra il forse sì e il “solo se è scelta solidale”. Intanto, mentre prospera il libero mercato della procreazione assistita e surrogata, si divide il già molto diviso mondo delle donne, tra chi la vede come estrema opzione di libertà individuale, quasi simbolo iperbolico del sistema dei diritti, rispolverando il vecchio ma duraturo slogan “il corpo è mio e lo gestisco io”, e chi la denuncia come l’ultimo e spietato esempio di sfruttamento del corpo femminile, come una nuova schiavitù, insomma. In una discussione incanaglita dalle appartenenze ideologiche, la si sta radicalizzando oltre misura. Amiche che non si fidano più una dell’altra, gruppi di attiviste, un tempo coese, rese mute dalla domanda: ma tu sei favorevole o contraria? Femministe storiche divise, rimproverate da Ritanna Armeni: “Che fatica riuscire a dire qualche parola nel dibattito Gpa, c’è troppa aggressività, non ci state dando una mano…”. “La gravidanza per altri è un’arma che una parte del femminismo regala alla destra”, scrive Lea Melandri, mentre Alessandra Bocchetti risponde: “Ma quando si fa mercato di corpi, di cosa si tratta? Un tempo si chiamava schiavismo”. Ad analizzare un tema così caldo, uscendo dalla cronaca, accantonando per un attimo le contrapposizioni e partendo da un punto di vista diverso, si è misurata coraggiosamente la filosofa femminista Rosella Prezzo. Rovesciando il paradigma tra “mettere al mondo” e “venire al mondo”, nel suo libro Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti (edito da Moretti&Vitali), ripercorre la storia e il pensiero che ha accompagnato nei secoli il tema della nascita, da Eva che esce dalla costola di Adamo al transgender incinto Thomas Beatie, da Aristotele a Judith Butler. Riprendendo le voci delle donne, scrittrici, artiste, femministe, che sul tema hanno riflettuto, decostruendo – come ha fatto Adrienne Rich in Nato di donna – la mitizzazione della maternità, che è stata da sempre funzionale al sistema patriarcale.

«La nascita è l’unica esperienza che tutti gli esseri umani necessariamente condividono, ma ha perso la sua aura, il suo significato simbolico», scrive la filosofa Rosella Prezzo, convinta che la Gpa ci costringa a riflettere non solo su come si nasce e delle sue tante variabili, ma soprattutto sul valore della nascita. «La nascita è un evento a doppia faccia, riguarda la madre, il suo “umile potere creatore” e il figlio “gettato nel mondo”, come diceva Heidegger. Riguarda tutte e tutti, e quel venire al mondo definisce l’essenza dell’essere umano. La finitudine umana, l’esperienza-limite, non è più la morte che condanna alla propria fine, come abbiamo pensato per secoli, ma – come dicono Hannah Arendt e María Zambrano – è la nascita, la vita, che promette la possibilità di un inizio. Perché il comune venire al mondo è la matrice relazionale dell’umano, chi nasce non occupa un posto, ma apre un varco nel mondo, pieno di possibilità. Dovremmo definirci “comuni natali”, non “comuni mortali”! Ho sentito l’urgenza di scriverne perché oggi ci sta sfuggendo proprio questa essenza dell’umano, siamo come ciechi, in un periodo in cui la scena della nascita è affollata da tanti soggetti, tutti dominati dalla tecnologia riproduttiva. Ovuli, gameti, embrioni trovano collocazione in donne di vario tipo: donanti, riceventi, ospitanti. In questa maternità frammentata scompare l’esperienza originaria divisa e con-divisa. E finisce per scomparire la donna».

Che gli uomini, intesi come maschi, abbiano sempre invidiato la potenza generativa delle donne l’abbiamo sempre saputo. Altro che invidia del pene… Rosella Prezzo parte proprio dal mito («La riproduzione assistita l’hanno inventata i miti classici…»). In una galleria affollata di dèi che nascono nei modi più impensabili, il tratto comune a tutti è l’homo solus che espropria la “madre certa”, fino ad arrivare alla nascita fuori dal corpo. Abbiamo tutti in mente Atena che nasce dalla testa di Zeus, ma la lista è lunga e sorprendente: Dioniso è partorito dal corpo paterno, quello di Zeus, più precisamente da una sua coscia, dopo essere stato strappato dal grembo materno di un’amante del padre, nelle Baccanti Euripide cita il “maschio utero” di Zeus. Adone, frutto di un inconsapevole incesto fra il re di Cipro, Ciniria, e la figlia Mirra, esce, assistito dalle ostetriche, dall’albero in cui era stato trasformato il corpo della madre (lo si vede in un affresco di Bernardino Luini). Questi e innumerevoli altri sono i primi passi del sogno dell’utero artificiale… Tutte le portentose nascite divine all’origine della cultura occidentale avvengono in assenza di madri: madri morte, uccise, incluse nel corpo maschile del dio, sostituite da un organo artificiale. D’altra parte Eschilo nel finale delle Eumenidi fa dire ad Apollo: “La madre non è la generatrice di colui che viene detto suo figlio, bensì la nutrice del feto appena in lei seminato. Generatore è chi getta il seme. Vi può essere un padre anche senza una madre”. Donna come incubatrice, così in Aristotele e nella Chiesa medioevale. Vale sempre il grande George Dumézil: “All’orizzonte del pensiero mitico greco, si coglie il disappunto che un giorno ci furono le donne”.

Perché partire proprio dal mito e dalla cultura arcaica, viene da chiedersi. «Perché mai come in questa congiuntura storica l’arcaico si è saldato al contemporaneo», sostiene Rosella Prezzo. «Perché la dimensione biologica dell’umano e dei suoi limiti ci appaiono arretrati e superabili grazie alla scienza e alla tecnologia. Fantastichiamo di post-umano, e da madre-Natura siamo passati a madre-Macchina. Il progetto dell’utero artificiale, su cui peraltro si continua a investire, sembra infatti soddisfare a due grandi utopie: quella per la donna di liberarsi dal fardello della maternità e quella per l’uomo di riappropriarsi della nascita. L’interrogativo che ci dobbiamo porre è: ma allora qual è l’umano che ci viene incontro dal futuro?»

Per dimostrare questo cortocircuito nel rapporto tra natura e cultura, questo slittamento di senso, Prezzo analizza nel dettaglio il caso di Thomas Beatie, diventato un caso di risonanza mediatica mondiale. Thomas nasce Tracy, cioè femmina. Si sottopone alla mastectomia, di cui si vede traccia delle cicatrici nel disegno di Yole Signorelli, alias Fumettibrutti, apparso sulla copertina di L’Espresso il 16 maggio 2021, con la scritta sul pancione “La diversità è ricchezza”. Tracy/Thomas si lascia però gli organi riproduttivi, ovaie e utero, anche se le cure ormonali le/gli hanno consentito di avere barba e muscoli maschili. Thomas si sposa con Nancy, e insieme desiderano metter su famiglia, ed è Thomas a farsi carico del progetto: interrompe la terapia ormonale e si sottopone alla inseminazione artificiale. Così per tre volte, per tre figli. Fa venire i brividi come questa storia somigli alle vicende fantasiose dei tanti dèi del mito… Peccato che non ci sia lieto fine, perché Tracy e Nancy si lasciano, e i figli vengono affidati a Thomas, perché “è la madre biologica”! Thomas però ci tiene a mantenere il ruolo di pater familias: sì, li ha partoriti, ma è lui l’uomo e il marito. Così ha “catturato” il femminile, in una inclusione escludente, dice la filosofa. Rosella Prezzo mette infatti in evidenza come, se il desiderio di un figlio è comune sia a una donna che a uomo, al momento della nascita c’è un’asimmetria innegabile tra essere madre e essere padre, mentre in questo caso, come in altri, l’asimmetria viene negata e azzerata con gli strumenti del progresso medico e tecnologico.

Questa favola contemporanea ci dice fino a che punto il desiderio e la possibilità di farlo agire siano diventati realtà virtuale. A questo punto la domanda si fa obbligatoria: di quale desiderio parliamo?

«Sia nella riproduzione assistita che nella gravidanza per altri, la procreazione è senza sessualità, senza il desiderio dei corpi», dice Rosella Prezzo. I corpi non si incontrano, non si abbracciano, non si fondono, non è necessario il piacere, quel grande dono di cui noi umani godiamo. Tutto viene scisso, ritagliato in tempi diversi. Il corpo viene ridotto agli elementi biologici basici, agli ovuli e ai gameti, appunto, che sono trattati secondo una logica finanziaria e di mercato, sono bio-beni da far fruttare. E con la scissione totale tra procreazione e gravidanza, per avere un figlio basta un utero qualsiasi in vendita. «Che ne è di Eros, mi chiede? Ci troviamo di fronte a corpi disincantati, dove il desiderio non si riconosce più nel desiderio dell’altro, o nel desiderio del desiderio dell’Altro, come diceva Lacan. È un grande interrogativo, ma possiamo dire che il desiderio in questo processo così artificiale di genitorialità si manifesta in modo autoreferenziale, si confonde con la rivendicazione dell’assoluta libertà individuale, diventa impropriamente diritto».

Si muore sempre da soli, ma non si nasce mai da soli. Ecco un’altra verità. La nascita è sempre con-divisa. Siamo sempre in due, madre e figlio/a, nella scena primaria che ci mette al mondo. E c’è un rapporto a due che inizia da molto prima, dall’inizio della gravidanza, e forse prima ancora, nel manifestarsi del desiderio di maternità. Ed è inscritto nel corpo, nelle sinapsi, nella psiche di entrambi. Mesi che lasciano tracce indelebili e uniche, come la scienza ha dimostrato. Racconta la filosofa: «Maria Zambrano diceva che alla nascita siamo visti prima di poter vedere. Chi nasce cerca se stesso in ciò che lo circonda e nello sguardo dell’altro, primariamente in quello della madre».

Ed è questo il punto controverso e più difficile da sciogliere tra chi assolve la Gpa e chi invece la teme, appunto il rapporto con la madre surrogata, che per il neonato è “la” madre, quella che ha “sentito” e con cui è stato in relazione per nove mesi, ma non quella con cui costruirà la sua storia familiare. È anche quella che si è imbottita di ormoni per non avere il rigetto dell’embrione, quella che è certa che la sua esperienza sarà a termine, quella che non sappiamo che riconoscimento abbia dato alla sua per poco tempo creatura, se l’ha accolta o meno dentro il suo sé, se teme la perdita, o se la vede come una liberazione. Come anche potrà essere un problema per il futuro bambino, nella ricostruzione della sua origine genetica e della sua genealogia, spezzettate e disseminate un po’ qua e un po’ là. È una realtà ancora tutta da esplorare, ma farlo è quasi più importante che porre giustamente l’accento sullo sfruttamento delle donne più povere o di quelle che ne hanno fatto per scelta la loro risorsa. Se la nascita è diventato un prodotto come gli altri, un atto biomedico e insieme normativo-giuridico che organizza sempre più la venuta al mondo dell’umano, è necessario riflettere sulle sue conseguenze. Abbiamo tutti guardato con sgomento le foto di quella nursery ucraina nel maggio 2020 con la fila di neonati figli di Gpa che per il Covid non potevano essere ritirati dai genitori/proprietari legittimi. La stessa situazione si è ripresentata con la guerra, i bambini nati da Gpa rimangono ancora in un limbo, nonostante la campagna promozionale ucraina sui social, “make babies not war”. Era il segnale che forse qualche problema c’era. Nascere nell’epoca della sua riproducibilità tecnica vuol dire ritrovarsi su un terreno smottato e disordinato. Dove però la nascita è diventata sempre più programmabile, manipolabile e riproducibile molto velocemente. E quindi destinata a un proficuo ritorno economico e abbattimento del tempo, in attesa di una società postumana che si prefigge di superare i limiti biologici umani.

Proviamo a ritornare all’inizio. Al mito primigenio di Adamo ed Eva. Un “incontro mancato”, lo definisce Rosella Prezzo. Non nascono insieme, viene creato prima l’uomo, ma Dio lo vede troppo solo e dal corpo di lui estrae Eva (come non vedere anche qui il parto maschile?). Eva ha una funzione: permette a Adamo di individuarsi, di sapere chi è, ma non di mettersi in relazione. Adamo parla, Eva è in silenzio. È come una falsa partenza, dove il primato dell’umano resta al maschile. Se è così, nonostante la ribellione (sconfitta) di Lilith, la vera “prima donna”, proviamo a fare un’ipotesi. Se il progetto antropologico del post-umano, la Gpa e annessi e connessi fossero l’ultimo colpo di coda – molto potente, a dir la verità – del patriarcato morente?


ROSELLA PREZZO Filosofa della differenza, saggista e traduttrice, ha fatto parte di riviste storiche come “aut-aut” e “Lapis”. Studiosa della filosofa spagnola María Zambrano (Pensare in un’altra luce, Raffaello Cortina), è autrice di Veli d’Occidente, le trasformazioni di un simbolo (Moretti&Vitali) e del recente Trame di nascita (Moretti&Vitali). Partecipa alla Scuola di Alta Formazione per donne di governo.


(Il Foglio Quotidiano, 1-2 gennaio 2021)

di Andrea Sceresini, Giuseppe Borello, Matteo Delbò


In un seminterrato alla periferia di Tbilisi, in Georgia, ci sono una quindicina di ragazzi che parlano di politica. Hanno tra i diciotto e i trent’anni, vengono dalla Russia e sono tutti renitenti alla leva. La località esatta in cui si trovano deve restare segreta, perché molti dei presenti risultano iscritti nelle blacklist dell’Fsb, i servizi di sicurezza del Cremlino, e dal 24 febbraio 2022 i paesi dell’Asia centrale rigurgitano di spie e delatori.

I ragazzi, tuttavia, parlano liberamente, spesso alzando la voce e accapigliandosi tra di loro. Buona parte dei convenuti sono anarchici e hanno alle spalle soggiorni più o meno lunghi nelle patrie galere: per non essere spediti in trincea hanno dovuto attraversare illegalmente le montagne del Caucaso, spesso senza un solo rublo in tasca.

«I leader dell’opposizione dovrebbero studiare un piano per abbattere Putin e edificare la nuova Russia che verrà dopo di lui», osserva Oleg, diciannove anni, che tra tutti è uno dei più moderati. «Un piano? Lo sai – sogghigna Yuri – chi ce l’aveva un piano? Lenin, cazzo: lui sì che sapeva come si fa una rivoluzione! Lasciali perdere, quei bastardi di liberali che se la spassano all’estero! La nuova Russia, se mai ci sarà, dovranno costruirla i lavoratori russi, e unicamente con le loro forze». Se gli chiedi perché non hanno voluto andare soldati, sia Yuri che Oleg risponderanno la stessa cosa: questo conflitto è stato voluto dai grandi oligarchi e dalla borghesia, che prima ti sfrutta in tempo di pace e poi ti manda al massacro quando è l’ora di fare la guerra.

Anche Ivan la pensa allo stesso modo. Solo che Ivan non è russo, ma ucraino: oggi vive in Italia, ha quarant’anni e viene da Kharkiv, dove un anno e mezzo fa hanno iniziato a piovere le bombe. «Oggi chi finisce a combattere al fronte sono soprattutto i più disgraziati, quelli che non hanno i soldi per andarsene – dice – o buoni agganci per farsi dispensare dal servizio militare. Ecco, io non credo che da questo scannamento tra pezzenti potrà mai nascere qualcosa di buono, né per noi né per il popolo russo, con il quale peraltro siamo sempre stati affratellati».

Così, coerentemente con le proprie idee, Ivan ha deciso di lasciare il Paese ed è fuggito in Europa occidentale. Anche il suo non è stato un viaggio facile, perché dal 24 febbraio 2022 la legge ucraina vieta l’espatrio a tutti gli uomini tra i diciotto e i sessant’anni. «Mi è stato fornito il contatto di uno smuggler – ricorda l’uomo – il quale in cambio di duemilacinquecento dollari avrebbe corrotto le guardie di frontiera al confine con la Moldavia. La sera stabilita mi sono acquattato in un boschetto in attesa del segnale, dopodiché ho attraversato di corsa la terra di nessuno e mi sono ritrovato in un grande campo illuminato dalla luna. È stato allora che ho ricevuto l’ultimo messaggio del trafficante, il quale nel frattempo aveva seguito i miei spostamenti via Gps: “Bene, ora respira, sei già in salvo”».

Quello della diserzione è certamente uno dei temi meno raccontati di questo conflitto, soprattutto sui media italiani. Eppure non si tratta di un fenomeno marginale – tutt’altro. Sarebbero molte decine di migliaia i giovani russi e ucraini che hanno lasciato i rispettivi paesi per evitare di finire sotto le armi: un piccolo esercito di refrattari, i quali – per usare un’espressione cara al vecchio leader con baffi e pizzetto di cui sopra – “la pace l’hanno già votata coi loro piedi”. Le notizie a riguardo sono generalmente poco pubblicizzate, forse anche perché poco si intonano con gli echi bipartisan della propaganda bellicista.

Tuttavia basta cercare con la giusta attenzione: riferisce la Bbc, ad esempio, che nell’inverno scorso almeno novanta cittadini ucraini sarebbero morti congelati nel tentativo di passare illegalmente il confine romeno. Pochi mesi prima, nel settembre 2022, la coda di fuggitivi alla frontiera russo-georgiana avrebbe raggiunto una lunghezza di dieci chilometri. Fece un certo scalpore, durante le prime fasi del conflitto, anche l’annuncio della diserzione di massa di due battaglioni dell’esercito di Kiev – il secondo e il terzo della settantanovesima brigata – i cui soldati abbandonarono le trincee dopo giorni di massacro lanciando un accorato appello su Facebook: “Ci hanno usati come carne da macello, mentre gli ufficiali scappavano dal campo di battaglia! Popolo, intervieni tu, perché altrimenti ci ingabbieranno tutti!”

A Tbilisi da diversi mesi l’organizzazione “Go by the forest”, che aiuta i militari russi a fuggire dal fronte e mettersi in salvo all’estero: «È impressionante il numero di coloro che ci contattano. Tanti soldati, pur di farsi trasportare nelle retrovie – racconta Darya Berg, una delle fondatrici – arrivano a ferirsi a vicenda sparandosi un colpo di kalashnikov nelle gambe. Poi, una volta guariti, cercano di raggiungere il confine con il Kazakistan, che è lungo settemila chilometri e può essere valicato in diversi punti. In genere è lì che li recuperiamo».

Per ogni esule in divisa, ci sono poi decine di individui che la fuga la stanno ancora progettando, o che per varie ragioni non sono mai riusciti a metterla in pratica. È il caso di Vasilij, quarantacinque anni, che da diciotto mesi vive letteralmente barricato nel suo appartamento di Kharkiv. Non esce mai, nemmeno per fare la spesa, perché il rischio di essere fermati per strada e finire arruolati a forza è sempre più alto: «La televisione continua a ripeterci – sorride affacciandosi alla finestra – che tutti gli ucraini sono pronti a farsi scannare. Ma se veramente le cose stanno così, allora che bisogno hanno di abbrancare il primo che passa e spedirlo al fronte?»

La stessa domanda se la pongono certamente anche dall’altra parte del confine, dove di recente hanno fatto scandalo le foto del figlio del ministro della difesa Šojgu, Sheba, che mentre i suoi coetanei crepano tra trincee e reticolati se la spassa allegramente sulle spiagge della Turchia. È probabile che in qualche seminterrato di Tbilisi, tra le macchie d’umidità e il fumo di sigaretta, si stia dibattendo anche di questo.


Dov’è la vittoria, il doc


Lunedì 7 agosto, alle 23.30 su Rai 3, Il fattore umano – programma che monitora lo scarso rispetto dei diritti umani nel mondo – propone un documentario di di Giuseppe Borello, Andrea Sceresini e Matteo Del Bo, Dov’è la vittoria, che racconta da un lato l’addestramento Usa delle reclute ucraine, dall’altro le storie di giovani russi e ucraini che sono fuggiti o che tentano di fuggire dalla logica delle trincee, denunciando come in questo conflitto – così come in tutti i conflitti – a pagare il prezzo più alto siano sempre i più disgraziati, mentre altri, al sicuro nelle retrovie, continuano come sempre ad arricchirsi. la voce narrante è quella di Hanna Bilobrova, una pacifista rimasta tale nonostante abbia portato in macchina per ore il cadavere del marito – il regista e antropologo lituano Mantas Kvedaravicius – ucciso dai russi durante l’assedio di Mariupol.


(il manifesto, 5 agosto 2023)

di Stefania Tarantino


Rimettere al centro la spiritualità femminile, di matrice mistica, è il cuore pulsante dell’ultimo libro di Wanda Tommasi dal titolo Vivere Dio qui e ora. La sapienza mistica di autrici del nostro tempo (Edizioni Paoline, pp. 91, euro 11, prefazione di Antonietta Potente).

Un volume che esplora e intercetta quell’impulso mistico che nelle esperienze di molte donne, che siano vissute nel lontano passato o in quello a noi più prossimo e presente, ha avuto un’importanza cruciale per la loro militanza attiva e per il raggiungimento della loro più intima e piena libertà. La prefazione di Antonietta Potente che introduce alla lettura del libro si apre con una citazione di Maria Zambrano che, riflettendo sul percorso di San Giovanni della Croce, difende la mistica dallo sguardo riduttore e schernente della scienza e la restituisce all’alveo di un evento che ha il suo fondamento nella natura umana.

Partendo dal presupposto che il «mistero» della vita non si lascia afferrare in tutta la sua complessità e che anche ciò che non rientra nel campo del visibile ha una sua propria realtà, Antonietta Potente mette in guardia da coloro che tentano di sbarazzarsene o di impossessarsene con arroganza e violenza nel mondo e invita ad assumere un nuovo atteggiamento nei confronti di ciò che è imperscrutabile ma non estraneo al nostro sentire più profondo che riesce a captarne la forza e la presenza.

Da questa trama introduttiva che insegue il filo del mistero più insondabile, Wanda Tommasi si rivolge con attenzione alla spiritualità femminile attingendo alle preziose esperienze di alcune donne del Novecento, quali Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, Adrienne von Speyr, Madeleine Delbrel, Giuliana di Norwich, Antonella Lumini, mostrando come nelle loro parole e testimonianze la sapienza mistica abbia rappresentato un tipo particolare di sapere dal sapore non solo interiore o contemplativo ma anche squisitamente pratico e politico. La messa in relazione della sapienza mistica con quella del nostro tempo le consente anche di creare un legame potente con la rivoluzione femminista quando la si intende prima di tutto come ricerca libera di sé e come risveglio di un desiderio disponibile a essere attraversato dalla più radicale alterità.

È dal contatto con il male, con la sventura, che queste donne, addentrandosi nelle tenebre dell’anima umana e subendo inesorabilmente le barbarie del loro tempo, hanno incontrato a loro modo Dio senza intermediazione alcuna e hanno sentito un irrefrenabile bisogno di pregare e di inginocchiarsi al suo cospetto nella vivida certezza della presenza di qualcosa di assolutamente reale. Da tale incontro l’apertura di spiragli insospettati che hanno avuto il potere di attivare risorse produttrici di una ferrea consapevolezza e di un’inedita libertà di vita e di pensiero.

Dalla lettura delle loro opere si scopre che ciò che fa da ostacolo è anche una possibilità di passaggio e di trasformazione, che ciò che si vive nell’abbandono dell’assenza e della perdita si rivela nella sua più assoluta presenza: questa la scommessa politica che emerge dalla lettura di queste loro straordinarie esperienze spirituali. È, ad esempio, proprio dal viaggio senza ritorno della deportazione che Etty Hillesum scoprirà quella presenza di dio in sé stessa che la porterà a celebrare l’amore della vita in tutti i suoi aspetti; è dalla lucida visione della schiavitù operaia e contadina che Simone Weil, come già aveva fatto notare Elémire Zolla, approderà alla conoscenza soprannaturale. La scoperta della fede è, come scriverà Madeleine Delbrel, la scoperta di un sentimento capace di far fronte «all’immensa e incosciente miseria del mondo d’oggi».

Nei loro scritti queste donne ci mettono di fronte all’importanza della linfa spirituale che ha il potere di rieducare l’anima, di lenire le ferite visibili e invisibili, di ridurre la tracotanza dell’io creando quegli anticorpi necessari alla costruzione di una comunità umana. Se è vero, come scriveva Simone Weil, che l’ispirazione religiosa autentica è solo quella che si offre nella tradizione mistica, è perché in essa è custodita la chiave per la messa in gioco di un altro ordine di rapporti e di un altro regime di senso.


(il manifesto, 2 agosto 2023)

di Alessandra Pigliaru


Fiaba, poesia e preghiera sono tre delle direzioni intraviste nel volume Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (Mimesis, pp. 119, euro 20), a cura di Chiara Zamboni, che raccoglie alcuni saggi di filosofe, letterate e studiose intorno al pensiero di una indiscussa protagonista del Novecento quale è stata, e continua a essere. Nata a Bologna il 28 aprile 1923, nel centenario della sua nascita Cristina Campo (il cui vero nome era Vittoria Guerrini) è stata al centro di un convegno svoltosi a Verona nel giugno del 2022 di cui ora si possono leggere gli atti.

A più voci, il libro a cura di Zamboni comprende infatti, oltre alla sua introduzione e al saggio finale, interventi di Wanda Tommasi, Francesco Nasti, Monica Farnetti, Laura Boella, Snejanka Mihaylova, Antonietta Potente, Vittoria Ferri, Andrea Di Serego Alighieri ed è occasione preziosa per riscoprire l’autrice di testi di grande profondità che vanno dalle raccolte di saggi – come Gli Imperdonabili – alle poesie – come Passo d’addio – fino ad arrivare alle lettere – basterebbe nominare quelle a Mita, l’amica Margherita Pieracci Harwell –, tutti luminosi documenti di quanto il corpo pensante di Campo si sia misurato generosamente dalla metà degli anni Cinquanta fino alla sua morte, nel 1977. E oltre.

Il contesto relazionale e di frequentazione testuale in cui è stata immersa Cristina Campo fa da contrappunto all’architrave del volume a lei dedicato, in numerosi e significativi passaggi a partire dalle due parole che ne tracciano il perimetro: «visibile» e «invisibile» convocano per esempio María Zambrano, e l’intensità di tale reciprocità è la stessa che ritroviamo nel senso dell’attenzione o nella grazia in riferimento a Simone Weil. Vi sono tuttavia altre aperture che riguardano la capacità, a un tempo poetica e vocazionale, di rendersi «vedenti» che stanno all’altezza di un verso tra i suoi più noti e che non solo richiamano la passione per la fiaba, come finemente osserva Wanda Tommasi, ma possono essere considerate lezioni di sprezzatura: «Due mondi – e io vengo dall’altro». Lo scrive Campo in Diario bizantino, poco prima di svelare quel «taglio vivente ed efficace», rischioso quanto cominciare a pensare solo a patto di sapersi separare, di saper distillare.

I due mondi, sono simili, anche se sideralmente lontani, a quelli evocati da Marina Cvetaeva quando, nelle sue Notti fiorentine, reclama «Tutta la mia chiaroveggenza intatta con, in più, il beato diritto alla cecità». 
Anche per questo la poesia è «campo magnetico della parola perfetta», lo segnala Vittoria Ferri che rintraccia il visibile e l’invisibile nella struttura duale del simbolo la cui curvatura trascendente si avverte «obliquamente».

Termine interessante quest’ultimo, ché allenta e allarga la propria valenza semantica assumendo ulteriore sottigliezza, per esempio, negli echi che riverberano in Emily Dickinson, quando esorta alla verità da dire «obliqua».

Interrogare la parola, o la «visitazione», il silenzioso approssimarsi dei semplici come degli ultimi della terra, somiglia per Cristina Campo alla «precisione delle cose», esatta come «la geometria “delicata e feroce” della danza della libellula», opportunamente richiamata da Laura Boella. E ci dice anche della pazienza, soprattutto dell’attesa che – nella poesia «Anelli di cenere» di Alejandra Pizarnik dedicata a Campo – è «mormorio di lillà che si rompono». Torna alla mente ciò che María Zambrano, in Delirio e destino, racconta di se stessa a proposito dell’albero di lillà: «preferì la crudeltà dei fiori che non avrebbe mai visto – proprio quelli – all’eventualità che l’albero non ne avesse dati. Non volle consolarsi; preferì l’esistenza del fiore alla consolazione».

In questa tensione elettiva, segnata dalla esperienza incarnata del metodo mistico, oltre che dalla malattia che accomunava Campo e Zambrano, si devono riprendere i fili del volume curato da Chiara Zamboni, seguendo fiaba, poesia e preghiera. Sono nomi diversi per continuare ad ascoltare le voci del mondo, le sue ingiustizie; al contempo indicano una strada di dedizione all’impossibile, di esercizio intransigente alla semplicità. Sia pure «nelle sue esistenziali trasformazioni», ricorda Antonietta Potente, citando uno dei passi più splendenti di Cristina Campo: «una rosa, solo una rosa, in pieno inverno».


(il manifesto, 2 agosto 2023)

di Alberto Leiss


La guerra in Ucraina ci sta mostrando, forse più degli altri conflitti seguiti al 1945, quanto sia tragicamente assurdo pensare di risolvere i contrasti tra gli Stati, i popoli, le culture, gli interessi economici, le visioni del mondo, affidandosi alla forza delle armi. Uccidendo soldati sconosciuti, ridotti a numeri e sagome da abbattere, e civili ridotti a effetti collaterali. Distruggendo città, campagne (e il grano «dono di Dio»), infrastrutture civili, guerreggiando nei pressi di centrali nucleari…Tutto ciò in un mondo dove molti governi, a cominciare dalla Russia, dispongono di bombe nucleari in grado di eliminarci tutti.

Un capo dell’esercito americano ha detto che questa guerra non potrà essere risolta con l’azione militare. Un generale italiano ha affermato che ci vorrà un altro anno di massacri perché sul territorio si creino le condizioni di un negoziato. Se vuoi la pace, devi vincere la guerra?

Consola che molti uomini disertino in Russia, e alcuni anche in Ucraina e altrove. È un fatto che molte donne con bambini e anziani siano scappate dall’Ucraina. Molte vorrebbero tornare. Alcune tornano. Molte altre si sistemano nei paesi che le hanno accolte.

Le opinioni pubbliche oscillano. Hanno paura. Ma è ben presente anche un sentimento di giustizia per cui chi è aggredito ha il diritto di difendersi, e va aiutato. Il pacifismo si attiva generosamente. Ma fatica a ottenere un consenso, a attivare una «mobilitazione» (parola troppo intrisa di un linguaggio militare) in grado di premere su chi avrebbe il potere di agire per un cessate il fuoco. Per passare dalle bombe a qualche scambio di parole, proposte, domande capaci di ascolto. Mi chiedo se non sia venuto il tempo di porre la questione in altri termini, più radicali. La guerra è possibile perché la fanno coloro che la combattono, trovando giustificazioni considerate moralmente alte. È bello morire per la Patria. È ancora più bello morire per la libertà e la giustizia.

E invece no. Non è mai bello morire, per nessun altissimo ideale. Ancora meno bello morire avendo messo nel conto di uccidere.

C’è una radice antropologica della guerra, senza guardare la quale forse non si riesce a uscire dallo schema mentale e sentimentale che la sostiene e la considera giusta.

Mi è già capitato di sostenere qui – come ipotesi da investigare – che questa radice ha a che fare con il regime simbolico patriarcale. L’onore virile è alla base del duello, e il duello – Clausewitz dixit – è alla base della guerra («La guerra non è altro che un duello su larga scala»).

Oggi si comincia a vedere anche da parte maschile – ma non basta ancora – che le violenze quotidiane contro le donne, gli stupri i femminicidi, sono agiti da noi uomini. Dipendono non solo da “patologie”, ma da quella cultura patriarcale che ci attraversa, diversamente, tutti.

Dovremmo vedere finalmente che anche la guerra è sostenuta da questa visione di noi stessi, degli altri e del mondo. Fare la guerra ci fa orrore, ma ci da anche forza, soddisfazione. Ci legittima come eroi, ci accoglie tra chi ci disprezzava persino se siamo un battaglione glbtqia+, come sta accadendo in Ucraina.

Della guerra e dei suoi nessi con la virilità abbiamo discusso nella rete di Maschile plurale. Ne è nato un testo-resoconto, «Maschi e guerra», ed è stato avviato un confronto («Cominciando a discutere. Noi maschi e la guerra»), disponibili entrambi sul sito della rete. Proveremo a coinvolgere altri, altre, altr*: non cerchiamo adesioni a una tesi. Ma approfondire i sentimenti, le opinioni, le esperienze, le domande. Soprattutto tra chi la pensa diversamente.


(il manifesto, 1° agosto 2023)

di Laura Caffagnini


Alla sessione di formazione ecumenica del Sae (Segretariato attività ecumeniche) ad Assisi si sta dipanando una ricca trama di fili per comporre il sogno di chiese inclusive di donne nuove e uomini nuovi, tema della 59ª edizione. 

Lunedì, nel panel con Debora Spini e Lucia Vantini, si è parlato di questo tempo di cambiamento osservando le sue crisi (Spini) e invitando ad ascoltare le voci delle donne, cariche di una sapienza essenziale che può orientare le trasformazioni in atto verso un mondo ospitale verso le differenze (Vantini). 

Ilenya Goss e Roberto Massaro hanno presentato un lavoro condiviso sull’umano plurale in confronto con la Scrittura e con le sollecitazioni del presente, secondo un approccio ermeneutico attento alle diverse voci e un approccio teologico circolare.

La tavola rotonda, ieri, ha preso in esame la domanda “Come parliamo di Dio?” nella ricerca di uscire dal linguaggio sessista che ha caratterizzato anche il cristianesimo.

«Le nostre tradizioni non sono state capaci di custodire questa varietà e ricchezza», ha detto Simone Morandini. Per Lidia Maggi, «la riflessione sul linguaggio riguarda tutto il simbolico che la grammatica e la lingua mettono in scena. Non esiste un modo neutro di dire Dio, il maschile inclusivo in realtà esclude. Quando una parte della comunità non si sente accolta e riconosciuta nel modo di dire Dio, in come lo proclamiamo, l’unità è infranta». 

Una voce altra nell’agenda aperta nel panel è quella di Vladimir Zelinsky che ha affermato con pacatezza che il problema della lingua per dire Dio nell’ortodossia non esiste, mentre nella società occidentale c’è la volontà di processare il passato, anche il linguaggio religioso. Gli ortodossi sentirebbero il cambio di linguaggio come il tradimento di una tradizione bimillenaria. Inoltre, mentre il pensiero teologico occidentale si è aperto ai diritti umani, ha continuato Zelinsky, non c’è questo concetto nella tradizione ortodossa, l’uomo non ha diritti davanti a Dio».

La questione del linguaggio su Dio è estremamente complessa – ha osservato Marinella Perroni –. Da un libro del 1995, “Le donne dicono Dio. Quale Dio dicono le donne? E Dio dice le donne?» ha sviluppato il suo intervento. «Io credo che si può dire che Dio ha il volto di chi lo racconta. Il Dio biblico è il Dio che si consegna ai linguaggi e alle narrazioni e alla successione delle epoche storiche. La Rivelazione dice che Dio non esiste al di fuori del suo dirsi, ma il suo dirsi è all’interno dei linguaggi degli uomini e delle donne che ne hanno fatto esperienza. Dio è di chi lo dice o di chi gli dà le parole per dirsi. La Bibbia è una raccolta di parole, silenzi, pensieri e azioni di uomini e donne che hanno permesso a Dio di dirsi». La teologa riprendendo il brano di Giovanni 4 nel quale Gesù dice “donna” alla donna accusata di flagrante adulterio, osserva che è difficile supporre che fosse stata colta solo lei in flagrante adulterio e quindi è evidente che al centro c’era la pretesa di affermare il diritto di proprietà sulle donne, criticata da Gesù. Il mito delle figlie di Eva persiste, continuano femminicidi e stupri. Le donne sono imputate permanenti e riconosciute sempre come causa prima. «Il Cristo giovanneo che dice “donna” ha ancora molto da insegnare alle nostre chiese e alle società che esse hanno contribuito a forgiare. Sento pressante, rispetto al nostro dire Dio con le parole i gesti e le scelte, spesso scelte e silenzi sessisti, il monito di Gesù: voi siete obbedienti più alle tradizioni dei padri che al comando di Dio».


(Avvenire, 26 luglio 2023)

di Monica Lanfranco


In questi giorni Paola Concia si è espressa molto criticamente su Twitter e in un’intervista su “Il Foglio” contro l’utilizzo di termini neutri per parlare delle donne e dei loro diritti. Ciò che indica è un problema reale e diffuso in tutto il mondo e che sta indebolendo l’ancora lunga marcia politica del femminismo.


Il 30 dicembre del 2021 fa scrissi su Micromega una sorta di bilancio di fine anno, provando a ragionare di argomenti politici spinosi sui quali lavorare come attiviste, nel dopo covid. Dopo aver letto l’intervista di qualche giorno fa sul Foglio a Paola Concia, attivista femminista, lesbica ed ex parlamentare nel Pd dal 2008 al 2013, mi ha colpito come, senza esserci parlate, Concia abbia toccato in modo analogo alcuni di quegli stessi temi. Scrivevo allora: 
“Comincio con chi insiste a modificare la parola femminismo, come se da sola, priva di suffisso, o al singolare, o senza specifiche aggiuntive fosse incompleta e inadeguata. Perché non si parla così spesso di socialismi, comunismi, liberalismi, ma è solo il femminismo che viene nominato plurale? Posto che ovviamente si è libere di pluralizzare a piacere, domando e mi domando: come mai la visione femminista da sola appaia, per talune, obsoleta, e da qualche tempo vi si anteponga la parola trans, o si trovi necessario aggiungere intersezionale? Ho il dubbio, (e spero di sbagliare), che in noi femministe, in quanto donne, (persino le più salde e avvertite), scatti un atavico meccanismo di oblatività compulsiva, che nel caso del termine transfemminismo intenda modificare, non sono certa se in modo davvero inclusivo quanto piuttosto deviante, un percorso politico ancora molto lungo e bisognoso di focalizzazione. Restando sempre sulle parole (che nel 1955 Carlo Levi definiva «pietre», con immagine quanto mai fondativa per chi fa cultura e politica) vorrei fare un cenno al casus belli provocato dall’improvviso disagio nel pronunciare il sostantivo donna (al suo posto sarebbe più corretto, si dice in alcuni ambienti per non offendere, usare la locuzione persona con le mestruazioni, già adottata sulle confezioni di assorbenti in Inghilterra) e alla difficoltà a nominare il femminile, una pratica che la maestra Lidia Menapace diceva di primaria importanza politica perché «essere nominate significa esistere». In alcuni ambienti femministi la soluzione trovata per la scrittura sarebbe quella di usare il segno grafico schwa. Peccato: avevamo da pochissimo iniziato a sessuare il linguaggio, a nominarlo questo femminile così scomodo, a prezzo di fatiche immani sia nelle redazioni giornalistiche così come nella scuola e nelle conversazioni pubbliche, ed ecco che al neutro maschile patriarcale che cancellava le donne si sostituisce una nuova forma di obsolescenza, ma questa volta con la benedizione di alcune femministe e di parte del movimento omosessuale. Come è possibile che l’inclusione e la lotta contro la discriminazione risulti essere strumento di rimozione delle donne e della differenza sessuale da parte di pezzi del movimento femminista? E come è successo che mettere al centro del dibattito politico la prima differenza umana, quella sessuale, attira odio e persino persecuzioni, come nel caso della scrittrice J.K. Rowling?”.

A due anni di distanza, oggi, Concia affronta un nuovo casus belli: questa volta si tratta di un manifesto dei Radicali italiani che invita a firmare a favore di una legge per l’aborto libero, (vecchio cavallo di battaglia dei radicali negli anni ’70) che questo volta diventa legge per tutt*, e, nel nome della ‘trans inclusività’ si suggerisce che nell’articolo 17 comma 2 della attuale legge 194 la parola “donna” venga sostituita con il termine “persona gestante”. “Lo schema mentale è sempre quello”, dice Concia nell’intervista, “eliminare la donna. La rivista Lancet, quasi due anni fa, definì le donne corpi con vagina. Ma non ricordo che qualcuno abbia mai descritto l’uomo corpo con scroto”. 
Concia non vive in Italia, e in Europa la situazione del conflitto nel mondo femminista a proposito del cosiddetto linguaggio inclusivo, che si trascina dietro anche temi come la gpa e la libertà di prostituirsi è pesante: dell’Inghilterra si è detto, e grazie ai webinar organizzati da qualche mese dal movimento WDI (Women’s Declaration International) c’è allarme e grande attenzione a quello che sta avvenendo, soprattutto in alcune università, dove docenti e studiose femministe che criticano la sostituzione della categoria del sesso con l’identità di genere vengono censurate e spesso è loro impedito di partecipare a incontri e dibattiti, in Francia, Germania, Belgio, per non parlare della Spagna e, fuori dai confini Europei, negli Usa e in Canada.

Vale la pena di leggere la Dichiarazione dei diritti delle donne basati sul sesso e di riflettere sul mantra dell’inclusione così come si sta delineando. Se, tornando al senso profondo delle parole e al loro mettere al mondo il mondo, ci soffermiamo sul verbo includere e sulla sua radice, troviamo questo: chiudere dentro. Non dubito che molte delle amiche e compagne di strada che in ottima fede vogliono spezzare le catene dell’oppressione, del pregiudizio e degli stereotipi sessisti abbiano a cuore la libertà e la liberazione dagli orribili vincoli dentro i quali la cultura patriarcale opprime donne e uomini. Ma il sempre più pericoloso (e non certo nuovo) meccanismo di cancellazione delle donne con la presunta inclusività di segni e simboli che estromettono il femminile del mondo dal linguaggio (e quindi dalla realtà) dovrebbe farci paura allo stesso modo in cui temiamo le destre radicali e i fondamentalismi religiosi che avanzano nel mondo, spesso grazie anche al relativismo culturale caro ad una parte della sinistra. Il femminismo, con il suo sguardo critico fondamentale, da sempre apre, illumina, sconvolge gli equilibri e rimodula in modo nonviolento visioni e pratiche collettive: mai dovrebbe rinchiudere e abdicare al suo compito politico, ovvero quello di porre la differenza sessuale come lente centrale di osservazione del mondo. Oggi il rischio è quello di auto cancellare in forma simbolica, e quindi anche concreta, l’esistenza politica di oltre la metà del mondo.


(Micromega, 25 luglio 2023)