di Alessandra Pigliaru


Le carte dell’autrice di «Sputiamo su Hegel», saggista e critica d’arte verso una nuova sede


L’Archivio Carla Lonzi arriva alla Fondazione Basso. Si apprende da una nota del centro di ricerca romano di via della Dogana Vecchia, con cui è stata annunciata la nuova sede delle carte della femminista, saggista e critica d’arte italiana, dopo che pochi giorni fa Battista Lena, figlio di Lonzi e proprietario del Fondo, ha firmato il contratto di comodato.

Cinque mesi fa, la direzione della Galleria nazionale (ovvero Renata Cristina Mazzantini) aveva infatti sospeso anzitempo il comodato tra lo stesso Lena e la Gnam che nel 2017, per volontà dell’allora direttrice Cristiana Collu, avviava il primo riordino delle carte. La ritirata aveva suscitato, legittimamente, non poche perplessità e richieste di chiarimento tra cui una interrogazione parlamentare di Luana Zanella (Avs) al Mic per domandare, insieme alle ragioni per cui non fosse stato chiesto a Battista Lena di donare il fondo preferendo l’interruzione dei rapporti con tre anni di anticipo, che lo stesso archivio potesse diventare «Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico» (ne avevamo scritto su queste pagine il 30 maggio, ndr).

Ora, insieme alla buona notizia della nuova dimora che ospiterà le carte di Carla Lonzi, il cui prezioso inventario, a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli è consultabile nel sito della Gnam, sappiamo che il destino dell’autrice di Sputiamo su Hegel non sarà la dispersione. Potrà invece essere consultato da studiose e studiosi nella sede storica della Fondazione Lelio e Lisli Basso, che oltre a conservare quasi 90 fondi archivistici e un indiscutibile prestigio, nel 2015 aveva organizzato con il Centro Riforma dello Stato un ciclo di tre seminari proprio intorno alla figura di Carla Lonzi declinando tre parole cruciali: politica (con gli interventi di Maria Luisa Boccia e Ida Dominijanni), arte (con Laura Iamurri e Maria Antonietta Trasforini) e profezia (con Gaia Leiss e l’indimenticata Rosetta Stella).

«Sono felice che l’archivio di mia madre trovi la sua collocazione alla Fondazione Basso, che l’ha accolto con entusiasmo», dichiara Battista Lena, che accenna a «nuovi e interessanti materiali» del fondo per cui, nel luglio di quest’anno, la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio ha avviato la procedura per la dichiarazione di interesse storico.

Tra i lasciti più grandi di Carla Lonzi vi è il lavorio mai esausto nel solco della libertà femminile, capace di generare simbolico ancora oggi. Ecco spiegate le numerose – e fortunate – iniziative intorno al suo nome, alla produzione – sua e di Rivolta femminile – e alla sua esperienza, multiforme se consideriamo quanto ancora riesca a interrogare generazioni di donne assai diverse, non solo anagraficamente. In questa direzione si legga, per esempio, la recente ripubblicazione da parte de La Tartaruga della sua opera completa, come anche i convegni, le mostre, le discussioni pubbliche riguardanti i suoi testi, che hanno il pregio di saper parlare al presente. Del resto si tratta di un’eredità d’amore senza testamento.


(il manifesto, 27 ottore 2024)

di Giusi Fasano


Capita che a un incontro pubblico, in qualche titolo di giornale, in una discussione privata, ci sia qualcuno che a un certo punto dica: ci sono anche donne che uccidono uomini però non se ne parla mai. A parte il fatto che non è vero; le rare volte che succede se ne parla eccome. Ma quello che risulta fastidioso è la tracotanza di chi accende un faro sulle (pochissime) storie di violenza femminile convinto che sia giusto dare a quella violenza la stessa rilevanza che meritano – tutti assieme – i casi di uomini che si accaniscono contro le donne. Che poi: quando parliamo di violenza contro le donne spesso evochiamo unicamente il femminicidio ma come sappiamo c’è molto altro. C’è la violenza economica, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli. C’è la violenza psicologia, sottile e tagliente come lama di coltello. E ci sono moltissime donne che portano i segni della brutalità del partner: lividi, fratture, lesioni di vario genere non di rado gravi o gravissime.

Nel libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli Up) scritto a quattro mani con Daniela Palumbo, Lucia Annibali racconta del suo “dopo”. Dopo l’acido in faccia ordinato per lei dal suo ex e dopo il tempo della sofferenza fisica, del processo. In quel dopo ci sono anche gli incontri con i ragazzi nelle scuole e le domande più frequenti che le rivolgono. Una, definita «ricorrente» e «inquietante», e che in genere viene dalla voce di un ragazzo, è proprio quel «perché si parla sempre di violenza sulle donne e mai viceversa?». Lucia scrive che «è un quesito terribile che svilisce la cura e la fatica del mio racconto». E aggiunge che «è anche capitato che a questa domanda seguissero applausi di gruppi di studenti presenti… Quando succede ci resto male. Mi sembra una provocazione e dunque un’occasione sprecata».

Per quanto scoraggiante sia la domanda, la risposta è facile ed è nei dati. Donna uccisa = movente da cercare in una relazione intima, quasi sempre. Uomo ucciso = moventi vari, quasi mai legati a una relazione intima. Certo, poi sarebbe necessario andare alla radice del problema, e cioè alla domanda – questa sì – che bisognerebbe farsi: da dove arriva l’incapacità di accettare un abbandono che fa scegliere ai più violenti la morte di lei piuttosto che la vita senza di lei?


(Corriere della Sera, 27 ottobre 2024)

di Nadia Terranova


Scrittrice sassarese, di sé lascia pochissime tracce biografiche, muovendosi sempre ai limiti del canone. Collabora con il cinema di Fellini e Zavattini e consegna alla storia del costume indimenticabili istantanee di personaggi letterari e no. E due romanzi che hanno per protagoniste donne, amiche, sorelle.

Nel discorso sempre molto frequentato sul canone letterario, il crinale più interessante negli ultimi tempi non è tanto la distinzione tra ciò che è canone (o lo è stato o forse lo sarà) e ciò che non lo è, ma la galassia scivolosa e multiforme di quegli autori che vivono un’esistenza indifferente e parallela ai parametri, e in quella zona, solo in apparenza opaca, trovano a volte un’originale forma di fortuna. Appartiene a questa genìa Leila Baiardo, scrittrice sarda di cui si rintracciano poche notizie biografiche e ancor meno fotografie, che la ritraggono quasi tutte da anziana, negli ultimi anni della sua lunga vita conclusasi qualche anno fa. On line è difficile scoprirne la data di nascita, le bandelle dei suoi romanzi la omettono (un vezzo adorabile) e il canone l’ha ignorata: le scarne notizie su di lei riportano perlopiù informazioni filtrate da lei stessa.

Nata a Castelsardo, vicino Sassari, dopo la maturità classica si sposta a Roma, dove inizia a collaborare con le maggiori riviste letterarie della sua epoca, tra cui Noi donne e Nuovi Argomenti, occupandosi di interviste e recensioni. Nel 1976 pubblica con Bompiani L’inseguimento, proposto all’editore da Cesare Zavattini, con il quale all’epoca l’autrice collaborava nella stesura di soggetti per il cinema. Il romanzo ha un buon riscontro di critica, Leila Baiardo è piuttosto conosciuta nell’ambiente letterario e cinematografico, lavora con i fratelli Taviani e, sette anni dopo il suo esordio, vince il Premio Noi Donne con il romanzo Sogno d’amore. Risalgono a quegli anni i suoi ritratti di poeti e scrittori oggi raccolti nell’antologia Incontri, pubblicata per la prima volta in formato elettronico nel 2010 da La Recherche e oggi disponibile in cartaceo nel catalogo delle Commari, piccola e attivissima casa editrice indipendente che di Baiardo sta curando l’opera omnia e la riscoperta. Incontri è un libro fresco e spigolosamente sincero, ideale per fare la conoscenza del personaggio, prima ancora che dell’autrice: in queste pagine gli intellettuali vengono fotografati con una libertà che può apparire disarmante nell’eccesso di sussiego al quale oggi siamo abituati. «Devo dirlo subito e poi spararmi. Era una donna antipaticissima» scrive Baiardo di Elsa Morante. E di Jolanda Insana: «Un’altra antipaticona (quasi quanto la Morante) ma una buona poetessa». Amelia Rosselli «era intelligentissima e contemporaneamente stupida e pazza. Forse più pazza che stupida. Ma non è un giudizio e tantomeno una diagnosi. Anch’io sono pazza. E a volte anche stupida». Leila Baiardo ricorda poi le lunghe quasi oniriche conversazioni con Sandro Penna e i suoi guai con i ragazzini di cui si invaghiva e che portava nella casa dove viveva con la madre, l’affabilità affettuosa di Federico Fellini, il dialogo fulmineo e ricco di presagi con Anna Proclemer.

Sempre, la notizia delle morti di questi conoscenti la coglie anni dopo, quando è già lontana dai loro mondi e appartata, quasi isolata, tanto che si ritrova a fare le condoglianze a sé stessa, celebrando a ogni addio un altro pezzo della fine del suo mondo. In questo librino irresistibile l’autrice mette insieme con audace disinvoltura Antonio Delfini e Mike Bongiorno, Topazia Alliata e Fred Buscaglione, il tutto introdotto da un’accorata prefazione di Elio Pecora, che per Leila Baiardo, «donna molto singolare e con un’esperienza di vita assai varia », si augura un destino preciso: «Vorrei tanto che toccasse a Leila, anche se con troppo ritardo, l’attenzione che merita dalla famiglia ampia e composita di chi cerca nella narrativa la qualità e il piacere, la complessità del reale e la leggerezza del sogno».

Il lavoro della casa editrice Le Commari raccoglie questo augurio.

La santa e Dies Illa, i due romanzi in catalogo, giocano sulla stessa schiettezza di scrittura, sulla stessa fresca ironia, ma qui il registro è alto, non più di costume si tratta ma di opere di valore letterario, che rielaborano ritagli di vissuto dell’infanzia e dell’adolescenza per restituirli in forma narrativa. In Dies Illa, esplicitamente ambientato a Castelsardo, le protagoniste sono Ela e Mira, al secolo Electa e Mirìce, sorelle adolescenti, molto diverse fra loro: attraverso le loro vite possiamo leggere il cambiamento epocale della Sardegna negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’isola fu travolta dall’arrivo del turismo e i sogni di tutti offuscati dal miraggio del benessere. Anche La santa ha per protagoniste una coppia di ragazze, stavolta cugine: una delle due, la più capricciosa e stupida, ma forse invece la più illuminata, costruirà intorno a sé un’aura mistica, raccontando di avere delle visioni e ritirandosi sempre più a una vita mortificata: il filo esile che tiene insieme egocentrismo e santità viene tenuto magistralmente dall’autrice fino alle ultime pagine.

Abbiamo iniziato la conoscenza di Leila Baiardo premettendo una sua estraneità al canone, è vero. Eppure, di Dies Illa Toni Maraini ha scritto: «C’è qualcosa di antico in questo libro, un pathos che evoca i grandi romanzi del Novecento». Inoltre, Baiardo figura tra le cinquanta scrittrici della mitica antologia Il pozzo segreto, pubblicata da Giunti nel 1993, accanto a nomi come Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza e Maria Bellonci. Forse il canone è più imprevedibile di quanto pensiamo. Forse l’augurio di Elio Pecora si sta segretamente avverando. Forse possiamo solo godere di una scrittura interessante e disinteressata a vendite e promozioni, lasciando ad altri la costruzione dei totem editoriali.


(Robinson – Repubblica, 27 ottobre 2024)

di Alessandro Portelli


Morta a novantasette anni una delle più straordinarie figure della musica americana. Comunista e protagonista della stagione di lotte dei ’60 e degli anni seguenti


Mi raccontò una volta Barbara Dane: «Quando decisi di rinunciare a un tour mondiale con Louis Armstrong per dedicarmi alla canzone di lotta e ai movimenti contro il razzismo e la guerra, il mio ormai ex manager mi disse: che peccato, potevi essere la nuova Janis Joplin! E io gli risposi: però io sono viva!».

Barbara Dane è rimasta una voce viva e irresistibile fino all’inizio di questa settimana, quando ci ha lasciati all’età di novantasette anni intensi, creativi, generosi.

È stata una delle più straordinarie voci della musica americana dagli anni ’50 fino ad oggi; ed è stata una protagonista della stagione di lotte degli anni ’60 e della ostinata resistenza nei decenni seguenti – e forse proprio per questo relativamente, e ingiustamente, poco conosciuta.

Solo nei suoi ultimi anni ha ricevuto un po’ dei riconoscimenti che meritava.

Fino a poco tempo prima di morire faceva ancora seguitissimi concerti blues a San Francisco, Berkeley e dintorni, aveva appena pubblicato una coinvolgente autobiografia, era uscito un film su di lei e un cd di blues con la pianista Tammy Hall e un doppio cd antologico di tutti i suoi settant’anni di carriera di grande musicista e di insopprimibile militante.

Era nata nel 1927 da una famiglia proletaria in un quartiere operaio di Detroit. Era bianca, bionda, occhi azzurri. Nel 1959, Ebony – la rivista che sta al pubblico afroamericano come Life sta al resto d’America – le dedicò un articolo di sette pagine – «Bianca e bionda, tiene vivo il blues» – in cui la riconosceva come la vera erede di Bessie Smith. Incideva per majors discografiche, faceva musica con i maggiori bluesmen e jazzisti afroamericani, da Earl “Fatha” Hines a Lightnin’ Hopkins. Ma aveva un difetto: era comunista. E lo è rimasta fino alla fine.

Quando ho saputo della sua morte, ho pensato a che cosa scrivere qualcosa per ricordarla. Ma mi sono accorto che l’incipit che mi era venuto in mente era esattamente lo stesso che avevo usato pochi mesi fa per Giovanna Marini. Perché Barbara era sia molto diversa da Giovanna, sia anche un po’ come lei: come lei, amava la musica che faceva e aveva una voglia inesausta di condividerla.

Così, anche lei, una sera, dopo cena a casa sua, prese la chitarra e mi disse, ti va se suono qualcosa? E mi cambiò la vita.

Una delle canzoni che suonò per me (e per il mio registratore, fortunatamente acceso) era I Hate the Capitalist System – odio il sistema capitalistico – scritta negli anni ’30 da Sara Ogan Gunning, moglie e figlia di minatori di Harlan County, Kentucky. Fu quella registrazione che mi ha aperto gli occhi sulla profondità della lotta di classe negli Stati Uniti e mi ha spedito a trascorrere trent’anni a cercare di raccontarla facendo storia orale a Harlan.

Barbara diventò un punto di riferimento nel mondo del folk revival, partecipò ai folk festival di Newport, incise un disco di canzoni popolari (Anthology of American Folk Song, 1959) e continuò a fare blues.

Ma a mano a mano abbatteva le separazioni dei generi musicali: il suo ultimo disco blues prima del cambio di carriera già includeva un classico di Pete Seeger, The Hammer Song; e in un memorabile album col gruppo soul dei Chambers Brothers (1964) entrano tutte le canzoni del movimento dei diritti civili, gospel e soul riversati in note di lotta.

Nel frattempo – quando per i cittadini statunitensi era ancora vietato – aveva partecipato al festival della Canción Protesta a Cuba ed è rimasta legata all’isola per il resto della sua vita (suo figlio Pablo Menéndez è rimasto a Cuba e col suo gruppo Mezcla è una delle voci più innovative e intelligenti della musica cubana contemporanea).

Come Giovanna Marini, come Violeta Parra, anche nei suoi anni più militanti Barbara non dimenticò mai di essere in primo luogo una musicista. Però il tempo premeva, c’era il Vietnam, c’erano le rivolte urbane afroamericane, nasceva il nuovo femminismo, e fare musica era inseparabile dal fare politica e fare cultura. Così andò a cantare, e a inventare e insegnare canzoni contro la guerra, davanti alle basi militari, creando luoghi di incontro (le GI coffee houses, i caffè dei soldati) dove i militari contro la guerra potevano incontrarsi e organizzarsi.

Insieme col suo compagno Irwin Silber (altra voce della sinistra comunista, fondatore e direttore per anni della storica rivista Sing Out!) creò un’etichetta discografica militante che fece conoscere musica e voci di tutti i movimenti antirazzisti e anticoloniali, da Haiti a Porto Rico, dall’Irlanda alle Black Panthers – e persino, in collaborazione coi Dischi del Sole, una antologia di canzoni di lotta italiane, intitolata naturalmente Avanti popolo!).

L’album più significativo che pubblicò in quegli anni (e che ripubblicammo coi Dischi del Sole) si chiamava, naturalmente, I Hate the Capitalist System.

Le registrazioni di quella sera a casa sua, e altre – con lei e con altri musicisti che mi aveva fatto conoscere – erano confluite in un album, L’America della contestazione (Dischi del Sole, 1969), e le abbiamo ristampate e arricchite di recente in un’altra raccolta (We Shall Not Be Moved, Squilibri 2020).

Da lì, un paio di brani sono stati prelevati addirittura nella colonna sonora dell’Alligatore, la serie tv tratta dai romanzi di Massimo Carlotto).

Riuscimmo a far invitare Barbara alla festa dell’Unità nel 1972 e nel 1973; fino ad anni 2000 inoltrati le sue tournée europee includevano sempre tappe a Roma ospitate dal Circolo Gianni Bosio.

Ma il momento che ricordo di più è quella sera, credo nel 1973, che organizzai di farla incontrare coi compagni del manifesto nella storica sede di via Pomponazzi. Cantò un po’ di cose, ma a lei e ai compagni interessava soprattutto parlare di politica.

Così, uno dei nostri le chiese: quali fossero i movimenti più importanti in quel momento negli Stati Uniti. E lei disse: il movimento delle donne. Ricordo ancora lo sconcerto nei visi dei compagni (quasi tutti maschi): non ci avevano ancora pensato.

Se devo pensare a una canzone che tiene insieme tutta la vita e l’opera di Barbara Dane, non penso tanto a I Hate the Capitalist System, quanto a un blues degli anni ’20, di Ida Cox: Wild Women Don’t Get the Blues – che traduco sempre con “alle cattive ragazze non viene il blues”. Barbara la cantava già in uno dei suoi album degli anni ’50, l’ha cantata al concerto che organizzammo col Bosio a Roma alla Locanda Atlantide nel 2001 e c’è in We Shall Not Be Moved.

Barbara era wild a modo suo: non sfrenata, neanche tanto esibitamente trasgressiva; ma sempre oltre il confine della rispettabilità, del conformismo, del prevedibile, del subalterno.

Anche per questo, quando più di mezzo secolo fa alla sua porta si presentò uno sconosciuto e ingenuo viandante italiano, lo accolse, lo ospitò, gli regalò musica e gli aprì strade e visioni. Indimenticabile.


(il manifesto, 26 ottobre 2024)

di Rosa Serra


Mail art 2024 organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce: “Trame di vita” “Trame di pace” due temi che si intrecciano tra di loro, si annodano, si rafforzano.


È un appuntamento atteso con le artiste e gli artisti e anche con chi artista non lo è, ma che ci prova e lo diventa per il tempo e nello spazio di una cartolina.

La ricerca delle parole, dei colori, delle immagini, le modalità per rappresentare il proprio messaggio diventano una sfida, una pacifica sfida dove, grazie al cielo, non si vince nulla.

Una sfida con sé stessi e con il proprio desiderio che è anche quello di affidare la propria creazione allo sguardo critico, benevolo, severo, indulgente di chi si fermerà davanti alla piccola opera.

La mail art non è solo il prodotto finito che sono le cartoline.

È una strada percorsa da persone che si incontrano in tanti modi e si lasciano attraversare dalle altrui sensibilità.

Il suo iter, meraviglioso, comincia con le idee, le proposte sugli argomenti da sviluppare e le motivazioni.

Le problematiche che ogni giorno il mondo ci elargisce, con una generosità pari solo alla mancanza di senso di responsabilità in fatto di guerre, ambiente, questioni sociali, libertà, libertà femminile, discriminazioni, sono tante che non è difficile trovare il tema che sta più a cuore (eh sì proprio a cuore) a tutte e tutti sia individualmente che come associazioni.

Scelto il tema, segue la condivisione con il mondo degli artisti e delle associazioni con relativi inviti a partecipare.

La casa di Katia Ricci per oltre un mese diventa punto di raccolta di tutti i lavori, ogni anno più numerosi e di provenienza anche estera.

Arriva di tutto, carta cartoncini collage tavolette metallo ricami uncinetto fiori foglie foto e le previste piccole dimensioni, non sono da freno alle ambizioni artistiche, anzi si aggiungono alle sfide a cui accennavo prima.

Non mi dilungo sulla fase della ricerca dei luoghi dove tenere la mostra e le relative difficoltà, in quanto gli iter burocratici sono sempre un po’ noiosi da descrivere e a volte irritanti da vivere.

Però mi piace anche dire, per mia diretta esperienza, che quando ci si confronta con le istituzioni non solo sulla base dei ruoli, ma come persone, la relazione si fa più agile, più vera e diventa anche piacevole.

Tra una richiesta da un lato ed una concessione dall’altra e scambi più personali, ognuna/o comprende meglio le problematiche dell’altra/o con reciproca soddisfazione.

Con l’installazione delle artiste Rosy Daniello e Anna Fiore, le nude pareti del museo di Foggia, luogo della prima esposizione, hanno preso vita; vita che proseguirà coi successivi itinerari.

Colori, poesie, frasi, foto diventano il prolungamento dell’anima degli artisti/e della loro forza, delle loro fragilità.

Ma c’è un’altra fase artistica, una parte irrinunciabile della mostra che è la realizzazione a cura di Rosaria Campanella del video delle foto di tutte le opere (visibile su you tube digitando trame di vita trame di pace).

La mostra è itinerante e Anna Fiore, con la stessa attenzione con cui ha affisso al muro le opere, a chiusura della mostra, ha provveduto a toglierle, con amorevole cura e rispetto per il lavoro degli artisti/e.

Ciascuna opera l’ha avvolta in un foglio di carta per poi unirle in piccoli gruppi onde evitare che si potessero danneggiare. Ha recuperato quindi diligentemente spilli e pinzette varie, utili per la successiva esposizione e infine consegnandomi il tutto perché lo portassi a Vico del Gargano, successiva sede della nuova inaugurazione, mi ha chiesto, premurosa, se per caso volessi anche il martello (suo).

L’ho abbracciata per tutto l’amore che ci ha messo.

Così come mi viene di abbracciare Katia per la generosità e la pazienza (con gli artisti ce ne vuole, si sa);

Rosy alla quale siamo tutte legate con un tenace lungo filo di stima ed amore;

Rosaria per il video che rende ancora più belle le già belle opere;

e tutti e tutte senza il cui sostegno mai nulla si potrebbe realizzare.

Messaggi, sogni di pace, poesie desideri, esempi di un’altra vita possibile, sono stati espressi nelle cartoline, come nella mia dal lungo fiore azzurro, attraverso la quale desidero che sulla Terra venga seminata la Pace per far crescere e raccogliere la pietà, la speranza e veder rifiorire i sogni in nuove notti d’amore.

Ma questa mia utopia non riesce a lenire l’inquietudine, il disappunto, la rabbia che provo per ciò che accade nei luoghi del potere, dove la pace sembra essere un argomento di rari incontri autoreferenziali e sterili.

Di altro tenore e solerti nelle decisioni, invece, sono quelli sulla guerra e sulle armi vendute dalle ricche case di produzione.

Da qui nasce a mia poesia “Non hanno cieli gli uccelli” che condivido in questo scritto.

Lungi dal chiudersi a ogni speranza, la mia vuole essere una denuncia verso chi, pur avendo prerogative decisionali e strumenti, non si adopera concretamente per far cessare sofferenze e disumanità e non “libera la colomba della pace dalla inutile cornice in cui è stata messa”.

È una poesia che affianca il desiderio di pace, di fiducia, di attesa della mostra stessa, aggiungendosi così alla voce degli artisti e al positivo coinvolgimento emotivo che il pubblico sta esprimendo davanti alle opere e a tutta la manifestazione.


Non hanno cieli

gli uccelli

in tempo di guerra.

Non volano per i campi di grano

tra i rossi papaveri,

né sui paesi a cinguettare stagioni.

Hanno perso il nido

e anche le nuvole nelle quali nascondersi.

Cercano la pace,

la colomba di pace.

Fedele a se stessa, su rami anneriti,

è rimasta ad attenderla, seppur accartocciata,

una tenace piccola foglia d’ulivo.

Ma… non si vedono bianchi voli

in questi cupi cieli,

rumorosi di ferro e di fuoco.

Eppure una colomba c’è.

Proprio lì sulla tela,

l’artista ha dipinto una grande colomba luminosa.

Le sue ali sono … candide

le sue ali sono … aperte

le sue ali sono … ferme.

Sembra una croce e forse lo è.

Una croce che rammenta

il dolore … la morte,

ma non la redenzione.

È lì la PACE

dentro una inutile cornice dorata.

La inchioda

lo sguardo incolore

del pubblico che conversa distratto,

mentre sorseggia, lentamente,

il calice di un fresco prosecco

offerto dalla ricca Casa d’arte.


(AP Autogestione e Politica prima, ottobre-dicembre 2024)

di Roberta Scorranese


Due mostre in Italia ricordano la figura dell’artista, pioniera di un genere


Se per il centenario del futurismo (nel 2009) in Italia si è fatto poco, le celebrazioni dei primi 150 anni degli impressionisti sembrano non finire mai. E di quella pionieristica mostra allestita a Parigi il 15 aprile del 1874 si continua a parlare anche in Italia e a volte da prospettive poco familiari, per esempio attraverso la pittura delle donne. Avviene così che dopo decenni di silenzio o quasi, due città in contemporanea, Torino e Genova, dedichino una mostra a Berthe Morisot, la prima donna impressionista, nonché una delle figure più importanti del movimento reso famoso da Monet e da Renoir. A Genova “Impression, Morisot” (Electa) sarà allestita a Palazzo Ducale fino al 23 febbraio, mentre la Gam di Torino ospita “Berthe Morisot, pittrice impressionista” (24Ore cultura) fino al 9 marzo.

Non è stata l’unica pittrice impressionista, ce ne saranno altre e famose (per esempio Mary Cassatt), però Morisot è stata l’unica donna a esporre in quella celebre mostra ospitata nell’atelier di Félix Nadar, al 35 di rue des Capucines di Parigi. Al di fuori del Salon ufficiale, Monet, Pissarro e altri decisero di esporre per proprio conto, affrontando le (inevitabili) critiche dalle quali nascerà per paradosso il termine “impressionismo”, coniato dal critico Louis Leroy quando volle parlare male del bellissimo Impression, soleil levant di Claude Monet, del 1872. Berthe Morisot, in quella occasione, espose il suo dipinto più toccante, anche questo del 1872: La culla. Raffigura una madre finemente vestita che veglia con dolcezza il suo bambino nel sonno. Sarà questo dipinto a consacrarla nella storia dell’arte, ma non solo: è proprio qui che Morisot ricava quella “singolarità” di cui scrisse Paul Valéry parlando di lei, quella originalità che permise a una donna di entrare a far parte di una cerchia d’artisti.

Ma forse, per parlare di Morisot, è più utile partire dalla fine, dalla tomba: se andate a visitarla, nel cimitero parigino di Passy, scoprirete che le tombe di Berthe e del gigante della pittura francese, Édouard Manet, non sono tanto distanti. In fondo erano cognati, lei aveva sposato il fratello di lui. Eppure, se a ricordare la grandezza del pittore si erge un alto busto commemorativo, la tomba della pittrice è contrassegnata solo da una scarna epigrafe: «Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet». Peggio ancora fece l’anagrafe della capitale francese quando registrò la sua morte, avvenuta nel 1895 a soli cinquantaquattro anni, a causa di una polmonite: nel certificato di avvenuto decesso scrissero «Berthe Morisot, senza professione». Bruciando così, in poche righe, una intera vita dedicata all’arte e alla sperimentazione.

Morisot era nata in una famiglia colta e benestante, nella quale l’arte non era bandita, anzi: sia Berthe che le sue sorelle Yves e Edma avevano preso lezioni private di pittura. Però, nelle intenzioni della madre Cornélie, queste dovevano servire a un intento preciso, cioè renderle “coltivate” e pronte per una vita sociale ricca e brillante.Detto in poche parole: dovevano servire a maritarle bene. Il problema fu che Berthe cominciò a pensare come un’artista vera e dunque quando andava nei grandi musei come il Louvre e copiava diligentemente i corpi pieni di Rubens, non si lasciava ingabbiare in un banale compito accademico. Studiava l’anatomia, le espressioni, le tecniche. Solo così si diventa bravi davvero, copiando con originalità. E allora un artista molto popolare all’epoca, Henri Fantin-Latour, la notò e le presentò Édouard Manet.

Questo, nella seconda metà dell’Ottocento, poteva essere una svolta nella carriera. Perché conoscere Manet non voleva dire solo entrare a far parte di un giro di conoscenze importanti nell’avanguardia, ma era anche come imboccare una direzione tutta nuova, distante dai canoni dell’accademia, considerare insomma l’arte come un territorio di coraggiosa sperimentazione. E i timori della madre di Morisot assunsero una concretezza allarmante: come può una donna dell’Ottocento pensare di fare l’artista e, per giunta, l’artista “sperimentale”, contraria ai dettami della tradizione? Sopravvivrà? Berthe sapeva bene che avrebbe dovuto muoversi con intelligenza: non diventare “di maniera”, ma nemmeno poteva permettersi quello che aveva fatto Manet nel 1863, quando diede scandalo con Le Déjeuner sur l’herbe, un dipinto nel quale una donna completamente nuda si lascia ritrarre in una quieta conversazione con due uomini vestiti, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.

Morisot aveva osservato e studiato il lavoro del maestro, anche perché lui la ritrasse in numerosi dipinti. E quindi sapeva che lo “scandalo” in questo caso non stava tanto nel nudo in sé e per sé(le sale del Louvre erano piene di nudi pittorici) quanto nel fatto che quella donna era una cortigiana conosciuta in tutta Parigi, quindi la provocazione di Manet consisteva nell’inserire in una dimensione quasi rinascimentale (tizianesca) il corpo e il viso di una modella molto chiacchierata. Morisot comprende che non bastano l’originalità del tratto pittorico o la tecnica o i temi – peraltro, alle donne era permesso poco anche in questo senso. Comprende che deve trovare una sua “singolarità” e così si colgono bene le parole che a lei riservò un grande critico come Paul Valéry, nel 1941: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».

Rimase così nell’alveo tematico del femminile: culle, madri, bambini, giovani donne, eleganti signore. Ma torniamo a osservare La culla, il dipinto che venne esposto nella prima mostra impressionista: nulla si ferma al dettame accademico, nulla è stereotipato. Non c’è una madre vestita di retorica, ma nell’osservare la piccola si coglie, assieme alla dolcezza, una certa apprensione, come un presagio dei tempi che verranno. E c’è un’ombra di stanchezza, modernissima perché la figura della madre, idealizzata da secoli di pittura, qui comincia ad assomigliare alla realtà. La maternità è tutt’altro che riposante, come ci dirà più apertamente in seguito Louise Bourgeois. Ecco perché questo dipinto piacque prima di tutto agli uomini, che apprezzarono molto anche le altre opere di Morisot, attenta a calibrare la sperimentazione con un gusto personale, un’attitudine. L’artista restò legata a Manet per tutta la vita e il matrimonio con il fratello del pittore sigillò un sodalizio segreto, quasi carbonaro tra i due. Per Berthe fu come scegliere una strada, quella dell’avanguardia, con un’enfasi e uno spirito critico che le fecero affrontare le inevitabili difficoltà. Infatti le sue opere – come anche quelle degli altri impressionisti – vennero criticate aspramente dai conservatori, ma per lei ci fu una punta di veleno in più in quanto donna. Per esempio, una volta fu insultata in pubblico da un avventore che la chiamò “prostituta”, scatenando la reazione violenta di Camille Pissarro. Morisot non arretrò di un passo, anzi. Negli autoritratti che – via via sempre più di frequente – riservò a sé stessa, la si vede ora madre e ora gran dama a suo agio nell’alta società. Grazie alla pittura, ha raccontato la sua vita e così trovano un senso compiuto le parole di Paul Valéry: «La singolarità di Berthe Morisot fu di vivere la sua pittura e di dipingere la sua vita».


(Corriere della Sera, 25 ottobre 2024)

di Vittoria Martinetto*


Clarice Lispector, La città assediata, Adelphi 2024


In un’intervista concessa a Julio Lerner nel 1977, Clarice Lispector definiva la propria scrittura «caotica, intensa, completamente fuori dalla realtà della vita», sottolineando di avere iniziato a scrivere poco dopo aver imparato a leggere, già da bambina. Forse per questo, la scrittrice mal sopportava certe analogie che la critica soleva instaurare, quale quella con l’esistenzialismo sartriano. Dicendosi timida e coraggiosa al contempo, puntualizzava: «Non sono una professionista: scrivo quando voglio. Sono una dilettante e ci tengo a continuare a esserlo», spiegando che questo le permetteva di mantenere la propria libertà. Sentiva i periodi fra la stesura di un romanzo e un altro come momenti di vuoto insopportabile: «Quando non scrivo sono morta», dichiarava con la sua congenita erre moscia che si adattava alla perfezione all’accento carioca, il bellissimo volto slavo, serio, le palpebre sottolineate dall’eyeliner come appaiono in tutte le immagini – fotografie in bianco e nero irresistibili per le copertine dei suoi libri –, palpebre che continuamente chiudeva quasi per raccogliere frammenti dal proprio mondo interiore e restituirli, uscendone esausta, all’intervistatore. Si ha la sensazione, guardandola, che la necessità di scrivere sia per lei stessa un mistero, che non sente il bisogno di sciogliere. Sempre nel corso di quell’intervista, parlando dei bambini per i quali aveva scritto storie, Lispector definiva gli adulti tristi e solitari, ma alla domanda di quando e perché ciò accadesse nella vita, si mostrava perentoria ed evasiva: «È un segreto, se non le spiace preferisco non rispondere. Sono triste perché sono stanca». La fine dell’intervista è impressionante: «In questo momento sono morta, ma rinascerò», dice riferendosi a quando avrebbe ripreso a scrivere. Quello stesso anno, però, Clarice Lispector muore davvero, di cancro, all’età di cinquantasette anni.

Nata in Ucraina nel 1920 da una famiglia ebrea costretta a emigrare per via delle persecuzioni razziali e stabilitasi in Brasile, Lispector ha sempre considerato il paese latinoamericano la sua vera patria dal momento che della Russia non aveva mai, letteralmente, calpestato il suolo, essendone venuta via in braccio, quando aveva due mesi. La scrittrice è, di fatto, una delle più grandi, se non la più grande scrittrice brasiliana del XX secolo. Malgrado l’ermetismo poetico della sua prosa abitata da epifanie e folgorazioni con venature di “misticismo laico” come nell’indimenticabile La passione secondo G.H. (1964), questa autrice «schiva e insieme popolare, anti-letteraria e insieme raffinatissima» come l’ha definita Rita Desti, ha conquistato un vasto pubblico proprio grazie a una voce talmente originale da renderla unica. Scoperta, per così dire, in Italia negli anni ottanta dalla piccola raffinata casa editrice torinese La Rosa, l’opera di Lispector ha suscitato l’interesse di editori quali Feltrinelli e Sellerio, approdando ad Adelphi che ne ha ripreso tre romanzi (Vicino al cuore selvaggio, 1987; Acqua viva, 2017; Il lampadario, 2022) e pubblicato per la prima volta nel 2019 Un soffio di vita (cfr. “L’Indice” 2019, n. 6) e ora La città assediata, scritto a Berna nel 1949 e terzo romanzo dell’autrice. Ancora una volta, la traduzione di questa lingua affascinante e difficile che si misura di continuo con l’indicibile è stata affidata all’impeccabile penna di Roberto Francavilla qui in collaborazione con Elena Manzato.

La città assediata è ambientato durante gli anni venti nel sobborgo di São Geraldo dov’è nata e vive la protagonista Lucrécia Neves, giovane donna che pur non essendo bella è dotata di un «eccesso di bellezza che non si trova nelle persone belle», la quale – come tutte le eroine di Lispector – è animata da una ricerca, quella di dare una forma al mondo che la circonda, divisa fra il desiderio romantico della metropoli, con i suoi teatri e giardini, e l’identificazione con il proprio borgo natale ai margini della modernità, che in qualche modo rimane indelebilmente associato a lei, diventando esso stesso un personaggio che prende forma specchiato nel suo sguardo inaugurale: «La ragazza non possedeva immaginazione bensì un’attenta realtà delle cose che la rendeva quasi sonnambula; aveva bisogno di cose perché queste esistessero». In preda a inquietudini senza nome che non è in grado di esprimere nella sua incantata ottusità, Lucrécia non è solo assediata dal proprio contesto, ma da sé stessa, è lei La città assediata. Clarice Lispector sosteneva che fosse stato il suo libro più difficile da scrivere. Narrato in terza persona e sviluppato in dodici capitoli secondo una cronologia lineare, segue l’itinerario di andata e ritorno della protagonista, fra città e campagna, che la vede transitare per diverse figure maschili: il tenente Felipe, il cui fascino risiede nella divisa ma disprezza São Geraldo e quindi la stessa Lucrécia; Perceu Maria tanto bello quanto vuoto; e il prospero commerciante Mateus Correia, che sposa realizzando il sogno della grande città subito frustrato dalle mansioni di casalinga e moglie. Tornata in paese dopo la vedovanza, troverà che anche São Geraldo ha subito un’inesorabile e deludente metamorfosi in nome della modernità. Focosa come un cavallo e irraggiungibile come una statua, sempre in bilico fra equilibrio e squilibrio, Lucrécia Neves si aggiunge alle tante memorabili figure femminili della narrativa di Lispector, anche qui in virtù della scrittura che ce la restituisce facendosi ancora una volta essa stessa protagonista indiscussa del romanzo. È forse semplicistico e livellante, come ricordava Luciana Stegagno Picchio, dire che un autore scrive sempre lo stesso libro, ma per Lispector la sentenza anziché riduttiva diventa illuminante: anche qui l’autrice sembra infatti scrivere con il corpo anziché con il cervello, e con il corpo e non solo col cervello va ricevuta La città assediata.


(“L’Indice dei libri”, ottobre 2024)


(*) Vittoria Martinetto insegna lingua e letterature ispanoamericane all’Università di Torino.

di Elena Petrassi


Segnaliamo una nuova voce apparsa quest’anno sull’Enciclopedia delle donne, a cura di Elena Petrassi: quella dedicata alla scrittrice, filosofa e femminista francese Simone de Beauvoir. Curata, documentata e ricca di informazioni, ne raccomandiamo la consultazione. Qui due brevi estratti dell’incipit.

(La redazione del sito)


«Sono una scrittrice, una persona la cui esistenza è interamente determinata dalla scrittura.»

(Simone de Beauvoir)


Icona dell’intellettuale “engagée”, scrittrice, filosofa, saggista, femminista, amante, Simone è stata una donna poliedrica che ha incarnato lo spirito esistenzialista della Francia del Novecento e consegnato al mondo alcuni dei libri che più hanno contribuito alla lotta dei movimenti femministi del secondo dopoguerra a partire dal celebre motto «Donne non si nasce, lo si diventa». La sua opera e la sua vita hanno influenzato generazioni di studiose in tutto il mondo come nessun’altra scrittrice del Novecento, forse più ancora nel mondo anglosassone che in quello francese.

Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è nata il 9 gennaio 1908 in una famiglia borghese di inizio secolo. Cresciuta in boulevard Montparnasse al numero 103, nel piccolo edificio d’angolo con boulevard Raspail […].

La futura scrittrice mostrò sin da bambina un temperamento appassionato e vivace e l’acutezza di uno spirito critico che la sosterrà sempre e la condurrà a far diventare sé stessa e le persone che facevano parte della sua vita materiale primario sia della nota autobiografia in più volumi, a partire dalle Memorie di una ragazza perbene, che dei romanzi che la consacrarono regina delle lettere francesi con I Mandarini.

Accovacciata sul balconcino di casa la bambina amava osservare il viavai dei passanti e dei lavoratori, ascoltare le loro voci, immaginare le loro vite. Prediletta della madre che si occupava personalmente della sua educazione, Simone dimostrò sin da piccola di essere destinata a una vita eccezionale. Anche il padre, seppure in maniera meno diretta della madre, appoggiava le passioni intellettuali della bambina e aveva composto per lei, in un quadernetto in similpelle nera, un’antologia che conteneva anche brani di Racine, Corneille, Molière e Hugo; fu proprio Georges a trasmetterle l’idea che al mondo non esisteva niente di più bello del mestiere di scrittore. […]


(enciclopediadelledonne.it, voce pubblicata nel 2024)

di Marina Montesano


Itinerari critici intorno al libro «Arsenico e altri veleni» di Beatrice Del Bo, per Il Mulino.


L’accusa di avvelenamento, in particolare se rivolta a donne, è stata spesso intrecciata con quella di maleficio e pratiche magiche, creando una sovrapposizione che ha radici profonde. In tale contesto, il concetto di maleficio, inteso come l’uso di magia o poteri soprannaturali per fare del male, si confonde con quello di veneficio. Il legame tra genere femminile e uso di sostanze tossiche affonda le sue radici nel mondo antico, trovando espressioni emblematiche già nel mondo romano. Uno degli episodi più noti di questo fenomeno è il processo del 331 a.C., in cui, secondo Tito Livio, ben centosettanta matrone romane furono accusate di aver avvelenato i propri mariti.

Da qui possiamo tracciare una linea che attraversa i secoli fino al famigerato «Affare dei Veleni» che scosse la corte di Luigi XIV in Francia nel XVII secolo. La figura dell’avvelenatrice divenne sempre più comune, soprattutto a partire dal XII secolo, quando si verificò un forte revival della cultura classica.

Fu in questo periodo che la letteratura medievale iniziò a rappresentare le donne come figure potenti e pericolose, in grado di manipolare la magia e creare veleni letali. Il Roman d’Enéas, scritto attorno al 1160 e ispirato all’Eneide di Virgilio, introduce una maga ispirata a figure classiche come Medea, la famosa maga della mitologia greca che aveva ucciso i propri figli e utilizzato veleni nelle sue vendette.

In altre opere medievali, come il Cligès di Chrétien de Troyes o Amadas et Ydoine, appaiono donne dotate di straordinarie capacità magiche, esperte nell’arte di creare pozioni, spesso per curare o danneggiare a seconda del contesto. In questi testi, le maghe possiedono abilità che spaziano dalla guarigione di malattie come l’idropisia e la gotta, fino al controllo degli elementi e al potere di manipolare i sogni degli uomini. La figura di Isotta, nell’epopea di Tristano e Isotta, è particolarmente rilevante per capire come lo stereotipo dell’avvelenatrice venisse legato alla donna non solo per il suo potere magico, ma anche per la sua “alterità” culturale e geografica. Isotta, figlia della selvaggia Irlanda, viene vista come una nuova Medea, una “barbara venefica” le cui conoscenze sui veleni alimentano lo stereotipo della donna pericolosa, in grado di controllare la vita e la morte attraverso le sue pozioni.

Fuori dall’ambito letterario, la realtà storica mostra un quadro più complesso, come spiega il bel libro di Beatrice Del Bo, Arsenico e altri veleni. Una storia letale nel Medioevo (il Mulino, pp. 302, ill.17, euro17). Organizzato in una serie di brevi paragrafi tematici, scritto con uno stile narrativo vivace, il volume si legge con estremo piacere, ma è evidentemente frutto di accurate ricerche che consentono di presentare un quadro molto ampio. Come scrive Del Bo nell’introduzione: «Da un lato, sarà come visitare un museo del veleno, allestito con libri, immagini, erbe, fiori, funghi, animali medicine e minerali, e, dall’altro, sarà come leggere una silloge di racconti a sfondo noir, con la differenza che i protagonisti sono persone realmente vissute, e morte, secoli e secoli fa».

Le accuse di avvelenamento rivolte alle donne, soprattutto quelle di potere, erano spesso legate a contesti di crisi politica o dinamiche di lotte interne alle corti: come nel caso dei Visconti, sui quali l’autrice si sofferma. Ma se il genere colonizza l’immaginario in rapporto ai veleni, essi non sono certo uno strumento soltanto femminile e tantomeno sono soltanto appannaggio delle corti.

Gli ambienti mercantili non sono da meno, e anzi Arsenico e altri veleni parte proprio da lì, dalle spezierie, come quella gestita dalla famiglia Turconi a Verona durante la prima metà del XV secolo, i cui beni sono attestati da un inventario redatto nel 1438. Del Bo ne traccia una vera e propria storia culturale: partendo dalle botteghe dove si producono, ci parla di erbe e piante altamente tossiche, e poi degli animali, come i rospi e le tarantole, ma con una varietà inattesa. Ci sono poi i controveleni, ossia i rimedi per gli avvelenamenti, nonché una serie di casi divertenti (per chi non è coinvolto…) attestati dalle fonti: dai tortellini ai fichi, la minaccia può celarsi dove meno te l’aspetti.


(il manifesto, 24 ottobre 2024)

di Irene Graziosi


Gisèle Pelicot è stata abusata per anni da più di cinquanta uomini, con la complicità del marito. La sua battaglia ci sta costringendo a ripensare i concetti di colpa e vergogna nei casi di violenza sessuale.


In questi giorni le prime pagine dei giornali mostrano il viso di Gisèle Pelicot, la donna settantaduenne divenuta famosa in tutto il mondo per essere la vittima del caso di stupro più impressionante degli ultimi anni. Suo marito, con cui si era ritirata in Provenza per la pensione, l’ha drogata e ha invitato quasi un centinaio di sconosciuti nel corso di più di dieci anni a violentarla. Gisèle Pelicot ha chiesto che il processo non si svolgesse a porte chiuse, rinunciando così alla sua privacy, nella speranza che il suo esempio possa essere d’aiuto ad altre donne vittime di violenza sessuale. Lo slogan che la signora Pelicot ripete più spesso è che la vergogna deve cambiare lato: non sono le vittime di stupro a doverla provare, ma gli aggressori.

È interessante l’utilizzo del termine “vergogna” al posto di “colpa”. Nei processi, nei reati, si cerca di stabilire la seconda, non la prima. Se la colpa è giuridicamente rilevante perché investe un’azione, la vergogna investe l’intera persona. La colpa, poi, a differenza della vergogna, richiede la consapevolezza del significato e dell’effetto delle proprie azioni. La vergogna no. Il senso di vergogna si internalizza da bambini come norma sociale implicita. I genitori ci dicono di non fare una certa cosa che sarebbe socialmente sconveniente. La prima cosa che mi viene in mente: indossare il pezzo di sopra del costume è un ordine che i genitori danno alle figlie quando cresce loro il seno, rendendole implicitamente edotte del fatto che il loro corpo, da quel momento, ha un potere erotico sconveniente, pericoloso. La vergogna dunque ha come funzione principale quella di mantenere ordine nella società, appoggiandosi a postulati ontologici sull’essere umano. Gli uomini non potranno fare a meno di guardare un seno, quindi il seno va coperto.

Se si fa un piccolo esperimento di genere (è stato fatto) e si chiede a uomini e donne di dire quali sono le cose che suscitano in loro vergogna, la differenza di genere della vergogna è evidente. Le donne ne provano di più e per ragioni legate alle aspettative sul ruolo sociale femminile: il corpo, la maternità, la sessualità, l’esposizione, la compostezza e via dicendo. Per gli uomini la vergogna è legata all’inadeguatezza e alla debolezza in determinati contesti che ne definiscono il ruolo in società. (Mi chiedo, a latere, se non sia l’assenza di aspettative sulla loro riuscita scolastica, lavorativa ed economica a far sì che le donne stiano un poco alla volta superando gli uomini in questi campi).

Ad ogni modo, la vergogna è un sentimento che non richiede una consapevolezza di tipo morale delle proprie azioni. Le ragazzine si vergognano di avere i pantaloni macchiati durante il ciclo o di non indossare il reggiseno, attirando gli sguardi maschili, ma difficilmente sapranno spiegare perché provano quel sentimento. La vergogna è interiorizzata come struttura sentimentale paralizzante e non espressa, ed è spesso alla base di un certo tipo di educazione piuttosto repressiva. Lo stesso varrebbe per gli uomini, se solo fossero educati allo stesso modo.

Durante il processo Pelicot, molti degli imputati si sono dichiarati innocenti, sostenendo di essere stati ingannati dal signor Pelicot, che gli avrebbe fatto credere che la moglie addormentata (e che addirittura nei video russa!) era in realtà consenziente. Che si trattasse, insomma, di un gioco erotico, non di una violenza sessuale. Alcuni uomini (non imputati) contattati dal signor Pelicot per prendere parte agli stupri hanno rifiutato ma non per questo denunciato alle autorità la condotta dell’uomo. Questa forma di meschina solidarietà maschile da parte di chi si è tirato indietro pur rimanendo omertoso sta indignando molti. Come si può essere così indifferenti? Stanno mentendo oppure davvero non si rendevano conto?

Il fatto è che per molti maschi, al di là del dato legale per cui lo stupro è un reato, l’istinto che lo sottende non lo è. C’è una sorta di complicità di fondo, di benevola comprensione, anche in chi razionalmente capisce la legge, e in alcuni casi la attua.

Per esempio: gli avvocati della difesa nel processo hanno mostrato pubblicamente le foto intime della signora Pelicot, quelle scattate da sveglia e consenziente con il marito. La ritraggono nuda, in pose provocanti, mentre utilizza vari sex toys (hanno provato ad accusarla di essere avvezza a certe perversioni, e quindi in fondo consenziente anche agli stupri). Questi stessi avvocati hanno però chiesto che i video degli stupri fossero visionati privatamente. Il giudice ha accettato: il contenuto era troppo sconvolgente. Quindi: la vittima la vergogna la deve gestire, per gli uomini è troppo. Non l’avevano mai interiorizzata prima, evidentemente.

La vergogna deve cambiare lato, e la coraggiosissima signora Pelicot fa bene a esigere questo ribaltamento, che è sociale, di genere e culturale. Ma a noi sta un altro compito, che contribuirebbe ad ampliare e approfondire il discorso portato avanti da Pelicot: capire che farcene del sentimento di colpa. Se la vergogna scaturisce da una morale che può non coincidere con la propria, il sentimento di colpa invece nasce da una presa di coscienza individuale, dal riconoscimento di una morale personale, che non ha bisogno, per esistere, di essere espressa all’altro. Non c’è bisogno dello sdegno altrui per sentirci in colpa. Il sentimento della colpa è pensato e riconosce l’altro come soggetto ferito da un’azione commessa. Forse, da spettatori, potremmo provare a capire come fare a far sì che il senso di colpa si sviluppi al pari di quello della vergogna. Altrimenti finiamo per dare per scontata una visione molto cinica del maschio, che implica che, nella maggior parte dei casi, sarà più semplice per lui sentirsi a disagio socialmente per aver violato una norma collettiva che riconoscere la donna come essere umano.


(Lucy. Sulla cultura, 24 ottobre 2024)

di Arianna Galati


Una tradizione che avremmo sperato di non istituire mai, e che ci colpisce al ribasso. I numeri sul calo delle nascite diffusi dall’ISTAT sono il report crudo e impietoso di comein Italia si fanno sempre meno figli, ma a margine c’è un dato in positivo che fa vedere il futuro in HDR: l’attribuzione del doppio cognome. Una percentuale a una cifra – per ora – di bambini nati in Italia nel 2023 non ha solo il cognome del padre ma anche quello della madre, un timido segnale di come la società cambia più velocemente di chi la rappresenta istituzionalmente. Dare il doppio cognome alla nascita è una realtà in crescita, e meno male.

Doppio cognome alla nascita, i dati Istat sulle nuove attribuzioni

Una cifra piccola ma potente:tra i nuovi nati in Italia il doppio cognome nel 2023 è stato registrato sul 6,2%, più del doppio rispetto alla misura del 2020. L’aumento riguarda tutte le aree geografiche, con il Centro-nord a fare da traino con oltre il 7% di genitori che scelgono di attribuire il doppio cognome alla nascita. Più basso al Sud con il 4%. Nella maggior parte dei casi si tratta di primi figli (9,1%), percentuali minori per i secondi e terzi (3,7% e 2,8%).

Doppio cognome in Italia, in quali famiglie si usa di più

Un buffo paradosso: a scegliere di dare il doppio cognome in Italia sono in percentuale più alta le famiglie composte da coppie mai coniugate (8%) o quelle in cui almeno uno dei due genitori ha avuto un precedente matrimonio (7,8%), mentre le coppie sposate restano nella scia dell’attribuzione di un unico cognome, tendenzialmente paterno (4,9%). La percentuale più alta di doppi cognomi si registra tra le coppie miste formate da madre italiana e padre straniero (14,2%), seguita da coppie in cui la madre è straniera e il padre italiano (7,7%). Tra le coppie di italiani si arriva al 6,1%, nelle coppie in cui entrambi i genitori sono stranieri ci si attesta sul 5%. Altro paradosso: nelle coppie di cittadinanza latina – nominalmente Spagna, Portogallo e Centro-Sud America – i nati col doppio cognome sono addirittura l’86,7%: i genitori preferiscono seguire la consuetudine dei paesi di origine (o persino l’obbligatorietà, in alcuni casi) di attribuire entrambi i cognomi ai nuovi nati.

Doppio cognome, quale prima

Non ci sono obblighi di legge da rispettare, nel doppio cognome dei figli quale prima lo decide la famiglia stessa in base alle proprie esigenze. Si può mettere prima quello della madre poi quello del padre, o viceversa, o ancora optare per un (apparente) neutrale ordine alfabetico, che teoricamente non fa torto a nessuno.

Doppio cognome alla nascita, problemi e come funziona

Con una sentenza storica, la numero 131 del 27 aprile 2022, la Corte costituzionale ha stabilito l’illegittimità dell’articolo 262, comma 1, che imponeva di dare automaticamente ai figli il cognome del padre. Secondo la Consulta sta ai genitori la decisione di dare ai figli il cognome che preferiscono e nell’ordine che vogliono, a meno che non siano loro stessi a decidere di attribuire un solo cognome dei due. Tradotto con estensione di significato: nessun ufficiale di stato civile può impedirvi di assegnare il doppio cognome ai vostri figli. Resta pur vero che ancora oggi la riforma sul doppio cognome non è stata fatta, ci si appoggia alla sentenza della Corte costituzionale. All’atto pratico possono presentarsi difficoltà burocratiche e per questo molti genitori rinunciano al doppio cognome.


(Marie Claire, 24 ottobre 2024)

di Manuela De Leonardis


Marianne Heier racconta la mostra “La passione” alla Fotogallieret di Oslo. Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla celebre collezione di Donata Pizzi


«Il mio ruolo è soprattutto di guida per il pubblico norvegese nella conoscenza del femminismo radicale italiano e della sua relazione con le arti visive», afferma Marianne Heier (classe 1969, vive e lavora a Oslo), co-curatrice della mostra La passione (fino al 29 dicembre) insieme a Antonio Cataldo, ex direttore artistico della Fotogalleriet di Oslo, lo spazio istituzionale che la ospita.

Realizzata con il sostegno della Arts and Culture Norway e dell’Istituto italiano di cultura di Oslo, la collettiva offre una panoramica sul lavoro di artiste italiane di diverse generazioni che riflettono l’energia e la forza nella lotta alla parità di genere: Chiara Fumai, Pippa Bacca, Silvia Giambrone, Bingöl Elmas, Betty Bee, Ottonella Mocellin, Marcella Campagnano, Agnese De Donato, Tomaso Binga, Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Alessandra Spranzi e il Gruppo del Mercoledì (Diane Bond, Bundi Alberti, Paola Mattioli, Silvia Truppi).

Il nucleo principale tra fotografie, video e libri proviene dalla collezione di Donata Pizzi, la più importante collezione privata italiana dedicata alla conoscenza del lavoro delle artiste italiane dagli anni ’60 ad oggi. In occasione della serata inaugurale Heier, il cui lavoro artistico è collegato alla tradizione della critica istituzionale, ha reso omaggio alla figura di Carla Lonzi (1931-1982) attraverso una performance-monologo in cui ha raccontato aneddoti e metafore sulla condizione della donna all’interno della storia patriarcale.

Un’altra parte del lavoro sono i poster che affissi in giro per Oslo. «Serigrafie in tiratura limitata con due foto di sculture classiche dell’Afrodite di Knidos che ho scattato una ad Atene e l’altra a Napoli. La venere pudica che si copre o indica i genitali, invita o è intimorita, si protegge o si apre. Un’ambiguità che è ancora oggi alla base della raffigurazione del corpo femminile nell’arte. Sopra ho scritto le informazioni sulla mostra e alcune note che mi sono appuntata leggendo i testi di Lonzi ed altri sul femminismo italiano. Ho, poi, invitato sui social gli abitanti di Oslo a prendere quei poster-opere per appendere una parte di questa mostra nelle loro case, in modo che questo pensiero si espanda anche fuori dalla galleria. Volevo che la mostra fosse il più vicino possibile all’idea stessa di Carla Lonzi sulla porosità dell’arte, sia in termine di creatività che di relazioni. È importante la partecipazione».

In che modo si pone come artista e curatrice di “La Passione”, un omaggio al femminismo radicale italiano?

«In questo caso sono sia artista che curatrice e, allo stesso tempo, né l’una e né l’altra. Una posizione che rispecchia un po’ la mia condizione personale. Infatti, sono nata e cresciuta in Norvegia ma la mia formazione artistica è legata all’Italia, dove ho incontrato le esperienze, le voci e le espressioni delle artiste femministe che mi hanno formata. Quando studiavo all’Accademia di belle arti di Brera a Milano, negli anni ’90, sono rimasta folgorata da quella tradizione di grande complessità e coraggio. Ancora oggi è il mio punto di riferimento nel modo di pormi politicamente come artista. All’Accademia la maggior parte dei docenti erano uomini e i corsi di storia dell’arte erano solo su figure del genio maschile, ma c’erano anche delle artiste che insegnavano e dalle loro conversazioni si coglievano delle frasi. La presenza delle artiste femministe italiane era sospirata ma pervasiva, come fossero spiriti, sotto al monologo costante di quei grandi geni maschili che tutti conosciamo.»

In particolare, cosa la aveva colpita nella lettura di “Sputiamo su Hegel” e degli altri scritti di Carla Lonzi?

«La sua disponibilità e il coraggio nella radicalità. La pratica dell’autocritica è molto difficile, perché si tratta di riconoscere il patriarcato dentro di sé come presenza nella quotidianità, nelle relazioni, nel modo di porsi o di esprimersi. Una pratica continua di cui liberarsi. La stessa Lonzi nel Diario di una femminista scrive: «Vent’anni fa ero una studentessa dell’università/ quindici anni fa ero una dottoressa in storia dell’arte/ dieci anni fa ero scrittrice d’arte e amica di artisti/ due anni fa ero femminista […] Adesso non sono niente, niente assolutamente». C’è questo ridursi, il togliersi di dosso un bagaglio che è la stessa società a proiettarci. M’ispira molto questa richiesta di autenticità che è uno standard altissimo e che funziona come una specie di bussola. Un altro aspetto è la possibilità di trasformare la società. Quella in cui viviamo è una costruzione sociale e politica determinata da determinate condizioni storico-politiche ed economiche, ma che fondamentalmente può essere cambiata, riscritta e ripensata. Questo pensiero, per me, ha uno spazio d’azione e libertà illimitata che riconosco nel lavoro delle artiste presenti in questa mostra. Quante posizioni divergenti, in tensione tra loro, coraggiose, appassionate e che incredibile energia! Come pure l’insistere nell’affermare «io dico io», il peso dell’unicità.»

Ha affermato che in Norvegia si conosce ben poco delle artiste femministe italiane…

«Dopo aver trascorso 11 anni a Milano, durante la mia formazione artistica e personale, nel 2000 sono tornata in Norvegia perché in Italia, per me, era impossibile vivere da artista. Qui la condizione finanziaria e la produzione dell’arte è diversa, ci sono sovvenzioni pubbliche che rendono possibile l’esistenza di un’artista come me che non ha un mercato. Però l’Italia mi manca moltissimo, soprattutto l’energia, il rischio che si riflette – lo sottolineo ancora una volta – nel lavoro delle artiste femministe italiane. Un femminismo che è diverso da quello norvegese che ha ottenuto tantissimo, ma che non ha passione e neanche il fuoco sul lavoro interiore. Il femminismo norvegese è rivolto soprattutto alla ridistribuzione del potere, alla sua accessibilità per le donne, mentre per Carla Lonzi si trattava di ridefinire lo stesso concetto di potere. Due approcci diversi. Molte volte mi sono chiesta se questa radicalità italiana, il dramma, la passione e l’energia quasi febbrile del lavoro femminista derivino dalla presenza del cattolicesimo. Qui non c’è mai stata quell’aggressione, oppressione e controllo sul corpo e sulle vite delle donne.»

Un approccio che si riflette anche nel titolo della mostra?

«La scelta del titolo La Passione deriva proprio da queste considerazioni e implica l’ambiguità di amore e sofferenza. Tutto nasce dalle conversazioni che ho avuto con Antonio Cataldo che è il vero curatore della rassegna, perché la mia è una co-curatela da artista esterna. Anche Antonio, che è uno dei più importanti curatori in Norvegia, si è trasferito qui dall’Italia. Abbiamo scoperto di avere tanti riferimenti in comune. Per me è stato come un ponte tra lì e qui, passato e presente. Per la prima volta c’era qualcuno che poteva confermare quelle figure sulle quali basavo molta della mia pratica artistica. Materiali, voci, donne che esistevano ma di cui in Norvegia non si sapeva nulla. Non si era mai parlato del lavoro di queste artiste, né tradotto e reso accessibile il pensiero di Carla Lonzi, malgrado si conoscessero i movimenti italiani come quello dell’arte povera. Però era tutto declinato al maschile. La storia raccontata è parziale, non è questione di qualità, volontà di sperimentazione o fervore intellettuale, artistico ed estetico. Il modo stesso in cui se ne parla deriva dalla visione patriarcale.»


(il manifesto – cultura, 23 ottobre 2024)

di Flaminia Genni Santori


Nel 1980, in occasione della riorganizzazione delle collezioni africane del Museo Pigorini, venne ritrovato un oggetto di cui si erano perse le tracce: un indumento realizzato nell’Impero ottomano nel 1665 circa e approdato poco dopo a Roma nelle collezioni di Athanasius Kircher. Si tratta di una rarissima camicia talismanica in tela di cotone bianca, con corpetto, maniche e colletto coperti di iscrizioni a caratteri arabi in blu, nero, rosso e oro, disposte in una elaboratissima composizione simbolica che culmina con i 99 nomi di Allah racchiusi nella decorazione del colletto. Un mistico sufi, un astrologo, un calligrafo e almeno un illuminatore hanno concorso alla realizzazione di questa stupefacente pagina miniata in tessuto che aveva la funzione di proteggere dalla malasorte il personaggio di alto rango che la indossava.

La camicia talismanica è il punto di partenza della mostra Tessere è umano: Isabella Ducrot e le collezioni del Museo delle Civiltà di Roma (a cura di Anna Mattirolo, Andrea Viliani con Vittoria Pavesi, fino al 16 febbraio), che raccoglie alcuni straordinari tessuti conservati nelle collezioni del museo assieme a opere di Isabella Ducrot nelle quali i tessuti sono protagonisti.

Nel grande ambiente dove è allestita la mostra attraversiamo cinque continenti e quasi quattro secoli di storia delle collezioni: a partire dal “Teatro del mondo” fondato da Athanasius Kircher nel 1651, attraverso le relazioni diplomatiche vaticane e l’ambiziosa istituzionalizzazione compiuta da Luigi Pigorini alla fine dell’Ottocento, fino alle raccolte dedicate alle tradizioni popolari e alle colonie, nelle quali prendono forma quotidiana irrisolte tragedie novecentesche.

Incontriamo, per la prima volta raccolti insieme, frammenti preistorici, sopraffini kimono giapponesi, evanescenti garze precolombiane e tessuti in corteccia dell’Oceania e dell’America latina.

Tutto si tiene insieme in virtù dell’intreccio di trama e ordito, struttura essenziale di ogni tessuto, e della storia di Isabella Ducrot. Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà dal 2022, ha eletto il coinvolgimento di artisti contemporanei a metodo per esplorare e ri-semantizzare le collezioni, ma questa mostra si discosta da altri progetti in corso.

Da vari decenni Isabella Ducrot raccoglie stoffe in tutto il mondo e di tessuti ha anche scritto in varie occasioni. Più che ricerca di manufatti rari o di particolare valore, il suo è un collezionismo di tracce umane rimaste imbrigliate nei pezzi di stoffa, nel quale è centrale l’attenzione ai tessuti che fanno da tramite tra l’umano e il divino.

Non lontano dalla camicia talismanica è esposta una preghiera tibetana blu del XVII secolo proveniente dalla sua collezione, nella quale il testo non è ricamato o dipinto a posteriori ma elemento strutturale del tessuto: ordito e trama. Questo intreccio costitutivo tra la dimensione materiale e quella immateriale è l’elemento ricorrente di tutti i manufatti in mostra.

Negli anni ottanta Ducrot ha cominciato a combinare nei suoi lavori d’artista i tessuti che aveva raccolto, restituendogli il valore d’uso che avevano perduto quando erano diventati pezzi da collezione, come scrisse Patrizia Cavalli molti anni fa. Anche il più prezioso dei tessuti è quasi sempre servito a qualcosa, ma persino il più umile è stato contemplato.

Riuscire a tenere in vita la dimensione d’uso degli oggetti, lasciando spazio alla loro contemplazione, è forse la sfida maggiore per un museo di collezioni etnografiche, e senza dubbio i tessuti che ci accompagnano dalla nascita alla morte sono la categoria ideale per coglierla: palinsesti, documenti e linguaggi; inconsapevoli strumenti di trasmissione e mediazione culturale; frutti corali di imprese collettive; merce di scambio e trofeo di conquista.

In alcuni casi la funzione spirituale è espressa nella struttura stessa della stoffa, vedi il tessuto rituale indonesiano realizzato a Sumatra nel XIX secolo, dove parte della trama non viene completata e i fili dell’ordito non vengono tagliati perché rappresentano la circolarità della vita e conferiscono al tessuto un potere protettivo.

La preghiera tibetana, la camicia talismanica e il tessuto indonesiano, posti al centro della sala e circondati da alcuni lavori recenti di Isabella Ducrot, sono membrane tra la temporalità del corpo e l’atemporalità dello spirito.

Attorno a questo centro gravitano umiltà e potenza, ricchezza e potere di scambio, vita quotidiana e riti di passaggio.

Un punto di raccordo suggestivo con la ricerca di Isabella Ducrot è la vetrina con indumenti e costumi di uso quotidiano provenienti dalle collezioni di arti e tradizioni popolari e dedicata ai tessuti a quadretti. La stoffa a quadri è il titolo di un saggio (Quodlibet, 2018) nel quale Ducrot racconta della sua epifania di fronte all’Annunciazione di Simone Martini (Uffizi, 1333): nel celeberrimo trittico a fondo oro, summa della sinuosa preziosità del pittore senese, il mantello svolazzante dell’Angelo annunciante è foderato di una stoffa a quadretti, pattern domestico e umile per eccellenza e ciò nonostante scelto dell’artista per mostrare la sua straordinaria maestria.

Dal lato opposto incontriamo un rarissimo manufatto tessile mesoamericano cinquecentesco che, secondo la tradizione, probabilmente celebra un condottiero che all’arrivo degli spagnoli scelse di schierarsi dalla parte di Hernán Cortés, e forse per questo è decorato con aquile bicefale di ascendenza asburgica.

In questo caso ordito e trama ospitano delle preziosissime piumette cangianti – i popoli americani consideravano gli oggetti impiumati depositari di forza divina – e danno vita a un tessuto che è monumento e poema del tracollo delle potenze precolombiane.

Pur lavorando da decenni, Isabella Ducrot ha incontrato la fama tardivamente, a ottant’anni compiuti: l’estate scorsa le è stata dedicata una grande retrospettiva al Consortium di Digione e il prossimo anno sarà la volta del Museo Madre di Napoli.

È anche la protagonista di Tenga duro signorina. Isabella Ducrot Unlimited, un documentario di Monica Stambrini presentato all’ultimo festiva di Venezia e in sala in questi giorni, che osserva come persino la vecchiaia, uno degli ultimi tabù, non sia poi così terrorizzante. Rispetto a questi progetti la mostra Tessere è umano va ben oltre la persona dell’artista o la celebrazione della sua opera: come nei tessuti oceanici o sudamericani, in alcuni lavori Isabella Ducrot usa la corteccia, e basterebbe questo per dimostrare che l’umanità è ancora interconnessa.


il manifesto – Alias, 20 ottobre 2024)

di Anna Simone


«Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista», edito da DeriveApprodi. Il volume scritto da Silvia Lippi e Patrice Maniglier è il primo della nuova collana editoriale «Sabir». Un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica e la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana. L’autrice e l’autore si affidano idealmente alla guida di Valerie Solanas che immagina un mondo costituito a partire dalle sole relazioni tra donne


Se la pratica politica dell’autocoscienza, il «partire da sé», l’idea di un posizionamento che parte dal corpo, anziché dal ruolo e dallo status giuridico, hanno segnato profondamente la storia dei femminismi negli anni Settanta, è altrettanto vero che negli stessi anni si andava dipanando una matassa molto più complessa: il rapporto tra psicoanalisi e femminismi inglesi, francesi e italiani, con approdi diversi eppure accomunati dall’idea secondo cui scavare a fondo significa decolonizzare l’inconscio dallo sguardo maschile e patriarcale per aprirlo ad una sessualità libera e indipendente, in poche parole al desiderio di ciascuna.

Coscienza e inconscio hanno a che fare sempre con il linguaggio, ma la prima risponde alla possibilità di prendere parola sulla propria condizione a partire dalla riflessività, il secondo richiede sicuramente un processo di emersione più lento e articolato perché assai lontano dalla razionalità. 

Sinteticamente, infatti, si potrebbe dire che «prendere coscienza» di una condizione risponde più alle logiche sociali e culturali, mentre maneggiare l’inconscio significa riportare alla luce gli abissi che si manifestano sotto forma di sintomi, fantasmi, linguaggi scomposti e notturni. Pertanto, potremmo dire che se l’inconscio si manifesta sempre a partire dal proprio vissuto singolare, la coscienza può anche manifestarsi collettivamente.

In tal senso gli anni più floridi del rapporto tra femminismi e psicoanalisi sono senz’altro stati i primi Settanta della seconda metà del Novecento. L’approccio freudo-marxista di Juliet Mitchell, ad esempio, è stato importantissimo nel contesto anglosassone e poi ovunque per sostenere la tesi secondo cui nei femminismi socialisti riferirsi solo a Marx, senza tener conto di Freud, significa ridurre la portata di quest’ultimo nel momento in cui ha indicato nel profondo l’origine della scena edipica, a partire dalle figure paterne e materne, nonché della sessualità.

Secondo Mitchell, infatti, al di là della condizione di subalternità femminile prescritta dalla biologia, l’inconscio incamera anche la condizione sociale e culturale dell’asimmetria disegnata dal patriarcato divenendo un fatto psichico di matrice storica, non solo biologica.

Parallelamente, in quegli anni, in Francia si andava costituendo il gruppo fondato da Antoinette Fouque «Psy-et-Po» (psicoanalisi e politica), da cui poi emergeranno figure fondamentali per il femminismo radicale della differenza, quali Luce Irigaray, Julia Kristeva e altre.

Su quest’ultimo approccio diveniva centrale l’influenza di Jacques Lacan, dello strutturalismo e della centralità del linguaggio. Loro, a differenza di Mitchell, non faranno sconti né a Freud, né a Lacan, né all’intero plesso costitutivo della filosofia occidentale, al punto che la stessa Irigaray, come noto, con le sue idee centrate sulla valorizzazione della sessualità e del sesso femminile inteso come «speculum» e non come «specchio» del e dal maschile, sarà letteralmente cacciata dalla scuola lacaniana.

In quegli anni, in altre parole, il gesto dell’inconscio o, se vogliamo, il taglio dal logos maschile e dal fallocentrismo, in sintesi dall’ordine simbolico del padre, si sarebbe poi andato a sedere sull’ordine simbolico della madre e della sessualità femminile, non senza generare problemi, equivoci, conflitti intergenerazionali.

Da allora, a parte Judith Butler che ha criticato con veemenza alcune categorie lacaniane, collocandosi all’interno di ciò che potremmo definire «post-strutturalismo», a parte altre psicoanaliste interessanti come Manuela Fraire da una parte e Clotilde Leguil dall’altra, con la sua interessantissima critica al concetto di «genere» inteso come linguaggio incline all’ideologismo, nonché al nascondimento del valore singolare di ogni essere umano, donna o uomo che sia, e poco altro, non abbiamo assistito a vere e proprie scene di rottura rispetto alla tradizione teorica e clinica della psicoanalisi. Quantomeno non dal suo interno.

A rompere tutti questi schemi, invece, è arrivata da poco nelle nostre librerie, l’edizione italiana di “Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista” (pp. 256, euro 20) di Silvia Lippi e Patrice Maniglier, primo testo di una promettente collana di Derive Approdi dal titolo “Sabir”, diretta da Federico Chicchi, Luca Negrogno e Marco Rovelli.

Il volume, già uscito in Francia nel 2023, si presenta sin dalle prime pagine come un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica del rapporto tra femminismi e psicoanalisi, la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana, provando con ogni mezzo a ritessere un rapporto critico e articolato tra femminismi contemporanei, psicoanalisi e politica.

Scritto da una psicoanalista e da un filosofo, un «noi» sempre declinato utilizzando un linguaggio al femminile, il volume mira a compiere una serie di mosse ardite e sorprendenti.

Proviamo a sintetizzarne alcune.

L’inconscio è sempre rivoluzionario, è senz’altro singolare, ma può anche diventare collettivo, connotandosi attraverso il filtro della «sorellanza» al fine di decostruire la triade eterosessuale «madre, padre, bambino/bambina»; per mettere in luce «l’impensato eteropatriarcale, coloniale, borghese, eventualmente anche omofobo e razzista», bisognerebbe decostruire i discorsi della psicoanalisi al fine di renderla più attuale e rispondente alle realtà sociali della contemporaneità; la «psicoanalisi sororale» è indispensabile per destrutturare il nesso tra essa e i contesti storici patriarcali in cui è nata; sul fronte femminista è bene, invece, recuperare il nesso che secondo Lippi e Maniglier esiste tra il Manifesto “SCUM” di Valerie Solanas e il #metoo contemporaneo per permeare di nuova psicoanalisi il femminismo odierno di quarta ondata.

Per fare cosa? Semplice, rispondono Lippi e Maniglier: «Per ricominciare con la psicoanalisi su un’altra strada. Non più quella del fallo, ma della sorellanza». Come noto, Solanas ha avuto una biografia alquanto complessa: spara a Andy Warhol che cerca di appropriarsi illegittimamente di un suo scritto lasciandolo inabile per il resto della sua vita, vive ai margini della società, trasforma la sua labile psiche in qualcosa che, secondo Lippi e Maniglier, «colpisce nel segno».

Ma cosa può voler dire davvero in questo testo «eliminare tutti gli uomini», nonché fare della vita «delirante» di Valerie Solanas qualcosa di rivoluzionario anche per la psicoanalisi, oltre che per il femminismo?

Innanzitutto, vuol dire definire le donne e tutto il femminismo odierno senza fare più riferimento al maschile se non attraverso il filtro delle relazioni reciproche, ma significa anche rimettere al centro il concetto di sorellanza intendendo con ciò il principio secondo cui una donna può diventare una sorella, mentre un uomo è sempre ciò che ostacola la sorellanza, proprio come accaduto quando molti uomini attaccavano il movimento #metoo considerandolo bigotto, vittoriano e criminalizzante.

Messa così, con questa sintesi, potrebbe persino apparire un libro a sua volta provocatorio, oltre che molto semplificato. In realtà, invece, i processi di decostruzione e ricostruzione presenti in ogni pagina di questo testo mirano fondamentalmente a sostenere la tesi secondo cui sia il desiderio che la politica non sono saggi, né mai si sono dati in questa forma e dunque perché continuare ad imbastire parole ipocrite basate ancora sull’egemonia del patriarcato e di una sua presunta normalità?

Certamente osare, spingere in avanti, generare tagli epistemologici e posizionati è sempre stato importantissimo per i femminismi. Tuttavia, relazionandosi con questo libro qualche piccola perplessità arriva.

Il concetto di sorellanza, ad esempio, proveniente dall’ideologia socialista ed emancipazionista non si è mai dato nella realtà della relazione tra donne e ciò perché sia la pratica dell’autocoscienza che la psicoanalisi hanno sempre dimostrato quanto di fatto ognuna sia singolare, per esperienza e per vissuto.

Inoltre, il patriarcato old school oggi si manifesta a sua volta come un “sintomo” votato spesso al rovescio violento e aggressivo, risentito, nonché affetto da gravi patologie del desiderio: siamo certe che “castrare” definitivamente il maschile sia davvero fecondo per i femminismi?

La discussione potrebbe continuare all’infinito, intanto non v’è dubbio che questo libro costituisce un nuovo taglio, qualcosa di radicalmente nuovo che senz’altro può contribuire al lavoro di decolonizzazione dal maschile dell’inconscio transfemminile e a cambiare la psicoanalisi.


(il manifesto, 20 ottobre 2024)

di Franca Fortunato


Ci sono notizie che non vorresti mai ricevere, ma quando arrivano ti lasciano sgomenta e con un profondo dolore. È quello che ho provato quando la mia amica Doriana mi ha annunciato la morte di Luana, la giovane libraia della Ubik di Catanzaro, un luogo a me caro che frequento da anni e che, per me come per tante/i altre/i, è molto di più di un luogo dove una come me, che ama moltissimo leggere, va per comprare libri. È un luogo del cuore, dove incontrarsi, fare amicizia, dialogare, condividere il piacere dei libri con Luana, Nunzio e Gianluca. Era piacevole incontrarla e fermarmi a parlare con lei circondate dai libri, la mia e la sua passione, che mi fanno sentire a “casa”. L’ho incontrata in libreria anni fa, dietro al banco, sorridente, giovane, bella, gentile, piena di vita. Mi è piaciuta subito. Ogni volta che dovevo ordinare un libro telefonavo e quasi sempre era lei che mi rispondeva. Sentivo amicizia nella sua voce e io la ricambiavo, anche se non ci siamo mai frequentate. Ci sono persone, come lei, che non hai bisogno di frequentare per sentire che ti somigliano e sapere che è speciale, e Luana lo era. Quando andavo in libreria a ritirare il libro ordinato, la trovavo sempre lì e mi accoglieva col sorriso. Era una ragazza colta e intelligente. Complice l’estate non la vedevo da mesi e quando sono rientrata dal mare e sono stata in libreria non l’ho trovata, non sapevo della sua malattia e non ho chiesto di lei, ho pensato soltanto che fosse in ferie e che prima o poi l’avrei rivista, magari la prossima volta che ci fossi andata. E invece, se n’è andata per sempre. Ho sentito il bisogno di scrivere di lei per sentirla ancora viva, là in libreria che aspetta che vada a ritirare l’ultimo libro ordinato. La sua immagine, il suo volto, il suo corpo, persino il suono della sua voce mi accompagnano mentre scrivo e non riesco a pensare a lei al passato. Un passato che è ancora ben presente nella mia mente e nel mio cuore e il solo pensiero di andare in libreria e sapere che non c’è più mi rende triste, rende triste quel luogo perché lei è la libreria, come lo sono Nunzio, Gianluca e Sara, la ragazza arrivata da poco.

Quando Luana ha saputo della sua malattia, ha avuto il coraggio e la forza di parlarne in un video su Facebook, di cui sono venuta a conoscenza solo dopo la sua morte. Non eravamo amiche su Facebook ma amiche nella vita. Guardando il video ho pianto ed ho rivisto in lei me stessa quando ho scoperto di essermi ammalata di tumore. Lo stesso terrore, la stessa speranza e determinazione di uscirne e tornare alla vita, che per lei voleva dire vivere con l’uomo che amava e che aveva sposato solo cinque giorni prima. È indicibile e impensabile il dolore di chi l’ha vista passare dalla gioia alla morte. Tornare alla vita per lei voleva dire tornare alla libreria, alla grande “famiglia” della Ubik. Ci credeva, voleva crederci, ci sperava, lo desiderava e intanto i libri, come sempre, le facevano compagnia e le davano gioia. Si era ripromessa di fare altri video in cui parlare dei libri che avrebbe letto. Una passione e un amore che negli anni ha speso in libreria e di cui ha fatto dono a chiunque la conoscesse. Luana è la Ubik e con la sua presenza rendeva quel luogo accogliente e piacevole. Sono le donne come lei che fanno capire cosa si perde a comprare un libro online e cosa vuol dire fare di una libreria un luogo dove coltivare e condividere passione e amore per i libri, che cessano di essere oggetti da vendere e comprare, e diventano ponti, mediazione, per legami di amicizia tra chi compra e chi vende. Ho voluto esserci al suo funerale per salutarla per l’ultima volta. Cara Luana, libraia del cuore, mi dispiace moltissimo che te ne sei andata così presto ma ogni volta che andrò in libreria so che ti troverò ancora lì perché il ricordo di te è indissolubile con la Ubik e vive oltre la morte. Addio mia giovane e cara amica del cuore, non ti dimenticherò.


(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 18 ottobre 2024)

di Jennifer Guerra


In Donne si nasce (e qualche volta lo si diventa), la filosofa prova a ricucire il dialogo con le generazioni più giovani (a cui appartiene l’autrice di queste pagine). «Il pensiero queer è militante e la militanza richiede semplificazione»


La filosofa francese Simone de Beauvoir, autrice di uno dei testi chiave del femminismo europeo, Il secondo sesso, in cui afferma che «donna non si nasce, lo si diventa», sostenendo che a definire il destino della donna non è lo status biologico e psicologico ma la sua condizione sociale e storica.

Nel viaggio di consapevolezza di molte donne e ragazze under 30 c’è stato un libro che ha segnato una svolta da un femminismo “sentito” a uno “capito”. Era un’antologia di testi femministi curata dalla filosofa Adriana Cavarero, che ha permesso a un’intera generazione di fare la conoscenza, tra le altre, di Virginia Woolf, Carla Lonzi, Monique Wittig. Oggi Cavarero ha scritto, insieme alla professoressa ordinaria di filosofia politica all’Università di Verona Olivia Guaraldo, un altro libro che è destinato ad avere la stessa funzione: Donna si nasce (e qualche volta si diventa), edito da Mondadori. Stavolta non c’è una raccolta di estratti ad accompagnarci a una consapevolezza maggiore verso il femminismo, ma una appassionata ricostruzione – e difesa – della ricchezza del pensiero femminista, in particolare di quello della differenza sessuale. Il tema senz’altro è divisivo e le due generazioni, quella del femminismo storico e quello nuovo, rischiano di non riuscire a trovare le basi per un dialogo. Questo libro cerca di porle.

Il vostro libro si rivolge in maniera esplicita a delle “ragazze”, perché?

«Oggi il linguaggio del femminismo è dappertutto, soprattutto sui social, ma questa onnipresenza può creare confusione. Non è detto che quelli che lo usano conoscono veramente la storia di questi termini e come si sono evoluti. Io e Olivia Guaraldo volevamo fare chiarezza, spiegare, diradare questa confusione. Ma non è solo questo: queste ragazze, come te, sono la nuova generazione del femminismo e abbiamo voluto passarvi il testimone, perché siete voi che dovete continuare a fare evolvere la teoria e la pratica femminista. Ma per farlo è indispensabile conoscerne bene la storia».

Mi sembra che l’intento sia riuscito. L’ho trovato un libro molto onesto: voi dichiarate subito il vostro posizionamento, ma c’è un’apertura verso chi ha idee differenti. Si vede che c’è uno sforzo di comprensione. Su tanti temi io la vedo in modo diverso, ma leggendo non ho mai avuto l’impressione che mi voleste convincere di qualcosa. È uno strumento di cui la mia generazione ha bisogno, perché spesso l’ostilità verso certe teorie è dovuta proprio a quella confusione di cui parlava prima. Penso soprattutto al tema della differenza sessuale.

«Questo patrimonio va tesaurizzato, ma anche fatto evolvere. Ogni generazione ha la sua versione del femminismo, ed è normale che sia così. Io credo che l’ostilità verso la differenza sessuale sia causata anche da un problema di comunicazione, che noi abbiamo del tutto trascurato perché abituate a un femminismo fatto di corpi in presenza. Noi eravamo abituate ad altro, all’autocoscienza, ai gruppi di donne, e abbiamo sottovalutato l’importanza della comunicazione. D’altro canto i social hanno portato una diffusione capillare delle teorie queer fra le giovani, ma senza alcun approfondimento, per cui spesso l’assorbimento è stato quasi di tipo ideologico».

E le stesse teorie queer ne hanno sofferto. Nel libro si parla molto di come il pensiero di una delle più importanti pensatrici di questo filone, Judith Butler, con cui lei è in ottimi rapporti anche se siete in disaccordo, sia stato male interpretato e portato all’estremo. A volte sono state ignorate le evoluzioni successive delle sue teorie. Pensa che questa estremizzazione sia capitata anche col pensiero della differenza? A volte noi giovani abbiamo questa impressione.

«Il pensiero queer è militante, e la militanza richiede semplificazione. Il pensiero della differenza tende a diffondersi a macchia d’olio, andando a toccare molti ambiti disciplinari e creando gruppi di ricerca in campi molto diversi, dalla storia alla sociologia. E all’università non si è mai estremisti. Se tu avessi un professore estremista, sarebbe un cattivo professore. L’accademia non si presta molto alle estremizzazioni, mentre la politica sì. Le stesse opere di Butler sono molto difficili da leggere e infatti quella che ne è circolata è la loro rimasticazione militante».

Ci sono temi di cui il femminismo storico si è occupato moltissimo, mentre oggi sono marginali nei nostri dibattiti. Penso alla potenza di generare, e quindi alla maternità, che sta alla base del pensiero della differenza sessuale. La mia generazione tende a considerare l’importanza che avete dato alla madre come una mistica della maternità, che a noi pesa.

«Non è affatto così. Noi siamo partite da un fatto, cioè che siamo “tutti e tutte nati da donna”, come diceva Adrienne Rich. Oggi questo fatto viene considerato trascurabile, ma da filosofa non posso pensare che l’origine di ognuno sia poco interessante. I filosofi maschi non si sono mai posti questo problema, perché gli uomini non partoriscono, ma le donne non possono fare altrettanto. Anche tu sei nata da tua mamma, ma questo non ti obbliga a diventare madre. È la Chiesa cattolica a invitarti a partorire, non il femminismo. Il femminismo però ti invita a riflettere sul fatto che, come esseri umani, non solo moriamo, ma nasciamo e nasciamo da corpo di donna, e che il corpo di donna rispetto al corpo maschile ha questa capacità di gonfiarsi, di scindersi e di partorire».

Forse è proprio questo tassello a mancarci: non teorizziamo la maternità, ma la pensiamo solo nei termini di una scelta personale.

A proposito di maternità, l’ultimo capitolo è dedicato a quella surrogata, un tema che ha spaccato profondamente il movimento e su cui c’è un grande divario, anche generazionale, tra il femminismo della differenza e il transfemminismo di oggi. Nel libro si parla più volte dell’alleanza storica tra il femminismo e i movimenti di liberazione omosessuale, lesbico e transgender. Secondo lei, questa alleanza si è rotta? E se si è rotta, su quali basi si può ricostruire, sempre che vada ricostruita?

«Secondo me questa alleanza è molto in crisi in questo momento e lo si capisce da alcuni esempi presenti nel libro, come il fatto che la parola “donna” viene sostituita con “persona con utero”. Ovviamente noi auspichiamo che questa crisi venga superata e che attraverso la ragione e il buon senso si torni alle alleanze, e si torni a collaborare. Ma finché c’è un’estremizzazione e un attacco al binarismo, come se fosse una cosa brutta nascere maschi o femmine, le alleanze sono molto difficili».

A molte femministe della differenza si contesta che le posizioni di critica alla categoria del “gender” finiscono per assomigliare alle posizioni dei conservatori che parlano di “ideologia gender”, che però sono gli stessi che limitano i diritti delle donne, che le considerano solo come madri e mogli, che vogliono vietare il divorzio e l’aborto. Come risponde a questa obiezione?

«Quando abbiamo scritto il libro, ci siamo rese conto che c’era questo grande rischio, ma la nostra posizione è tutt’altro che conservatrice o favorevole alla famiglia tradizionale. Ma questo pericolo non può diventare il motivo per cui non si può più fare alcuna critica alle posizioni della galassia LGBT. Di mestiere sono filosofa e ho sempre operato col pensiero critico. Devo assumermi il rischio: riconoscere la differenza sessuale è un fatto. Poi ci sono tante interpretazioni a questo fatto: c’è quella conservatrice, ma c’è anche quella femminista che è rivoluzionaria e che ha permesso alle donne di creare la propria soggettività libera nella relazione».


(Sette – Corriere della Sera, 18 ottobre 2024, con il titolo “La differenza sessuale è un fatto: la galassia lgbt accetti le critiche”)

di Ginevra Leganza


Roma. Non ha letto «l’inutile legge sulla maternità surrogata», dice, perché non occorre una legge per sapere che «dietro la gestazione per altri (Gpa) si nascondono l’utero usato come forno, la donna usata come merce, ma soprattutto il corpo del bambino fabbricato e venduto: il vero scandalo di questa pratica». Sicché non c’è affatto bisogno, ribadisce, della «fiction del reato universale». E cioè del disegno di legge approvato in via definitiva al Senato dal centrodestra e rivendicato dalla premier Giorgia Meloni per rendere punibile, in Italia, chi ricorra alla Gpa anche all’estero. Piuttosto, spiega, «occorrerebbe una riflessione profonda sull’umano, a destra come a sinistra. Una presa di posizione contro un fitto business e contro una filiera orientata al profitto che smonti qualsiasi ciarla sulla maternità surrogata come atto d’amore». Così parla al Foglio Anna Finocchiaro, presidente della fondazione Italiadecide, già ministra delle Pari opportunità del governo Prodi e dei Rapporti con il Parlamento del governo Gentiloni. Donna e politica di sinistra (entrata in Parlamento nel 1987 con il Pci) che su questo punto, però, sembrerebbe più vicina alle posizioni della premier Meloni, convinta che “la vita umana non abbia prezzo”. E, per contro, parrebbe assai distante dall’approccio della segretaria Elly Schlein.

Finocchiaro, è così?

«Non mi permetto di giudicare la segretaria Schlein. Anche perché, come le ho detto, questa legge è una legge di bandiera. Tuttavia, certo, alla base c’è un tema complicato che riguarda i limiti dell’umano, il confine tra desideri e diritti o, come dire, l’invalicabile soglia oltre la quale il corpo della donna diventa merce e quello del bambino prodotto».

D’accordo. Ma non crede che l’opposizione alla mercificazione del corpo dovrebbe essere una battaglia di sinistra? O, se non altro, una battaglia femminista?

«Credo sia una questione che non dovrebbe contemplare reclami e propaganda. Riflettiamo: ci siamo battuti contro l’inferno dell’adozione dei bambini vietnamiti, contro la schiavitù, persino. E adesso…».

Adesso?

«Adesso accade che, forse senza accorgercene, ne replichiamo un’altra, di schiavitù: quella delle donne usate come forni».

Il messaggio è chiaro: per Anna Finocchiaro la gestazione per altri o utero in affitto – «la sostanza non cambia» – è «una nuova guerra di religione». «Un tema», argomenta, «che interroga l’essenza dell’uomo ben oltre gli steccati politici».

E su questo non c’è dubbio. Ma non sarà che a sinistra s’interrogano meno? Non sarà che proprio a sinistra si calpesta con più agio quel confine tra diritto e desiderio?

«Il tema è delicato. E però, certo, quello che non capisco è perché non si lavori, congiuntamente, per rilanciare le adozioni per le coppie omogenitoriali».

Perché, secondo lei?

«Difficile dirlo. Ma è evidente, ormai, come per sdoganare la Gpa ci si nasconda dietro l’alibi delle adozioni difficili. Al che sa cosa penso?».

Cosa?

«Che alla base di tutto ci sia un’idea proprietaria del figlio. Che ci sia la volontà di avere col figlio un legame di sangue senza curarsi del suo vuoto d’origine».

Ed ecco, a tal proposito il senatore del Pd Filippo Sensi, durante il dibattito in Aula, definiva la Gpa un fatto di altruismo: un atto d’amore addirittura cristiano.

«Amore? Cristiano? Sa quante cose, anche sbagliate, si fanno per amore? Piuttosto vorrei dire a Filippo che non si può fare finta di niente! Che non si possono ignorare le macerie che un bambino nato con maternità surrogata incontrerà sul suo cammino!».

Lei parla di utero come forno. E però c’è tutto un filone di pensiero che nella Gpa non vede mercificazione bensì libero uso del corpo.

«Certo. Anch’io posso ammettere che una donna ospiti un bambino nel grembo per generosità o per denaro. Lo contemplo. L’abiezione, però, è tutto quanto ruota intorno. È la filiera – dicevo – di avvocati, medici, agenzie, assicuratori e, non ultimo, di donne e bambini».

Elisa Pirro, senatrice M5s, criticando la legge accampava ancora una domanda, a quanto pare retorica. E cioè: perché se posso donare un rene non posso offrire il mio utero? Insomma, il rene (che filtra il sangue) e l’utero (che accoglie il figlio) messi sullo stesso piano. Finocchiaro, è possibile?

«Impossibile. Mi viene solo da pensare che Elisa Pirro, forse, non ha mai avuto figli».


(Il Foglio, 18 ottobre 2024)


di Laura Colombo


Mercoledì 16 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Sono femminista e sono contraria alla pratica della maternità surrogata (o utero in affitto) che rappresenta una mercificazione del corpo femminile, riducendo il corpo della donna a un mezzo di produzione, oggetto disponibile per il mercato. Vogliamo arrenderci alle logiche del biocapitalismo globale che mercifica ogni aspetto della vita, compresa la capacità di generare figli? Io no, e con me molte donne e femministe che da anni studiano, scrivono e lavorano perché ci sia una presa di coscienza allargata (penso per esempio al libro L’anima del corpo di Luisa Muraro, a Maternità surrogata. Le donne, il desiderio, il mercato di Silvia Guerini e al recente Libertà in vendita di Valentina Pazé, solo per fare qualche titolo).

Sono femminista e desidero un pensiero libero, non piegato a partiti politici né incatenato a schieramenti ideologici. Mi ribello a un mondo dominato da una logica binaria e asfissiante, dove ogni riflessione sulla GPA viene strumentalizzata, trascinata da una parte o dall’altra: o nelle fila del cosiddetto progressismo, o in quelle del conservatorismo più becero, oggi anche neofascista. Rifiuto questa trappola ideologica che soffoca ogni pensiero autentico.

Per questo credo, con la senatrice Luana Zanella, che la via non sia la criminalizzazione per legge, «perché criminalizzare chi ricorre a questa pratica all’estero non significa bloccare o scalfire il commercio globale della maternità surrogata sempre più florido e ricco: occorre invece quel che la destra non ha voluto fare cioè una grande iniziativa politica a livello internazionale per impedire lo sfruttamento dei corpi delle donne e il commercio delle creature che la GPA cosiddetta solidale non impedisce».

Non sarà la legge, strumento del potere istituzionale, a creare una vera barriera a questa pratica. Di più, la criminalizzazione è un’operazione di mera propaganda.


(www.libreriadelledonne.it, 17 ottobre 2024)

a cura di Gabriella Freccero


Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.


Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.

Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.

Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.

Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti. 

Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.

Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.

Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.

Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.

Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.

Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.

Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.

Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.

Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.

Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.

Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?   

Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.

Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.


(Eredibibliotecadonne.it, 14 ottobre 2024)

di Alessandra Pigliaru


«Il ricordo di un sogno», l’ultimo libro di Rosi Braidotti edito da Rizzoli. Un memoir che omaggia le sue antenate, a partire dalla madre Bruna. E che attraversa il secolo scorso. I luoghi narrati partono da Latisana, nella bassa friulana, e arrivano fino all’Argentina, passando per l’Australia e il ritorno in Europa. Tra il dolore di guerre e distruzioni.

«Scrivi, Rosi, che la scrittura è amore, compassione e perdono». Brillano queste tre parole nell’ultimo libro di Rosi Braidotti, Il ricordo di un sogno (Rizzoli, pp. 407, euro 19), memoir in cui la filosofa femminista rende grazie alle sue antenate fin dall’eco del sottotitolo: una storia di radici e confini. Quella anzitutto di essere situata in una nascita, nel 1954 a Latisana, nella bassa friulana, e ritrovarsi presto migrante, in Australia e poi nuovamente in Europa, a Parigi e Utrecht in particolare.

A esortarla fin da ragazzina alla parola scritta è la madre Bruna, pietra angolare del libro e della sua esperienza di figlia che dal sé passa al «noi». Descritta come inventrice di mondi, Bruna è una moderna Sherazade. Se nelle radici riecheggia la foto che una bambina trova dentro un baule e che consente la ricerca che la porterà a trovare l’origine della sua famiglia sparsa nel mondo, nei confini abita il Novecento carico di guerre, dolori e liberazioni. Il ricordo di un sogno è il frutto maturo di un patto d’amore e al contempo, nel metodo, la possibilità di conoscere lo scandaglio appassionato che ha distinto le diverse traiettorie teoriche che in questi anni hanno segnato il percorso critico di Rosi Braidotti.

Filosofa femminista, è a lei che dobbiamo volumi importanti che rimangono delle letture decisive di generazioni di studiose, accademiche e attiviste. Da Soggetto nomade (1995, la cui prima edizione italiana è per Donzelli) alla trilogia dedicata al Postumano (di cui DeriveApprodi ha cominciato la pubblicazione nel 2020 ma che indica un’acribia trasformativa e rara dell’idea stessa), notevoli sono gli innesti che costellano saggi come Dissonanze (La Tartaruga, 1994) o il piccolo e splendente Madri, mostri, macchine (manifestolibri, 1996) e altri come In metamorfosi (Feltrinelli, 2003) o Trasposizioni (Luca Sossella, 2008). A raccontare insomma il lavoro di Braidotti in questi anni, nelle sue traduzioni in svariate lingue (oltre 20) e anche qui in Italia – di cui si ricordano almeno i nomi di Anna Maria Crispino e, in tempi più recenti, di Angela Balzano – viene a illuminarsi una direzione il cui filo è da riannodare dal 2003, ovvero dal suo contributo al volume Baby Boomers, edito da Giunti e scritto insieme a Serena Sapegno, Roberta Mazzanti e Annamaria Tagliavini e che ora si può leggere, con una selezione di altri testi di orientamento simile e più strettamente autobiografico, in un libro edito da Castelvecchi del 2021 e dal titolo Fuori sede.

Il ricordo di un sogno è la memoria, storica e inconscia, di una parabola esistenziale di cui Braidotti è sismografo scrivente e che specialmente omaggia le donne della sua famiglia, talvolta altrettante bambine – come Maria quando spunta dal buio di una sofferenza materna o cammina in solitudine – da Udine verso Modigliana, vicino a Firenze – per raggiungere uno dei campi profughi in allestimento «per gente in fuga come lei». Siamo nel 1917 ma gli eventi raccontati, moltissimi, scandiscono la devastazione anche della seconda guerra mondiale, per esempio nella fisionomia di frontiera che assume il Friuli-Venezia Giulia durante la guerra fredda con una conseguente e profonda dispersione.

L’albero genealogico è il genogramma tracciato dall’autrice, i cui luoghi del mondo sono numerosi, ed è tuttavia un’operazione intimamente politica, là dove l’intreccio di Gilles Deleuze e Luce Irigaray (per nominare solo due dei riferimenti cruciali di Braidotti) si esprime in questo ultimo libro come il romanzo di una vita da sempre in divenire. Archivio desiderante e bussola per trovare il proprio posto, a partire da un incontro autentico capace di una promessa amorosa da enunciare al futuro.

Fin dalla «finestra cosmica» da cui la piccola Rosi si sporge, inclinazione e racconto di una differenza sessuale mai punto di arrivo bensì di immaginari possibili, si arriva allora alla spazialità del soggetto nomadico. La pastoia delle lingue frequentate, delle parole che scivolano e slittano «fuori dal senso comune», sono ulteriori modi di comporre il «rizoma» che si inchioda nella intelligenza di Braidotti a partire da immagini generative: come quella del rododendro nominato per indicare l’oleandro e di cui, fino all’età di sei anni, non riesce a pronunciare la lettera «r». In questo salto di «ododendi» e «oleandi» il corpo, più avanti, assume l’anatomia intraspecie del Tagliamento che finisce in laguna e che le fa esclamare «My heartland», cuore ed entroterra. Si configura in un «sistema cardiaco-geografico indivisibile» ed è una delle tante visioni oniriche e immaginifiche delle mappe di Rosi Braidotti, che la complessità la prende molto sul serio da sempre. Come l’amore, la compassione e il perdono che ognuna deve a sé stessa, nel passaggio delle ere geologiche e delle età.


(il manifesto, 12 ottobre 2024)