Tema: consapevolezza climatica. Ma come e quanto ci tocca? Tra ansie, visioni e

impegni, vi proponiamo un momento di autocoscienza su clima e ambiente.

di Loredana Magazzeni


Anticipiamo questa recensione di unopera di Paola Èlia Cimatti in uscita sul prossimo numero di Leggendaria, ricordando che sabato 23 settembre alle 18.00 lautrice sarà presente a un incontro sulla sua raccolta di poesie Passioni. Poesie scelte 2000-2022.

La redazione del sito


Paola Elia Cimatti, che da molti anni fa parte del Gruppo ’98 di poesia, perché è soprattutto poeta, ama molto la scrittura narrativa e ha vinto nel 2020 il Premio letterario intitolato a Clara Sereni, con i racconti di Lo sguardo di Bianca, che hanno per tema l’esistenza di una persona albina.

Non si tratta però di racconti sull’albinismo, sono racconti e basta, ironici, a volte surreali, che narrano la condizione di una donna la quale, sul finire degli anni Settanta, vive l’uscita dalla famiglia, immersa nel suo universo provinciale e magico, l’arrivo nella città per l’università e il lavoro, la metamorfosi e il passaggio dall’età infantile a quella adulta, ovvero la costruzione di sé attraverso una condizione particolare e sensibile.

I dieci racconti non seguono un ordine temporale che non sia quello del ricordo e dell’associazione mentale per improvvise accensioni, gesti, modi di dire, spezzoni di frasi che si sono innestate e hanno inciso, dolorosamente o giocosamente, sulla condizione della giovane donna che è Bianca.

Un libro sulla ricerca di libertà, e soprattutto sull’essere e continuare ad essere sé stesse. C’è una raccolta di poesia della poetessa inglese Kate Tempest, che si intitola Hold your own, “Resta te stessa”, esortazione che invita a tenere insieme orgogliosamente i propri pezzi a dispetto di tutti, e soprattutto di chi ci vuole conformati, mimetizzati, inermi e infine sbagliati.

In questi racconti Paola ha tenuto fede al “partire da sé” del pensiero della differenza, e al motivo della gratitudine e dell’affidamento fra donne caro alla filosofia femminista, dedicando il suo lavoro a Donatella Pannacci, che in tante abbiamo amato e apprezzato per la sua pluridecennale attività nel gruppo bolognese del Movimento di Cooperazione Educativa, che ci ha insegnato soprattutto l’ascolto l’una dell’altra. L’ascolto profondo dell’altro può essere insegnato, se appunto abbiamo la fortuna di incontrare maestre capaci di insegnarlo o libri altrettanto in grado di suscitare cambiamento, come quelli di Simone Weil e di Etty Hillesum, amati e studiati da Paola, che sono per lei punti di riferimento non solo teorici.

La scrittura di questi racconti è situata, nasce da un posizionamento preciso: la campagna romagnola degli anni Cinquanta, in cui si snoda l’infanzia della protagonista, campagna immersa in un pensiero magico che esclude senza reticenze il diverso, chi nasce con un segno o uno stigma, come può essere il colore della pelle o dei capelli. La trasparenza dei capelli costa a Bianca l’ostracismo dalla comunità, a partire dalla sua stessa famiglia e dalla figura di riferimento, così importante nel libro, che è quella della madre, Ottavia.

Il suo è un essere “una bambina fuori posto”, un’appartenente a “il mondo di sotto”, di cui negare l’esistenza coprendone la diversità, in questo caso il colore dei capelli, con continue tinture, tema del racconto Capelli trasparenti. È qui che Bianca comincia a perfezionare la sua “arte di scomparire”, dando forma al senso di esclusione che derivava dall’essere, suo malgrado, “l’errore che era”.

I dieci racconti sono però percorsi dal tono prediletto, che è quello dell’autoironia a tratti surreale, a tratti attenta dalle esperienze estreme, come può essere, per la ragazza Bianca, l’uccisione cruenta di una gallina, con atmosfere di suspence, come quando “una cupa aria elettrica faceva stridere i coltelli sui piatti”, sottolineando una violenza che era tipica di un mondo ancestrale contadino. Di converso, attraversa il libro la musica, con i brani dell’amata fisarmonica, e l’amore per le canzoni di lotta degli anni Settanta. Ma l’altro amore che muove Bianca è l’amore per la sua città d’adozione, Bologna, amore che ci rimanda in vividi quadri attraverso il racconto Finestre, le tante finestre che hanno accompagnato i suoi traslochi, con visioni dei tetti e del verde nascosto di Bologna. Surreale e quasi comico appare infine il racconto Scrivere il proprio nome, tutto incentrato su giochi di parole ed espressioni e quello dedicato a Calimero, il pulcino nero, cui simbolicamente si avvicina la bambina Bianca, con una immedesimazione al contrario.


(www.libreriadelledonne.it, 15 settembre 2023)

di Vittorio Lingiardi


«Volete farlo perché sto morendo?». Senza mezzi termini, come sempre, così Patrizia Cavalli ad Annalena Benini e Francesco Piccolo quando le propongono di filmarla per il documentario-intervista che, dopo la Biennale di Venezia, da ieri è nei cinema e speriamo presto in Rai. Come titolo scelgono Le mie poesie non cambieranno il mondo, verso distintivo di Cavalli e nome della sua prima raccolta. Non il classico documentario “nata a…”, ma una conversazione fra pareti domestiche, accompagnata da materiali di repertorio, alcuni mai visti. Cavalli racconta di sé, recita le sue poesie, canta, cammina. Dice che la poesia sorge nel corpo ma è un’attitudine della mente, una straordinaria fiducia nelle parole.

E che è l’amore ad avere prodotto la maggior parte delle sue poesie, perché le parole esistono grazie a ciò che manca. Un’intervista senza protagonismo degli intervistatori, che non cercano la scena. Anzi, quando inquadrati sono sempre in ascolto. E che altro si può fare con Cavalli se non ascoltarla? Guardarla: il suo bel viso, gli occhi che fulminano, i sorrisi che perdonano, gli sbalzi d’umore.

Un’attrice che recita l’essere sé stessa. «Mio teatro ostinato, / rifiuto del sipario, sempre aperto teatro, / meglio andarsene a spettacolo iniziato». Patrizia era una sola, la poeta (sarebbe meglio dire poetessa, ma a lei, morantiana, non piaceva). Che racchiudeva in sé, qui lo vediamo bene, una grande filosofa dell’amore e una narratrice comica a cui piaceva far ridere. Con le lacrime di chi la rimpiange, in sala il pubblico rideva di continuo. Del resto Cavalli era una composizione eccezionale di ossimori, il suo individualismo era generoso, il suo cinismo empatico. Insomma grazie ai nostri due registi-scrittori per quest’ultimo incontro con lei, genio della poesia e dell’amore. «Amor che fa la rima / sta un po’ meglio di prima. / Amor che rima fa / tanto male non sta».


(Il Venerdì di Repubblica, 15 settembre 2023)

di Nicola Villa


Altreconomia ripubblica l’ultima opera di Laura Conti, partigiana e scienziata madre dell’ambientalismo italiano. Nel “Discorso sulla caccia” analizza le origini della caccia in un percorso che, partendo dalla teoria dell’evoluzione, giunge alla Rivoluzione francese e alla Resistenza, passando per l’antropogenesi e l’anatomia femminile, con una critica radicale all’agricoltura.

Scritto nel 1991, sulla scia delle politiche sul referendum contro la caccia mentre era in parlamento nelle fila del Partico comunista italiano (Pci), questo controverso pamphlet è costato a Laura Conti l’emarginazione dalla Lega per l’ambiente, che aveva contribuito a fondare nel 1980.

Pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1992, questo libro è imprescindibile per affrontare il tema del nostro rapporto con l’ambiente, gli animali e l’ecosistema, per diffondere la consapevolezza sui grandi problemi ambientali e affermare l’urgenza di un’azione politica per risolverli.

Il sottotitolo scelto dall’autrice è lungo, quasi un indice programmatico: “Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura; del diritto alla pigrizia e di coccolamenti durati milioni di anni; della dubbia compatibilità fra uomo e Pianeta Terra; di possibili catastrofi e dei rischi di facili rimedi”. In questo testo è evidente il metodo che Conti adottava con lo studio di tutta la documentazione disponibile, intraprendendo strade inconsuete per analizzare i problemi e trovarne una soluzione.

Laura Conti – nata a Udine nel 1921 e morta a Milano nel 1993 – ha affiancato all’attività professionale un intenso impegno politico, prima nel Partito socialista e dal 1951 nel Partito comunista, come consigliera provinciale a Milano, dove fu anche segretaria della Casa della cultura, e poi in Regione Lombardia; nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati.

Dall’inizio degli anni Settanta si è concentrata, soprattutto, sulle tematiche ambientali e femministe, tanto da essere considerata un’antesignana dell’ecofemminismo. È autrice di tre romanzi (“Una lepre con la faccia da bambina”, “Cecilia e le streghe” e “La condizione sperimentale”) e di numerosi saggi sulla questione ambientale, sull’assistenza sociale, sull’educazione sessuale, l’aborto e sulla storia della Resistenza, oltre a varie opere di divulgazione scientifica (“Questo Pianeta”, “Che cos’è l’ecologia” e “Il tormento e lo scudo”, tutti ripubblicati, come i romanzi, da Fandango). È stata anche tra le prime a occuparsi del disastro ambientale di Seveso del 1976, denunciando le omissioni dell’amministrazione regionale sulle pagine de lUnità e poi in una inchiesta pubblicata da Feltrinelli, “Visto da Seveso”.

Oggi ripubblichiamo “Discorso sulla caccia” con le correzioni volute direttamente dall’autrice stessa, arricchita dalla curatela di Marco Martorelli, il direttore della rivista Scienza aperta, nonché amico di lunga data di Laura Conti e fedele custode delle sue opere, come voluto per testamento dalla stessa scrittrice. Questa nuova edizione è impreziosita dalla prefazione di Luca Giunti, attivista No Tav e guardiaparco delle maestose Alpi Cozie, nella provincia di Torino, autore di articoli divulgativi e scientifici.

Una nuova edizione di un testo così importante, che continua a suscitare interesse e riflessioni profonde sulla nostra relazione con l’ambiente, gli animali e l’ecosistema.


(Altreconomia, n. 262 – settembre 2023)

di Margarita Diaz


“By reading women writers, analyzing them, and attempting to make them better known across Italy, the collective could establish ‘an alternative genealogy of culture’”.


I planned my visit for the last Monday afternoon of my trip, promising myself that I wouldn’t leave Milan without stopping by. In her essay collection In the Margins, Elena Ferrante – one of my all-time favorite writers – had mentioned a women’s bookstore collective, the Libreria delle Donne di Milano, whose work had been a source of inspiration for her globally acclaimed Neapolitan Novels.

For that reason alone, it was on my “must-see” list.

Throughout the few weeks I had spent in Northern Italy, I’d leaned into my inner bibliophile, sauntering in and out of small bookshops, leafing through novels with crisp, aged pages, making mental notes of which writers I wanted to put on my reading lists – Lalla Romano, Anna Maria Ortese, Elsa Morante. Usually, booksellers would pay no mind. I’d linger awhile in a hallucinatory state, then say my pleasantries and go.

This shop felt different the minute I walked in. At once, I could feel myself inhaling old pages – that intoxicating book aroma – and the faint, lingering odor of cigarette smoke.

I had stepped into a delightfully analog space. Tall cherry wood shelves carried. I glanced at tables with green pamphlets and wooden racks of fading magazines displays of paperbacks, organized by topic, then author. There were political posters and bright-colored protest banners and art on the walls. Against a corner at the front of the space, a clothesline hung sheets of printed paper with various book recommendations.

It was immediately, painfully obvious that my presence was an interruption. All four women working inside the shop stared at me en masse. I didn’t know what to say.

I revel in speaking to strangers and asking questions, but my Italian had not progressed past the perfunctory. As I leafed through books, the group eyed me with curiosity. A woman seated in an open upstairs loft, tall and slender with light shoulder-length hair and a calm disposition, descended a narrow, spiral metal staircase.

She spoke English. “If you like, we have a pamphlet about the bookstore in English, so you can understand. I can show you.” Pointing to a stack of slim red leaflets, she asked why I came to visit the store. “We don’t get very many Americans,” she added.

“Do you want to come to our next meeting?” she then asked. A short, gray-haired woman walked up to us. The two quipped back and forth in rapid Italian – which I could only barely intuit was a discussion about me, about how I could possibly participate in a meeting if my Italian wasn’t good. Somewhere in the garble, I heard the gray-haired woman say emphatically, “Eh, lei è intelligente”.

Surprised, I beamed at the compliment.

Leaving the store with a small stack of books and pamphlets, I stopped to sit on a nearby bench to bask in the early September sunshine and wait for the tram, moved by what I had just experienced. I could already imagine my next visit, armed with better Italian to converse and engage. More than anything, I regretted that I wouldn’t have time to come to a meeting this time around – because, as impressive as the shop’s selection is, the bookstore isn’t entirely the point.

The Libreria delle Donne di Milano (The Milan Women’s Bookstore), on Via Pietro Calvi in the Zona Risorgimento, houses more than 7,500 carefully curated works, mostly in Italian, by 3,700 female writers from all around the world. Works by icons of Italian literature like Sibilla Aleramo, Grazia Deledda, and Elena Ferrante sit next to translated copies of works by anglophone writers like Virginia Woolf and Jane Austen. It is a refreshing, unapologetic, women-only space, where female voices are celebrated and encouraged.

Bookstores that sell only women writers are littered across Europe. There are several in Italy. But the Libreria delle Donne di Milano occupies a singular, unique place in the history of the Italian women’s movement.

Founded in 1975, during the Anni di Piombo – a tumultuous decade in Italy’s history marked by strikes, protests, and political violence from both the far right and far left – the opening of the Libreria coincided with the birth of second wave feminist groups that were engaging in public activism across the country, becoming more vocal about issues like divorce and abortion.

At a time when women across the western world, particularly in the United States, practiced a feminism steeped in the language of equality – in which women needed to make themselves equal to men on a fundamentally unlevel playing field – the Italian feminists, and the founders of the Libreria delle Donne, had a different perspective. They believed that feminism must openly recognize that women experience the world differently – especially in a country like Italy, with its deeply ingrained paternalistic and patriarchal culture. They saw that the world they inhabited was built for and created by men – and that the creation of spaces separate from the traditional systems of male power, official party politics, the domestic sphere, and all that stood to limit a woman’s potential, was the true key to the emancipation they sought.

The founders, a collective of about a dozen women, came from all walks of life. They were lawyers and writers, artists, teachers, housewives. They craved a space in which they could use “the fire in their hearts and intellects to speak and write about their diversity, their desires, their passions.” In opening the store, they sought to build and preserve a tradition of women’s literature, predicated on the idea that those who move about the world as women do have a distinctive voice in their writing.

By reading women writers, analyzing them, and attempting to make them better known across Italy, the collective could establish “an alternative genealogy of culture,” placing writers like Jane Austen and Charlotte Bronte, Ingeborg Bachmann and Anna Banti, at the forefront of a canon of literary tradition.

“It’s not that there weren’t any such books published in Italian, but either bookshops didn’t stock them or they were put away in corners; they didn’t have their own history, so to speak,” remembers Natalia Aspesi, a journalist and writer associated with the founding of the shop.

Milan was known as a capital of publishing for much of the 20th century, and the collective sought a place for themselves within that landscape. They encouraged members to share their thoughts, opinions, and expériences – starting a magazine, Via Dogana, and a publishing imprint to bring their ideas into the world.

One of their more well-known works, Non credere di avere dei diritti (which translates to Dont Think You Have Any Rights), details the origins of the Italian women’s movement and offers a complex introduction to their theory of practice.

The book placed importance on group authorship, never attributing ideas solely to any one name within the impressive roster of intellectuals in the collective.

In tapping into a “new spirit of radical feminist publishing” that was emerging in the 1970s, the store also stocked and sold work from other feminist groups like the Rivolta Femminile, led by the activist Carla Lonzi, renowned for their iconic green pamphlets and manifestos.

Beyond the writing and the volumes sold, the collective wanted to translate words into action, viewing the shop as “a laboratory of political practice” and a community space. Like many other feminist collectives in Italy, they held the fundamental belief that shifts in societal and legal change for women began with establishing a safe space to discuss their experiences. They applied the term autocoscienza (“self-awareness”) to their method of consciousness-raising, rooted in dialogues in which women would discern personal experiences, find commonality, and ultimately attempt to tell each other’s stories.

In a sense, the practice of autocoscienza was part-group therapy, part-debate, part-collective philosophizing. At a time when political participation was not quite widespread among women, dialogues could serve as a helpful on-ramp for those interested in getting involved with the movement. When members of the collective came together to share their stories in small, intimate settings at the bookstore, they could become more fully aware of the ways in which their gender could constrict their freedoms. This, in turn, encouraged individual participation in more direct forms of action like demonstrations and protests, and autocoscienza became distinctive to Italian feminism at large, while the space of the Libreria and the ethos of the collective became entwined with the practice.

Today, given societal changes and a more widespread acceptance of feminism, there appears to be less of a need for the kind of consciousness-raising practiced in the 1970s. But as women’s rights across the globe remain under threat, perhaps a dedicated venue for discussion and philosophical debate, one with a history as rich as the Libreria delle Donne, remains necessary for the future of the movement. And there is no shortage of issues to consider: just last year, in the wake of last September’s national elections, thousands marched in the streets of Rome, Milan, and other cities, pressuring the government to uphold the 1978 law that guaranteed Italians access to abortion – a law that the Milan Women’s Bookstore Collective actively supported.

“When this project was born, women had very few rights,” said one of the bookstore’s founding members in 2016. “It was a period of great conflicts, but over time things have changed. Today the position of women has changed. But it remains a place for meeting and discussion.”

Nearly 50 years since its founding, the bookstore still fosters discourse on topics ranging from maternity to bodily autonomy to feminist philosophy and dialectic – and continues to publish their Via Dogana magazine online. The bookstore collective – a group which takes turns every week volunteering and running the shop in half-shifts – remains its beating heart. And, attuned to the evolution of feminist thought, each shelf reflects the tradition and genealogy of women’s literature that they continue to build.


(italysegreta.com, settembre 2023)

di Andrea Sceresini


Chop è un piccolo villaggio ucraino al confine con l’Ungheria. La prima cittadina al di là della frontiera si chiama Záhony, e dista solo un paio di chilometri in linea d’aria. Puoi raggiungerla in due modi: o via treno, se hai tutti i documenti in regola, oppure – se non li hai – guadando a nuoto il gelido fiume Tibisco. Non abbiamo idea di quante persone abbiano compiuto l’impresa, ma le statistiche ufficiali ci informano che dal 24 febbraio 2022 a oggi almeno diciannove cittadini ucraini sono morti annegati nel tentativo di fuggire all’arruolamento varcando queste acque. Lo scrive The Economist, in un recente reportage dal titolo piuttosto netto: Migliaia di ucraini stanno evitando il servizio militare. Nell’ultimo anno e mezzo – stando a quanto riportato dal settimanale britannico – i doganieri di Kiev avrebbero fermato 6.100 uomini con l’accusa di tentato attraversamento illegale dei posti di frontiera, mentre altri 13.600 individui sono stati acciuffati mentre cercavano di espatriare valicando fiumi e campagne.

Un fenomeno tutt’altro che trascurabile, in un Paese che ha fatto del patriottismo militarista il proprio brand – e che ha costretto a uniformarsi alla moda tutti i cittadini arruolabili di età compresa tra i 18 e 60 anni, ai quali, come noto, è severamente vietato spostarsi oltreconfine. I fuggitivi – e a maggior ragione, i fuggitivi che si sono fatti beccare – sono tuttavia solo la punta dell’iceberg. Un’altra strategia utilizzata per evitare la mobilitazione sarebbe – sempre secondo The Economist – quella di registrarsi come accompagnatore di un familiare disabile. In alternativa – qualora non ci siano malati in famiglia – c’è chi cerca di sfangarsela contraendo matrimoni di convenienza con donne portatrici di handicap. Oppure, ci si può iscrivere all’università: non a caso – come rileva Dmytro Tuzhansky, direttore dell’Istituto per la strategia centroeuropea di Uzhhorod – il numero di uomini idonei alla leva che si sono fatti schedare come studenti è ormai «enorme». Ciò nonostante, di tutto questo si continua a parlare pochissimo, e il tema della diserzione e della renitenza alla leva resta, su entrambi i lati del fronte, uno dei meno trattati dalle cronache. Quando su questo giornale abbiamo provato a colmare tale lacuna – raccontando soprattutto le defezioni politiche, di chi pensa che la guerra sia fatta col sangue dei lavoratori per arricchire oligarchi e padroni – in tanti hanno avuto da eccepire, specie sul fronte ucraino.

Che molti russi disapprovino il conflitto è ormai pacifico: solo nel 2022, secondo il ministero degli Esteri britannico, oltre un milione e 300mila cittadini della Federazione si sarebbero rifugiati all’estero, mentre ogni settimana almeno cento soldati verrebbero processati dai tribunali di Mosca per aver gettato il fucile ed essersi rifiutati di combattere. Ma affermare che le stesse cose avvengono regolarmente anche sul versante di Kiev rimane, a quanto sembra, un autentico tabù. Del resto, l’Ucraina ci tiene a presentare sé stessa come un Paese di tempra guerriera, i cui cittadini sono pronti a farsi scannare in massa per la gloria della patria. Se così fosse, tuttavia, non si capirebbe per quale ragione, un mese fa, il presidente Zelensky avrebbe dovuto annunciare il licenziamento di tutti i funzionari regionali addetti all’arruolamento, rei di «arricchimento illegale, profitti illeciti e trasporto illegale attraverso il confine di coscritti». «Ci sono regioni – ha spiegato Zelensky – in cui il numero delle esenzioni dalla naja è aumentato di dieci volte rispetto al febbraio del 2022». Negli scorsi giorni, come se non bastasse, il governo di Kiev ha riportato in auge la questione chiedendo alle nazioni occidentali l’immediata estradizione dei renitenti alla leva che si sono rifugiati oltreconfine.

Una pretesa che sarà suonata bizzarra alle orecchie degli abituali fruitori della propaganda ucraina, la quale ha sempre bollato il fenomeno del rifiuto della divisa come «esiguo» e «marginale». Come dire: se tutti vogliono combattere, che senso ha farsi rispedire indietro quei quattro codardi che se la sono squagliata? La risposta – non proprio esaltante, immaginiamo – è giunta per bocca degli stessi alleati occidentali: solo in Germania – come riporta la Bild, citando i dati del ministero degli Interni tedesco – sarebbero approdati tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 ben «163.287 ucraini maschi e normodotati».

In Polonia l’argomento è stato oggetto di un lungo servizio del quotidiano Rzeczpospolita, il quale scrive che almeno 80mila cittadini ucraini in età militare sarebbero entrati nel Paese dopo l’inizio dell’invasione e non ne sarebbero più usciti. Il quadro che se ne ricava è più o meno sovrapponibile a quello tratteggiato da The Economist, e se si comparano queste cifre con il totale dei militari in servizio attivo nell’esercito di Kiev – che sono ormai circa 500mila – il primo aggettivo che viene in mente non è né «esiguo» né «marginale». «Al fronte ci finiscono quasi sempre i più disgraziati – ci ha raccontato Ivan, un renitente di Kharkiv che oggi vive in Italia -. Per i russi è la stessa cosa: quanti ventenni sani di mente sarebbero disposti a farsi sbudellare da un colpo di mortaio nel Donbass? E poi, per il vantaggio di chi? Con quale scopo? E perché i figli dei politici e degli oligarchi non finiscono mai in trincea?». Sono domande che in pochi osano pronunciare a voce alta, ma la cui eco getta un ponte di fratellanza al di là delle trincee e dei reticolati. Proprio per questo, secondo noi, è così urgente parlarne.


(Il Manifesto Internazionale, 12 settembre 2023)

di Olivia Guaraldo


Diceva Thomas Hobbes che «gli Stati sono istituiti dai padri e non dalle madri di famiglia». Pur ammettendo – unico fra i pensatori moderni – una naturale uguaglianza fra i sessi in termini di forza e intelligenza, il filosofo inglese constatava, con il suo solito realismo, che a comandare sono sempre stati gli uomini. Inutile girarci intorno, il potere ha sempre avuto e sempre avrà una connotazione essenzialmente maschile, ci ricorda Hobbes. Sarebbe perciò irrealistico pensare che il sapere che l’Occidente ha prodotto sul potere non sia maschilista o patriarcale, come si dice in un gergo ormai desueto. Si tratta di rapporti di forza, direbbe Foucault sulla scorta di Nietzsche. I maschi hanno sempre comandato, ergo i maschi hanno pure dettato le regole di trasmissione di un sapere che sistematizza i termini di quel comandare.

Da Aristotele a Rousseau, senza soluzione di continuità, si afferma in esso quanto segue: il maschio è il soggetto adatto a decidere, comandare, governare; la femmina a obbedire. I discorsi in cui quel sapere si formulava non si presentavano come proclami ideologici o pamphlet polemici, non erano insomma libri autoprodotti. Erano, al contrario, autorevoli esiti del sapere dotto, legittimo, universale. Hanno configurato una tradizione, la cui efficacia ancora si riverbera nella nostra sgangherata contemporaneità. Per fortuna un po’ scalfita, l’efficacia di quella tradizione, dal lento mutamento dei rapporti di forza. Gli studi femministi, negli ultimi decenni, sono divenuti parte essenziale di tale mutamento, producendo un sapere che ha finalmente demistificato la pretesa di validità universale della tradizione.

Il libro di Giulia Sissa Lerrore di Aristotele Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi (Carocci editore «Sfere», pp. 375, euro 29,00), prosegue con grande capacità analitica dei testi antichi e moderni, l’opera di demistificazione. Anzi, oltre a farci scoprire un Aristotele meno conosciuto – quasi divertente – ne traccia l’ininterrotta influenza nella cultura europea medievale e moderna, attraverso la sua canonizzazione da parte del cristianesimo, la sua rielaborazione da parte dei pensatori moderni, tutti – o quasi – ancora del suo parere per quanto riguarda le donne. Ciò che Aristotele disse sulle donne, ad esempio ritorna, quasi immutato, nel moderno Rousseau, il quale afferma che esse, per natura, devono obbedire al maschio, essere mogli docili e fedeli, perché così la natura vuole.

Nel percorrere analiticamente una simile continuità, il libro di Sissa fa emergere con chiarezza una cosa che a noi oggi pare davvero straordinaria, persino divertente se non fosse stata così influente: le autorevoli e spassionate trattazioni della differenza fra i sessi si presentano nella storia del sapere come oggettive e scientifiche, senza che mai a nessuno dei dotti compilatori – Aristotele, Epitteto, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Rousseau, solo per fare alcuni nomi di autori che Sissa analizza con grande acume – venisse in mente di essere un po’ di parte. Nessuna donna entrò mai nei dibattiti sulla “natura” femminile, sarà per questo che tale natura è descritta sempre in termini passivi, subordinati, infidi e inaffidabili?

Come a dire, ogni produzione di sapere ha al suo interno una specifica dimensione di potere. Il libro di Sissa ci conduce in un appassionante viaggio nella costruzione del regime di verità patriarcale, nella fase del suo stabilizzarsi scientifico. Se oggi siamo, a detta di molte autorevoli pensatrici femministe, alla fine del patriarcato – di cui i femminicidi, gli stupri sarebbero i feroci colpi di coda – l’epoca di Aristotele fu invece la fase in cui il sapere maschile sul mondo – e soprattutto sulle donne – divenne episteme, scienza. Tale episteme, inutile dirlo, deve ad Aristotele – il grande sistematizzatore del sapere greco antico – la sua fortuna. Giulia Sissa ci racconta la costruzione epistemica dell’inferiorità femminile, e la racconta attraverso una minuziosa analisi dei testi. Del resto, nonostante Aristotele fosse, come detto, un sistematizzatore, un elencatore, egli si rivelò anche uno straordinario fornitore di immagini, di metafore, di modi di pensare che restituiscono, attraverso una interessante «logica del concreto», che la differenza sessuale si dà nei corpi, per natura. Ci sono delle specifiche disposizioni fisiche che determinano le posizioni politiche: la passionalità, l’esuberanza, in una parola la virtù politica antica per eccellenza, l’andreia, è sinonimo di virilità, di ciò che per natura caratterizza gli uomini (aner). E tale natura immediatamente determina la cultura: gli uomini hanno il sangue caldo, ma proprio per questo sono coraggiosi, risoluti, adatti a governare. Le donne, invece, pur essendo intelligenti, hanno una «complessione fredda» – non sono stupide ma molli, incapaci di decidere, «superflue, inutili, pericolose. Sono un ostacolo nella lotta come nell’arena politica». Anatomia e fisiologia decidono insomma delle sorti politiche delle donne (e degli uomini). Guarda un po’, la differenza sessuale! Perché essa gode di così poca stima oggi? Perché viene accusata di essere “essenzialista”, biologista, escludente? Forse perché, come si evince da questo bellissimo libro, ne abbiamo sempre avuto a disposizione una versione patriarcale, maschile, androcentrica. Una lettura dell’anatomia e della fisiologia tutta a vantaggio di chi, in effetti, ne scriveva, ovvero i maschi. Quando si dice i rapporti di forza.

Eppure, la cultura greco-antica, oltre Aristotele, nella sua straordinaria complessità e ricchezza, ci tramanda anche dell’altro, non è solo sistematizzazione patriarcale della “natura”. Figure di donne forti e risolute, capaci di decidere e di agire, di consigliare e temperare gli eccessi passionali di maschi molto caldi, o di incitare all’azione giusta maschi indecisi, fanno da contraltare alla narrazione fisiologica di Aristotele, nel teatro, nella storiografia, nella poesia. Giocasta delle Fenicie, Etra nelle Supplici, Antigone, sono donne che divergono dagli schemi patriarcali e mostrano, agli ateniesi che andavano a teatro, come a noi oggi, le possibilità della potenza femminile. Le narrazioni alternative, le letture possibili del femminile, i percorsi di libertà che le donne possono compiere, oltre gli stereotipi prodotti dall’episteme fisiologico-politica, iniziano già all’epoca dello stabilizzarsi di quell’episteme, di quel sapere che invece vuole irrigidire la differenza sessuale in una gerarchia. Il libro di Giulia Sissa argutamente combatte, con sapienza e ironia, quell’irrigidimento, dando ampio spazio alle potenzialità alternative di narrazioni del femminile.

Agli antipodi di Aristotele c’è, infine, come argomenta la studiosa negli ultimi due capitoli del libro, la luce della modernità, accesa innanzitutto dal pensatore seicentesco Poullain de la Barre, che per primo prende sul serio l’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani, insistendo sulla non naturalità di una inferiorità delle donne. Chi la predica è vittima del proprio pregiudizio – di uomo – o si ferma a semplici apparenze. Dopo di lui, un altro pensatore divergente è il marchese de Condorcet, che in epoca rivoluzionaria sostiene – isolato – la causa del diritto di cittadinanza alle donne, in virtù del fatto che non c’è in natura una inferiorità femminile. Si tratta, anche qui, solo di pregiudizio. Infatti, afferma Condorcet, i diritti scaturiscono esclusivamente dal fatto che gli esseri umani sono «esseri sensibili capaci di acquisire idee morali e ragionare su di esse». È solo frutto di pregiudizio affermare che le donne possano essere escluse da questa definizione universale, che siano incapaci di imparare, ragionare, decidere. La loro inferiorità non è per natura, ma è il prodotto di una specifica cultura, che le priva di adeguata educazione, come afferma, nello stesso periodo, Mary Wollstonecraft.

Insomma, solo poche voci maschili sostengono la causa delle donne, nella lunga storia della loro universale inferiorizzazione. Eppure a esse – e all’apertura moderna che inaugurano – Sissa affida quella che lei chiama una «nota di ottimismo». Non ci sarà però speranza per il genere umano se la mascolinità non si sottoporrà a una demistificazione, uguale e contraria a quella che le donne hanno faticosamente intrapreso per sottrarsi alla presa invalidante della tradizione. È necessario, scrive Sissa, che anche il corpo maschile di cui Aristotele ci parla, «che si vuole onnipotente, quella virilità che crede che tutto sia permesso, quella soggettività per cui tutto dev’essere fattibile» venga messo in discussione. «Spostare lo sguardo critico su quel corpo vissuto al maschile non corrisponde a ciò che viene chiamato essenzialismo. Il corpo è una sfida, la si può raccogliere in modi diversi».


(Alias – Il manifesto 10 settembre 2023)

di Francesco Brusa


Intervista. Parla l’attivista Vika Privalova. «Finché esisterà il regime di Putin non ci sarà pace»


Quello della Resistenza Femminista contro la Guerra è certamente uno dei gruppi d’opposizione russi più coraggiosi. Non solo per il loro rifiuto netto nei confronti dell’aggressione militare dell’Ucraina, esplicitato fin dal primo giorno dell’invasione sia a parole che attraverso manifestazioni di piazza, ma anche perché è lo stesso femminismo a essere sotto attacco da parte delle élite putiniane. Lo scorso aprile per esempio è stata presentata alla Duma una proposta di legge per riconoscere il femminismo come «ideologia estremista», mentre molte attiviste per i diritti delle donne sono state etichettate come «agente straniero».

Eppure le attività della Resistenza Femminista non si fermano. A fine agosto il gruppo ha anche ottenuto un riconoscimento al Premio della Pace di Aquisgrana (Germania). Abbiamo parlato con una delle attiviste, Vika Privalova, attivista e artista.

Diciotto mesi di guerra. Come proseguono le vostre battaglie?

Al momento il nostro movimento è composto da decine di “cellule” autonome e gruppi attivi in Russia e all’estero. Portiamo avanti azioni contro la guerra in Russia e altrove, distribuiamo un giornale cartaceo autopubblicato, forniamo sostegno psicologico ad altri attivisti, lottiamo per i diritti sul lavoro di cittadini e cittadine che hanno assunto posizioni di contrarietà alla guerra, aiutiamo piccole iniziative di volontariato e prendiamo parte alle indagini sui crimini di guerra commessi dal nostro paese in Ucraina. Come movimento femminista che agisce dal basso riteniamo di estrema importanza mettere in pratica forme di collaborazione che incarnino i principi della nostra visione del futuro: orizzontalità, inclusione e capacità di rendere possibile la partecipazione politica dei più vulnerabili. Perciò nelle nostre attività coinvolgiamo attivisti di popolazioni indigene, membri della comunità Lgbt, soggetti con disabilità, migranti e persone che hanno fatto esperienza di diverse forme di violenza e discriminazione.

Quali rischi correte?

La maggior parte del nostro lavoro si svolge in maniera sotterranea e quasi invisibile al mondo esterno. Ovviamente, in Russia, le nostre attività non ricevono copertura mediatica. Diamo supporto alle vittime della repressione statale, aiutiamo rifugiati e cittadini ucraini che sono stati trasferiti forzatamente dai territori occupati del loro paese alla Russia, organizziamo segretamente lezioni di antifascismo per bambini in opposizione alle lezioni promosse dallo stato che glorificano la guerra – sono solo alcuni esempi. Il Cremlino ci controlla da molto vicino: chi si oppone alle politiche statali subisce arresti, interrogatori, torture, intimidazioni e alcuni vengono uccisi. Pertanto, varie componenti del gruppo si sono viste costrette a lasciare il paese.

Cosa significa essere “femminista”, oggi, in Russia?

La guerra è una prosecuzione della violenza patriarcale, una delle sue manifestazioni più estreme. La guerra, inoltre, si nutre del lavoro gratuito delle donne – che si prendono cura dei propri cari, i quali a loro volta possono essere usati, mobilitati con la forza e trasformati in assassini, per poi far ritorno a casa mutilati e dimenticati per sempre. In questo momento le donne russe devono affrontare il pericolo di subire violenza per mano dei soldati che rientrano dal campo di battaglia. Molti uomini sono stati arruolati nelle prigioni, dove magari scontavano pene per brutali assassinii di donne e bambini: alcuni di questi ora girano a piede libero, dopo aver ricevuto perdono e medaglie a ricompensa dei loro crimini. Intanto, in Russia si moltiplicano le proposte per abolire il diritto d’aborto e per spingere le donne a fare più figli. Sono state passate leggi discriminatorie che violano i diritti umani e rendono la vita della comunità Lgbt insostenibile ed estremamente insicura. Si tratta di strategie per intimidire la popolazione e per tentare di controllare il movimento contrario alla guerra. Spesso ripetiamo che «la guerra inizia dentro le mura di casa». La violenza domestica, familiare, contro donne, bambini e anziani – incoraggiata e promossa dallo stato russo – è da tempo fuoriuscita dalle nostre abitazioni e ha oltrepassato i confini statali. Tutti i tipi di violenza sono connessi, e tutti devono finire. Perciò, il femminismo è una parte fondamentale della resistenza alla guerra, è resistenza allo sfruttamento, alla discriminazione e alla violenza.

Come vedete il futuro del vostro paese?

Fin quando esisteranno Putin e il suo regime, non ci sarà pace. Fin quando ci saranno persone e territori sotto occupazione, non ci sarà pace – anche se magari non si sparerà e la guerra non sarà in una fase “calda”. Ma non possiamo chiamare pace una situazione in cui i prigionieri politici rimangono in carcere e gli attivisti contro la guerra che hanno lasciato il paese non possono far ritorno in sicurezza a casa. Vogliamo una pace giusta, che a tanti potrà sembrare utopica: nessuna occupazione, nessuna schiavitù o tortura, nessuno sfruttamento o prigione, nessuna dittatura e silenziamento violento dell’opposizione.

Domenica in Russia si vota. Avete una posizione specifica?

È chiaro che le elezioni saranno illegittime e truccate, ma è importante lasciare alle persone il diritto di voto. Pensiamo dunque che la società civile non dovrebbe perdere questa abitudine.


(Il manifesto 9 settembre 2023)

di Franca Fortunato


Dopo la pausa estiva torno con questa rubrica onorando la scrittrice sarda Michela Murgia, a un mese dalla sua scomparsa. Lo faccio parlando del suo romanzo d’esordio “Accabadora” che ho letto per la prima volta dopo la sua morte. Io e lei non la pensavamo allo stesso modo su tutto ma questo non mi ha impedito di recensire su queste pagine alcuni dei suoi libri, l’ho fatto con rispetto delle mie e sue idee. L’ho ammirata per il coraggio e la forza che ha mostrato davanti alla morte, scrivendo e parlando fino alla fine. Il suo romanzo è ambientato nella Sardegna degli anni ’50 del secolo scorso, la cui trama ci parla di donne sapienti della civiltà della madre, la stessa che avevo conosciuto dall’esperienza di mia madre. Il libro, infatti, attraverso le protagoniste, Maria la figlia, Anna Teresa Listru la madre, Bonaria Urrai la donna a cui Maria è fille anima, parla di donne che nei rapporti tra loro e davanti alla vita e alla morte non cercano la legge, non rivendicano diritti, non vanno nei tribunali, ma si rifanno all’antico sapere della madre. Un sapere sulla vita e sulla morte che sa distinguere «un atto pietoso da un delitto» come fa l’accabadora (donna della morte) che in Sardegna nei secoli passati praticava l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o dell’ammalata/o. Bonaria Urrai, la sarta, è l’accabadora.

Un sapere materno che orienta il patto tra donne, tra Anna, vedova con quattro figlie, e Bonaria, anche lei vedova e benestante, che «andò da lei a parlare della possibilità di prendere Maria a fill’e anima». «Fillus de anima – scrive Murgia – è così che in Sardagna li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra». Bonaria «aveva fatto in modo di accompagnare la richiesta con un’offerta tale che alla vedova non venisse la tentazione di dirle di no. Anna accettò senza discussione». Maria «dopo sei anni di notti passate a condividere l’aria di una sola stanza con le altre tre sorelle» accettò di seguire Bonaria e da adulta pagò il suo debito di gratitudine. Ma, «nei tredici anni che visse con lei nemmeno una volta la chiamò mamma» ma zia, Tzia in sardo. Sua madre Anna l’affidò a Bonaria per necessità ma le rimase vicina e quando aveva bisogno di lei la chiamava e lei correva. La storia è simile a quella di mia madre. La nonna, col consenso del nonno, affidò mia madre piccola alla zia, per salvaguardarla dopo che la figlia, di cui mia madre prese il nome, morì bruciata mentre lei era a lavoro nei campi. Mia madre, come Maria, non ha mai chiamato la zia “mamma” e a noi figlie parlava di lei come la zia che l’aveva cresciuta come una figlia. Le era grata come anche a sua madre che le era stata sempre vicina, rendendola una bambina serena. La zia aveva sostituito la madre senza cancellarla. Due donne legate da un patto di gratuità che si fidavano l’una dell’altra. Questa è quella che chiamo civiltà della madre che oggi la pratica medico-commerciale dell’utero in affitto, che Michela sosteneva, si è persa, fondando il desiderio di avere un/a figlio/a sul diritto di usare e sfruttare il corpo di un’altra donna, come contenitore e incubatrice, cancellando totalmente la madre e l’esperienza materna, su cui si fonda l’umano. Maria sapeva che sua madre e le sorelle erano la sua famiglia, come lo era Bonaria con cui viveva e cresceva nell’amore. Non si crea una famiglia cancellando la madre, l’origine di tutte/i noi, di cui, prima o poi, si va alla ricerca come racconta Maria Grazia Calandrone nel suo libro autobiografico “Dove non mi hai portata”, candidato al Premio Strega e di cui scriverò la prossima volta.


(Il Quotidiano del Sud, 9 settembre 2023, con il titolo “A Michela Murgia a un mese dalla sua morte”)

di Redazione


Nella notte del 7 settembre è morta l’amica Donatella Massara, legata alla Libreria dal 1976 e tra le socie attive del Circolo della rosa di Milano.


Vogliamo ricordarla così, “colta, appassionata, rigorosa. Il mondo di molte sarà da oggi più vuoto” (Fiorella Cagnoni).


“Una notizia tristissima che mi addolora molto profondamente. Per alcuni anni ho lavorato con Donatella in e per il teatro, teatro che, oltre al femminismo, era la sua grande passione. Ho avuto così modo di apprezzarne la profonda generosità, creatività e determinazione nel perseguire i suoi obiettivi. Poi le nostre strade teatrali si sono divise com’è nella logica di ogni crescita  artistica ma Donatella rimane e rimarrà sempre  fra i miei ricordi più graditi e affettuosi.  Le mie più sentite condoglianze alla famiglia”. (Ombretta De Biase)


“Più che un’amica, Donatella mi ha dato tantissimi nei nostri incontri-scontri sempre pieni di rispetto e amore. Perdo con lei un riferimento insostituibile, uno scambio che ha dato tanti frutti”. (Laura Modini)


“Con Donatella condividevamo una delle sue passioni: la storia aperta ai contributi di altre discipline per dire la verità dell’esperienza. Donna curiosa, creativa e generosa ha pensato, costruito e curato per anni il sito http://www.donneconoscenzastorica.it  che ha ospitato e stimolato ricerche di studiose che come lei volevano restituire visibilità e voce alle donne che la storia ufficiale aveva volutamente cancellato. Perdiamo un’amica che faceva degli incontri momenti di scambio autentico pieni di rispetto e amore in cui le divergenze diventavano punti di forza per la crescita reciproca”. (Marina Santini e Luciana Tavernini)


(libreriadelledonne.it, 8 settembre 2023)

di Silvia Baratella


Leggendo l’articolo di Vanessa Roghi “Il caso Agatha Christie” del 12 agosto, ho ripensato all’autobiografia della scrittrice, “La mia vita”, che ho letto l’anno scorso e mi ha molto colpita. Vi traspare un grande senso di libertà femminile, sicuramente fondato sulla relazione con la madre, che stimava e ammirava moltissimo e la cui autorità risalta con chiarezza nell’opera. Ora noto di più e capisco meglio molti suoi personaggi femminili secondari, che restano sullo sfondo e spesso sembrano macchiette (non meno di molti personaggi maschili, Poirot e Hastings in testa), ma in fondo pur nel rispetto delle convenzioni fanno scelte di libertà e vivono secondo il proprio desiderio (per esempio coppie lesbiche che convivono, ufficialmente come ex-compagne di scuola). E il tessuto sociale che fa da sfondo alle sue trame è quasi sempre retto sulle relazioni – positive o negative, conflittuali o di buon vicinato, esemplari o ridicole – tra donne. La sua Miss Marple è una donna per nulla pentita del suo “zitellaggio”, sicura di sé e della sua ferrea logica, che si rivela ineccepibile pur procedendo per associazioni d’idee e saltando apparentemente di palo in frasca, senza sentirsi tenuta a rendere omaggio ad Aristotele e ai suoi sillogismi, né alle petites cellules grises tanto esaltate dal suo collega Poirot.

Tuttavia è vero che Agatha Christie era conservatrice. Dai suoi romanzi si capisce che crede fermamente nel ruolo sociale della repressione, che è favorevole alla pena di morte e che è convinta del valore etico della punizione. E, nonostante fosse una viaggiatrice curiosa, avventurosa e appassionata, aveva i suoi pregiudizi sugli stranieri e non credo che si possa ascriverli solo all’epoca in cui è vissuta, che è stata anche epoca di grandi ideali egualitari. Ma questo vale per la stragrande maggioranza dei romanzi dell’Età d’oro del giallo: avevano tutti le stesse caratteristiche razziste. Quelli britannici talvolta anche antisemite, e in quelli americani non c’è cameriera francese che non sia una sordida ricattatrice, non c’è messicano che non sia stupido, indolente e sottosviluppato, gli italiani sono pazzi inaffidabili, i greci loschi figuri eccetera. Agatha Christie, anzi, dà persino qualche segnale in controtendenza. Per esempio, ne Il mistero del treno azzurro (1928) c’è un ricettatore greco che aiuta Poirot, con cui è in debito di un antico favore, in nome del senso dell’onore della sua “stirpe”, di cui va orgoglioso: la stirpe è quella ebraica. Vanessa Roghi ci rivela di aver scoperto, confrontandole con le opere originali di Agatha Christie, che nelle traduzioni italiane del Ventennio sono state aggiunte abusivamente delle tirate antisemite inventate di sana pianta. Traduzioni che circolano ancora oggi, ci dice Roghi, e fanno torto a una scrittrice che ha pur sempre affidato il ruolo di protagonista al profugo belga Poirot, ridicolo finché si vuole ma comunque geniale e infallibile detective. Gli altri autori e autrici britannici e statunitensi dell’Età d’oro optano quasi tutti rigorosamente per eroi wasp* (con l’eccezione di Rex Stout, il cui Nero Wolfe è montenegrino).

Sarebbe dunque doveroso rivedere o rifare certe traduzioni d’epoca di Agatha Christie. Per ripristinarne lo spirito originale, però, non per travisarli con il filtro del nuovo spirito dei tempi, quello del “politicamente corretto”. Per intenderci: se la filastrocca inglese citata nel celebre titolo diceva “dieci piccoli negri”, dieci piccoli negri siano. Rappresentano i dieci personaggi con le cui vicende la scrittrice ci fa immedesimare, e non c’è intenzione offensiva.


(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2023)


(*) acronimo inglese per “bianchi, anglosassoni, protestanti”.

di redazione il Post


Due anni dopo aver votato all’unanimità per depenalizzare l’aborto nello stato di Coahuila, nel nord del Messico, la Corte suprema messicana ha depenalizzato l’aborto in tutto il paese. Fino a settembre del 2021 in Messico abortire era illegale in quasi tutti gli stati, e in alcuni era punibile anche con trent’anni di carcere. La sentenza aveva avviato un lungo processo di depenalizzazione in tutti gli stati: nei pochi in cui era rimasto illegale, ora non lo sarà più.

In base alla sentenza, che rimuove il reato di aborto dal codice penale federale, il servizio sanitario pubblico federale e qualsiasi istituzione sanitaria federale dovranno offrire l’aborto a chiunque lo richieda.

Negli ultimi anni, mentre molte parti degli Stati Uniti cominciavano a limitare fortemente l’accesso all’aborto delle proprie cittadine, diversi paesi dell’America Latina hanno deciso di allentare le proprie restrizioni in materia. In seguito al rovesciamento della sentenza Roe v. Wade (che sanciva il diritto all’aborto in tutti gli Stati Uniti) nel giugno del 2022, molte donne che vivono nel sud del paese hanno cominciato a viaggiare verso gli stati messicani in cui l’aborto è legale per interrompere la gravidanza.


(Il Post, 6 settembre 2023)

di Pinella Leocata


Catania. L’annuale “pomeriggio di bellezza” che le donne de La Città Felice e della Ragna-Tela, insieme al Comitato degli abitanti, celebrano in piazza Federico di Svevia è stato dedicato al ricordo di Valentina Giunta, uccisa il 25 luglio dell’anno scorso per mano del figlio minorenne che, impregnato della cultura mafiosa del padre, non tollerava che la madre volesse allontanarsi, e allontanarlo, da quel contesto tossico, negativo. Un femminicidio particolarmente brutale, avvenuto a pochi passi da Castello Ursino. Un anniversario che cade in un periodo segnato da femminicidi e stupri sempre più efferati.

«Le donne vengono uccise, violentate, massacrate e chi uccide, violenta e massacra sono gli uomini – denunciano Mirella Clausi e Anna Di Salvo – È un problema maschile molto serio di cui si devono occupare gli uomini». Un problema che sollecita i diretti interessati a interrogarsi sui loro rapporti con le donne e con la cultura patriarcale di cui violenza e soprusi sono espressione. E tanti maschi presenti in piazza hanno cominciato a farlo. «I fatti allucinanti successi in queste ultime settimane, e i commenti di chi dice che le donne devono stare attente al lupo (Giambruno) e che devono stare a casa a crescere i figli (generale Vannacci) – denuncia Luca Cangemi dell’associazione Olga Benario – rivelano la spaventosa regressione culturale del nostro Paese, un grave arretramento della società italiana. E anche una grande ipocrisia. Si punta solo sulla scuola, tra l’altro indebolita, per superare un problema pesante che è di tutta la società. Il ministro Valditara, che a Caivano promette interventi a sostegno delle scuole, è lo stesso che taglia le cattedre e gli istituti nelle periferie. La scuola deve essere considerata il soggetto che dà l’allarme perché, nonostante le tante difficoltà, ha una grande forza: quella della presenza e della pratica delle insegnanti, che sono quasi tutte donne e possono contribuire a mettere in discussione la cultura patriarcale il cui elemento essenziale è la complicità maschile. Gli uomini fanno branco, quando fanno violenza e quando giustificano chi la perpetra».

E Nino De Cristoforo, dei Cobas Scuola, sottolinea che «bisogna individuare una linea democratica di intervento a partire dall’idea che la pena per chi fa violenza deve servire a rieducare. Se si punta tutto sul piano della repressione, della gogna, del buttare la chiave non si va da nessuna parte. Dicono che a scuola bisogna fare educazione alla sessualità, ma bisogna soprattutto insegnare le varie materie facendo sviluppare lo spirito critico, e bisogna che noi maschi riflettiamo e apriamo una discussone sui nostri rapporti con le donne. Non basta dire “io nonviolento” per sentirsi con la coscienza a posto». In questa stessa ottica Davide Cadili di Disoccupazione Zero che si rifiuta «di accettare l’idea che la violenza è parte dell’essere umano» e coltiva «l’utopia della possibilità di creare una società senza violenza, senza guerra, senza soprusi verso chi è più debole». La guerra e la violenza sulle donne. Non a caso Carmina Daniele e Mati Venuti hanno scelto di leggere alcuni brani tratti dal testo di Simone Weil “L’Iliade o il poema della forza” in cui la filosofa denuncia come l’uso e l’abuso della forza segna il rapporto con il territorio e con le donne, considerati entrambi ambiti di conquista.

Contrastare la violenza sulle donne significa potere contare sui centri antiviolenza, come sottolinea Anna Agosta di Thamaia, e su attività e servizi a sostegno delle donne, a partire dalla scuola, dalle comunità educanti, dai servizi sociali. E significa anche – come ribadisce Rosaria Leonardi, segretaria Cgil – «attuare la Costituzione dando alle donne opportunità di lavoro, a garanzia della loro libertà e autonomia. Lavoro sicuro e non precario anche per gli uomini e i ragazzi in modo da sottrarli alla criminalità». «Nei nostri territori e nelle periferie – denuncia Giusy Milazzo, segretaria regionale Sunia – mancano servizi, centri civici, consultori, luoghi di aggregazione per le ragazze e i ragazzi e dilaga una cultura del sopruso e della violenza che i maschi assorbono fin da piccoli. Di qui l’importanza della rigenerazione delle periferie e di un intervento massiccio, e non solo repressivo, dello Stato volto a realizzare servizi e presidi che assicurino una buona qualità del vivere e dell’abitare».

Un confronto pubblico che si conclude con la proiezione di un video che presenta le foto dell’ultimo anno di vita di Valentina Giunta. «Il modo più bello di ricordarla», dice la sorella Antonella per cui incontri come questo promosso dalle femministe di La Città felice e La Ragna-Tela sono importanti perché «i maschi devono imparare ad accettare e a rispettare le decisioni delle donne». Spera che possa impararlo anche il nipote matricida con il quale ha interrotto ogni rapporto, «almeno per ora».


(La Sicilia, 6 settembre 2023)

di Diana Cavalcoli


Birmingham in bancarotta, il Comune non riesce a saldare il debito legato ai risarcimenti sulla parità salariale tra uomini e donne. La seconda maggior città dell’Inghilterra, a guida laburista, partito all’opposizione in sede nazionale, ha avviato la procedura di bancarotta chiedendo aiuto al governo «per riportare la città ad avere solide basi finanziarie».

Come riporta l’Independent secondo un portavoce del Consiglio comunale la procedura di bancarotta fa parte «dei piani per far fronte alle passività finanziarie del consiglio relative alle richieste di risarcimento per la parità di retribuzione» e a un buco in bilancio «che attualmente si aggira intorno agli 87 milioni di sterline». Cifra che salirà a 164,8 milioni nel 2024/25. Il problema è aver pagato negli ultimi dieci anni le donne meno degli uomini. Già a giugno il Comune, che conta 3 milioni di abitanti, aveva annunciato di avere una passività potenziale relativa alle richieste di risarcimento per la parità di retribuzione tra i 650 e i 760 milioni di sterline (quasi 900 milioni di euro).

Per capire come questo sia possibile bisogna tornare al 2012 quando una storica sentenza del tribunale ha stabilito che il Comune dovesse risarcire fino a 1,1 miliardi di sterline alle dipendenti discriminate dal punto di vista retributivo. Più nel dettaglio si parla di 174 dipendenti, perlopiù donne, che lavorano in ruoli come assistenti alla didattica, addette alle pulizie e alla ristorazione. Dipendenti che non avevano mai beneficiato dei bonus riconosciuti a chi ricopriva invece ruoli tradizionalmente maschili, come i netturbini e gli addetti alla pulizia delle strade.

Michelle McCrossen del sindacato Gmb, che rappresenta migliaia di lavoratori del Comune, ha parlato di un annuncio “scioccante” che ha mostrato la portata della discriminazione salariale nel Comune. Dice alla Bbc: «L’entità della discriminazione è molto peggiore di quanto si potesse immaginare, ed è chiaro che il consiglio non ha imparato nulla dalla sua vergognosa storia di sottovalutazione del lavoro femminile».

I conti del Comune sono poi andati in crisi anche per effetto della stretta sui finanziamenti. Secondo il think tank Institute for Government, i finanziamenti governativi provenienti da Londra sono diminuiti del 40% in termini reali tra il 2009/2010, periodo segnato dall’ascesa al potere dei conservatori, e il 2019/2020, per poi aumentare nuovamente con spese eccezionali legate alla pandemia. Al tempo stesso in questo periodo di tempo gli inglesi hanno visto salire sensibilmente le tasse locali e la tendenza è continuata con l’aumento dei prezzi, aggravando la crisi del costo della vita. Prima di Birmingham, avevano fatto ricorso alla procedura di bancarotta solo il quartiere londinese di Croydon e la cittadina di Thurrock.


(Corriere della Sera, 6 settembre 2023)

di A. P.


La cameriera serve a Yurii un cappuccino, sulla schiuma, fatto con il cacao, c’è raffigurato un mitragliatore, a significare che una parte del ricavato andrà all’esercito. Yurii sorride e velocemente cancella il disegno con il cucchiaino. «È parte della violenza quotidiana alla quale ci stiamo abituando. Sai, credo che l’Ucraina sia riuscita a normalizzare la pratica della guerra non solo qui, ma anche all’estero, in Europa». Incontriamo Yurii Sheliazhenko, coordinatore del movimento pacifista ucraino, in un bar di Kiev qualche giorno prima del suo arresto. Il 14 agosto la polizia è entrata in casa sua sequestrando pc e smartphone. Yurii è stato accusato di ideologia pro-russa, ma lui dichiara di aver pubblicamente condannato l’invasione. Ha però anche detto che per favorire una risoluzione pacifica non bisogna demonizzare il nemico. Ora non può uscire nelle ore notturne, salvo in caso di bombardamenti.

Diversi movimenti internazionali le hanno dimostrato solidarietà, anche il nobel Giorgio Parisi.

Con la legge marziale, diventa molto difficile difendere i propri diritti ma l’Onu sta osservando le violazioni commesse da ambo i lati. Per esempio il divieto di lasciare il Paese per i cittadini maschi. L’evasione della leva è un reato punibile da tre a cinque anni secondo il tribunale penale ucraino e l’esercito nega il diritto all’obiezione di coscienza.

Molte persone sfuggono allobbligo militare?

Dal 2015 centinaia di migliaia. Non tutti i giovani ucraini maschi vogliono prendere un’arma e contribuire alla guerra, ma vengono arruolati in centri territoriali di reclutamento, i vecchi commissariati sovietici, vengono perseguiti, caricati con la forza in questi van e portati al fronte, incarcerati per il loro rifiuto di uccidere, per le loro pretese di rispettare il diritto di rifiutarsi.

I Paesi che inviano armi allUcraina pensano serva a far finire la guerra?

I Paesi non pensano, le persone pensano e alcuni pensano ai loro profitti, come quelli che possiedono azioni di produttori di armi. Sono sicuro che chi fornisce armi in questo momento è dalla parte sbagliata della storia, chi preme per la pace è da quella giusta. Mi sembra che dall’Italia vengano i segnali pacifici più concreti, mi piacerebbe conoscerne le radici. Il mio grande rispetto va ai portuali che si sono rifiutati di caricare e far partire le armi. La carovana #StopTheWarNow è l’azione più pacifista che abbia messo piede a Kiev. Le sanzioni alla Russia sono una farsa, ci si illude che i cittadini russi chiedano la fine della guerra. Ma come possono pretendere i Paesi che armano il nemico, di spingere i russi a scendere in piazza per far sì che il proprio Paese perda la guerra? Bisognerebbe invece che il mondo faccia pressione affinché ci si sieda a trattare. Guardi la tragedia della diga di Kakhovka, in cui Ucraina e Russia si danno la colpa a vicenda e ci tirano dentro questa dinamica faziosa. Il mondo si è affrettato a puntare il dito, piuttosto che incolpare entrambe le parti per non essere state capaci di fare un cessate il fuoco e risolvere la catastrofe ambientale e umanitaria. L’invio di bombe a grappolo, pericolosissime per i civili, è l’ulteriore dimostrazione di quanto il rispetto dei diritti umani non sia una priorità per Kiev e per i Paesi che l’aiutano.

Che ne pensa del ruolo della Nato?

Noi pacifisti diciamo: «Russia fuori dall’Ucraina, Nato fuori dal mondo». La Nato non è indirizzata alla pace perché porta con sé i piani di espansione degli Stati membri. Armarsi non porta alla sicurezza, l’eliminazione delle armi porta alla sicurezza. Dovremmo cercare il dialogo. Invece della guerra dovremmo prepararci alla pace.

Quale scenario per il futuro?

Come ho detto si può immaginare che le persone si stanchino della guerra e inizino a mettere pressione per una trattativa, possibilità remota perché i fatti invece parlano di piani per una guerra decennale. C’è il gruppo di lavoro di Andriy Yermak e del segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen. Stanno lavorando al Kyiv Security Compact, che si basa sul rendere l’Ucraina in grado di sopraffare la Russia militarmente. In questo piano ci sono riferimenti al modello israeliano. Ma tra Israele e Palestina non è stata firmata la soluzione a due Stati, e la guerra continua… Ecco, mi sembra di capire che il modello israeliano a cui ci ispiriamo significhi una sola cosa: guerra perenne.


(Il Fatto quotidiano, 6 settembre 2023)

di Alessandra Pigliaru


Due incontri dedicati all’autrice di «Sputiamo su Hegel». La casa editrice La Tartaruga pubblicherà tutti gli scritti, fuori commercio e non disponibili da anni. Venerdì 8 settembre al Festivaletteratura di Mantova ne discutono Laura Iamurri, Luca Scarlini, Carla Subrizi ed Elvira Vannini con Annarosa Buttarelli. Sabato 9 sarà la volta di Lunetta Savino e Viola Lo Moro


«Così sono arrivata al femminismo che è stata la mia festa, qualcuna doveva ben cominciare, e la sensazione che mi portavo addosso che, o lo facevo io o nessuno mi avrebbe salvato, ha operato in modo che l’ho fatto io. Dovevo trovare chi ero, alla fine, dopo avere accettato di essere qualcosa che non sapevo». È il 16 agosto del 1972 ed è quanto scrive Carla Lonzi nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista, edito nel 1978, ancora oggi un documento straordinario e tra i più significativi del femminismo italiano degli anni Settanta. Unico nel suo genere, contiene infatti il lavorio della pratica delle relazioni tra donne e lo svelamento delle contraddizioni, pensieri, poesie, lettere, sogni e aspettative in riferimento, anzitutto, alla propria singolare esperienza incarnata. In effetti, ogni suo singolo libro (pubblicati negli anni Settanta grazie agli Scritti di Rivolta Femminile) risponde alla necessità dettata dal dissenso verso l’immagine in cui si sentiva costretta da chi la osservava «inespressa e felice di rappresentare qualcosa, non me stessa».

L’intuizione di Carla Lonzi però, morta di cancro nel 1982 all’età di cinquantun anni, è ancora più esatta. L’inizio è la comparsa di una possibilità, un movimento di donne che le fa sentire di avere «tutto pronto», si accorge che l’automatismo della identificazione le aveva fatto consumare «un’infinità di energie»; niente sarebbe stato lo stesso senza la relazione con le compagne di Rivolta Femminile. Carnalmente esistente dunque, sia pure nella parzialità del contesto materiale e storico da cui ha agito, è cruciale, per chiunque e non solo per le donne, avere ancora oggi la possibilità di leggerla.

Dopo anni in cui la sua produzione era ormai fuori commercio, il progetto di ripubblicazione era stato ripreso dall’editore Et al che dal 2010 al 2012 aveva dato alle stampe cinque volumi (Sputiamo su Hegel e altri scritti; Taci, anzi parla; Autoritratto; Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra; Scritti sullarte – quest’ultima una collazione postuma). Ora dobbiamo invece ringraziare La Tartaruga, perché Claudia Durastanti che ne segue le scelte editoriali ha affidato ad Annarosa Buttarelli la curatela di tutti gli scritti lonziani.

Arriva nelle librerie in questi giorni il primo libro: Sputiamo su Hegel e altri scritti che nel titolo perde la decisione di Rivolta Femminile del 1974 di tenere in copertina anche Donna clitoridea e donna vaginale, uno dei testi compresi nel volumetto, tra i più spiazzanti e che ancora oggi ci interroga su quanto riusciamo a gettare nel discredito il piacere femminile riempiendo dotte conversazioni di «desiderio» e non toccando più i corpi, sempre più immalinconiti e attorcigliati. Diversamente dalla scelta di Et al però, che al tempo aveva fatto introdurre ogni volume, nel caso della Tartaruga gli scritti di Carla Lonzi, leggiamo nella nota di Annarosa Buttarelli (filosofa, esponente di primo piano del femminismo della differenza italiano nonché responsabile del Fondo Carla Lonzi avviato nel 2018 presso la Gnam di Roma) che, questa volta, non ci saranno prefazioni. La ragione è convincente: i testi lonziani «non sopportano commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente, la loro intensa, parlante presenza».

Insieme al diario del 1978 e a Vai pure (1980), Sputiamo su Hegel (titolo che Lonzi ha definito «squisitamente orale») rappresenta uno dei punti più alti, mentre il testo omonimo interno al volume spiega lo sberleffo irriverente verso il pensiero sistematico, perché non ci deve essere reverenza verso chi ha collocato le donne come inferiori o inesistenti nel tessuto storico. È una somma provocazione che Lonzi poteva ben permettersi, scrittrice e lettrice colta, pensatrice finissima oltre che critica d’arte acclarata che poi abbandona quel mondo perché il riconoscimento attribuitole era interno a un processo di produzione maschile, narcisistico e inservibile.

Composto da testi pubblicati da Rivolta femminile tra il 1970 e il 1972 e successivamente riuniti nel 1974, Sputiamo su Hegel, sia per ciò che ha firmato Lonzi sia per ciò che è stato firmato collettivamente, è l’itinerario delle singole tappe di una personale e politica presa di coscienza. Lo definirà, nel valore che si dà agli inizi liberatori, come ciò che è stato l’Inferno per Dante, un primo stadio.

In apertura, il Manifesto di Rivolta Femminile (luglio 1970), procede per frasi brevi, asciutte e taglienti in cui il tema di fondo è la liberazione radicale della donna intesa come soggetto che «non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario». La decostruzione è dei nodi del patriarcato, trappola che non ha concesso un pieno affrancamento dalla cultura maschile rendendo la donna spettatrice muta di una storia mutilata che non le appartiene. Si rifiuta il matrimonio; si denuncia la discrasia del pensiero maschile come unilaterale, in particolare rispetto alla dialettica servo-padrone, «regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale». Ci si smarca dal principio di uguaglianza e si annuncia infine il separatismo.

Uno dei testi più controversi è Sessualità femminile e aborto, nel luglio del 1971 rappresenta una delle prime prese di parola pubblica sull’interruzione volontaria della gravidanza, sia pure in netta discontinuità: quella che viene rifiutata è infatti una sessualità femminile slegata dal piacere e la gravidanza – talvolta – è il frutto dell’accondiscendenza all’egoismo maschile che vuole colonizzare il corpo della donna. È da qui che si comprende meglio Donna clitoridea e donna vaginale (agosto 1971), dove Lonzi dichiara che il sesso femminile è la clitoride e non la cavità vaginale, slegata dal piacere. Anche per questo, rileggerla è una festa. Come lo è il femminismo, ce lo ha detto lei.


(Il manifesto, 2 settembre 2023)


N.B. Da quarantanni tutti i titoli dei libretti verdi di Rivolta Femminile sono disponibili alla Libreria delle donne di Milano. Potete trovarli al nostro indirizzo di via Pietro Calvi 29. Contatti: tel. 02/70006265 e-mail: info@libreriadelledonne.it.


La redazione del sito

di Associazione Evelina De Magistris – Livorno


Comunicato dell’Associazione Evelina De Magistris – Livorno


Sta circolando una pubblicità di una nota ditta italiana che produce giocattoli, così fatta: c’è un’immagine composta da tre zaini affiancati. Su uno c’è scritto “alpini”, su un altro “folgore”, sul terzo “esercito”. In basso, la scritta «Tutti sull’attenti! Ti aspettiamo negli store Giochi Preziosi». Ma il messaggio che fa davvero rabbrividire è in alto: «L’esclusiva collezione zaini esercito per sentirsi sempre in missione».

Questa è, evidentemente, l’ultima versione di un “gioco prezioso”: un incitamento, rivolto a bambini/e e ragazzi/e, a impersonare, a scimmiottare, a identificarsi con chi di mestiere si prepara a fare la guerra, o addirittura la fa. Il riferimento a “sentirsi sempre in missione” è chiaro.

La pervasività delle parole di guerra è ormai un tratto caratteristico di questi nostri tempi, e non solo da quando è scoppiato il conflitto russo/ucraino. La postura militaresca nell’affrontare i problemi risuona purtroppo ovunque: una scorciatoia per non andare alla loro radice e per non confrontarsi con la complessità del mondo.

Ma mai avremmo pensato che questa postura potesse rivolgersi e coinvolgere in modo così pesantemente esplicito la sfera del gioco di bambini/e e ragazzi/e, una attività in cui molto si plasma la relazione con il mondo e molto si impara su come porsi con gli altri e le altre. Espressioni come “tutti sull’attenti!” e “sentirsi sempre in missione” rimandano ad una militarizzazione della vita sin dai primi anni, perdipiù in un contesto delicato e, appunto, complesso come è la scuola.

Vogliamo ricordare con forza che la nostra Costituzione antifascista e repubblicana, all’articolo 11, recita, al primo comma: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» e che la scuola ha il dovere di educare al rispetto della Costituzione.

Pessima operazione commerciale che sfrutta “l’aria dei tempi”? può darsi. Ma il timore, fondato, è che si tenda da troppe parti a voler normalizzare lo stato di guerra, proprio a partire dalla costruzione, in questa direzione, dell’immaginario delle e dei più piccoli.

Chiediamo pertanto il ritiro immediato di questa pubblicità, pericolosa e inquietante.


(31 agosto 2023, Associazione Evelina De Magistris – Livorno)


Vittoria! Spariti dalla vendita gli zaini militari per bambini di Giochi Preziosi dopo le proteste


[…]


Dopo una campagna di boicottaggio degli accessori che inneggiano alla guerra, l’azienda ci ripensa e li fa sparire dal sito.


[…]


Qui la notizia del 12 settembre, a cura di Dominella Trunfio, dal sito Greenme.it.

da Redazione Cagliaripad


Le due madri, residenti nell’Olbiese, si sono accordate con una separazione consensuale senza la mediazione del Tribunale.

Mettere davanti a tutto il benessere e la felicità del bambino.

Con questo impegno una coppia omogenitoriale, formata da due donne residenti nell’Olbiese, ha deciso di accordarsi per una separazione consensuale.

È il primo caso in Italia, che non ha avuto alcun bisogno di alcuna sentenza in Tribunale.

Le due madri hanno trovato un punto di incontro attraverso la “negoziazione assistita” anche per quanto riguarda l’affidamento di un figlio minore. Dopodiché hanno presentato i termini alla Procura di Tempio che ha provveduto a dare il nulla osta.

Il bambino, quindi, resterà prevalentemente con la madre non biologica, ma potrà trascorrere del tempo anche con quella biologica, in modo da garantire al piccolo la migliore crescita sotto ogni punto di vista.


(Cagliaripad.it, 29 agosto 2023)

di Stefania Tarantino


Il 26 agosto, sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno, ho letto con grande attenzione e interesse l’intervista a Cesare Moreno sugli efferati episodi di stupri di gruppo di Palermo e Caivano. Il titolo scelto dal Corriere è il seguente, «Cesare Moreno: Si parla troppo e si fa poco. Il sesso non c’entra». Per quanto apprezzi da tempo la sua filosofia di vita e il suo eccellente e difficile lavoro sul campo con i Maestri di strada, ho qualche perplessità su alcune sue dichiarazioni che vorrei esplicitare qui alfine di aprire un dialogo e una riflessione. Certo, concordo pienamente sulla prima parte del titolo. Chi potrebbe negare che si parla troppo e si continua a non fare nulla per porre un argine a questa violenza mostruosa, agita da un maschile tronfio di sé e allo sbaraglio totale, che investe quotidianamente e in forme diverse le donne di tutto il globo? Nessuno, almeno credo e spero! Sulla seconda parte del titolo, e cioè che il sesso non c’entra, il mio disaccordo è totale. Mi sono anche molto meravigliata della facilità con cui tutto il suo discorso fa fuori questo elemento che, alla luce di ciò che succede ogni giorno alle donne, non è una cosa da poco ma, anzi, è la causa scatenante di ogni genere di sopruso.

Capisco bene quando dice che c’è una pericolosa inversione tra la rappresentazione e l’evento nell’epoca dei social ma, nel caso delle molestie, degli stupri e dei femminicidi, il sesso c’entra eccome. Basterebbe dare uno sguardo alla violenza strutturale che caratterizza il retroterra di formazione da cui emergono, senza distinzione di classe o di gradi accademici, tali eventi. Cesare Moreno dice anche che «la violenza non è dettata dal soddisfacimento della pulsione erotica», che «il sesso non è il fine ma il mezzo per compiere l’azione memorabile» e che «la colpa non è dei social ma della solitudine in cui vivono questi ragazzi». Ecco, queste affermazioni mi hanno provocato un serio disagio proprio perché, ripeto, stimo molto la persona di cui sto parlando. Dai dialoghi tribali che ho avuto modo di leggere sui giornali e sui social, questi ragazzi ce l’avevano eccome la pulsione erotica. Una pulsione erotica «lavorata» da un immaginario della sopraffazione che sembra essere l’unica «fonte» di in-formazione (se posso dir così) sulla sessualità. Il deterioramento di questa nobile pulsione abitata da Eros è il sintomo di una malattia che ha radici consolidate e, purtroppo, degradate a dismisura. Sulla questione del fine e del mezzo penso che da tempo c’è una confusione, alimentata soprattutto da un regime economico spietato e senza limiti, tra i due. Mi sembra che il mezzo si sia mangiato il fine, che tutto sia «funzionale a» e che la finalità non abbia più grande importanza nel tritacarne generalizzato dell’usa e getta.

Lo stupro non è forse l’apoteosi di questo? Usare il corpo e poi gettarlo dove capita o lasciarlo lì agonizzante. Senza pietà e senza ripensamenti. Questa forse è la cosa che ci deve fare più paura, questa assenza assoluta di sensibilità, di pietà, di ripensamento lucido su ciò che si è fatto. E qui vengo alla questione della solitudine. Avrei preferito che si parlasse di isolamento ma forse neanche questa parola mi avrebbe convinta più di tanto. La solitudine è una mia preziosa compagna di vita e lo è anche per molte donne che conosco e con cui condivido percorsi di vita. Non ci ha trasformate negativamente, anzi, ci è servita per crescere e per far fronte con maggiore consapevolezza alla realtà che ci sta ogni giorno davanti. La solitudine è lo spazio dell’immaginazione e della creazione, è il luogo in cui ci troviamo davanti a noi stesse/i senza maschere e senza finzioni. La solitudine è il terreno fertile da cui nascono le più belle e durature relazioni. Forse che l’obiettivo è stato quello di sostituire la fecondità della solitudine con la sterilità dell’isolamento? Eppure, qualcosa non mi torna. In questi due eventi i ragazzi erano in gruppo, forse isolati gli uni dagli altri, ma insieme, uniti dalla condivisione di un impulso bestiale, di un immaginario che li sostiene e addirittura li «apprezza» nel loro volersi dimostrare l’uno più bestiale dell’altro.

Sulla fine dell’intervista mi riappacifico con le parole di Cesare Moreno quando dice che «la relazione maschile/femminile non è oggetto di cura» che «non esiste un’educazione sentimentale e sessuale» e che «bisogna parlare con gli studenti, coinvolgerli in un’esperienza collettiva di significato su quanto è accaduto». Questi sono degli aspetti imprescindibili e necessari che devono ovviamente investire anche il tessuto familiare e sociale. È un nuovo «ambiente umano» che dobbiamo ricostruire, è un altro immaginario che deve nutrire le nostre fantasie e i nostri più reconditi desideri, è il cuore pulsante delle relazioni umane che va rimesso al centro della vita pubblica e della vita privata. Ne va di una rivoluzione culturale e sessuale che non può più attendere.


(il manifesto, 29 agosto 2023)

di Umberto Varischio


Trovo interessanti e stimolanti le considerazioni che Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo, fa su “Il Manifesto” del 23 agosto scorso (https://ilmanifesto.it/oppenheimer-oggi-va-raccontata-la-fine-dellarma-nucleare), prendendo spunto dall’uscita nelle sale del film Oppenheimer, di Christopher Nolan. In particolare mi convince il giudizio critico che esprime sulla scelta del regista di concentrarsi «così intensamente sul dramma di una persona [il che] riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali». Sempre secondo Vignarca non si deve «cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata».

In tutto l’articolo una dimenticanza, non di poco conto, la commette anche lo stesso Vignarca quando parla di «fallimenti e fragilità umane […] persone corrotte da potere e ambizione che plasmano la storia [..] le armi nucleari sono state create in maniera collettiva» e si dimentica completamente di ricordarci che la quasi totalità delle persone coinvolte sia nello sviluppo delle armi atomiche, così come nella successiva proliferazione atomica siano stati maschi.

Come sostiene il pacifista norvegese Johan Galtung, il patriarcato, analogamente a ogni altra formazione sociale profondamente violenta (come le sottoculture criminali e le strutture militari), unisce la violenza diretta, quella che tocca intenzionalmente i corpi e i bisogni basilari degli altri, la violenza strutturale (che lede tali bisogni attraverso lo sfruttamento e la repressione derivanti dalla struttura sociale) e quella culturale (cioè quegli aspetti della cultura (come la religione e il linguaggio che legittimano la violenza diretta e strutturale) in un triangolo vizioso. I tre tipi di violenza si rinforzano reciprocamente e la constatazione della predominanza maschile nella violenza si può trovare in parte nell’interfaccia e nella perversa iterazione tra sessualità maschile e aggressività maschile.

Infatti, sempre secondo Galtung, gli studi evidenziano che l’orgasmo sessuale maschile e la violenza hanno molti parametri fisiologici e neurologici in comune, e quindi dal momento che orgasmo e violenza sono vicini neurologici, stimolare l’uno può stimolare anche l’altro. Essendo orgasmo maschile e violenza così vicini, reprimere l’uno può provocare l’altro; inoltre la curva del testosterone per gli uomini coincide con l’età militare, 16-65 anni.

Ovviamente la biologia non regola da sola questo terreno: probabilmente può spiegarne il 10-20%. Altri fattori oltre il corpo sono implicati nella violenza maschile e quindi nei conflitti militari: la cultura e in particolare il linguaggio e la religione (esempio la svalutazione della figura di Maria, la madre, nel protestantesimo); la struttura sociale; la mente, i meccanismi psicosociali che, per esempio fanno sì che allevare e nutrire, compiti principalmente delegati alle donne, sono un modo di creare ed espandere l’empatia umana. I quattro fattori operano sinergicamente e i meccanismi psicologici e biologici profondi possono rafforzarsi reciprocamente.

Di alcune proposte di Galtung (ovviamente discutibili) per diminuire i vari tipi di violenza di matrice maschile, una è volutamente provocatoria per noi uomini: l’utilizzo di farmaci anti-testosterone – che a differenza degli anticoncezionali chimici per le donne che invece sono stati promossi dagli uomini come strumenti della libertà sessuale (spesso solo la loro) e deresponsabilizzanti per quanto riguarda il controllo delle nascite – sarebbero rifiutati da noi maschi, sommamente preoccupati della loro potenza sessuale. Altre proposte riguardano un aumento del livello maschile di empatia attraverso schemi di socializzazione simili a quelli delle donne; il prolungare la relazione madre-figlio permettendo così alle donne di umanizzare i maschi – che però riverserebbe l’onere sulle donne. Lo studioso pacifista norvegese preferisce il disegno di un discorso multifattoriale (tra corpo, linguaggio-cultura, struttura socio-economica, e mente) che sin dalla prima infanzia utilizzi strutture sociali orizzontali e che rendano la cultura senza ripidi gradienti Io-Altro e quindi più inclusiva.

A me sembra necessario per noi maschi, nell’analisi sia della violenza maschile (di cui non mi ritengo esente come ho spiegato qui) e della guerra sia dello sviluppo delle armi, in particolare quelle nucleari, approfondire il legame tra violenza, nostra sessualità e la guerra. Nella direzione di una riduzione sostanziale della violenza diretta e di conseguenza anche di quelle strutturali e culturale, con grande benefico di tutti/e.

Mi si potrebbe giustamente obiettare che queste ipotetiche soluzioni valgono solo nel medio-lungo periodo, mentre oggi ci sono da affrontare la violenza diretta maschile che si attua nelle guerre di oggi e contro le donne. Per tentare arginare la violenza diretta degli uomini contro donne occorrerebbe forse che gli uomini, associati ma anche individualmente, cominciassero a sanzionare pubblicamente questi atti soprattutto nella vita quotidiana, e non solo con appelli, rompendo così la solidarietà maschile, implicita o esplicita.


(www.libreriadelledonne.it, 26 agosto 2023)