Laura Boella, Le imperdonabili, Mimesis 2013, ciclo di cinque incontri con Laura Boella. Presenta Elena Petrassi.


Mercoledì 27/9/2023 ore 18.30 – Cristina Campo: l’imperdonabile


Mercoledì  11/10/2023 ore 18.30 – Milena Jesenská: il coraggio di stare fermi  


Mercoledì  25/10/2023ore 18.30 –  Etty Hillesum: il campo di battaglia delle parole   


Mercoledì 8/11/2023ore 18.30 –  Marina Cvetaeva: “la testa rovesciata verso l’alto”


Mercoledì 22/11/2023ore 18.30 – Ingeborg Bachmann: l’esperienza unica maestra  


Gli incontri sono dedicati a cinque grandi figure femminili del Novecento che hanno scelto la poesia e la scrittura come mezzo espressivo e modo di vivere il proprio tempo.

Milena Jesenská, Hetty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo sono imperdonabili perché l’invisibilità o l’eccessiva fama, spesso creatrice di leggende di facile consumo, rende impossibile classificarle, perché non contemporanee, avanti e indietro rispetto al loro tempo, consumate da passioni assolute, innanzitutto quello della scrittura.

di Valeria Parrella


Delle Quattro Giornate di Napoli, di cui quest’anno ricorrono gli ottant’anni, si può parlare da tante angolazioni: almeno una per ogni targa apposta in città, tante, alcune famose, come quella nel municipio, che ricorda il più giovane martire della resistenza, Gennaro Capuozzo, 12 anni.

Altre targhe sono più nascoste, quella a Sedil Capuano, dove anche gli anarchici vanno a deporre un fiore, e quella al bosco di Capodimonte, alla masseria Pagliarone al Vomero. Sono una per ogni quartiere, una per ogni drappello che si organizzò con quello che aveva, per riprendersi l’ultima cosa che restava, la libertà: Napoli è l’unica città che si fa trovare già liberata all’arrivo degli anglo americani. Io sono particolarmente affezionata alla targa apposta sul Ponte della sanità per Maddalena Cerasuolo, nome di battaglia: Lenuccia.

C’è un’intervista che Maddalena Cerasuolo rilascia nel 1969 alla tv: è l’unica donna tra tanti uomini, è allegra e fiera, racconta e ride, eppure non racconta cose lievi, ride perché è viva in un’Italia che pareva liberata: dice che conobbe suo marito quando imparò a usare il moschetto, ovvero quando non c’era più bisogno delle bombe, perché tutti i carri armati erano andati. Maddalena Cerasuolo aveva ventidue anni, era figlia di un uomo molto conosciuto nel quartiere Stella, un quartiere che sembra un alveare, ancora adesso, che va verso il basso, si inabissa nel tufo, mentre il resto della città si arrampica sulle colline. Il padre di Maddalena ne sa di strategie militari e organizza la resistenza.

La resistenza a Napoli ha radici semplici: nasce nei ricoveri saturi di corpi affamati, pieni di tifo petecchiale; nasce tra le salme estratte dalle rovine dei bombardamenti, terribili, manca l’acqua, il gas, la luce. «Sarà una passeggiata vittoriosa» disse Mussolini via radio ai napoletani arringati in piazza Plebiscito, e per quella passeggiata mia nonna mi raccontava del terrore di sentir le bombe sibilare e prendere quel palazzo lì invece del suo, lei che non poteva abbandonare la madre paralitica per scappare nei ricoveri. Era la guerra dei civili, e lì nacque la resistenza napoletana. Nacque perché non si fossero liberati in ventiquattr’ore i nazisti avrebbero fatto brillare una fabbrica che ancora li sfamava, perché avevano minato il ponte della sanità, una arteria sotto cui correvano le tubature e i cavi. Nacque perché era tempo.

Così il padre di Lenuccia organizzò un drappello di partigiani e lei, che era “capatosta”, volle scendere a combattere con suo padre. Fu lì, dietro la statua dei Martiri della prima guerra mondiale (perché la realtà dà sempre i punti alla narrazione) che un generale la vide e le propose di andare a trattare la resa con i nazisti.

Teresa Mattei, staffetta partigiana e madre costituente, ci raccontò di cosa succedeva se i nazisti incontravano una giovane donna: lei fu violentata e si salvò dall’esecuzione lanciandosi da una finestra. Questo succedeva. Eppure Lenuccia andò: «Magari se vedono te non ti uccidono, se vedono un maschio gli sparano di sicuro».

Sono passati ottant’anni ma la possiamo vedere questa ragazzina magra piena di capelli andare da sola, ché i vicoli non sono mica poi tanto cambiati.

Ché ciò che spinge una giovane donna a sfidare la sorte per il bene comune non è mica tanto cambiato.

Lenuccia va e tratta, poi torna indietro con la risposta negativa e, tornando, vede un sidecar tedesco chiedere a un vecchio dov’è «il ponte». Allora intuisce che vogliono farlo saltare e corre, anticipa la notizia, la consegna a suo padre, si organizzano le barricate e il quartiere salva il suo ponte. In quell’intervista, suo marito dice di lei: «Era un poco femmina e un poco scugnizzo, io mi innamorai».

In capo a quattro giornate i nazisti si arresero, e pure quei fascisti di cui oggi contiamo i nipotini al governo. Consegnarono i prigionieri per avere la via libera, e gli alleati, quando entrarono, ebbero solo da ricostruire. Quel ponte oggi si chiama Maddalena Cerasuolo: un ponte è un ponte, serve per collegare, non per dividere. Quando venite a Napoli andate ad affacciarvi sulla città da lì.


(Il manifesto, 26 settembre 2023)

di Lea Melandri


Nelle ultime manifestazioni della rete Non Una Di meno, impegnata in Italia e nel mondo fin dal 2016 contro la violenza di genere, è comparso lo slogan «Il maschio violento non è malato, è il figlio sano del patriarcato». Il Progetto per la scuola del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara – “Educare alle relazioni” – sembra andare in una direzione opposta. Stando a dichiarazioni riportate dal quotidiano “La Stampa” del 23/9/23, il compito di affrontare la «cultura machista» e di avviare «una nuova narrazione del maschile e del femminile» dovrebbe essere affidato a un piano nazionale di azioni positive, rivolte a insegnanti e studenti, che il ministero sta mettendo a punto con l’Ordine degli Psicologi, con esplicito riferimento ai gruppi Balint. Creati originariamente per la formazione dei medici di famiglia, impegnati in un relazioni di cura di lunga durata e di particolare intimità e intensità emozionale, ed estesi successivamente ad altre figure professionali, la loro presenza nella scuola non è nuova. Nuova è invece l’iniziativa dell’attuale governo che viene al seguito di casi sempre più frequenti di violenza contro le donne, femminicidi e stupri, riconosciuti finalmente come prodotto di una cultura patriarcale ancora dominante, ma con grande celerità cancellati come tali e ricondotti nell’ambito della patologia e del disagio psichico. La tentazione di medicalizzare fenomeni che appartengono nel loro fondamento alla storia e alla politica – perché tali sono il potere che un sesso ha imposto all’altro e le costruzioni o differenze di genere date come “naturali” – si era già affacciata all’inizio degli anni Settanta con l’istituzione di due corsi di laurea di Psicologia a Roma e a Padova. Riletti, a distanza di cinquant’anni, gli atti del convegno indetto dagli studenti a Padova nel marzo del 1973, a cui partecipammo sia io che Luisa Muraro e Elvio Fachinelli, redattori della rivista “L’erba voglio”, non si sa se disperarsi per la replica cieca di una involuzione che minacciava allora i movimenti non autoritari del ’68 nella scuola, e oggi le teorie e le pratiche di oltre un secolo di femminismo, oppure sperare che sia una “ripresa” capace oggi di sciogliere gli annodamenti più ambigui tra amore, intimità e violenza.

La prospettiva di consegnare a psicologi, psicoterapeuti e giudici, sottomessi a loro volta all’autorità di un Ordine – per non dire di una corporazione – detentore di un sapere calato dall’esterno, non promette bene per quanto riguarda la libertà di insegnanti e studenti intesa come confronto di esperienze, narrazione e riflessione su vissuti che la scuola eredita dagli anni della crescita in famiglia. Scriveva già allora Luisa Muraro:

«Di una cosa sono certa: è vero che il sapere psicologico è elaborato, trasmesso e usato contro di noi, contro quelli tra noi che non si conformano a modelli sociali, per sistemarci e classificarci a seconda: in ospedale, in manicomio, oppure per recuperarci per la famiglia e la fabbrica; questo riesce e funziona non tanto a partire da certe idee, ma a partire da una divisione tra competenti e incompetenti. È questa divisione che lascia sprovveduti e disarmati di fronte alla decisione sociale di emarginare, di fronte alla interpretazione delle differenze di comportamento come deviazioni pericolose da curare (il bambino che non sta fermo a scuola è malato, la donna che non sopporta i figli è malata, ecc.) […] Io voglio capire quel che mi succede, e quello che succede a quelli che mi sono vicini, questo sapere non può stare in mano ad altri».

Non nego di aver avuto anch’io, nel corso del mio insegnamento in una scuola media inferiore, la tentazione di affidare un alunno particolarmente “difficile” allo psicologo. Poi mi resi conto che avrei ripetuto e confermato in questo modo l’esperienza di abbandono che il ragazzo doveva aver già vissuto in precedenza e che era forse la causa della sua aggressività verso di me e verso gli altri. Restava come soluzione quella di vedere se il suo comportamento era effettivamente così eccezionale come sembrava, o se riproduceva in modo accentuato difficoltà di rapporti comuni a tutti i compagni di classe. Discutendo insieme dei loro rapporti, tra maschi, tra maschi e femmine, e con gli adulti, mi resi conto che via via, oltre alla descrizione delle cose che ognuno di noi poteva vedere, i ragazzi stessi fornivano delle spiegazioni, in modo tale che non c’era più il pericolo che il ruolo di chi spiega o interpreta venisse attribuito ad altri. È di quegli stessi anni la nascita di gruppi di autoformazione, aperti e tali da consentire il confronto tra le esperienze di vita e di lavoro dei/delle singole che vi partecipavano, mettendo insegnanti e psicologi nella condizione di elaborare un sapere comune. L’idea era di evitare la deresponsabilizzazione che interviene quando si separa il proprio ruolo da quello dello psicologo, visto come depositario di una “competenza” e di un sapere risolutivo delle difficoltà che si incontrano nell’insegnamento come in tutte le situazioni relazionali. Ora, quello che può accadere, come è capitato con il “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, approvato nel 2015 dal Consiglio dei ministri, è che non se ne faccia nulla. Ma il danno è già nel tentativo di distorcere cambiamenti che sono avvenuti nella società: la consapevolezza del significato politico del sessismo e la necessità che entri nella scuola il materiale enorme di saperi, pratiche create da mezzo secolo di movimento delle donne. La risposta alla crisi e alla messa in discussione dei ruoli, familiari, professionali, per come li abbiamo ereditati, al disorientamento di generazioni senza prospettive di futuro, con l’enfatizzazione di una copertura di ordine e di sicurezza psicologica, che Fachinelli chiamerebbe un “sistema genitoriale accessorio”, non può che confermare il dubbio che esistano ancora istituzioni in grado di rappresentare e governare un Paese.


(Il Manifesto, 26 settembre 2023)


Verona. Inizia il seminario annuale di Diotima a partire da venerdì 6 ottobre, dalle 17.20 alle 19.00, per poi continuare con il seguente calendario fino a Venerdì 3 novembre 2023:

Venerdì 6 ottobre, ore 17.20-19.00, aula Menegazzi. 
Wanda TommasiSogno e risveglio. Leggere i segni dei tempi.

Venerdì 13 ottobre, ore 17.20-19.00, aula Menegazzi. 
Maria Livia Alga e Lucia VantiniTutto deve passare dal fuoco. Per una poetica della luce.

Venerdì 20 ottobre, ore 17.20-19.00, aula Menegazzi. 
Anna Maria PiussiNatalità e nascere umano: tra visibile e invisibile, una rivoluzione di senso.

Venerdì 27 ottobre, ore 17.20-19.00, aula Menegazzi. 
Maria Concetta SalaAlla ricerca del ritmo nell’altalena del vivere.

Venerdì 3 novembre, ore 17.20-19.00, aula Menegazzi. 
Giulia Testi e Chiara Zamboni I fragili confini tra il sacro e l’esperienza della natura.


Gli incontri si terranno nell’ex palazzo di Economia, Università di Verona, via dell’Artigliere 19, angolo via San Francesco.

Per studentesse e studenti: chi frequenta almeno 4 seminari ed è iscritto/a alla laurea triennale e magistrale di filosofia e alla laurea triennale di scienze dell’educazione verrà inserito nel piano di studi 1 CFU.


Trame invisibili nella realtà contemporanea


Il seminario segue la strada del realismo femminile per comprendere questo nostro mondo, che mostra a noi un volto a tratti sconosciuto. Per realismo femminile si intende il modo di leggere la realtà dall’interno, che è stato seguito da molte con libertà e che ha permesso di tenere assieme i fatti visibili e l’invisibile che le ha coinvolte. Da un lato la realtà non dipende dal soggetto e dall’altra però ha bisogno di noi e del nostro linguaggio per essere. C’è qualcosa di infinito, di eccedente nell’esperienza femminile della realtà e possiamo esprimerlo con un lavoro con le parole. È una pratica più femminile che maschile che ha avuto efficacia nel passato ed ora è essenziale nel presente. Le donne in alcuni periodi ne hanno guadagnato autorità, ma per lo stesso motivo sono state anche emarginate in quanto questa pratica viene avvertita come qualcosa di non controllabile secondo i parametri dominanti.

Teniamo conto che il movimento delle donne, dagli anni Settanta in poi, ha tratto ispirazione e forza dalla vicinanza tra reale e desiderio infinito. Dall’intersezione tra fatti e visioni. A volte è riuscito a farne una vera e propria politica condivisa.

Il seminario di quest’anno si propone di proseguire questa strada e leggere così la realtà in modo svincolato dalle interpretazioni correnti. Verrà data attenzione particolare ad alcuni temi che toccano la nostra esperienza, per dare voce a tracce di verità che, pur formulate in un contesto femminile, riguardino tutti, donne e uomini.

Ad esempio, come vedere il lavoro nella prospettiva dell’imprevedibile, dei desideri soggettivi e dei segni di altro, che sentiamo emergere? Come si dislocano allora le critiche e i conflitti? Che cos’è germinale?

O anche: nell’agenda politica oggi del governo Meloni, ieri di Draghi, la natalità è discussa e promossa come qualcosa di oggettivo. Come un fatto di pubblica utilità. Vengono messe in atto diverse strategie di biopotere. Di contro, l’ascolto del lato invisibile dell’esperienza femminile mostra come il nascere da madre sia molto diverso dalla natalità promossa dai governi. Ha un che di celato allo sguardo, in una intimità corporea che va custodita.

Nel seminario verranno toccati anche altri temi, seguendo la lente della luce che illumina, ma sa con giustezza mantenere velato il movimento intimo della realtà nel suo schiudersi.


Bibliografia:

Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori, 2009.

Luisa Muraro, La Signora del gioco. La caccia alle streghe interpretata dalle sue vittime, La Tartaruga 2006, e Al mercato della felicità, Orthotes 2016.

Margherita Morgantin, L’azione nell’invisibile, in “Per amore del mondo”. Rivista di Diotima, n. 17, 2020.

Gloria Anzaldua, Luce nell’oscurità, Meltemi 2022.


(https://www.diotimafilosofe.it/grande-seminario/trame-invisibili-nella-realta-contemporanea/, 23 settembre 2023)

di Eleonora Martini


Sottovalutazione dei rischi subiti dalle donne che hanno denunciato violenze domestiche e sessuali, «mancata adozione di misure di protezione», «ritardi nello svolgimento degli atti investigativi», «mancanza di indagini sugli episodi di violenza denunciati e eccessiva durata dei procedimenti giudiziari contro gli aggressori». L’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu) arriva – per «risposta inefficace alle denunce», in sintesi – in seguito ai ricorsi presentati da tre donne italiane che hanno cercato giustizia a Strasburgo non avendola trovata in patria. Il Consiglio dei ministri della Cedu ha appurato «violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione a causa dell’inerzia delle autorità nel gestire le denunce di violenza domestica presentate dai ricorrenti».

Le richieste del Consiglio d’Europa alle autorità italiane sono di concludere «rapidamente i procedimenti penali contro gli aggressori» di due donne ricorrenti che hanno già vinto la causa davanti alla Corte europea nel giugno 2022, e dà tempo fino al 15 dicembre prossimo per inviare a Strasburgo informazioni sull’esito dei processi.

L’esecutivo dell’organizzazione paneuropea che conta 46 Stati membri sanziona anche la vittimizzazione secondaria di una donna ricorrente «a causa agli stereotipi di genere che caratterizzano la decisione giudiziaria» nel suo caso, ed esprime «preoccupazione per il pignoramento» di un risarcimento danni a una terza vittima, che era stato invece stabilito nell’aprile 2022 della stessa Cedu. I giudici europei, intimando all’Italia il pagamento del risarcimento stabilito in quell’occasione, ricordano che già in precedenza la Corte aveva affermato «che il risarcimento da essa riconosciuto, in particolare per danni morali, dovrebbe essere esente da pignoramento», e invitano «vivamente le autorità italiane a riconsiderare la loro posizione o a dimostrare che la donna e il suo avvocato lo hanno accettato». Nel pronunciamento, Strasburgo chiede perfino «una valutazione delle autorità competenti sulla possibilità di avviare un’indagine sulle minacce di morte ricevute da una delle donne e sui maltrattamenti subiti dai suoi figli».

«I.M. era fuggita di casa nel luglio 2014 con due figli minorenni – racconta l’avvocata Rossella Benedetti, dell’Associazione Differenza Donna – da me assistita nel ricorso 25426/2020 dinanzi alla Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia per il trattamento subito da I.M. e dei suoi bambini in sede civile. Ma la donna è ancora in attesa della conclusione del processo penale che vede il suo ex convivente imputato di maltrattamenti in famiglia. Dopo nove anni si è giunti solo alla sentenza (di condanna) di primo grado. Una risposta assolutamente inefficace che lascia I.M ancora senza giustizia».

Ma al di là dei singoli casi giudiziari, la Cedu rileva che «le informazioni fornite dalle autorità non consentono una valutazione esaustiva della situazione», ed esorta pertanto Roma «a fornire le valutazioni, le informazioni e le statistiche pertinenti». Tanto più perché i dati forniti dall’Italia «mostrano una persistente alta percentuale di procedimenti per violenza domestica e sessuale archiviati nella fase delle indagini preliminari, un uso limitato degli ordini di protezione e un tasso significativo di violazione degli stessi».

Perciò, esprimendo «preoccupazione», la Cedu invita l’Italia (tempo per un feedback fino al 30 marzo 2024) «a proseguire gli sforzi per ampliare e diffondere ulteriormente la formazione mirata e pertinente, con particolare attenzione alla specializzazione dei giudici istruttori»; «ad avviare attività specifiche per promuovere l’uso di un linguaggio giudiziario sensibile al genere»; e a proseguire con azioni concrete nell’attuazione del «Piano nazionale, al fine di sradicare pregiudizi e atteggiamenti che alimentano la violenza e la discriminazione di genere».

Un pronunciamento, quello del Consiglio dei ministri della CoE, che «preoccupa» e insieme sprona le forze politiche. «Grazie alla precedente commissione parlamentare sul femminicidio abbiamo un quadro completo dei problemi e disfunzioni, dalla lunghezza dei processi, agli interventi normativi e misure da adottare in concreto – afferma Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera – Ma se non si interviene strutturalmente e con forti investimenti sul sistema giustizia, non se ne esce. Il nuovo monito di Strasburgo deve essere preso molto seriamente dal Governo che deve investire, investire e ancora investire su formazione, giustizia e centri antiviolenza. Da questo si misura la volontà di contrastare la piaga della violenza maschile sulle donne».


(Il manifesto 23 settembre 2023)

di Franca Fortunato


Con l’invasione dell’Ucraina, da parte di Putin, più di otto milioni di profughi sono fuggiti dalla guerra per rifugiarsi nei Paesi europei che, questa volta, hanno spalancato le porte dell’accoglienza. L’Italia ne ha accolti 170mila di cui 4512 orfani, tutti minorenni, provenienti da vari orfanotrofi. Il Tribunale dei minori di Milano li ha poi dati in “affido temporaneo” a famiglie che hanno aperto loro non solo la porta di casa ma anche il loro cuore, offrendo sicurezza e serenità, lontano dalla guerra, dai bombardamenti e dalle bombe. Il governo di Kiev era contrario all’“affido temporaneo” per “non disperdere i loro riferimenti culturali”. A giugno di quest’anno, inaspettatamente, ha deciso, a guerra in corso, di farli rientrare e tornare negli orfanotrofi, anche contro la loro volontà. In seguito a tale decisione, dal mese di agosto sono iniziati i rimpatri, nel silenzio della stampa e dei mass media. La notizia è apparsa solo da qualche giorno su il Fatto Quotidiano. A Catania, dove le/gli orfane/i sono oltre 100, chiamate/i dai giudici hanno tutte/i espresso la volontà di restare con le famiglie affidatarie, di continuare la scuola e di non voler tornare all’orfanotrofio. La Procura, tenendo conto della loro volontà, è riuscita a sospendere momentaneamente le partenze. «Sono stato promosso in terza elementare – ha detto Fabio di otto anni (nome di fantasia) – a me piace molto l’italiano e la matematica […], ormai sono venuto qui e non è giusto che ritorni. Mi davano botte, in orfanotrofio.» Anna, quindici anni, anche lei non voleva tornare e quando la tutrice l’ha portata via, piangeva. Dall’orfanotrofio di nascosto ha mandato video alla madre affidataria per dire del suo dolore, finché non l’hanno scoperta e le hanno tolto il cellulare. La tutrice in un messaggio alla madre affidataria ha scritto: «Anna è una ragazza speciale, al suo destino penseremo noi. Accetta i ringraziamenti della ragazza e comprendi che tu e io non possiamo cambiare nulla». Tutto è nelle mani dello Stato, cioè di chi governa, che considera le/gli orfane/i “figli dell’Ucraina”.

Nessuna donna o uomo, bambina/o, ragazza/o, appartiene allo Stato, nessuna legge può dare a chi governa, in Iran come in Ucraina, la libertà di decidere al posto loro in nome di qualcosa o qualcuno di superiore. È questa la libertà che Zelensky dice che sta difendendo anche per noi? Perché non hanno aspettato la fine della guerra? Perché tanta fretta? Per avere più uomini da mandare al fronte? Tanti di loro, ben presto, infatti, raggiungeranno la maggiore età. E le ragazze? Forse per avere future fattrici di figli per la patria? Che cosa hanno temuto? Forse che, finita la guerra, le famiglie affidatarie ne avrebbero chiesto l’adozione, come è avvenuto con le/gli orfane/i di Sarajevo portate/i in Italia, nel 1992, nei giorni dell’assedio e dei bombardamenti della Nato? Una vicenda questa a cui si è ispirata Rosella Postorino nel suo romanzo Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli 2023), finalista al premio Strega.

L’Ucraina con la guerra ha reso più difficile le adozioni internazionali ma non la pratica dell’utero in affitto. «Nella nostra clinica», una delle tante di Kiev, «non abbiamo smesso di lavorare nemmeno con la guerra – ha detto Irina Isaienko -. Ogni mese sono una trentina le coppie italiane che sfidano le bombe per volare a Kiev nella speranza di avere un bambino e sono anche italiane molte delle donne candidate a diventare madri surrogate. Ogni anno riusciamo a rendere genitori fino a cento di loro e oltre. Costo da 40mila a 65mila euro pagabili anche a rate.» Una vera convenienza per comprare una creatura! Sono questi i “valori” che Zelensky dice di stare difendendo anche per noi? No grazie.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 23 settembre 2023)

Paola Èlia Cimatti, Lo sguardo di Bianca, Ali&No editrice, Premio Clara Sereni 2021.

Paola Èlia Cimatti, Passioni. Poesie scelte 2000-2022, Pendragon, 2022.

Due libri che racchiudono le vicissitudini dell’autrice, femminista bolognese che con ironia e creatività ci invita a entrare in sintonia con la sua condizione di albina e ipovedente.  Dialogano con l’autrice, Laura Minguzzi della Comunità di storia vivente di Milano e Giulia Grigoletto del gruppo di poetesse di Apriticielo!. Lettura scenica di Domitilla Colombo.


Dopo la presentazione seguirà “In ricordo di Donatella Massara” con le amiche della Libreria e del gruppo Donne di parola.

Per acquistare on line Passioni:  https://www.bookdealer.it/goto/9788833645162/607
Per acquistare on line Lo sguardo di Bianca:
https://www.bookdealer.it/goto/9788862542548/607

di Elisa Teneggi


Francesca Coin, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, € 17,50, 288 pp.

Ci sono due tipi di persone: chi ammette di aver desiderato, almeno una volta nella vita, mandare tutto alle vacche e firmare quella lettera di dimissioni da un posto di lavoro usurante, e chi mente. Per convincersene non serve nemmeno sperticarsi in ricerche da segugi negli angoli bui dell’internet. Basta aguzzare vista e udito, e captare i segnali che qualcuno, nello stesso ufficio – od open space, tugurio al neon, o genericamente luogo, non cambia – in cui lavoriamo ne ha avuto abbastanza. Sospiri, occhiaie, sguardi circospetti, risate incontrollate possono essere tutti segnali rivelatori. Ancor più se siamo noi, e non i colleghi, a emetterli. Ci dicono che molto è cambiato negli ultimi anni, sul versante del lavoro. Che poi, sia chiaro: non è che timbrare il cartellino sia salto di gioia, e questo è stato vero da che il lavoro moderno è esistito. C’è qualcosa, però, ultimamente, che non ci torna più indietro. Un guadagno che va oltre il salario offerto. Che parla di sicurezza, gratificazione, possibilità di avvantaggiarsi nella società. Di fiducia reciproca tra chi assume e chi lavora. E che ci fa dire, perentoriamente: Basta.

Ne avrete letto sulla stampa, sia estera che straniera. Molti hanno parlato di Great Resignation, importato in Italia come Grandi Dimissioni. Altri hanno puntato i riflettori su una crisi del mercato del lavoro, imprigionato in molti posti di lavoro disponibili, e nessuno che se li voglia accaparrare. O, variamente, è stata descritta una certa disaffezione verso il concetto stesso di lavoro. È tutto vero. Ma, allo stesso tempo, tutto inesatto (e se lo ammette pure Paul Krugman sul New York Times, che qualche calcolo si è lasciato prendere dall’impulso del momento…).

Ma, una cosa alla volta. Per allargare la fotografia del presente, conviene sempre cominciare dal passato. Nel nostro caso, non serve nemmeno scavare molto all’indietro. I sintomi del bailàn che ha investito il lavoro contemporaneo si trovano infatti appena cinque, sei anni indietro (come sempre, nel mondo anglosassone). Tra il 2018 e il 2019 si rintracciano svariati articoli d’opinione, corredati di dati autorevoli e supportati da pubblicazioni editoriali, che suonano, più o meno, tutti così: ci dicono che il lavoro dev’essere la nostra passione, ed è un problema (un paio di esempi dal New York Times e dall’Atlantic). È la hustle culture, che si potrebbe tradurre come “cultura del fare”, sempre e di più. Persi i grandi punti di riferimento (come la fede religiosa, o politica), ci ritroviamo senza identità. Così, ne cerchiamo una nuova nell’ultima cosa che, crediamo, possa darci valore, e peso, e un ruolo: il lavoro. Bartleby, in fondo, era uno scrivano. Lo dice bene il titolo del racconto lungo di Melville.

Sembrano mondi lontani, distopici, puntata di Black Mirror [serie televisiva sulle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, Ndr]. A pensarci bene, però, è tutto il contrario. Basterebbe farsi un giro per i locali di un’azienda di consulenza, o un’agenzia di comunicazione, per osservare dipartenze alle otto, nove di sera dopo essere entrati non oltre le dieci del mattino. Conversazioni che non hanno percorsi per deviare dagli argomenti di lavoro. Calendari già settati sul countdown “ferie”. Reperibilità anche durante i suddetti periodi di stacco. Appaiati, però, a un orgoglio genuino per la posizione che si ricopre nell’azienda, il cui bene è da anteporre, sempre, al proprio.

Oltre la hustle culture tipica delle professioni intellettuali c’è altra vita, però. Anche questa risucchiata dal mondo del lavoro. Questa volta, con evidenze documentate anche entro i confini italiani. È il caso di molti impiegati nella sanità pubblica nazionale, costretti a turni sfiancanti durante l’emergenza pandemica e oltre, per recuperare i ritardi accumulati in periodo di lockdown. O dei dipendenti della grande distribuzione, assunti con contratti spesso part-time per meno di mille euro e costretti a moli enormi di straordinari non pagati, pena il licenziamento. Ma vicende simili si trovano anche nella ristorazione, il cui lato sfiancante è stato reso ben evidente, ancora una volta, dal ricalcolo forzato della crisi pandemica.

Un problema dunque generalizzato, di radici profonde, esacerbato dalle condizioni di emergenza del 2020. Una bomba a orologeria, figlia di almeno un paio di decenni di cattivo lavoro e pessime pratiche di lavoro generalizzate. Per alcuni, il Covid è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per altri, un’occasione per riconnettersi ai valori e ai desideri che avevano messo in un angolo per inseguire il mito di un lavoro che sapesse soddisfare, totalizzare, e regalare un senso di appartenenza.

Anche a fronte di questa evidenza, è facile pensare che tutto questo non ci riguardi. Che, no, noi sì che siamo perfettamente capaci di mantenere un work-life balance [equilibrio tra vita e lavoro, Ndr] da manuale. Noi sì che non finiremo mai in quella spirale che, di nuovo gli americani, chiamano workaholism (“dipendenza dal lavoro”), e che detta che chi più guadagna più lavora, contrariamente a quanto avveniva uno, due secoli fa, dove i ricchi se ne stavano in panciolle e delegavano, delegavano, delegavano.

Certo, anche noi non vediamo l’ora di andarcene in vacanza. Certo, anche noi abbiamo scelto il nostro lavoro per passione. D’altronde, è vero quello che dicono: ama il tuo lavoro, e non lavorerai nemmeno un giorno della tua vita. Se siete di questi ranghi, fermatevi. Mettete in pausa qualunque cosa stiate facendo. E aprite Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprendersi la vita, di Francesca Coin, pubblicato quest’anno da Einaudi. Fatelo anche solo se volete saperne di più sull’argomento. No, in realtà, fatelo e basta. Perché il lavoro di Coin (no giochi di parole), è molto più che un riassunto maneggevole di come siamo arrivati qui, e da che cosa ci siamo fatti fregare nel percorso. Vi spiegherà perché, anche se Oltreoceano ci battono sempre sul tempo, le Grandi Dimissioni non sono una specifica del mercato del lavoro statunitense, o britannico, o una conseguenza di raffinati calcoli economici da premio Nobel. Ma che colpiscono e hanno colpito dovunque si fosse instaurato un capitalismo perverso, più simile allo schiavismo. Capace di levare dall’equazione la sua stessa premessa di partenza: guadagna tanto, spendi di più, e sarai felice.

Un viaggio lungo, con un punto di partenza chiaro: «Il lavoro salariato», come scrive l’autrice rifacendosi al Capitale di Marx, «non è una condizione naturale. È una relazione sociale che dipende dall’accesso alle condizioni materiali di riproduzione. […] È per questo che, secondo alcuni commentatori, la disponibilità di lavoro salariato dipende dalla minaccia della fame». E poi cita il politologo George Kent: «Porre fine alla fame a livello globale sarebbe un disastro. Se non ci fosse la fame nel mondo, chi arerebbe i campi? Chi raccoglierebbe le verdure? Chi lavorerebbe negli impianti di trasformazione? Chi pulirebbe i nostri bagni? Dovremmo produrre cibo e pulire i servizi igienici. Non c’è da stupirsi che le persone con un reddito alto non si affrettino a risolvere il problema. Per molti la fame non è un problema: è una risorsa». Il che equivale a dire che, con le parole del politico inglese Edward Gibbon Wakefield, sempre citato da Coin: «Dove la terra è molto a buon mercato e tutti gli uomini sono liberi, dove ognuno che lo desideri può facilmente ottenere un pezzo di terra per sé, il lavoro è carissimo».

È in queste poche righe che si riassume il fumo da prestigiatore che circonda il lavoro moderno, cioè capitalista: un rapporto di schiavitù volontaria sulla base di un accordo monetario, con una scala gerarchica ben definita, che mira a mantenere la maggior parte della popolazione in una relazione di subordinazione per abbassare i costi del lavoro stesso e mantenerlo, nei fatti, possibile. Un po’ il ragionamento che, in chiave femminista, conduceva Donna Haraway nel suo Manifesto Cyborg (Feltrinelli, 2018), poi ripreso da Helen Hester in Xenofemminismo (Nero, 2018): far credere a qualcuno che “tutto quello che può fare è questo”, per esempio immettere numeri in un file Excel, conduce alla di costui subordinazione. Siamo dipendenti dal lavoro, ma anche da chi, negli effetti, quel lavoro ci concede.

Perché la strategia funzioni, deve essere bene, e costantemente, oscurata. A tal fine ci sono due strade principali, e collimanti: la creazione di una mitologia del lavoro, attraverso l’employee engagement, o «il processo capace di “imbrigliare l’identità delle persone nel proprio ruolo produttivo, con la speranza che questa si appaghi attraverso il lavoro”»; ne risultano devozione, sacrificio, e un transfer pericoloso sull’azienda dei valori di fedeltà e abnegazione tipicamente legati alla famiglia e alle relazioni affettive. E l’elezione a eroe degli individui lavoranti che aderiscono perfettamente a questo programma di “uomo nuovo”. Ve lo ricorderete: la celebrazione di fuochi fatui come la “meravigliosa storia della bidella che pur di lavorare fa A/R in Frecciarossa tra Napoli e Milano, tutti i giorni”, ha fatto scalpore, nelle news e tra i meme, per un po’. O lo straordinario caso del rider che «fa circa cento chilometri al giorno in bicicletta, con un borsone sulle spalle e consegna pizze e pranzi e spesa. Guadagna duemila euro netti al mese e, certi mesi, anche quattromila. Uno stipendio da manager. Ed è felice». Entrambi i casi, guarda un po’, prontamente smentiti.

La domanda centrale al volume di Coin, insomma, è ben posta: come e quando il lavoro è diventato l’attività centrale della nostra vita? Come e quando la domanda più comune, e importante, da fare a un bambino è diventata che cosa vuoi fare da grande? Come e quando i sogni sono diventati del singolo, non della comunità, e dunque molto più abbindolabili dalla retorica del lavoro come chiave per aprire tutte le porte? E, più nello specifico: da quand’è che il lavoratore deve dimostrare devozione totale verso il datore di lavoro, mentre il datore di lavoro è libero di trattarlo come più gli torna comodo?

La risposta arriverà, dopo una meticolosa presa in esame delle peculiarità produttive della contemporaneità e, come da titolo, un’immersione ragionata nel fenomeno ampio, variegato, passato sotto il nome di Grandi Dimissioni, sia in Italia che all’estero. Dopo aver ascoltato, e raccolto, le testimonianze di molti lavoratori che hanno detto basta e che si sono trovati a dover scegliere tra la propria salute o la salute dell’azienda malata per cui si stavano sacrificando.

La risposta arriverà. E verrà fuori che, come spesso accade, le parole sono strumenti di comodo per ridurre la realtà ai suoi minimi termini. O che, detto altrimenti, “Grandi Dimissioni” è un sintagma conveniente, ma fa pensare a tutte le cose sbagliate. Non è vero, per esempio, che il reddito di cittadinanza ha a che fare con l’addio di molti lavoratori. Non è vero che il concetto di lavoro sia passato di moda, nonostante quanto paventato dalle sfere di cristallo dell’Intelligenza Artificiale e dai Doomsday prepper [preparati al giorno del giudizio o a una catastrofe, Ndr]. Non è vero che non è mai successo prima – in effetti, il primo uso della frase “nessuno vuole lavorare più” risale non al 2021, ma al 1860. Non è vero che chi lascia, lascia per dire adiós, vivendo cioè di rendita sulle spalle di qualcuno o dello Stato. Vien fuori, anzi, che la Great Resignation si potrebbe inquadrare meglio come Great Reshuffling [grande riorganizzazione o rimpasto, Ndr], cose che vengono spostate da una parte e dell’altra (per esempio, dal lavoro dipendente al lavoro indipendente, o dall’Italia all’estero).

Vien fuori, soprattutto, che Le grandi dimissioni di Francesca Coin è un testo prezioso, ben centrato, che si va ad aggiungere a importanti omologhi internazionali come Bullshit Jobs di David Graeber, in cui il titolo dice un po’ tutto. E che quanto si legge non è solamente un saggio composto con cura, contezza e maestria. Ma anche un piccolo decalogo di sovversione per tempi fiacchi e conformisti. Raro trovarne, come sapete.


(La Balena Bianca, www.balenabianca.com, 22 settembre 2023)

di Lucia Capuzzi


La scalatrice era in Europa quando esplosero le proteste anno fa. E non è più tornata a casa. Il Paese ribolle nell’anniversario della morte di Mahsa: fermato e rilasciato il padre della giovane. Nasim Eshqi è una delle pioniere del free climbing


«La Rivoluzione ha già vinto e il regime lo sa. Perché vive nelle menti e nei cuori degli iraniani. Mentre gli ayatollah restano al potere solo grazie alle armi». Nasim Eshqi ama volare alto. Con le parole e con il corpo. Del resto, il suo nome vuol dire “vento leggero”. Questa quarantenne dai lunghi capelli neri, rigorosamente in vista, è una scalatrice che ha aperto oltre cento strade ad alta quota nel mondo. Inclusa una in Italia, sulle Dolomiti del Brenta, al Tonale. Sport che non solo pratica ma di cui è anche allenatrice. «Il free-climbing è un’attività considerata maschile ovunque. Ancor più in Iran». Nasim è, però, abituata a lottare per ciò che ama e quello in cui crede. La montagna, dunque. E la libertà delle iraniane. «Per questo ho deciso di restare in Europa. Ero impegnata in una scalata delle Alpi francesi quando sono esplose le proteste per la morte di Mahsa Animi. Immediatamente, il regime ha risposto con una sfilza di arresti. Se fossi rientrata, sarei finita in cella anch’io». La sua storia era diventata famosa nel 2020 grazie al documentario Climbing Iran dell’italiana Francesca Borghetti, in cui appare con i capelli al vento. Fino ad allora, però, con un po’ di discrezione, era riuscita ad andare avanti a Teheran. Ora, la sua notorietà la rendeva un bersaglio fin troppo facile. «Sono più utile alla causa da libera».

In che modo da qui contribuisce alla rivolta?

Raccontando la verità sul mio Paese. Smentendo, cioè, le bugie degli ayatollah. Il movimento che ha portato alla Rivoluzione del 1979 era plurale. La gran parte combatteva per la libertà, non per la creazione di un regime islamista. Khomeini è riuscito a prendere il potere con la forza. Per oltre quarant’anni, la gente ha subito per paura, non per una reale adesione. Pian piano, l’esasperazione è cresciuta fino a diventare dirompente nelle generazioni più giovani, quelle con maggiore istruzione e conoscenza del mondo, grazie a Internet. Il fuoco era già acceso quando Mahsa Amini è stata arrestata per avere indossato male il velo. La sua morte è stata il vento che l’ha fatto divampare.

Come è riuscita a convincere la sua famiglia a lasciarla diventare un’alpinista?

Non arrendendomi di fronte ai no. Ho scoperto lo sport da bambina, durante un campo estivo organizzato dalla scuola. Ho convinto i miei a farmi continuare garantendo che non avrei trascurato lo studio, a cui tenevano molto essendo insegnanti. A lungo ho fatto kickboxing poi, a ventitré anni, sono passata al free-climbing, diventando una delle pioniere. Quando ho cominciato a gareggiare a livello agonistico e sono diventata un’istruttrice, ho iniziato ad essere pagata. A quel punto ho avuto l’indipendenza economica per continuare.

Che cosa ama della montagna?

La libertà. Man mano che sali, ti lasci la polizia e i controlli alle spalle. Così potevo togliere il velo: ecco perché nelle foto diffuse sui social sono sempre senza. Prima delle proteste per Mahsa, spesso, i guardiani della rivoluzione facevano finta di non vedere anche perché ho sempre cercato di non dare troppo nell’occhio. In vetta mi sentivo – e mi sento, ogni volta – libera. La montagna, inoltre, non discrimina. Non conta il genere, la posizione sociale, le convinzioni: tutti possono cadere.


(Avvenire, 16 settembre 2023)

Redazione visioni


L’Icfr, la Coalizione internazionale a supporto dei cineasti a rischio, ha comunicato ieri la propria vicinanza alla regista polacca Agnieszka Holland condannando gli spaventosi attacchi contro di lei e contro il suo film, Green Border, premio speciale della giuria alla scorsa Mostra di Venezia – e prossimamente nelle sale italiane. Il ministro della giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, ha infatti paragonato il film a quelli di propaganda nazisti: «Nel Terzo Reich, i tedeschi mostravano i polacchi come banditi e assassini. Oggi hanno Agnieszka Holland per quello» ha dichiarato.

L’Icfr ha lanciato a un appello a tutta la comunità: «Sosteniamo fermamente Agnieszka e sosteniamo pienamente la recente dichiarazione della European Film Academy. In tutto il mondo molti artisti sono stati e continuano a essere oggetto di attacchi. La Coalizione internazionale per cineasti a rischio e le sue istituzioni fondatrici, l’International Film Festival Rotterdam, l’International Documentary Film Festival Amsterdam e la European Film Academy, chiedono la fine immediata dell’ostilità e delle minacce contro Agnieszka Holland. Da parte nostra rinnoviamo ancora una volta il nostro sostegno verso il suo lavoro e sollecitiamo un impegno critico nei confronti delle questioni importanti del nostro tempo, così come sono visibili intorno a noi in Europa e nei film realizzati qui. Crediamo fortemente che la cultura di ogni società ne tragga beneficio. Chiediamo rispetto e sicurezza per tutti gli artisti».


(Il manifesto, 21 settembre 2023)

di Giansandro Merli


«I casi vanno analizzati singolarmente, per i richiedenti asilo le tutele sono ancora maggiori. Il trattenimento è solo l’extrema ratio». La giudice Silvia Albano commenta così la proposta del governo di detenere in massa tutti i migranti sbarcati. Albano è giudice presso il tribunale civile di Roma nella sezione specializzata in diritti della persona e immigrazione ed è componente del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati (Anm).

La Presidente del Consiglio Meloni dice che chiunque entra illegalmente in Italia deve andare nei centri di permanenza, rifugiati compresi. Giuridicamente è possibile?

No, la direttiva rimpatri (2008/115/Ce) stabilisce che lo straniero può essere trattenuto solo se non ci sono altre misure meno coercitive e solo ai fini di preparare il rimpatrio. Tale privazione della libertà personale deve essere motivata e avere la durata più breve possibile. Quando il rimpatrio non è fattibile, la persona va liberata. Se non ci sono accordi con il paese di provenienza il trattenimento non può proprio essere disposto. Quindi non tutti coloro che arrivano in Italia possono essere indiscriminatamente trattenuti nei Cpr. Ogni singolo caso deve essere esaminato in modo specifico.

C’è una differenza tra il trattenimento dei migranti irregolari nei Cpr e quello dei richiedenti asilo per le procedure accelerate di frontiera?

Le procedure accelerate prevedono il trattenimento allargandone di molto le possibilità, ma sono una strada differente. Se il migrante chiede asilo diventa inespellibile fino a una decisione di regola definitiva. Nel caso di trattenimento dei richiedenti asilo non si applica la direttiva rimpatri, ma la direttiva accoglienza (2013/33/Ue), che prevede criteri ancora più stringenti. Secondo il diritto Ue, a cui quello nazionale deve conformarsi, gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo fatto di essere richiedente asilo. È una misura eccezionale, residuale e non generalizzabile. Di nuovo: l’extrema ratio.

Per i richiedenti quant’è il massimo?

Dodici mesi. È già previsto così nell’ordinamento italiano. Ma non accade mai che si resti nei Cpr tutto quel tempo. La legge 50/2023 (cd Cutro) stabilisce che si possono creare spazi appositi negli hotspot per trattenere i richiedenti asilo in caso di procedure in frontiera. Ma non può avvenire in modo indiscriminato neanche in tali casi, serve comunque la convalida giudiziaria che analizza la posizione individuale.

Tornando ai non richiedenti. Dicevamo che senza accordo di rimpatrio non può esserci trattenimento nei Cpr, ma ciò avviene.

In teoria non dovrebbe, ma in pratica qualche volta accade.

Le convalide dei giudici di pace, che non possono condannare al carcere gli italiani, si ripetono meccanicamente.

Quando le persone trattenute fanno domanda di protezione internazionale finiscono davanti a noi dopo essere passate dal giudice di pace. Capita di vedere provvedimenti molto poco motivati.

L’esecutivo sta lavorando a un nuovo decreto per limitare il riconoscimento della minore età. C’è un’emergenza «falsi minori»?

Non mi risulta. Peraltro tutte le convenzioni internazionali impongono una tutela molto stringente delle persone minori di età. In caso di dubbio la minore età di regola si presume, salvi poi tutti gli accertamenti necessari.

Le procedure introdotte dalla legge Zampa si prestano a imbrogli?

Va chiesto a chi lavora nei tribunali per minorenni. Davanti a me non è mai arrivato nessuno che si era dichiarato minore e poi fosse stata accertata la falsità dell’età dichiarata. Succede spesso il contrario: le vittime di tratta con meno di 18 anni dichiarano di essere maggiorenni per non finire in un circuito di accoglienza più controllato ed essere sottoposte a tutela. È capitato di trovarsi davanti bambine che avevano dichiarato di essere maggiorenni.

Ieri giornali di destra e il Sindacato autonomo di polizia l’hanno attaccata per una sentenza sui respingimenti lungo la rotta balcanica. L’accusa è che solo in Italia la magistratura ostacola la gestione dell’immigrazione. È vero?

In Italia la magistratura ha il compito tutelare i diritti fondamentali delle persone. Il provvedimento sui respingimenti informali è motivato da un ragionamento giuridico e richiama diverse norme che hanno valenza sovraordinata. In ogni caso è stata decisa la posizione di un singolo ricorrente, certo un provvedimento giurisdizionale non poteva porre un divieto generale. Se il Viminale aveva a suo tempo deciso di interromperli forse aveva condiviso quel ragionamento. Mi risulta che il ministro Piantedosi abbia successivamente inviato una circolare per riattivarli, ma pare che ora sia la Slovenia a non volerli. Comunque, il giudice nei suoi provvedimenti si occupa di diritti e non di politiche migratorie. Se le politiche di qualsiasi governo ledono i diritti sanciti da norme sovraordinate e sovranazionali, oltre che dalla Costituzione italiana, il giudice ha il dovere di tutelarli. Ferma restando la legittimità della critica ai provvedimenti giurisdizionali, ci mancherebbe.

Ce l’hanno con lei?

Noto che in questo caso vengo definita «toga rossa», ma gli stessi giornali tessono le mie lodi quando rigetto la domanda di risarcimento del danno per diffamazione proposta nei confronti di politici evidentemente a loro vicini, proprio a tutela del diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero.


(Il manifesto, 20 settembre 2023)

realizzata da Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti


La grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile, oggi rimossa, nel nome di un nuovo neutro; le parole sostituite: “donna” con “persona con utero” e “maternità” con “gestazione”; mentre si invoca un “rispetto della natura” in nome dell’ambiente si professa una “rivoluzione della natura” per l’essere umano; la rimozione del limite di ciò che è dato. Intervista a Olivia Guaraldo.Olivia Guaraldo insegna filosofia politica all’Università di Verona. È Studiosa di Hannah Arendt, a cui ha dedicato due monografie, e dei femminismi contemporanei. Ha curato e introdotto due edizioni italiane di testi di Judith Butler e ha scritto sui rapporti fra il femminismo della differenza e le gender theories. Dirige il Centro Studi politici Hannah Arendt presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona.

Vorremmo proseguire il dibattito sul tema dell’identità di genere aperto con la lunga intervista a Kathleen Stock uscita nello scorso numero.
Kathleen Stock tocca questioni cruciali, la prima delle quali è la forte censura che avviene nel contesto accademico britannico, per chi solo mostra di avere posizioni diverse rispetto a quelle dominanti sul gender. Personalmente sono a conoscenza di censure analoghe, magari non così plateali, anche in Italia. Per esempio, verso chi si occupa di questioni legate alla transizione dal punto di vista giuridico: se esprimi qualche dubbio, una lieve perplessità sulla facilità con cui gli adolescenti possono sottoporsi a terapia ormonale, vieni immediatamente escluso dal dibattito, ostracizzato, silenziato.
Da un punto di vista culturale forse è interessante chiedersi come mai si sia arrivati a instaurare queste nuove forme di censura e di dogmatismo. Cioè, all’apice della vittoria del relativismo, del multiculturalismo, della critica all’eurocentrismo, insomma, nel momento storico-culturale in cui ci troviamo, in cui ogni credenza viene messa in discussione, è come se risorgesse il bisogno di un nuovo dogmatismo. Il che è paradossale perché le teorie che propongono uno smantellamento della dualità dei sessi sono il frutto della filosofia post-moderna e decostruzionista, di una filosofia che mette in discussione, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, i concetti di uomo, soggetto, coscienza. Si tratta di un percorso anche concettuale che inizia con la volontà di smantellare, di decostruire e però, alla fine di questa parabola, scopriamo un rinnovato bisogno di dogmatismo o di quello che potremmo chiamare un nuovo conformismo.
L’altra faccia di questo fenomeno è che le forme ultime, più estreme, di radicalismo vengono oggi identificate con queste posizioni, per cui appunto la tua identità sessuale è quella che dichiari o che intenzionalmente assumi, indipendentemente da ciò che sei materialmente, biologicamente.
Quello che voglio dire è che oggi queste posizioni sono interpretate come quelle politicamente più radicali, e non solo rispetto al sesso o al femminismo, ma politicamente più radicali in genere. Come se la politica fosse tutta incentrata sulla capacità di smantellare la “natura” e assumere una identità che è solo intenzionale; come se, in altre parole, la politica coincidesse del tutto con la questione dell’identità, in una prospettiva molto soggettiva, iper-individualizzata direi. Come facciamo a portare avanti politiche ambientali se siamo così concentrati solo sulla percezione di noi stessi? Mi sembra che ci sia un grande scollamento in questo senso.
La preoccupazione è che, paradossalmente, si torni indietro. Se la donna è la femmina adulta della nostra specie, questo nulla dice su chi e come dobbiamo essere. Se invece questo termine è totalmente avulso dalla dimensione corporea, biologica, con quali criteri definiamo l’essere donna? Quali caratteristiche dovrebbe avere? È una strada insidiosa ed è emblematico che la rappresentazione del genere di arrivo di personaggi pubblici che hanno fatto la transizione tradisca un’idea di donna e di uomo molto stereotipata, conformista.
La questione femminista centrale è proprio questa. È curioso che la traiettoria intrapresa da quelle riflessioni abbia portato a un esito non previsto dalle stesse femministe. Dal punto di vista di molte femministe radicali, il femminismo ha liberato la parola donna dal suo uso patriarcale, stereotipato e legato a un preciso ruolo.
Il femminismo ha riempito la parola donna di ulteriori significati, ma soprattutto ha aperto quella parola a una dimensione di libertà. Per me la parola più importante del femminismo non è uguaglianza, ma libertà. Ebbene, siamo passati da questa apertura della parola donna, la grande conquista del femminismo, a una sua chiusura. Invece, il femminismo ci ha insegnato che anche le donne che non si adattano perfettamente allo stereotipo del femminile sono donne. Questa è la grandezza del femminismo, di dare dignità alla parola donna nella sua autonomia, non più solo come qualcosa di accessorio all’uomo o al maschile. Già negli anni ’70 una parte del pensiero femminista radicale (su questo si veda F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Pearson, 2022) riteneva che fosse necessario abbandonare la parola donna perché troppo compromessa con il patriarcato, troppo dipendente da esso. Invece, il portato cruciale del pensiero della differenza è stato di voler valorizzare quella parola -donna- e con essa le esperienze e l’autonomia del femminile. Tutto ciò però poteva darsi solo se il femminile cominciava a interrogarsi prescindendo dal maschile. Questa è stata la strada intrapresa dal separatismo femminista.
Oggi invece è come se tutta quella complicata vicenda della parola donna, della sua apertura, della sua liberazione, non ci fosse stata, per cui si torna a un uso di quella parola assolutamente tradizionale, conservatore, se vuoi addirittura reazionario, patriarcale. Come se essere donna rimandasse immediatamente solo alla eterosessualità, all’iperfemminilizzazione, ai ruoli di madre, moglie, seduttrice etc… È questo che spesso non si vede o non si vuole vedere.
C’è un’altra questione importante, che il :pensiero della differenza ha messo in evidenza ed è una questione filosofica. Noi abbiamo lottato per arrivare a riconoscere che “l’uomo”, inteso come il neutro universale, non va bene perché è un termine che pretende di valere per gli uomini e le donne, includendo le donne nel neutro della parola “uomo”. Il lavoro del femminismo è stato quello di dire: esiste anche l’essere umano sessuato al femminile con delle sue specificità, delle sue differenze, con un portato culturale e simbolico diverso. Si tratta di dare valore e dignità a questa differenza, segnalandone l’esistenza, persino la vitalità, senza ovviamente dettare a priori i caratteri o i modi in cui questa differenza si poteva manifestare. Chi accusa il pensiero della differenza di essere “essenzialista”, cioè di porre un’essenza del femminile come normativa, mistifica la questione. Che è semmai un’altra. Il pensiero della differenza dice: c’è un essere umano che si spartisce, prevalentemente, in due sessi. Del resto, la storia del patriarcato è segnata da una certa interpretazione maschile di questa differenza. Il femminismo della differenza vuole dare un significato nuovo a questa differenza, che valorizzi le donne, ma che smascheri anche la pretesa del termine “uomo” di parlare per entrambi i sessi. La logica filosofica dell’Occidente invece non accoglie questa originarietà del due: “Se all’Uomo con la maiuscola si aggiunge la donna, allora perché non aggiungere anche altri?”. Come se, in altre parole, l’emergere della differenza aprisse a infinite differenze. Come se questa rottura dell’uno portasse immediatamente all’apertura ai molti, e l’esito di questa operazione concettuale è una nuova cancellazione della donna come umano originario.
Inoltre, nella dialettica uno-molti la donna viene assimilata alle minoranze sessuali o a una categoria sociale, e questo è sbagliato. La portata radicale del pensiero della differenza, che non è un pensiero sociologico, bensì filosofico, sta proprio qui: c’è un’originaria differenza di corpi. Questo è un fatto anatomico, fisiologico, ormonale, ma non si tratta di definire con riduzionismo biologista l’umano a partire da questa differenza, ma nemmeno negarla. Si tratta di una differenza che è anche simbolica e culturale. Il problema è come dare significato a questa differenza in maniera non patriarcale. Il patriarcato ha sempre dato significato a questa differenza sessuale: le donne sono subordinate agli uomini, fanno i figli, sono impolitiche… La sfida femminista era volta a far sì che questa differenza significasse in maniera diversa.
Adesso noi vediamo arrivare al pettine tanti nodi perché quella differenza sessuale alla fine non è mai stata accettata fino in fondo. Il pensiero Lgbtq in qualche modo vuole superare questa originarietà del due e appunto dire che ci sono i molti; maschile e femminile, l’originario spartirsi in due sessi, sarebbe in realtà una imposizione eteronormativa, che quindi opprime e normalizza chi non si riconosce in questa dualità. Da lì si arriva a postulare la categoria di queer, che è ciò che appunto non si conforma al binarismo dei sessi. A mio avviso, il problema di questa posizione è che nel voler liberare le minoranze sessuali dalla discriminazione -cosa giustissima, per altro- finisce per cancellare non tanto l’uomo, categoria che anche le femministe volevano mettere in discussione, ma soprattutto la donna. Questo lo si vede nelle operazioni linguistiche che vogliono adottare, l’asterisco o la schwa o l’espressione “persona con utero” anziché donna.
Ora non è che le femministe siano delle bigotte. La rivolta delle femministe vecchio stampo o terf, come ora vengono chiamate, non è certo contro le pratiche sessuali non eterosessuali, ma contro la cancellazione delle donne!
In effetti anche il ddl Zan metteva assieme donne e disabili…
Esatto. È come se non fossimo mai usciti dal neutro universale. Gli effetti di quella impostazione sono ancora molto visibili: vige un modello di umano che non viene minimamente scalfito dal fatto che tutto quello che non è a esso riconducibile sia minoranza.
Ripeto, una delle sfide del pensiero femminista, dal punto di vista filosofico, era mettere in crisi un certo modello di soggettività e far emergere la legittimità teorica di altri modelli di soggettività: relazionale, dipendente, eccetera e non sempre e solo l’indipendenza, l’autonomia, la razionalità. Invece è come se fosse stato codificato solo quello come modello legittimo, sovrano.
La maternità in questo quadro che fine fa? Emerge quasi un’avversione anche per questa parola…
Il femminismo nelle sue molteplici forme ha avuto sempre un rapporto ambiguo con la maternità. Per molte femministe l’idea era: solo se superiamo questo “destino biologico” -per citare Simone de Beauvoir- saremo veramente libere. Questa è stata la posizione di molta parte del femminismo, anche radicale. Poi invece, sempre dentro al femminismo, per dire quanto ricca è questa galassia, ci sono state importantissime teorizzazioni sulla maternità, a partire dal testo di Adrienne Rich Nato di donna,del 1976, dove l’autrice fa una distinzione fra la maternità come istituzione e la maternità come esperienza. Attraverso una ricostruzione della storia della maternità, ma anche attraverso un processo di presa di consapevolezza di sé, come donna, femminista. Ecco, Rich dice: dobbiamo mettere in discussione l’istituzione patriarcale della maternità, riappropriandoci invece dell’esperienza esclusivamente femminile della maternità. Lo dice una donna che è sia madre sia severa critica del patriarcato e teorizzatrice del pensiero lesbico.
A partire da Rich c’è tutto un filone che valorizza la maternità come esperienza femminile. Questo è un elemento importantissimo del femminismo. Proprio quando negli anni Settanta la maternità non diventa più un destino ma una scelta o appunto un percorso di libertà, c’è la possibilità di attribuirle altri significati.
Dalla valorizzazione dell’esperienza della maternità in chiave femminista emergono successivamente interessanti filoni di pensiero che tematizzano la relazionalità originaria di ogni essere umano, la sua originaria vulnerabilità e quindi la necessità di pensare l’etica della cura.
Molta riflessione contemporanea su vulnerabilità, cura, relazione scaturisce dalla riflessione femminista.
Il tentativo del pensiero della differenza ma anche di parte del femminismo radicale degli anni Settanta è stato quello di riappropriarsi della maternità come esperienza incarnata, vissuta, reale e concreta.
Adesso invece siamo arrivati all’aberrazione di chiamare la maternità “gestazione”, un’operazione linguistica per cui l’esperienza della maternità, cioè dell’avere nel proprio corpo una forma di vita che poi diventa un essere umano, viene definita con un termine medico, scomponendo il processo di creazione della vita in varie fasi, così da smantellare del tutto l’esperienza complessiva della maternità, che non è solo biologica o ormonale.
Qui si apre tutta la questione del dibattito sulla gestazione per altri, detta anche maternità surrogata o utero in affitto.
Quello che personalmente trovo davvero triste è questo. I dispositivi tecnologici e scientifici sembrano oggi inarrestabili, per cui sinceramente penso che sia difficile fermarli, o che sia per lo meno complicato. Ciò che mi stupisce e che mi delude è che una parte della sinistra assuma in maniera del tutto acritica questa stessa direzione, presentandola come un’esperienza di libertà o di diritti.
È chiaro, ad esempio, che la chirurgia plastica, la possibilità di modellare il proprio corpo, anche senza parlare di transizione sessuale, è un segno dei nostri tempi. Però non penso che sia una battaglia di sinistra potersi rifare il seno, le labbra o gli zigomi. Come mai invece è diventata una battaglia di sinistra quella di assecondare questi dispositivi, e il mercato che c’è dietro, facendola passare per qualcosa di progressista, in materia di maternità surrogata? Questo per me è un grande mistero. Soprattutto perché ci sono interessi economici e processi di sfruttamento molto evidenti nei mercati della gestazione per altri e l’argomento contrario che la ammette, ma solo nella forma del dono, mi sembra una grande ipocrisia. Non puoi donare un altro essere umano; è come trasformare l’essere umano in un oggetto che tu produci e doni a qualcun altro. Filosoficamente è molto problematico: si può decidere di produrre un essere umano per donarlo?
Su questo riflette in maniera filosoficamente interessante Alessio Musio sulla rivista “Vita e Pensiero”, affermando che “se ogni persona può sempre donare qualcosa di sé, questa facoltà di dono non può estendersi al dono di un’altra soggettività (il figlio). A poter essere donate sono solo le cose e non le persone”. Questa è un’importante riflessione sul piano etico che almeno segnala un problema piuttosto grande. Nel dibattito si fa tanto parlare del benessere di bambine e bambini nati dalla surrogazione, nei cui confronti chi vuole vietare la surrogata non ha alcun rispetto. Eticamente però, bisognerebbe chiedersi che rispetto hanno per i bambini e le bambine coloro che li commissionano ad altri o se li fanno “donare”? Quale rispetto per chi è coscientemente progettato per essere donato o venduto? Mi sembra tutto incongruente, se non folle.
Io trovo lo stesso processo linguistico che sostituisce maternità con “gestazione” molto violento: non si parla più della madre, ma della portatrice, della donatrice di ovuli… Una nuova cancellazione delle donne e della loro esclusiva potenzialità generativa: mi pare che si compia qui una nuova ingiustizia storica. Io penso a tutte le donne del passato che hanno lottato per veder riconosciuta la propria esistenza, la propria identità. È come se adesso con un colpo di spugna tutto venisse cancellato.
E badate bene, non è solo una questione dei cattolici, interessati ovviamente all’aspetto etico, e nemmeno una questione del femminismo “eterosessuale”. È interessante, infatti, che siano le lesbiche le donne che più soffrono di questa cancellazione. Anche in Italia la posizione di Arcilesbica rispetto sia all’identità di genere sia alla maternità surrogata è molto chiara, molto forte e ha avuto un ostracismo pazzesco da parte di tutto il movimento Lgbt.
C’è questo bellissimo libro di Arcilesbica, Noi le lesbiche, Preferenza femminile e critica al Transfemminismo (Il dito e la luna, Milano, 2021) un testo sia teorico che di racconto di come sono andate le cose dentro il movimento dopo la grande battaglia per le unioni civili. Il fatto che sin dal giorno dopo si sia subito passati a discutere del tema della maternità surrogata è stato vissuto come una profonda violenza dentro il movimento.
Come si spiega?
Carla Lonzi negli anni Settanta scrive contro un femminismo dell’uguaglianza e della parità perché  in quella operazione dell’emancipazione lei vede una trappola di assimilazione. Alla fine per avere gli stessi diritti degli uomini o di un ipotetico soggetto neutro dobbiamo in qualche modo rinunciare a essere donne, diventare come i maschi. Questo processo di assimilazione è un processo di cancellazione della differenza ed è esattamente quello che avviene adesso per esempio in queste operazioni linguistiche, dove la parola donna viene rifiutata perché ritenuta non inclusiva.
Anche qui c’è un ritorno. C’è di nuovo un fastidio per la differenza femminile, per la differenza sessuale e quindi una sua neutralizzazione proprio nel doppio senso di neutralizzazione linguistica ma anche di neutralizzazione politica.
Fino a che le donne sono soggetti vulnerabili, deboli, da tutelare, rientrano cioè nel paradigma familiare di una “minoranza”, allora va bene parlare di violenza contro le donne o di ingiustizia e discriminazioni. Se invece le donne vogliono essere riconosciute come soggetto alla pari degli uomini, nella loro differenza, ecco che questo non va più bene e all’improvviso la donna diventa un soggetto che esclude altri soggetti!
Se ci pensate è curioso. Qui ci sono tanti cortocircuiti anche dal punto di vista concettuale. Questo lo dico spesso alle mie studentesse con cui ho sovente delle discussioni. Loro sarebbero più orientate verso una prospettiva diciamo queer, le nostre discussioni sono spesso molto accese e interessanti, istruttive anche per me.
Se mi limito a raccontare in classe il percorso di discriminazione subìto dalle donne nella storia, le ingiustizie nei loro confronti, eccetera, loro mi seguono con interesse ed entusiasmo. Se però faccio un discorso più “positivo” sulle donne, in un’ottica del pensiero della differenza sessuale, affermando che c’è una differenza femminile che va valorizzata, subito si ritraggono, diventano sospettose, perché interpretano la differenza sessuale come una sorta di essenzialismo. In realtà il femminismo della differenza non fa un discorso essenzialista.
Anche questo è interessante: nella riflessione anglo-americana si tende a intendere la differenza sessuale solo come differenza biologica, come qualcosa, appunto, di corporeo, biologico, e quindi muto e da superare. Mentre il pensiero della differenza sessuale, come ho già detto, è all’incrocio fra il materiale, il corporeo e il culturale o simbolico e una delle sue sfide è dire: proviamo a pensare questa differenza sessuale al di fuori di come il patriarcato l’ha pensata.
Dal punto di vista filosofico questo è un percorso che è stato iniziato ma che non si è concluso. La differenza sessuale non è qualcosa che si possa stabilire una volta per tutte a priori, su cui dettare un dogma, una norma. L’assunto di base è quello di un’apertura che deve costantemente essere riempita di significati, a partire però da un’incarnazione corporea in un corpo sessuato, a partire da una spartizione nei due sessi del maschile e del femminile e dove ciascun sesso dovrebbe pensarsi a partire dalla sua parzialità, non da un’ipotetica universalità. È una critica al modello neutro universale che tutto ingloba.
Questa idea di una parzialità che però è radicata in un corpo e in una differenza è secondo me un punto di partenza molto proficuo, che permette di fare molte cose: per esempio, di non ridurre il femminile alla sua differenza biologica, ma nello stesso tempo di non cancellare quella differenza biologica, di non far finta che non ci sia. È un processo che merita di essere ulteriormente esplorato. Proprio per aprire quel significante donna a una libertà che io ancora non vedo. Vedo piuttosto ritornare prepotenti gli stereotipi. Anche in questa apparente apertura di tutti i sessi e tutti i generi, è come se ci fosse una specie di strana nostalgia o attaccamento a una definizione rigida di che cosa è una donna. Come se ci fosse il bisogno di stabilire che cos’è una donna in maniera ferma e stabile, per poi rifiutare dal punto di vista della fluidità e del queer proprio quel femminile stereotipato. Si tratta però, questo il paradosso, di un femminile molto patriarcale, come se il femminismo non ci fosse stato.
Spesso i soggetti che animano le manifestazioni diciamo queer condividono la lotta per l’ambiente. Vorrei introdurre il tema del limite. Abbiamo pensato che grazie alla scienza e alla tecnologia si potesse abbattere qualsiasi limite e proprio la crisi climatica ci ha fatto prendere coscienza della situazione. Di là si parla però di rivoluzione contro la natura, quindi di abbattimento dei limiti. Non c’è una specie di delirio di onnipotenza in questo affidarsi alla scienza e alla tecnologia in nome di un’ansia di liberazione. Sembra tutto paradossale…
Ho letto di recente una recensione all’ultimo libro del filosofo Paul B. Preciado e riflettevo sul fatto che molto spesso questa messa in discussione dei ruoli tradizionali di genere o delle identità di genere in alcuni di questi teorici è affiancata a una critica ai modelli di sviluppo della società occidentale e quindi alla crisi climatica. Anch’io vedo qui una forte contraddizione. Come puoi condurre in maniera così esasperata la tua battaglia contro la “natura” che hai dentro di te, e di cui noi siamo delle specificazioni, e simultaneamente lottare per il rispetto della natura? Come conciliare una battaglia tutta concentrata su di sé, sulle proprie preferenze e desideri, sulla propria auto percezione con una che invece punta a mettere da parte se stessi per occuparsi del mondo?
Questa dimensione del limite appare assolutamente cancellata, negata quando si tratta del quadro biologico dentro il quale ci troviamo a essere. Insomma, critichiamo il turbocapitalismo che sfascia il pianeta ma contemporaneamente smantelliamo la natura che noi siamo. Mi pare piuttosto contraddittorio.
C’è una frase di Hannah Arendt che mi ha sempre colpito molto. Riflettendo sul suo essere ebrea e donna lei scrive: “Provo una fondamentale gratitudine per ciò che è dato” (for what has been given). “Ciò che è dato” nel senso di qualcosa che tu non scegli.
La fondamentale gratitudine per ciò che è dato secondo me ha a che fare proprio con questa percezione di un limite, del fatto che c’è qualcosa che ti eccede, che non puoi determinare volontaristicamente. La vicenda umana è anche un percorso, un venire a patti -spesso lungo e doloroso-  con questo nostro essere così e non altrimenti. Qui emerge invece una rimozione, una non accettazione di sé.
Carla Lonzi, nei suoi testi, parla di una “accettazione di sé” da parte delle donne che non vuole naturalmente dire una supina sottomissione ai ruoli, ma un’accettazione di sé come primo passo per un percorso di libertà femminile.
Quello che io osservo tristemente oggi è che spesso sono le ragazze più giovani a non accettare questa loro datità. È come se il femminismo, per certi versi, non fosse accaduto; persistono dei forti stereotipi femminili a cui le ragazze sentono di doversi adeguare o di non potersi per niente adeguare. L’esito è che rifiutano il femminile in blocco. Come se femminile volesse dire essere solo quella cosa lì.
L’aumento, repentino e imponente, del numero delle transizioni da femmine a maschi registrato negli Stati Uniti, mentre nel passato il fenomeno, molto contenuto, riguardava il processo inverso, sembra segnalare un disagio prettamente femminile. Questa disponibilità a dar via la parola donna tradisce forse la difficoltà che le giovani donne incontrano nell’essere se stesse? Il venir meno del vecchio ordine e l’assenza di uno nuovo crea una situazione complicata, anche dolorosa.
Temo sia proprio così. Si rifiuta la parola donna perché la si percepisce ancora legata alla sua versione patriarcale, come ho già detto. In qualche modo è anche un fallimento del femminismo. Il femminismo della parità, dell’uguaglianza ha una forte carica assimilazionista, per cui se tu donna vuoi la parità, ti assimili a un modello maschile, quindi aggressivo, competitivo oppure iperseduttivo e tutte quelle forme di femminilità o di essere donna che non si adeguano vengono ritenute fallimentari, residuali. Intendiamoci, anch’io volevo essere un maschio quando avevo dieci anni, anch’io facevo resistenza a che questo corpo prendesse una forma che mi impediva una certa libertà, eccetera.
Ecco, questo complicato processo di soggettivazione che si attraversa nella fase in cui si assumono i caratteri sessuali maschili o femminili una volta non aveva immediatamente a disposizione la possibilità del rifiuto di una cosa e l’assunzione di un’altra. Adesso invece c’è anche questa nuova merce -perché dobbiamo dirlo che è una nuova merce- e quindi: perché no?
Oggi si definiscono “maschi trans” persone che una volta sarebbero perfettamente rientrate nell’estetica della lesbica butch, donne ipermascolinizzate. Qual è il problema di vivere il proprio essere donna nelle forme di un’estetica più mascolina e di un rapporto lesbico?
Ero convinta che il femminismo, e con esso l’epoca della cosiddetta liberazione sessuale, ci avesse insegnato che ciascuna/o può vivere la propria sessualità come vuole, senza però trasformare questa libertà in un nuovo conformismo queer. Invece adesso c’è proprio questo bisogno di incasellare la soggettività in una nuova identità, quella appunto di maschio trans. Io qui di nuovo vedo il rifiuto di volersi dire donna.
Ora, io non so se sia un effetto di quel contagio sociale di cui parla anche Kathleen Stock, di questa omologazione, di questo conformismo che vale dentro i movimenti come in tutte le altre parti della società. Però per me è significativo il fatto che il fenomeno riguardi soprattutto le ragazze adolescenti.
D’altra parte, io non vivo a New York e non vivo neanche a Milano; la provincia italiana è ancora estremamente rigida dal punto di vista dei ruoli di genere. Se vai all’uscita di una scuola, sembra siano tutte ragazze madri! Non vedi mai un padre; nel giro di cinque anni ne avrò visti un paio; sono figure inesistenti. C’è una persistenza nella società italiana di questo modello patriarcale. Io invece sono favorevolissima all’interscambio dei ruoli di genere dentro la famiglia: è l’elemento fondamentale per la libertà delle donne e anche dei figli francamente. Qui invece siamo ancora molto arretrati.
Contemporaneamente si assiste a una maggioranza di situazioni estremamente tradizionali e poi queste schegge di posizioni iper radicali che però non impattano realmente sulla vita della maggioranza delle persone, soprattutto delle donne. C’è ancora molto lavoro da fare in questo senso.
Le attuali forme di lotta di questi movimenti ricalcano quelle degli anni Settanta: c’è un’aggressività, una violenza, per ora prevalentemente verbale, ma che può produrre appunto licenziamenti, ostracismi eccetera; una violenza che nella storia è tipicamente maschile: pubblicare il nome, l’indirizzo, quest’ansia quasi di linciare, per quanto non fisicamente, chi la pensa diversamente fa pensare a una sorta di rivincita, a un’ondata sotterranea di maschilismo… c’è qualcosa che ritorna.
È vero ed è un elemento molto interessante. Anche nel movimento “Non una di meno” si riscontrano delle modalità, anche estetiche, di lotta reminiscenti degli anni Settanta. È come se non ci fosse stata alcuna evoluzione rispetto a come si interpreta il radicalismo di una battaglia.
È come se anche questo aspetto del femminismo, con le sue forme di ironia, non violente, fosse stato dimenticato. Riemerge la matrice di una tradizione che ha i suoi miti e suoi mitologemi e che continua a essere richiamata – una matrice bellicista. Il manifesto fatto contro Kathleen Stock è tremendo e mi ha fatto molta impressione, un attacco così ad personam… queste forme di linciaggio sono effettivamente molto maschili. D’altra parte, continua a sembrare più “cool”, più radicale adottare quei metodi invece di cercarne altri.
Devo dire che sui social vedo che molte femministe della generazione precedente assumono posizioni vicine al movimento Lgbt, con argomentazioni talvolta un po’ fumose. A sinistra continua a funzionare questo spettro di essere assimilati alla destra, e allora, anche forse per continuare a cavalcare la radicalità del movimento, si accettano posizioni che un tempo si sarebbero rigettate, come nel caso della maternità surrogata.
Ora, la gestazione per altri non è una questione esclusivamente maschile però è fuor di dubbio che una genitorialità lesbica e una genitorialità gay non sono la stessa cosa. C’è una differenza sessuale anche nell’omosessualità che sarebbe così ipocrita, così fittizio non riconoscere.
Pensiamo alla differenza -anche qui sessuale, biologica- tra la donazione di sperma da parte di un uomo e invece la donazione di ovuli da parte di una donna. Le donne che donano i loro ovuli devono essere sottoposte a terapie ormonali per farne aumentare la produzione e poi l’estrazione è molto più invasiva rispetto alla raccolta dello sperma. Tra l’altro l’eiaculazione, come ricorda Carla Lonzi, corrisponde al momento del piacere del maschio mentre per la donna piacere e fecondazione non sono così strettamente legati.
Non voler riconoscere o voler dissolvere queste differenze anatomiche in un discorso giuridico o appunto neutralizzante di “genitorialità”, a mio avviso, oltre a essere violento è proprio falsificante.
Voglio aggiungere un’altra considerazione. Quando parliamo di sessualità, intesa sia come pratica sessuale sia come esistenza sessuata, non stiamo parlando di cose astruse, e come studiosi e studiose non stiamo trattando di un manoscritto del quinto secolo, stiamo invece parlando di tematiche che riguardano le vite di tutte e di tutti, questioni concrete in cui tutti possono riconoscersi. Quanti significati ha una parola come genere o gli avverbi e gli aggettivi derivati da questo sostantivo?
Per questo è così importante che questi dibattiti escano dall’accademia e che si faccia un po’ di chiarezza, anche teorica, concettuale, su queste questioni.


(a cura di Barbara Bertoncin e Gianni Saporetti)


(Una Città n° 294/2023, agosto 2023)

di Anna Stefi


Degli elefanti occupano, con noi, le aule scolastiche.

Il primo elefante è il più ingombrante: il cellulare. Il cellulare è un mondo che contiene altri mondi: il linguaggio abbreviato; i selfie; le emoticon, per citarne soltanto tre. Il cellulare ha a che fare con l’immediatezza, con il visivo, con linguaggi – e ritmi – che sono altri rispetto a quelli che dominano a scuola. Ritengo il tempo “altro” della scuola – la lentezza, la fatica, la solitudine, la riflessione – un tempo di grande valore, da proteggere. L’interrogativo che mi pongo tuttavia negli ultimi anni è: cosa significa proteggerlo? Significa custodirlo o guadagnarlo? Significa preservarlo come condizione di lavoro, o immaginare che possa essere una conquista lungo la strada?

Secondo elefante: gli abiti. O l’assenza di abiti. E, come corollario, i capelli, gli specchi, il trucco. L’immagine che sempre sono, che li accompagna, che controllano, plasmano, verificano. Il tempo dell’adolescenza è un tempo di costruzione dell’identità, un tempo in cui l’immaginario è centrale: la necessità di identificarsi, iscriversi all’interno di codici, trovare delle insegne. Gli adolescenti cercano il gruppo con cui fare ogni cosa e l’amicizia come simbiosi: l’altro identico, inseparabile. È un processo lento quello del rapporto con l’alterità, con la differenza. Si sviluppa negli anni, durante i quali si riscrivono le alleanze, il nemico diventa amico, le maschere stanno strette e gradualmente si mette in risalto la propria individualità, si sopporta quella dell’altro. Soggettivarsi, lasciare che emerga la propria particolarità rispetto al gruppo che li ha protetti, è l’esito di un movimento complicato, ora come allora.

Credo che due elementi concorrano, oggi, a renderlo ancora più difficile.

Il primo è che l’immagine che sempre sono, l’immagine che si delinea nelle aule e ha nei social il suo naturale prolungamento, è un oggetto continuo. L’immagine che sempre sono non conosce il pomeriggio, la domenica, le vacanze. E, allo stesso modo, l’immagine che gli altri sono. Credo che, per capire cosa questo significhi, potremmo provare a ricordare il gioco di sguardi che si creava nei corridoi durante gli intervalli: alleanze, inimicizie, invidia, amore, odio. Cosa sono per l’altro? Chi vale per lei? E lui chi guarda? Non c’è tregua, rispetto a questi interrogativi: Tik Tok, Instagram, i filtri, le pose, i trucchi e i like. Le mie pazienti parlano delle foto che non riescono a postare, del tempo che impiegano: caricare e cancellare; raccontano la sofferenza che l’esposizione porta con sé o il dolore per il mancato coraggio. Anche i legami non conoscono pausa: controllano la posizione dei loro amici in ogni minuto, si sentono su Whatsapp anche nel cuore della notte. Non si deve “sopportare” l’assenza perché si può non fare esperienza dell’assenza.

Il secondo è che il discorso sociale ripropone questi stessi codici, un identico modello: la costruzione del personaggio come via verso il successo; il riconoscimento come unico dio sul cui altare sacrificare ogni bene; l’amore come simbiosi; l’eccesso; la dismisura; la connessione perenne.

Terzo elefante: le unghie. Le loro unghie e il nostro sgomento. Anche le unghie sono un abito, un’immagine, una forma che si danno. Ma, al tempo stesso, le unghie sono uno strano modo di impugnare la penna, di far scorrere le mani sulla tastiera. O, più banalmente, le unghie come elementi disturbanti. Per me sono le unghie, per qualcuno potranno essere altro: i tatuaggi? Possiamo considerare questo terzo punto, questo elefante-unghie, come qualcosa che portano in classe e ci fa problema, che capiamo poco, che esteticamente ci irrita. Così invasivo e così impensato, almeno ai nostri occhi.

Quarto elefante: la musica. I testi delle canzoni che ascoltano. I testi della musica trap. La violenza di quei testi e, come corollario, le cuffie, le gigantesche cuffie con cui si coprono le orecchie e in cui affondano. Pensano? Si riparano? Si immergono nell’esperienza dell’ascolto? La musica che chiedono di poter ascoltare durante i temi. La musica che, nei loro discorsi, li tiene in vita e la musica che, ai miei occhi, a volte, li tiene altrove.

E infine il quinto elefante: l’ansia. Divorante e totale. L’ansia che è un nome dato a mille cose differenti, l’ansia che prende il corpo, le ferite, i tagli, gli attacchi di panico, le assenze. La paura.

Perché questo elenco provvisorio, del tutto incompleto e soggettivo? Credo che ogni tempo storico abbia i suoi ospiti, accanto a Dante, Freud e i logaritmi. Credo che alcuni ospiti ci fossero allora come ora, che nuovi elementi si siano sostituiti a elementi antichi conservando una stessa matrice, o intenzione, o un senso in qualche modo sovrapponibile.

Non credo sia davvero importante capire quanto le cose siano cambiate, né chiedersi cosa potrebbe essere meglio, ma provare a porci due grandi interrogativi: il primo è cosa farcene di quel che c’è; il secondo è cosa ci sembra imprescindibile che la scuola veicoli oggi. Cosa abbiamo in mente quando chiediamo alla scuola di farsi carico del discorso sociale? O, detto più semplicemente, c’è qualcosa che possiamo isolare come essenziale per quell’“educazione all’affettività” che invochiamo a ogni fatto di cronaca che vede coinvolti adolescenti?

Partirei dall’ultima parola dell’elenco suggerito. Paura. È solo la loro o anche la nostra?

Questo mi pare che suggerisca una prima indicazione: vedere questi elementi, questi elefanti, vederli davvero, vederli con tutta la paura – e la fatica – che implicano.

C’è stato un tempo in cui usavo la scatola di cartone per raccogliere i cellulari a inizio lezione, perché nessuno, io compresa, cadesse in tentazione. Mi sembrava di non imporre una legge dall’alto, ma di riempire una regola di senso: era importante che imparassimo, in quell’aula, un tempo differente. Valeva per tutti, ci regalava la possibilità di qualcosa di diverso. Ho cominciato nel tempo a pensare che il mio scopo prioritario era proteggermi. Basaglia ci insegna che se non usiamo misure di contenimento abbiamo una responsabilità in più. E dunque maggior lavoro. La scuola senza cellulare, la scuola senza social network, la scuola senza connessione perenne resta, per loro, una parentesi: altre regole, temi che non li riguardano. Non si gioca lì – per loro – la partita della vita. Suona la campana e ritorno dove voglio essere, rimetto mano a quel mondo, quello che mi fa piangere e gioire.

Con la scatola di cartone eludevo qualcosa che non conosco, che non padroneggio, qualcosa che però ha a che fare con pulsioni e aggressività, quelle pulsioni e quella aggressività che sono il corpo sessuale che iniziano a essere. E l’immaginario che li governa.

La scuola in un tempo storico differente ha lasciato fuori la sessualità, i corpi, ha messo a tacere il loro ingovernabile. Lo ha fatto avvalendosi della Legge: “non si può”. Ma, lo ripetiamo da sempre, il tempo della Legge è concluso. Molte sono state le riflessioni legate a questo passaggio culturale – una fra tutte la necessità di essere, come insegnanti, autorevoli e non autoritari. E tuttavia credo non si sia abbastanza pensato cosa implichi fino in fondo il non poter più fare appello alla legge del no: “non si viene a scuola con un abbigliamento inopportuno”; “non si usa il cellulare”; “non ci si alza durante la lezione”.

Posso dirle ancora queste frasi? Posso. Sono meno efficaci. Non includono la trasformazione storica che stiamo vivendo.

Che alternativa ho, dunque?

Credo che parlare di relazione, e di corpi, come elementi essenziali e come nuovi linguaggi all’interno della scuola, significhi prendere sul serio queste relazioni e questi corpi, istituire cioè un ponte che chiede a noi insegnanti il grande sforzo, e la grande paura, di rapportarci all’ignoto. L’ignoto chiede uno sconfinamento, un’invenzione. Non essere protetti dalla cattedra e dai corpi disciplinati, da un sapere già conosciuto. Mi pare inaggirabile, del resto, il rapporto con l’ignoto in una scuola fatta, sempre più, di figli di immigrati di seconda e terza generazione.

È possibile, mi sono chiesta, portare qualcosa del loro mondo in questo mondo? Posso immaginare di mostrare che non sono poi davvero due mondi? Posso farmi carico dei nuovi linguaggi che sono il loro dire? O, detto meglio, posso svelare qualcosa di questo dire?

Mi è chiesto uno sforzo per rendere contemporaneo quello che insegno. Leggere quei testi per me osceni di musica trap, provare a interrogarli. Vedere le loro unghie, i loro abiti, i loro drammi, i loro tatuaggi e la loro ansia. Non per parlare di ansia – non è il nostro mestiere – né per aiutarli a non tremare proponendo un sapere semplificato e già digerito.

Anzi!

Non si tratta di ammiccare al telefono scrivendo loro su WhatsApp, né proporre la filosofia attraverso il quiz con i cellulari; non si tratta di non problematizzare un abbigliamento che non tiene conto che la vita è fatta di contesti, né di essere amici, complici, amorosi.

Credo che lo sforzo sia precisamente in direzione contraria: abitare, socraticamente, una posizione enigmatica, che introduca uno spaesamento, severa ma non ostile, che non sia né di rispecchiamento né di misconoscimento. Occupare una posizione in cui non è di noi che si tratta, né di loro, ma di una verità sempre da ricercare: il mistero che siamo a noi stessi.

Forse, parlare di nuovi linguaggi ci porta allora a dover fare i conti con la scommessa di mostrare loro come ci sia, sotto, qualcosa di molto antico. O trovarlo, questo antico. Sporcarsi le mani con l’immaginario, domandandosi quali quesiti pone loro il problema della libertà in Mindcraft; se la lotta di Antigone contro Creonte non potrebbe essere la battaglia per avere una voce contro un insegnante dispotico che non li lascia essere. Diotima cosa suggerisce sul monitorare la posizione dell’amica, o sul controllare gli accessi Telegram del fidanzato? Gli eroi dell’epica e della letteratura che cosa hanno in comune con i loro eroi-influencer? Il tema dell’immagine che sono riguarda la rappresentazione, e questo porta con sé il problema della realtà e del rapporto che si intrattiene con questa realtà.

Svelare il mediato che sta sotto l’immediato. Aiutarli a vedere che c’è molto di più di quel che vedono e che forse non sono esattamente dove credono di essere e chi credono di essere.

Essere seri, a scuola, significa prendere sul serio le cose. Tante cose, più cose di quelle che siamo stati abituati a considerare materia di studio.

Forse, tutto questo, possiamo cominciare a farlo non imponendo un linguaggio alto che si sostituisca al loro, delegittimandolo, ma partendo da quel che c’è per ampliarlo. Aiutarli a considerare da dove parlano, suggerire nuovi interrogativi capaci di portare uno sguardo diverso su dinamiche agite e non pensate. Introdurre la riflessione, la concentrazione, il tempo lento, nel cuore del loro immediato. Mostrare loro che lo sforzo di un messaggio più chiaro e complesso – lo sforzo di prendersi del tempo, di articolare un sentire cercando delle parole, lo sforzo di dire, di tradurre un vissuto perché l’altro possa vederlo – è profondamente intrecciato al desiderio che hanno di ritagliarsi un posto nel mondo. Articolare meglio per spiegarsi. Ci vuole tempo. Vedere le ambiguità.

Fare un salto oltre la frammentarietà comunicativa del dialogo a due, mostrare che al di fuori dei codici del gruppo, farsi capire è un’arte complessa. Farsi capire aiuta a capirsi, allarga il nostro sguardo, consente di incontrare altro e di innamorarsi dell’altro e d’altro. E la scuola ha strumenti da offrire rispetto a questo, strumenti che consentono di non sentire il mondo che crolla quando il messaggio dall’altra parte si conclude con un punto che pare un addio, o senza una faccina circondata da cuori che ci assicura che l’altro ci ama.

Usare le emoticon, non essere usati; usare Tik Tok, non esserne divorati.

Complessità e differimento sono competenze – per usare un linguaggio tanto amato – essenziali per separarsi dall’altro, reggere il tempo dell’assenza, uscire dall’immaginario. Separarsi dall’altro, reggere il tempo dell’assenza, uscire dall’immaginario sono un antidoto alla dilagante aggressività, all’assenza diffusa di desiderio, alla chiusura solitaria nelle proprie stanze (per citare solo tre esempi segnalati con crescente preoccupazione da psicoanalisti e pedagogisti).

In assenza di un “devi perché devi” dal sapore kantiano, in assenza di un super-io individuale e collettivo perché fatica e frustrazione sono concetti assenti dal discorso sociale, come portarli a quel “ne vale la pena” che tutti noi sempre sentiamo quando occupiamo la posizione di insegnanti?

Differimento e complessità non sono l’obolo che sacrifichiamo sull’altare del dovere, lo scotto da pagare per essere un giorno premiati (ma quando mai?), ma la via per potere – oggi, ora, nel presente vivo della adolescenza – sopportare l’altro che non c’è senza pensare che ci abbia abbandonato; inventarsi un buon modo di raccontarsi sui propri profili; reggere la frustrazione del non saper dire accorgendosi che non tutto può essere detto; accostarsi al Discorso sulla servitù volontaria e scoprire, addentrandosi in un linguaggio cinquecentesco, che in effetti la libertà fa paura. Se qualcuno descrive qualcosa che sentiamo, se ci aiuta a nominarlo, ci sentiamo meno soli. E questo, più che con il successo e il futuro, ha a che fare con la felicità.


(Doppiozero, 18 settembre 2023)

di Cinzia Sciuto


In queste ore drammatiche per le migliaia di persone sbarcate a Lampedusa l’Europa sta dando il peggio di sé, mostrando non solo meschinità umana ma anche profonda incapacità politica. Da Meloni a Von der Leyen passando per Macron è tutto un rincorrersi per scaricare il fardello di alcune migliaia di persone che il dittatore tunisino Sayed ha deciso di usare come strumento di pressione politica, esattamente come a suo tempo fece Erdoğan con le migliaia di siriani bloccati alla frontiera con l’Austria. Dalla presidente della Commissione europea in visita a Lampedusa ci saremmo aspettati uno scatto di umanità e orgoglio, un “wir schaffen das” europeo che porgesse la mano a quella disperata umanità che si affolla sui barconi perché quella stessa Europa non consente loro di arrivare in sicurezza, fornendo ai dittatori dei Paesi di transito ottime armi di ricatto. E invece abbiamo solo avuto piccolo cabotaggio politico, un meschino “do ut des” in vista delle europee e del rinnovo della Commissione. Un calcolo politico di bassissima lega che sarebbe ridicolo se non si giocasse sulla pelle di persone in carne e ossa. Pelle evidentemente del colore sbagliato. Perché è innegabile che è lì, sulle sponde del Mediterraneo, su quella che Du Bois chiama “la linea del colore”, che oggi si gioca la partita fra la vita e la morte. E non veniteci a parlare di realismo, non veniteci a dire che “non possiamo accoglierli tutti”. In queste ore i politici europei si stanno comportando come gli occupanti di una nave da crociera che ributtano a mare dei naufraghi perché non c’è abbastanza posto sui loro divanetti di pelle. Non siamo disposti a sacrificare il nostro senso di appartenenza a un unico destino umano sull’altare di un presunto realismo politico, che di realistico peraltro non ha nulla, mentre ha tutto di cinico. Realistico, e umano, sarebbe aprire corridoi umanitari per i Paesi da cui provengono la maggior parte dei migranti; realistico, e umano, sarebbe modificare e liberalizzare la politica dei visti; realistico, e umano, sarebbe garantire a chiunque arrivi percorsi di integrazione che consentano loro di inserirsi velocemente nella società e tornare ad avere una vita degna di questo nome; realistico, e umano, sarebbe ripristinare il sistema di accoglienza diffuso e modificare il regolamento di Dublino; (diversi anni fa, sul numero 7/2011 di MicroMega, pubblicammo un dettagliato “programma sull’immigrazione” proprio per mostrare che un approccio accogliente e solidale non è affatto irrealistico). Non c’è sedicente realismo politico che possa convincerci che l’Europa non sia in grado di accogliere con rispetto e umanità i nostri simili, da cui ci separa solo una sottile linea del colore.


(Micromega, 18 settembre 2023)

di Jessica Chia


Sta in piedi, disarmata; indossa una gonna. Lo sguardo è severo, potente. Insieme a lei ci sono altre donne, due delle quali, gonna al ginocchio, sono armate: munizioni intorno al collo e armi sulle spalle. Le due donne al centro della copertina de La Resistenza delle donne (Einaudi), il saggio con cui la storica e scrittrice Benedetta Tobagi ha vinto lo scorso 16 settembre il Campiello 2023 (con 90 voti della Giuria popolare) sono le sorelle partigiane Lina e Liliana Cecchi, pistoiesi, che immortalate in questa fotografia del 1944 testimoniano un’«altra» storia.

«È una foto densa di storia e di significati – dice Tobagi a La27ora, raggiunta al telefono in occasione della vittoria della 61ª edizione del premio letterario – e l’ho scelta perché rappresenta donne armate e disarmate insieme. E la donna in primo piano, disarmata, emana un’autorevolezza e un carisma palpabili, che bucano la fotografia e colgono qualcosa di grande di questa storia. Ci fu un grande dibattito tra le donne partigiane, se prendere le armi o meno, e per molte è stata una scelta etica. Che poi ha alimentato, durante la Costituente, il varo dell’Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. La partigiana e politica Teresa Mattei (1921-2013, ndr), la più giovane eletta all’Assemblea costituente a 25 anni, disse che quando si votò l’Articolo 11 tutte le elette si presero per mano».

Perché è importante la vittoria di un premio come il Campiello per questo libro?

«Il fatto che il premio sia stato votato da una giuria popolare, scelto a breve distanza da La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza) di Silvia Ballestra, la storia di un’altra partigiana, femminista e attivista per l’ambiente, mi è sembrato, oggi, un segnale di speranza. Mi ha toccato come le parole di queste donne risuonassero attuali, così come quello che hanno incarnato, cioè essere le sole vere volontarie della guerra di Liberazione, mentre la società si aspettava da loro che rimanessero a casa. Invece sono donne che si sono fatte trovare quando la storia ha bussato, dicendo: “Abbiamo fatto solo quello che c’era da fare”. E si sono spese per contrastare l’orrore che avevano davanti, incarnando tanti modi diversi di combattere: con le armi e senza. Queste sono due cose che parlano al presente».

In che modo?

«Vediamo ogni giorno cose feroci e orribili che accadono intorno a noi. E spesso rispondiamo con atteggiamenti di chiusura; vengono respinte le persone che stanno bussando alle nostre frontiere per cercare una speranza di futuro. E, per quanto riguarda le donne, vediamo che ancora siamo alle prese coni veleni di una cultura patriarcale e di una sopraffazione che alimenta la violenza di genere. Davanti a tutto questo, ho sentito che c’era una grandezza nel messaggio della Resistenza delle donne che continua su tanti fronti. Questo premio è quasi coinciso con l’anniversario dell’inizio delle rivolte in Iran e della la morte di Mahsa Amini. E sono tante le forme di resistenza femminile, appunto, che spesso partono dalla dimensione privata per poi diventare una lotta di resistenza collettiva».

I più giovani porteranno avanti questa memoria?

«Io lavoro molto con le scuole superiori, e devo dire che questo libro parla ai ragazzi e non solo alle ragazze, li fa sentire interrogati e in effetti è un libro che parte con delle domande molto radicali su chi sei, chi vuoi essere, quale parte vuoi avere nel mondo. Tutti i ragazzi sono alle prese con le grandi domande e le grandi paure, tante volte con ansia per il futuro ma anche con un grande desiderio di fare e trovare dei riferimenti».

Le testimoni in vita oggi sono sempre meno. Lei come ha lavorato?

«Ho lavorato su storie di vita, autobiografie narrate, testimonianze raccolte a partire dagli anni Settanta e tutta la memorialistica perché questo ti dà la stratificazione nel tempo del racconto, dopo un lunghissimo silenzio da parte di quelle testimoni. Nel libro io ho voluto dare respiro alle studiose che hanno riportato questa pagina di storia alla luce. Oggi si è un po’ perso il senso di quanto la ricerca può trasformare le cose e aprire degli orizzonti. Per le ex partigiane, l’incontro con le studiose le ha aiutate a guardare alla loro esperienza con occhi diversi, a capire più profondamente le questioni femminili. È un movimento in due direzioni».

Un nome, una foto, una storia che l’hanno colpita di più nella sua ricerca?

«La prima immagine che mi è venuta in mente sabato sera è una foto della partigiana Gina Negrini (1925-2014, ndr) seduta a una scrivania con occhi luminosi, sorriso ironico, penna in mano: era stata una partigiana – nome di battaglia Tito – di origini umilissime. Dopo la guerra, lei finisce in un matrimonio tossico con un uomo che la umilia. È una donna che ha dato prova di colossale coraggio, spirito di iniziativa, ma ha molte ferite che la portano nel buco nero di una relazione malata. Però ha un istinto di sopravvivenza e sente che non vuole che muoia con lei la ragazza che era stata e che aveva fatto la Resistenza; allora capisce che per salvarla deve scrivere la sua storia: nasce Sole nero, in cui, oltre alla Resistenza, parla di un abuso subito quando era una ragazzina. È in questo modo che torna alla vita. Il tema di trovare la voce e farla sentire nello spazio pubblico è cruciale, è uno dei fili rossi attorno a cui ho costruito il libro. È un tema pubblico, le donne che non avevano voce in capitolo, non avevano diritti civili, non erano neppure cittadine. Durante la Resistenza, le donne prendono la parola, fanno riunioni, si aiutano a vicenda a istruirsi alla politica. È la consacrazione delle donne nello spazio pubblico. Anche il mio primo libro è stato autobiografico, e questo mi ha permesso di riprendere le fila della mia storia, ho raccontato di mio padre, della sua vita e della sua morte. Attraverso la scrittura ho trovato un modo di venire veramente al mondo».

Chi sono le «partigiane moderne», le donne che lottano, che fanno sentire la propria voce oggi?

«Nella Resistenza ’43-45 le donne hanno avuto anche una dimensione di riscatto e liberazione personale e di prima messa in discussione del sistema patriarcale. Oggi nel mondo vediamo luoghi di colossale oppressione, come il già citato Iran, l’Afghanistan, le donne combattenti dell’esercito curdo. Ora vediamo che il femminile è il motore della ribellione e della rivoluzione perché la situazione femminile è una cartina di tornasole: innesca, quando c’è grande sopraffazione, e limitazione dei diritti, una ribellione che poi si estende a tutta la società. Tutte le persone che lottano per arrivare a una reale parità, che eroda il sistema patriarcale, stanno continuando quella Resistenza che ha avuto una grandissima dimensione di prefigurazione del futuro».

Queste donne ci hanno lasciato in eredità anche il senso della parola “libertà”. Lei come l’ha fatta sua, dopo la stesura di questo libro?

«Una delle cose più potenti che mi è rimasta è il senso di questa grande speranza, un ottimismo della volontà come scelta, come assunzione di responsabilità di voler contribuire a costruire il futuro, anche quando le circostanze sembrano ostili e difficili. Mi rimangono le parole di una lettera di Carla Capponi (1918-2000, ndr) rivolte a una giovane ragazza, a cui disse di non farsi ingannare dall’eccezionalità delle circostanze, perché ciascuno di noi è poi chiamato alle scelte nel proprio contesto, nella propria vita. Serve un po’ di coraggio, di cuore, e non bisogna voltarsi dall’altra parte. Poi Carla Capponi dice: «Credimi, eravamo tante». Noi sappiamo che quelle partigiane erano pochissime rispetto alla massa della popolazione (oltre 70mila aderenti ai gruppi di difesa, e circa 35mila le partigiane combattenti). Allora ho pensato: si può essere tanti anche quando siamo pochi perché l’essere solidali amplifica la potenza, la capacità di incidere nelle cose. E quindi, di cambiarle».


(27esimaora.corriere.it,18 settembre 2023)

di Francesca Paci


La scrittrice iraniana Azar Nafisi è stata tra le prime sostenitrici della raccolta di firme promossa lo scorso novembre da “La Stampa” per chiedere alle autorità di Teheran la libertà di tutte le detenute e i detenuti politici. Parla al telefono con voce commossa, pochi avrebbero scommesso che oltre 500 morti e quasi 30 mila arresti le sue connazionali sarebbero rimaste in strada a battersi, senza velo, per riscattare le proprie madri e liberare le proprie figlie. Lei no, ci ha creduto sin dal principio, Ci crede.

È passato un anno dall’inizio della rivoluzione delle donne, cosa è successo all’Iran?

«L’aspetto più importante e minaccioso per la Repubblica islamica è il fatto che questa rivolta non sia ideologica ma esistenziale. “Donna, vita, libertà” significa il rifiuto dell’intero sistema che il regime ha imposto al Paese. È cambiato tutto. Le iraniane e gli iraniani non credono più nelle riforme e non hanno più paura. Il governo invece, condannato al proprio assolutismo, non ha altri strumenti che uccidere. Se questo movimento fosse stato politico sarebbe bastato arrestare i suoi leader per decapitarlo, ma non è così e non si possono arrestare milioni di persone».

Oggi è il giorno di Mahsa Amini e del riscatto che rappresenta. Cosa si aspetta?

«Vedremo ancora una volta manifestarsi la solidarietà tra forze diverse all’interno dell’Iran e la diaspora, perché il movimento è variegato e trasversale. E poi vedremo quanto internazionale sia questa protesta, ci saranno iniziative in tanti Paesi».

Già da ieri gli attivisti sono in strada a Zahedan, nel Sistan-Baluchistan, la provincia che sin dall’inizio ha preso l’iniziativa. Come mai stavolta le aree più periferiche sembrano quasi più protagoniste rispetto alle grandi città?

«Assistiamo a una rivolta decentralizzata, ed è una novità. I regimi totalitari, com’è la Repubblica Islamica, basano la loro identità sulla duplice negazione degli oppositori e delle minoranze. La repressione delle minoranze baluche e kurde va avanti da mezzo secolo, ma stavolta la loro frustrazione si è sommata a quella delle donne ed è uscita allo scoperto».

La repressione si è accanita sulle università, sono state chiuse le librerie indipendenti, il presidente Ebrahim Raisi ha invitato tutti gli editori a concentrarsi sugli scrittori locali e sui testi islamici dimenticando quelli europei e americani. Siamo tornati ai tempi bui in cui scriveva “Leggere Lolita a Teheran” e poi decideva di lasciare il Paese?

«Sin dall’inizio, nel 1979, gli atenei e tutti i luoghi della conoscenza sono stati il principale obiettivo del regime. La Repubblica islamica non teme nulla tanto quanto i libri. Mi ha sempre colpito la virulenza delle minacce contro Salman Rushdie, armato solo delle sue parole. Ma la censura ha prodotto il risultato opposto, oggi in Iran Václav Havel e Hannah Arendt vengono divorati come bestseller».

Sebbene in modo discontinuo, i media internazionali continuano a raccontare il coraggio delle iraniane. Eppure, molti analisti osservano che, dopo lo sbandamento iniziale di un anno fa, gli ayatollah hanno ricostruito la loro rete diplomatica e che tra Russia, Cina e Turchia non sono poi così tanto isolati. Qual è la sua impressione?

«È vero che esattamente come fanno tra loro le democrazie, la Repubblica islamica ha rafforzato i rapporti con gli altri regimi totalitari, a partire dalla Russia impegnata nell’invasione dell’Ucraina. Ma è una prova di debolezza e non di forza. Al momento su qualsiasi tavolo negoziale internazionale il governo iraniano ha perso più di quanto abbia guadagnato, è di fatto uno Stato di apartheid che come tale va trattato. “La Stampa” e gli altri media con le campagne che danno voce alla nostra gente fanno un lavoro prezioso. Porto sempre con me le parole che mi disse mia madre quando lasciai Teheran: “Dillo, al mondo in cui vivrai, come ci trattano”. Se parlate di noi ci salvate».

Quando finirà l’apartheid delle donne iraniane?

«Non possiamo saperlo, ma le cose sono cambiate in meglio. Anche dentro al regime cominciano ad esserci critiche e defezioni».

Perché il regime iraniano odia le donne al punto che, mentre gli attivisti vengono impiccati, le attiviste vengono stuprate, umiliate sessualmente, sfigurate?

«L’odio deriva dalla paura, basta vedere come le donne tengono testa in queste ore al regime. Per questo la Repubblica Islamica le demonizza, le definisce “tentazione sociale”. Ho sempre pensato che se un uomo è in condizioni tali da non potersi trattenere alla vista dei miei capelli sciolti andrebbe rinchiuso lui, in un ospedale mentale».

Gli attivisti vengono torturati in queste ore con l’accusa di essere agenti dell’Occidente. Come si sta comportando l’Occidente nei confronti della rivoluzione delle donne?

«Sono delusa dai politici occidentali che, di fatto, alimentano il pregiudizio secondo cui l’emarginazione delle donne iraniane sarebbe parte della nostra cultura. Si sono bevuti la propaganda del regime. L’Occidente dovrebbe capire invece che difendere la democrazia in Iran, in Afghanistan, in Ucraina non è idealistico ma pragmatico, che la democrazia nei nostri Paesi aiuterebbe quella italiana, quella francese, quella americana. L’Occidente dovrebbe allearsi con i popoli e non con i regimi. Questo non significa occuparci militarmente, ma utilizzare gli strumenti della diplomazia per criticare la violenza».

Ieri il presidente Joe Biden si è espresso ufficialmente in sostegno delle coraggiose donne iraniane. Eppure, in questi giorni, Washington, nel pieno delle trattative per il rilascio dei prigionieri americani, ha sbloccano 6 miliardi di fondi iraniani da mettere a disposizione del regime per l’aiuto umanitario. Qual è la strategia Usa?

«Vedo purtroppo il doppio standard americano. Per questo dubito dell’Occidente. Quanto ha fatto Washington ha consentito al regime di sostenere con gli iraniani che il mondo guarda altrove. L’accordo è di usare i soldi per gli aiuti umanitari, ma non sarà così».

C’è l’impressione che anche in Europa, accanto a una mobilitazione di base a corrente alternata, manchi un vero sostegno politico e intellettuale agli iraniani. Perché?

«È vero, non c’è un sostegno diffuso a tutti i livelli. Eppure oggi le donne sono sotto attacco in America come in Europa. Vorrei dire loro di non essere pigre, di guardare alla battaglia delle iraniane come fosse la loro, di non considerare i diritti come qualcosa di acquisito. La libertà è molto più difficile da gestire del suo contrario, perché presuppone responsabilità, non le abbandonate, non ci abbandonate. Riguarda le donne ma riguarda anche le minoranze, se ci fosse maggiore coesione a livello globale la discriminazione non avrebbe campo libero».

Scriverà della rivoluzione delle donne?

«Sto studiando, vorrei capire come il movimento “Donna, vita, libertà” possa contribuire a smantellare i pregiudizi nei confronti della nostra cultura che non è affatto tradizionalmente paternalista e nemica delle donne».


(La Stampa, 16 settembre 2023)

di Assia Petricelli


Nelle ultime settimane, a seguito degli stupri di Caivano e Palermo, da più parti si sta sottolineando il ruolo della scuola nel contrasto alla violenza di genere. Sulla base della mia esperienza, ritengo che interventi di educazione all’affettività siano tanto più efficaci quanto più radicati nella routine scolastica. Iniziative spot, non adeguatamente valorizzate, rischiano di essere non solo inutili, ma controproducenti.

Un’educazione non violenta dovrebbe realizzarsi tutti i giorni in classe, con le e i docenti curricolari, opportunamente formati, in maniera continuativa e trasversale, vestendo un’ottica di genere come un paio di occhiali che consentono non solo di vedere meglio, ma di vedere anche ciò che sembra invisibile.

Negli anni ho sperimentato personalmente diverse attività: dalla decostruzione degli stereotipi insiti nel linguaggio di tutti i giorni e in quello dei media alla critica ai libri di testo per rintracciare e correggere errori e omissioni; dalla ricerca della matrice dei pregiudizi odierni nelle scritture antiche (leggete le parole con cui si celebravano le virtù femminili nelle epigrafi funerarie latine o confrontate i termini con cui Cicerone tratteggia la figura di Clodia nella Pro Caelio con sentenze recenti di processi per stupro) alla riscrittura di testi dal punto di vista di chi tradizionalmente è oggetto, non soggetto di narrazione; dalla scoperta e racconto di figure femminili poco note allo studio di autrici come regola, non eccezione, fuori da moduli al femminile, schede e altri recinti nei quali tradizionalmente la scuola e i libri di testo confinano i saperi delle donne, fino alla lettura in classe ad alta voce di opere che affrontano le tematiche della crescita, della scoperta del corpo e dei sentimenti (non esistono letture imprescindibili, quel che conta sono le domande poste al testo e le risposte negoziate da un gruppo che agisce come comunità ermeneutica sotto la guida della docente).

Tali attività hanno incontrato sempre interesse e partecipazione da parte delle alunne, ma non di rado un muro di indifferenza o diffidenza, quando non di aperta ostilità, da parte degli alunni.

Da qualche tempo, dunque, mi chiedo come coinvolgere in una educazione ai sentimenti anche i ragazzi, che sono coloro che potenzialmente agiscono la violenza. Le strategie che ho elaborato finora sono sostanzialmente tre.

La prima è la lettura di libri che raccontino la violenza di genere dal punto di vista maschile, come nel romanzo Mia di Antonio Ferrara.

La seconda consiste nell’affidare a gruppi di studentesse, adeguatamente preparate, la conduzione di lezioni e dibattiti: esse sono spesso in grado di trovare le modalità e le parole più efficaci per educare i propri pari. Nello scorso anno ho lavorato in questo modo sul libro Consenso, possiamo parlarne? edito da Settenove.

Infine, avendo riflettuto sulla difficoltà dei ragazzi di sentire ed esprimere le proprie emozioni, ho realizzato dei laboratori di scrittura del sé, in cui, a partire da un breve stimolo accuratamente scelto (preziosi gli albi illustrati, ad esempio Il catalogo dei giorni di Tortolini e Tieni), gli e le studenti sono invitati a scrivere di getto per un determinato tempo e poi a leggere di quanto prodotto soltanto ciò che desiderano, senza alcuna forma di giudizio né discussione, ma soltanto come momento in cui ciascuno dona agli altri qualcosa di sé e gli altri la accolgono.

Queste sono soltanto alcune delle attività che ho sperimentato, molte altre possono essere immaginate e realizzate. È importante, però, che esse non vivano soltanto nel chiuso di singole aule, ma che trovino sempre più spazi di condivisione, riflessione e confronto, sulle pagine dei giornali e in luoghi fisici come l’incontro annuale della rete Educare alle differenze, che si svolgerà nel prossimo fine settimana a Bari.

Da queste occasioni di messa in rete delle esperienze è possibile trovare in primis la forza per produrre cambiamento nei collegi, nei consigli di classe e di nuovo nelle aule, e poi, mi auguro, anche la voce con cui tornare a parlare alla politica.


(Il manifesto, 16 settembre 2023)

di Franca Fortunato


Andare alla ricerca della propria origine, della madre morta suicida, scavare nella sua vita per rimetterla al mondo e riunirsi a lei nella gratitudine e nell’amore, è ciò che fa la scrittrice Maria Grazia Calandrone, quando viene a sapere che c’è chi può parlarle della donna che l’ha messa al mondo e poi l’ha lasciata, e della cui vita non sa nulla. Di questo scrive nel suo libro autobiografico Dove non mi hai portata, ed. Einaudi, candidato al premio Strega. Scrive perché la madre «diventi reale, per strappare alla terra l’odore di lei» ed «esplorare un metodo per chi ha perduto la sua origine». Anna, la figlia tredicenne, l’accompagna nel «viaggio all’origine», lungo il sentiero della genealogia materna. Maria Grazia cerca le tracce della madre nei luoghi dell’infanzia, ascolta chi l’ha conosciuta, chi le è stata amica, prende appunti, fa interviste, esamina documenti, fascicoli per «avere la gioia di vedere la faccetta di Lucia bambina». Una bambina allegra, sveglia, bellissima. Percorre a piedi, come sua madre, la strada che faceva per andare a scuola. Rintraccia il nome della maestra, una foto con lei in piedi e gli anni in cui frequentò la scuola elementare, da cui, dopo la seconda, venne via per ordine del padre-padrone. Lo stesso che le imporrà di sposare un uomo più grande di lei, che non amava, rendendola infelice. Amava un giovane come lei. Il marito la «massacra di calci e pugni in testa». «Tutti sapevano che la picchiava, nessuno faceva niente» e la legge glielo consentiva per “correggerla”. Quando si innamora di Giuseppe, sposato e con figli, più grande di lei, va a vivere da lui, scandalizzando il paese. Rimasta incinta, decidono di trasferirsi a Milano. Il marito la denuncia e i due diventano ricercati per adulterio. Erano gli anni ’60 e allora l’adulterio era un crimine punito con due anni di carcere, il divorzio non c’era, i figli nati fuori dal matrimonio erano “illegittimi”, “figli di NN” e di “madre ignota”. Le tolsero la figlia appena nata e per riaverla dovette dichiarare essere figlia al marito. Per tutto il libro la storia della madre si intreccia con pezzi di quella dell’Italia del tempo. È analfabeta Lucia, ma ha intelletto d’amore, ama sé stessa, non si sottomette alla legge dei padri, non accetta l’infelicità come “dovere coniugale”, vuole essere felice, libera di amare ed essere amata. È coraggiosa, forte, ma è sola e pagherà cara la sua trasgressione. Il femminismo era di là da venire. Il 24 giugno del 1965, trovandosi “in condizioni disperate”, lasciata seduta su un plaid la sua creatura di otto mesi a Villa Borghese, affidandola alla “compassione di tutti”, si allontana e va a morire con Giuseppe nel Tevere. Aveva solo ventinove anni. Tutti i giornali, che l’autrice riprende, parlarono del loro suicidio, della bambina e della gara per adottarla. Pagine di compassione, di amore e gratitudine sono quelle in cui la figlia racconta le ultime ore di vita della madre e del padre. Una madre «resa segreta dalla morte» che la «lascia entrare» nella sua mente, nella sua anima pensante. «Vengo con te – le dice – dove non mi hai portata: nella morte. Scendo a conoscere cosa hai sentito». E sente tutto l’amore della madre, di cui le è grata, sia nell’«aver sopportato lo strazio» di averla lasciata e sia nell’averla consegnata «alla vita», destinandola alla madre adottiva, Consolata. Segue le tracce della madre fino al cimitero dove «la mettono dentro la sua terra» senza messa e funerale. Neppure da morta i genitori la fanno entrare in casa. Un libro potente, di amore e libertà, non di abbandono, di una figlia che riscatta la madre, le rende giustizia e la riporta a sé, a casa.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 16 settembre 2023)

di Mahnaz Ekhtiary


“Donna, vita, libertà”: in Iran la libertà delle donne è diventata un paradigma di libertà per tutti. Donne giovani e giovanissime sono l’anima del movimento. Giovani uomini sono al loro fianco per la propria libertà che non credono possibile senza quella delle loro compagne. È passato un anno e Mahanz, una giovane donna artista, che vive a Milano, racconta come ha lasciato tutto per seguire il suo desiderio di studiare arte a Brera e come nel corso della sua evoluzione artistica, personale e politica si è riconnessa alla rivoluzione in corso nel suo paese.


Podcast on Spotyfy: Mahnaz: Teheran, 3680 km da Milano – Milano è il diavolo



(Spotyfy, 16 settembre 2023)

di Laura Marzi


Sputiamo su Hegel e altri scritti di Carla Lonzi è il primo dei testi della pensatrice e poeta femminista che La Tartaruga pubblica. Il progetto prevede di ridare alle stampe tutti gli scritti di Lonzi che Annarosa Buttarelli, curatrice del volume, definisce la: «femminista più amata nel mondo».

Di certo Carla Lonzi è stata una voce fondamentale in Italia e il gruppo di Rivolta femminile che costituì insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti ha rappresentato un’avanguardia per il movimento delle donne. In questa prima raccolta di testi scritti fra il ’70 e il ’72 vi si ritrova il loro manifesto, che contiene strumenti fondamentali per comprendere non solo il femminismo storico: le donne di Rivolta Femminile individuano nella necessità di una: «presa di coscienza» un passaggio fondamentale per evitare una: «liberazione che poi si rivela esteriore». La parità, per esempio, e l’emancipazione costituiscono nel pensiero di Lonzi e delle donne di Rivolta dei falsi miti, delle vere e proprie sconfitte in quanto forme di adeguamento a un sistema di valori e di potere determinato dagli uomini. Del resto il femminismo di Lonzi non è materiale adatto per il programma di un partito politico né si riduce a una serie di indicazioni per la lotta contro determinate ingiustizie e l’ottenimento di certi diritti, è il pensiero generativo di una rivoluzione paradigmatica.

Sputiamo su Hegel è un testo firmato solo da lei che sorge dalla necessità di chiarire che all’interno della lotta di classe la liberazione delle donne non era contemplata. La dialettica servo-padrone, caposaldo della filosofia hegeliana, è un rapporto, spiega Lonzi, che esiste all’interno del mondo maschile: «la rivoluzione del proletariato è una rivoluzione patriarcale». Più in generale, il titolo di questo pamphlet esprime una presa di coscienza sulle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, appunto, rispetto a un canone, quello filosofico occidentale, che non ha mai contemplato nell’Uomo universale le donne. Questa intuizione di Carla Lonzi è stata poi all’origine di testi di filosofia femminista fondamentali, come per esempio: Nonostante Platone di Adriana Cavarero ripubblicato anch’esso quest’anno da Castelvecchi Editore.

In Sputiamo su Hegel Lonzi riporta dei brani di un colloquio in cui Lenin rimprovera Clara Zetkin del fatto che nelle loro riunioni tra operaie «vi occupate soprattutto delle questioni del sesso e del matrimonio». Ora, questo rimbrotto di Lenin potrebbe risuonare ed è stato da molti interpretato come un’ulteriore prova della frivolezza delle donne, che invece di parlare della lotta proletaria si raccontavano fatti privati. Invece il matrimonio e la famiglia sono le istituzioni su cui si fonda il patriarcato e di conseguenza la “cattività” delle donne: per questo le operaie che si incontravano perché volevano fare la rivoluzione si concentrano proprio sulla loro vita coniugale e certamente non a caso parlano fra loro di sesso. Nessun’altra come Lonzi ha messo in luce l’origine sessuale della subordinazione delle donne nel sistema patriarcale.

In Donna clitoridea e donna vaginale, un altro dei testi contenuti in questa raccolta firmato solo da Lonzi, la pensatrice fiorentina critica apertamente l’idea freudiana per cui il pieno sviluppo sessuale di una donna si compie nel momento in cui riesce a raggiungere l’orgasmo vaginale, mentre, come del resto scrive anche Simone de Beauvoir, la fase del piacere clitorideo deve essere superata perché sarebbe transitoria, immatura. Per Lonzi, invece: «la donna non è la grande madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione».

Citando Masters e Johnson, autori del primo manuale di fisiologia sessuale (1966), Lonzi riporta l’evidenza scientifica che emerge dallo studio dei due scienziati statunitensi secondo cui la clitoride rappresenta l’organo di piacere femminile. Lonzi scrive che il pregiudizio che una donna sia frigida se non riesce a raggiungere la vetta del piacere nel coito dipende dal fatto che l’orgasmo maschile si realizza con la penetrazione. Per Lonzi: «non è più l’eterosessualità a qualsiasi prezzo, ma l’eterosessualità se non ha prezzo». Alle donne viene chiesto di fondersi con il proprio partner, di sentire all’unisono con lui, di perdere il controllo per raggiungere l’acme, ma: «l’erotismo puro – provenendo dallo stato di coscienza – libera nell’essere umano la capacità di diventare individuo».

Tale prospettiva modifica dalle radici l’approccio a questioni fondamentali e sempre attuali: in La sessualità femminile e laborto, un altro dei testi della raccolta, l’obbiettivo non è la lotta per la legalizzazione, ma per una diversa sessualità. Il testo sposta la questione e fa emergere il controsenso che la responsabilità dell’interruzione di gravidanza cada sulle spalle delle donne: se l’uomo mette incinta una donna raggiungendo il suo piacere con l’eiaculazione, perché il peso dell’aborto, della procedura e della colpa, ricadono su chi non solo non ha deciso, ma probabilmente non ha nemmeno goduto nel momento del concepimento?

Carla Lonzi scrive e pratica il femminismo separatista a partire dal punto di vista della differenza, che non va confusa con l’essenzialismo, ma compresa per quello che è: l’instancabile ricerca di un pensiero e di un posizionamento consapevoli e liberi dal patriarcato inteso come struttura, immaginario, sistema. La femminista afroamericana Audre Lorde quasi dieci anni dopo scriverà: «gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone».

In un momento storico in cui da una parte il femminismo occupa uno spazio rilevante nel dibattito pubblico e in quello culturale e dall’altra la cronaca descrive una realtà ancora così tragicamente maschilista, il pensiero di Lonzi continua a essere uno spazio di riflessione imprevista, né rivendicatoria né vittimista, ma rivolta alla destrutturazione dei fondamenti della cultura occidentale e animata da un desiderio indefesso di smascherare il potere.


(Tuttolibri – La Stampa, 16 settembre 2023)