di Laboratorio Ebraico Antirazzista


LƏA, Laboratorio Ebraico Antirazzista, formato da giovani ebree ed ebrei italiani, esprime angoscia e orrore per la situazione in Palestina e Israele. In questo momento di dolore e di devastazione, in cui piangiamo persone amate sia israeliane sia palestinesi, chiediamo la fine del massacro a Gaza e il rilascio immediato degli ostaggi israeliani.

Siamo ancora sgomenti per la carneficina di Hamas del 7 ottobre: niente può giustificare la strage e la cattura di civili inermi. A questo lutto si è aggiunto l’orrore per la violenta campagna militare israeliana volta a punire collettivamente il popolo palestinese. A Gaza, oltre due milioni di persone sono assediate e bombardate dall’aviazione israeliana, private di cibo, acqua, corrente elettrica e corridoi umanitari. Un crimine di guerra non ne giustifica un altro. Chiediamo al governo italiano e all’Unione Europea di attivarsi con urgenza per porre fine allo spargimento di sangue e per raggiungere un cessate il fuoco.

Qui in Europa, denunciamo la stretta sulla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Rifiutiamo la retorica dello scontro di civiltà che sta già causando una drammatica recrudescenza di episodi di islamofobia e antisemitismo. Invece di mobilitare alcune minoranze contro altre, è necessario affrontare con serietà ogni forma di razzismo, e ragionare su altre forme di coesistenza oltre lo stato nazione.

La Nakba, i decenni di occupazione militare della Cisgiordania, le politiche di colonizzazione, apartheid e l’embargo su Gaza sono tra i fattori che impediscono di immaginare un futuro insieme. Come lo sono gli attacchi indiscriminati sui civili. La comunità internazionale è complice delle ripetute violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e della distruzione fisica e morale di tutte le comunità che vivono nella regione. Chi è sul campo ha bisogno dell’aiuto e della pressione di tutti gli attori coinvolti per fare spazio a una soluzione politica che comporti la fine dell’occupazione e la dignità per tutti i popoli. Non c’è altra via d’uscita.


(Radio Onda d’Urto, www.radiondadurto.org, 21 ottobre 2023)

di Roberta Cordaro


Sono arrivata alla storia delle donne tramite la storia degli uomini, non posso negarlo, perché io sono una donna e questa è la storia di come sono tornata a me stessa. Quando alla facoltà di Filosofia – dopo tanto parlare di Platone, Cartesio ed Hegel – arrivai finalmente al corpo, mi accorsi che del mio corpo non c’era traccia! Così, dopo aver scoperto che ogni re era sempre stato nudo, trovai le filosofe. De Beauvoir, Irigaray, Butler, Brownmiller, Young, Martin Alcoff e le altre mi aprirono le “porte della percezione”, quelle che mi portarono a chiedermi – fuori dal fatto solo mentale, ancorché morale – chi fossi. Come una donna che per la prima volta si scopre del patriarcato mi chiedevo: chi sono io se non quel (poco e male) che hanno detto e dicono loro? Ma la risposta non è mai stata lì pronta per me (anche se lo avrei tanto voluto e talvolta, probabilmente, lo vorrei ancora). Ogni passo che facevo presentava timori ed esitamenti. Ad esempio, per tanto tempo mi era bastato leggere dei gruppi di Autocoscienza (Cavarero, Le filosofie femministe) senza indagare oltre, verosimilmente perché ciò mi consegnava a un approccio politico a me noto (quello maschile, dei compagni e delle lotte appassionate!), tenendomi contemporaneamente lì, dov’ero, sulla sedia di un’aula universitaria, in un luogo certo non rischioso. Così decisi di spingermi oltre e finalmente, sotto impulso di una donna concreta, Rita, mi decisi a formare un collettivo. La mia intenzione ufficiale e nobile (!) era quella di recuperare insieme ad altre donne la storia delle donne per combattere le storture del presente. Tuttavia il movente personale, quella pulsione corporea che mi invischiava nel rapporto con le donne, era capire perché in fondo non sentissi di avere con loro un rapporto concreto, solido e reale. D’altra parte, più stavo con loro per loro (le donne) più sentivo di non potermene staccare neanche un momento, che di me non sarebbe rimasto più nulla. Chi sarei stata altrimenti? Se non fossi stata quella che si prendeva cura delle donne e del mondo, sarei stata ancora? Stavo per scoprire che i miei strumenti prima intellettuali e poi morali erano per me una bella arma di difesa: donandomi alle donne mi sarei permessa di rimanere integra emotivamente. E anche se la mia soggettività sarebbe stata al cieco giogo della dipendenza da loro, mi sarei sempre potuta dire che dovevo fidarmi delle donne! Realisticamente nessuna/o – mi confortavo – potrà mettere in pericolo questo mio cantuccio morale. Poi è arrivata Daniela Pellegrini con la sua Autocoscienza e io me ne innamorai: risuonava forte in me ciò che aveva scritto e che diceva. E pensavo: «Sono in contatto diretto con più di mezzo secolo di storia del femminismo italiano; mi porterà in dono il suo bagaglio». Sarebbe stato perfetto per me se fosse semplicemente stato così. Lei sarebbe stata distante da me, nelle sfere celesti della sua storia così piena di materiale, e io in posizione di ascolto, libera di – o, come direbbe Cecilia, piuttosto “abbandonata” ad – agire le mie elaborazioni mentali senza toccare me stessa. L’incontro fu invece per me uno scandalo (!): l’aspettativa di senso alla base della mia intera esistenza di donna era stata disattesa. Daniela non si rivolgeva a me come ad una madre-bambina: né come Crista, la bambina che salverà il mondo e rappresentante di una fantomatica nuova generazione che avrebbe soddisfatto dei bisogni (i suoi?); né come risorsa-oggetto che, convenientemente ridotta alla postura naïf di bambina, le avrebbe concesso di riaffermare i propri convincimenti da capo, ancora e ancora. Non mi arrivò nulla di tutto questo: né sovradeterminazione, né alienazione, né affidamento. Ero libera di esser-ci e questo mi faceva anche un po’ paura (talvolta forse persino rabbia o frustrazione). Era forse questo essere “solo” una donna? Iniziai ad andare all’Autocoscienza con lei e con Valentina, Annamaria, Irene, Tommasina, Antonella, Erica e le altre. Con loro, non senza difficoltà, ho scoperto anzitutto che il rapporto con mia madre che avevo sempre amato, il conflitto con le sorelle che avevo sempre sofferto, l’ambiguità nel rapporto con le amiche che avevo sempre evitato erano il senso stesso del movimento politico che ora toccava anche me. Fuori dalle definizioni date in terza persona, infatti, anche la “(as)senza (di) azione” – di cui scrive Antonella Ortelli – smise di essere il significato opposto di movimento e riprese a vivere la lunghezza del suo significato nella mia prima persona: attraverso il corpo vivo che sono, come una sapiente cassa di risonanza, prassi (politica) e sentimento di me stessa cominciarono ad agi(ta)re un jazz intricato di note e silenzi. Tuttavia, tornava come un mantra una domanda: una (o ogni) volta che avessi ritrovato questa politica me stessa, cosa me ne sarei fatta? Epilogo: quando torni a respirare, non fai che ricercare ossigeno Dopo circa un anno con quel primo Gruppo di Autocoscienza ne desiderai anche un altro e venne fuori molto presto “Autocoscienza 2.0”. In cosa differisse dal primo o perché farne un altro non furono mai domande che mi feci o che mi fecero. Imparai infatti che questo era il senso del separatismo, di quel luogo senza direzioni puntuali o assertive, quandanche spazialmente disponibili e significativamente corpose: non solo lo spazio delle donne (me compresa) non era limitato, non era neppure limitante. Al momento, quindi, so che non c’è una risposta a quella domanda, di me non voglio farmene nulla! E proprio questo è nella mia esperienza il famoso “luogo terzo” di cui dice e scrive Daniela: essere indipendente insieme alle altre, in uno spazio differenziale che non stringe mai le vie del senso e della sensatezza, per il solo fatto che ognuna è sé stessa e nessun’altra, mentre ogni altra risuona facendo spazio a sé stessa. Questo è quanto sperimento ogni settimana, con Claudia, Valentina, Alessandra, Francesca, Brenda, Maria, Tommasina, Silvia, Daniela e tutte le donne che fanno autocoscienza con me. Questo è quello che mi porto anche fuori dal Gruppo dell’Autocoscienza: nell’incontro con le donne che di teoria non sanno proprio nulla e con quelle che invece percorrono strade parallele. Ci si chiede se l’Autocoscienza sia morta e in quale forma possa rivivere, ma nella mia esperienza questa domanda è priva di senso! Suona come “Dio è morto, viva Dio!” L’Autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia. Parliamo, purché siamo, perché la nostra esistenza non consiste in un atto mentale e non è neanche chiusa in una crisalide di senso, come una bella teoria! Il fatto è che esserci, in questo sì Cartesio c’ha azzeccato, richiede la stessa fatica che nascere. Un ultimo appunto vorrei sottolineare prima di dover chiudere questo testo: se la storia delle donne è pur sempre una genealogia del dolore che consiste nella profonda discrepanza tra l’esserci e il fare, tra una politica autocoscienziale e una politica della coscienza collettiva, a maggior ragione credo che sia necessario rimetterci a rischio. Ci sarà sempre un “fantasma che si aggira per la politica delle donne” finché ci aspettiamo di essere tutte una sola parte.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2023)

di Cecilia Alagna


Ho scelto come titolo di questa breve riflessione due passaggi del secondo manifesto di Rivolta Femminile, li ho ricombinati fra loro perché questo rimescolare discorsivo restituisce quello che l’autocoscienza è diventato per me nell’arco di tre anni. È per me un’impresa rischiosa parlare dell’autocoscienza, provo il senso della vertigine, perché essa è una pratica connessa al nostro essere donne-persone-soggetto nel nostro divenire consapevole e proprio per questo mi sfuggono sempre i termini del discorso, i confini, le forme. Tutto è iniziato nel 2018, alle soglie dei miei trentacinque anni, quando l’idea della pratica dell’autocoscienza è diventata qualcosa di ricorrente nel panorama dei miei pensieri e allora, pur non avendo minimamente idea di che cosa aspettarmi, ne coltivai da sola il desiderio; poi, fra il 2019 e il 2020, quando il mio essere donna-madre-moglie era diventato una dimensione di solitudine e alienazione si imposero le parole di mia madre «Sii più femminista nella tua vita personale e non solo livello politico»: per la prima volta nella mia vita le avevo sentito pronunciare delle parole che avevano al centro me e che mi richiamavano a farmi soggetto pensato di me stessa. Quelle sono state le ultime parole di amore che le ho sentito pronunciare: non c’era rimprovero nella sua voce né giudizio, erano le parole di una donna verso un’altra donna; lei donna clitoridea, io donna vaginale. L’autocoscienza è iniziata in quello scambio.

Nei mesi che seguirono iniziai una guerra, per usare un’espressione cara ad Angela Putino, con me stessa e per mesi volteggiarono nella mia mente le parole del filosofo Seneca «Vindica te tibi» (affrancati, liberati), un’espressione che con stupore incontrai poi alle soglie del 2021 fra le parole di Carla Lonzi che mi invitavano, come aveva fatto per tre anni la mia amata professoressa di filosofia del liceo – suor Clotilde Milinci – a fronteggiare i meccanismi di autodifesa in cui ci crogioliamo per permanere cullate dalla nostra falsa coscienza; oggi probabilmente qualcuna direbbe che suor Clotilde ci invitava ad essere out of the comfort zone, lei la chiamava “vita autentica”, “essere persone e non individue”. Se per una parte considerevole della vita la mia coscienza era sempre stata punzecchiata e richiamata da donne più grandi di me alle quali ero legata da una relazione gerarchica affettuosa, mi sentivo finalmente pronta a fare lo stesso in relazioni simmetriche e prive di gerarchia.

Oggi l’autocoscienza, oltre che pratica di incontro, è diventata postura, matrice. Durante l’incontro di Via Dogana sono risuonate, quasi che fosse la mia bocca a pronunciarle, le parole di tre donne: Maria Castiglioni, che ha parlato del suo gruppo di autocoscienza, Roberta Cordaro, che è legata ai luoghi terzidi una delle madri dell’autocoscienza italiana, Daniela Pellegrini, e Claudia M., una delle donne con cui la pratico settimanalmente; mi è sembrato, nell’ascoltarle, che ricorresse un termine a me caro: domande. Se l’autocoscienza è iniziata in un dialogo da donna a donna fra me e mia madre, essa è continuata nelle altre donne, prima fra tutte Alessandra Lanivi, per me amatissima, alla quale devo le domande più difficili, quelle che hanno ipotizzato e svelato le mie contraddizioni. Le domande dall’altra che ti ascolta in autocoscienza sono una mano tesa, un appiglio e al tempo stesso l’epicentro di scuotimento, l’epicentro di quel terremoto che fa emergere trasformativamente questa me incarnata; l’autocoscienza è l’altra, appunto, e questa soggetta che ti è simile e divergente al tempo stesso è spinta, sostegno, scialle che ti avvolge, energia che ti contiene in un legame simmetrico di rispondenze. Sebbene ritenga che questa pratica sia possibile in una prospettiva di relazione duale fra donne, penso che la dimensione del “piccolo gruppo”, del luogo terzo – come giustamente lo definisce Daniela Pellegrini – variamente ma stabilmente abitato, sia quella ottimale, poiché il fatto che le donne si facciano presenza e coscienza costante delle altre rende possibile il cogliere delle contraddizioni: ciascuna donna in autocoscienza è soggetto che si pensa narrandosi e al tempo stesso soggetto contraddicente, uno specchio vivente e pensante, che non riflette in modo deformato ma che richiama a uno sguardo più attento quando l’altra si adagia nelle autodifese. È proprio da una pratica separatista stabilmente abitata e vissuta che è possibile rendere politico ciò che emerge nel farsi dell’autocoscienza; è la stabilità dello scegliersi come soggette pensanti a rendere possibile, poi, la resa scritta, poiché la scrittura è per me la foce naturale di questa pratica e fa aderire il pensato al vissuto una volta che le contraddizioni hanno trovato una risoluzione discorsiva e con essa la politica. L’autocoscienza è l’altra, ma la mia avventura sono io. Non posso che concludere questa brevissima riflessione con un pensiero per le amiche divergenti con le quali condivido e/o ho condiviso questa pratica: Alessandra, Angelica, Anita, Caterina, Claudia, Daniela P, Donatella, Elisa, Francesca M, Francesca S, Letizia, Maria, Roberta, Susanna, Valeria B., Valeria Q.


(Via Dogana Tre www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2023)


Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti ,  La Tartaruga edizioni 2023. È impossibile immaginare la storia del femminismo senza Carla Lonzi. Grazie alla sua visione, al suo pensiero e alle sue pratiche, si è trasformato il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità, dei loro desideri. Insoddisfatta delle ideologie rivoluzionarie che non lasciavano spazio all’autocoscienza femminile, è stata e continua a essere una vera bomba nelle società dove esistono forme di assoggettamento, non solo di donne. La riedizione delle sue opere iniziata con Sputiamo su Hegel e altri scritti è stata salutata in tutto il mondo con entusiasmo e speranza. Annarosa Buttarelli dialoga con Marta Equi.


Per acquistare on line Sputiamo su Hegel e altri scritti: https://www.bookdealer.it/goto/9788894814484/607

di Luca Celada


Migliaia di persone si sono riversate sul National Mall, la spianata centrale di Washington, in quella che è stata definita la maggiore manifestazione ebraica pro-Palestina. La folla ha scandito slogan come “il colore del nostro sangue è lo stesso” e “il nostro dolore non è la vostra arma”. La protesta di mercoledì è stata fra le più esplicite nel formulare una posizione netta contro la guerra, vicino cuore del potere americano che in questi giorni, come ha scritto il Washington Post, sta dando fondo ai magazzini per rimpinguare gli arsenali di Tel Aviv.

Nella folla rumorosa c’erano molti giovani, tatuaggi e piercing accanto a rabbini in scialli da preghiera e shofar – il rituale corno di montone per chiamare a raccolta i fedeli. C’erano anche pacifisti laici e palestinesi con la kefiah ma la manifestazione è stata indetta dalla rete attivista dei pacifisti ebrei che negli ultimi anni di regressione autoritaria e xenofoba ha messo efficacemente in relazione l’involuzione totalitaria ed antisemita del XX secolo con l’attuale recrudescenza della neodestra. Formazioni come Never Again Action sono state fra le più efficaci nell’articolare una critica progressista attraverso azioni di protesta e disubbidienza civile (per esempio in centri di detenzione per immigrati). Ora è da questa rete che proviene l’opposizione più incisiva ai crimini di guerra nel braciere mediorientale con manifestazioni in molte città americane.

A Washington, già lunedì scorso la protesta aveva preso la forma di un picchetto davanti alla Casa Bianca per invocare un immediato cessate il fuoco, con l’arresto di trenta persone. L’altroieri, 450 persone, appartenenti a Jewish Voice for Peace e If Not Now, fra cui 25 rabbini, hanno occupato la rotonda del Cannon building, l’edificio degli uffici dei deputati per fermare “i genocidi attualmente in corso”. I manifestanti indossavano maglie nere recanti la scritta “not in our name” (non nel nostro nome) e sul retro “ebrei per l’immediato cessate il fuoco”. Più di 300 di loro sono stati arrestati dalla Capitol Police e almeno tre imputati di resistenza e pubblico ufficiale.

«In decenni di attivismo ebraico antisionista, non ho mai visto nulla di simile», ha affermato Naomi Klein. «È nostra responsabilità impedire che i nostri genitori e nonni, sorelle fratelli e cugini, sacrifichino le loro anime alla ricerca di sanguinaria vendetta. Non lasceremo che il nostro timore dell’antisemitismo venga manipolato per ostruire l’unica possibile soluzione politica: fine all’occupazione e al colonialismo, libertà ed autodeterminazione». «Vorrei che il popolo palestinese potesse vederci qui ora», ha detto dallo stesso palco Rashida Tlaib, unica parlamentare palestinese del Congresso. «Che sapessero che non tutti gli americani li vogliono vedere morti».

Secondo dati raccolti dall’osservatorio Crowd Counting Consortium, dall’inizio delle ostilità iniziate con la strage perpetrata da Hamas, in America si sono registrate più di 400 manifestazioni, veglie e presidi. 270 circa sono state di sostegno ad Israele e 200 a favore dei palestinesi. Le proteste ebree di Washington hanno espresso piuttosto le voci di un crescente movimento pacifista ed equidistante, che invoca l’immediata cessazione delle ostilità, nell’interesse di tutte le vittime. Un contrappunto ai proclami di alleanza e sostegno militare ribaditi da Joe Biden anche “al fronte”. Parallelamente alle dichiarazioni di supporto incondizionato, il presidente sembra invero perseguire una politica di “contenimento” delle azioni israeliane o quantomeno favorire i corridoi umanitari a Gaza (Biden ha nuovamente parlato alla nazione ieri notte, troppo tardi per queste pagine).

Il panorama americano si è comunque rivelato più variegato di quello che sarebbe stato lecito prevedere. La destra è compattamente schierata con Netanyahu, alcuni più cinicamente di altri. Il governatore della Florida De Santis ha organizzato charter di “evacuazione” da Tel Aviv, pubblicizzandoli in spot elettorali. Il dissenso contro la guerra ha invece raggiunto anche le istituzioni politiche, con l’annuncio ieri di Josh Paul, un alto dirigente dell’ufficio che sovrintende alla cessione di materiale bellico all’estero, che ha lasciato il Dipartimento di stato, motivando le dimissioni con «l’inaccettabile politica che mira ad ampliare e velocizzare la fornitura di armi letali ad Israele». Al Senato, infine, Bernie Sanders ha bloccato l’approvazione di un decreto repubblicano che avrebbe proibito l’invio di aiuti umanitaria Gaza in quanto “potenziale ausilio ad Hamas.” «A Gaza vi sono attualmente centinaia di migliaia di persone innocenti che hanno perso casa, cibo, acqua e carburante», ha ricordato Sanders. «Metà di loro sono bambini».


(il manifesto, 20 ottobre 2023)

di Monica Lanfranco


Forse dal prossimo anno non sarà più possibile associarsi solo tra donne in Italia. O meglio: sarà possibile creare associazioni di sole donne, ma senza avere l’accesso al registro come Aps, cioè come associazione di promozione sociale, perdendo dunque la possibilità di partecipare alla stragrande maggioranza dei bandi nazionali, che per lo più richiedono questa caratteristica per essere valutati, accolti e finanziati.

Non è un fatto meramente tecnico, ma bensì assume un connotato politico: non essere iscritte al registro delle associazioni come Aps, e quindi poter essere inserite solo nel registro ‘minore’ degli altri enti del Terzo settore, comporta logicamente una netta diminuzione della possibilità di accesso alle risorse economiche pubbliche e private. Se alla già complessa partecipazione ai bandi aggiungi anche un declassamento il risultato è, garantito, meno futuro, più povertà e rischio di smettere di esistere.

Prendiamo per esempio alcune storiche associazioni di donne, come Arcilesbica, nata ufficialmente nel 1996, che associa donne (lesbiche e non); o Udi (Unione donne italiane), una tra le prime e più autorevoli associazioni di donne in Italia, che nasce nel 1944 e che per decenni stamperà la prima testata femminista, Noidonne. O il Cif, di stampo cattolico, anch’esso nato nel 1944. Dall’inizio dell’autunno 2023 hanno iniziato ad arrivare le prime lettere da parte delle Regioni dove sono registrate le associazioni di donne, notificando che senza un cambio statutario le associazioni non potranno più essere accolte nel Runts, il registro nazionale del Terzo settore. In Emilia Romagna, a meno che non vengano apportate modifiche agli Statuti, l’Udi di Ferrara, di Modena e di Ravenna (accusate di discriminare gli uomini non ammettendoli all’associazione), saranno cancellate dal Runts, così come la stesa Arcilesbica, che ha a Bologna la sede nazionale.

Le tre Udi emiliano romagnole, di concerto con Udi Nazionale, hanno posto un quesito interpretativo del decreto 117/2017 al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e chiesto alla Regione Emilia-Romagna di sospendere la scadenza del 21 ottobre in attesa della risposta del Ministero. Lo stesso ha fatto Arcilesbica, che chiarisce: «Arcilesbica è un’associazione di donne perché il lesbismo è un’esperienza di donne. L’accesso all’associazione è aperto, perché tutte le donne senza discriminazione possono associarsi. Anche con la nuova legge dovrebbe essere riconosciuto che il tesseramento femminile è coerente con le finalità perseguite da un’associazione lesbica, cioè lottare contro la violenza ai danni delle donne, e ciò è di interesse generale. Per queste ragioni abbiamo chiesto l’iscrizione come APS».

Le attiviste sostengono che «una interpretazione discutibile della legge da parte degli uffici regionali del Runts è alla base di questa situazione. In ballo c’è la sopravvivenza stessa dell’associazionismo femminista separatista, quello che in ottant’anni di storia, per quel che concerne l’Udi, ha lavorato strenuamente nottetempo nel solco dell’articolo 3 della Costituzione per una sua piena applicazione. Vani fino a ora i tentativi informali di spiegare che l’affiliazione esclusivamente femminile non è un dettaglio per le associazioni femminili, né una svista statutaria a cui porre con solerzia rimedio con una banale revisione di editing, ma il presupposto stesso della nostra costituzione, la ragione intrinseca e sostanziale della natura del nostro agire politico, che elaboriamo e mettiamo in atto con l’obiettivo di colmare lo svantaggio sociale che, da sempre, grava sulle donne a causa della normalizzazione secolare della disparità di potere fra i sessi definita dal Patriarcato e che solo le lotte dell’ultimo secolo delle donne hanno rilevato, tematizzato e denunciato creando mobilitazione attorno alla costruzione di una cultura e una società diversa da quella che conosciamo con le donne protagoniste».

Alla vigilia dello scadere dell’ingiunzione pena la cancellazione è stata presentata una interrogazione parlamentare del Pd sulla vicenda alle ministre Roccella e Calderone per fare in modo che l’attività di UDI e delle altre associazioni di donne non sia messa a rischio da provvedimenti che, interpretando il principio antidiscriminatorio in modo esclusivamente formale, finiscono per negare la pari dignità sociale di queste realtà associative.


(Il Fatto Quotidiano Blog, 20 ottobre 2023)

di Silvia Motta


È possibile oggi, ancora, riproporre e praticare l’autocoscienza, cioè quella potente invenzione politica che come una formula magica è stata alla base della miriade di gruppi che con la loro esistenza hanno dato vita al movimento femminista degli anni ’70?

Questa domanda, in maniera diretta o implicita, ha attraversato tutta la discussione che si è svolta nell’incontro della redazione aperta diVia Dogana 3 il primo di ottobre.

Mentre ascoltavo gli interventi continuavo a fare dentro di me il confronto tra “allora” e “oggi” e a cercare di capire perché in quegli anni l’autocoscienza si è imposta con tanta velocità e facilità, mentre oggi, pur riconoscendone l’importanza e il valore, se ne constata anche la difficoltà.

Le giovani chiedono a noi più anziane: come si fa a fare l’autocoscienza? In questa domanda c’è secondo me la grande differenza tra la situazione degli anni ’70 e quella di adesso.

Allora godevamo di un contesto molto favorevole: c’era/c’era stato il ’68.

Gli studenti e le studentesse del ’68, da pochissimo presenti in massa nelle università, si sono trovate/i nella condizione di poter esprimere tutto il loro disagio e la loro avversità verso un mondo dove la famiglia e la società erano un concentrato di autoritarismo e di divieti. Per le studentesse in particolare questo ha significato, insieme alla presa di coscienza rispetto alle disuguaglianze sociali, l’avvio di un processo di consapevolezza su di sé in quanto donne.

Questo “in quanto donne”è stata la chiave che ha aperto alla nascita del movimento. Mettere al centro il proprio essere donne è stato un gesto di profonda rottura rispetto al millenario oscuramento ed emarginazione che avevamo ereditato e noi stesse interiorizzato. Si è concretizzato nel riunirsi solo tra donne, cosa che oggi può apparire un po’ scontata perché le donne si sono fatte più spazio nella società e nel mondo. Allora invece suscitavamo riprovazione, sospetto, incomprensione o ilarità.

Per i “compagni” dell’Università di Sociologia di Trento dove allora ero andata a studiare, l’allontanamento di quasi tutte le donne dalla politica del movimento studentesco è stato un trauma, una cosa incomprensibile perché le relazioni erano amichevoli, piacevoli, improntate prevalentemente al rispetto e alla stima. Ma noi ragazze, senza ripensamenti, avevamo bisogno di “una stanza tutta per noi”.

La forza di questo gesto di separazione ha reso spontaneo/privo di artificiosità quello che avveniva nel gruppo di autocoscienza e il metodo degli incontri. Chi voleva si metteva in gioco parlando di un problema legato all’essere studentessa – cioè di sesso femminile – e questo apriva lo scambio e il confronto fra tutte per rielaborare, oltre le proprie percezioni e proiezioni la specificità di una condizione di sottomissione che ci accomunava e che volevamo smantellare. A questo proposito, i documenti delle donne americane e quelli di gruppi di donne italiane preesistenti al movimento delle studentesse (DEMAU, Rivolta Femminile) ci hanno fornito contenuti fondamentali.

Questo ha avviato un processo di cambiamento che ha avuto grandi conseguenze sul piano personale e sociale.

Oggi non è più così.Tante, troppe cose sono cambiate perché si possa riprodurre tout-court questa onda spontanea e gioiosa che portava a riunirsi, aggregarsi, prendere la parola, agire. E produrre vistosi cambiamenti nella società.

Il contesto adesso, per un insieme di ragioni, è molto più complesso. Non c’è più quel clima sociale favorevole, quell’energia che ha caratterizzato gli anni ’70, che ha funzionato da motore del cambiamento, favorendo così “il nuovo” e anche la nascita di quel movimento di donne.

Inoltre, non c’è più la necessità e l’urgenza che sentivamo allora e che ci aveva così motivato,proprio perché le conquiste fatte hanno aperto spazi (o sprazzi) di libertà femminile prima inesistenti. D’altra partequelle che per noi “vecchie” sono state grandi conquiste, per chi allora non era neppure nata sono qualcosa di “naturale”, scontato. È il mondo (migliore) che hanno trovato.

Questo non vuol dire che non ci sia più presenza attiva, visibile e politica delle donne nella società. Basti pensare al Metoo, dove la presa di coscienza delle donne che hanno denunciato e la dinamica di contagio mondiale che ne è derivata ricorda moltissimo quel che è avvenuto negli anni ’70. E ancora, la denuncia e la lotta contro la violenza dei maschi (molestie e femminicidi) è una bandiera intorno alla quale si riempiono le piazze in tutto il mondo. È di pochi giorni fa l’ondata di riprovazione che ha suscitato, non solo in Spagna, il “bacio rubato” alla calciatrice della Nazionale femminile dal presidente della Federcalcio.

Purtroppo queste azioni tendono a risolversi in leggi contingenti, deboli, spesso inutili e fatte male da maschi e anche da donne che non amano riconoscersi come donne. Sono leggi incapaci, per loro natura, di operare a una reale modificazione della cultura e dei comportamenti diffusi. Anzi, il panorama attuale ci restituisce una situazione davvero critica dove addirittura si tenta di portare indietro le cose e smantellare le preziosissime conquiste fatte dal movimento delle donne.

Se quanto detto può mettere a fuoco alcuni aspetti delle difficoltà soggettive che complicano oggi il “risorgere” dei gruppi di autocoscienza nella forma esatta di com’era agli esordi del femminismo degli anni ’70, che dire del fatto che questo dovrebbe realizzarsi in una società grandemente diversa da quella di cinquant’anni fa? Una società dove la rivoluzione tecnologica – questa sì – ha cambiato modalità di comunicazione, di relazione, di lavoro e di organizzazione? Un mondo dove altri problemi che in quegli anni poco ci sfioravano, come il cambiamento climatico e lo spostamento di grandi masse di persone sul pianeta, oggi si impongono come una realtà quotidiana e urgente?

Quindi, in questo contesto cosa può voler dire riproporre o continuare a fare l’autocoscienza?

Quello che ho capito con la discussione avvenuta nella riunione del Via Dogana 3 si sintetizza per me in questi punti:

– l’autocoscienza, cioè il partire da sé per andare oltre sé come metodo e forma di pensiero, è ciò che intendiamo/continuiamo a intendere come base del “fare politica”, tutta la politica, non solo quella che riguarda le donne;

– oggi gli strumenti a disposizione per fare politica si sono moltiplicati, per tutti e anche per noi donne. Questa è una meravigliosa opportunità e un vantaggio, ma anche un possibile ostacolo. È un vantaggio perché ci permette una capillarità prima sconosciuta di realizzare forme nuove di organizzazione e di scambio attraverso i social, i siti, le reti, le piattaforme, le riunioni a distanza. Ne parlavano le più giovani nell’incontro, che infatti hanno realizzato dei podcast, hanno aperto siti e sono attive sui social. È invece un ostacolo se l’incontro in presenza, in carne e ossa, viene relativizzato o del tutto scavalcato.

Parliamone ancora per andare avanti.


(Via Dogana Tre www.libreriadelledonne.it, 6 ottobre 2023)

di Chiara Manetti


Pochi giorni prima degli attacchi di Hamas contro Israele e dei bombardamenti israeliani su Gaza, centinaia di donne vestite di bianco, impugnando ombrelli nivei, si sono riunite attorno al Museo della Tolleranza di Gerusalemme. «Vogliamo la pace», hanno cantato le manifestanti. «Smettetela di uccidere i nostri figli». Tutte quelle donne, israeliane e palestinesi, hanno chiesto la fine di un conflitto che attanaglia i loro popoli da decenni, un conflitto che è tornato a riempire le prime pagine dei giornali tre giorni dopo quella manifestazione pacifista organizzata da Women Wage Peace e Women of the Sun.

Il 7 ottobre 2023, il movimento israeliano Women Wage Peace ha pubblicato l’immagine di una colomba ferita e macchiata di sangue, con un messaggio: «Mattinata orribile. I nostri cuori sono con i residenti del centro e del sud di Israele e con le nostre forze armate. Osserviamo lo svolgersi degli eventi con il fiato sospeso. State al sicuro. Mantenete i vostri cari al sicuro».

Due giorni dopo, il gruppo pacifista femminista ha denunciato il rapimento da parte del gruppo militante palestinese di Vivian Silver, una delle più note attiviste per la pace tra israeliani e palestinesi e fondatrice di Women Wage Peace. Suo figlio, Yonatan Ziegen, ha sentito la madre al telefono quando il kibbutz Be’eri dove viveva, una piccola comunità proprio sul confine con Gaza, è stato attaccato da Hamas. «Ti voglio bene, mamma. Non ho parole. Sono con te». «Ti sento», gli ha risposto lei su whatsapp. E poi, più nulla. Da allora, non si hanno notizie di Silver.

Nei giorni successivi, il movimento ha scritto: «Ogni madre, ebrea e araba, dà alla luce i suoi figli per vederli crescere e fiorire e non per seppellirli. Ecco perché, anche oggi, nel dolore e nella sensazione che la fede nella pace sia crollata, tendiamo una mano pacifica alle madri di Gaza e della Cisgiordania». Il 13 ottobre, intervistata dal quotidiano israeliano Haaretz, la co-direttrice del movimento palestinese Women of The Sun Layla Sheikh ha spiegato: «Vogliamo essere oneste e aperte, ma dobbiamo anche stare attente perché ci sono persone nella società palestinese che non approvano ciò che facciamo (il nostro lavoro femminista e la nostra partnership con Women Wage Peace). Ma come donne, come madri e come palestinesi, dobbiamo dire la nostra verità». La fondatrice del gruppo, Reem Hjajara, ha raccontato di avere «una figlia, sedici anni, e due ragazzi, diciotto e quattordici. Voglio che vivano una vita migliore della mia. Non penso solo a mia figlia, ma a tutta la comunità».

Entrambe le organizzazioni, spiega su The Conversation Siobhan Byrne, direttrice dell’Institute for Intersectionality Studies della University of Alberta, sono nate dopo la guerra di Gaza nel 2014, che durò 50 giorni e causò la morte di oltre 2.200 palestinesi. Women Wage Peace è stata fondata proprio quell’anno, e oggi conta circa 45.000 membri israeliani: è il più grande movimento pacifista con sede in Israele. Women of the Sun, con sede a Betlemme, è più recente: è nata nel luglio 2021 dalle palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana. I due gruppi fanno parte dell’Alliance for Middle East Peace, una coalizione di oltre cento organizzazioni non governative che lavorano per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

L’iniziativa di Women Wage Peace e Women of the Sun non è l’unica a chiedere una risoluzione del conflitto: il movimento Women in Black in Israele risale al 1988, in risposta all’inizio della prima Intifada palestinese, e chiede ancora oggi “Stop all’occupazione” con delle veglie settimanali in tutto il Paese. Qualche anno dopo, nel 1993, donne palestinesi e israeliane hanno dato vita a Jerusalem Link, uno dei programmi congiunti per le donne più famosi e riconosciuti a livello internazionale, nato in seguito al processo di pace di Oslo. Il gruppo riunì le donne israeliane rappresentate da Bat Shalom (Figlia della Pace) e le donne palestinesi coinvolte nel Markaz al- Quds la l-Nissah (Centro per le Donne di Gerusalemme).

Lo sforzo collettivo di queste donne non arretra. In occasione della visita in Israele di Joe Biden, Women Wage Peace ha diffuso un messaggio rivolto al presidente degli Stati Uniti: «La imploriamo di aiutarci a prevenire un’ulteriore escalation e altri danni a vite innocenti da entrambe le parti, di garantire il rilascio immediato e sicuro di tutti gli ostaggi e di aiutarci a risolvere il conflitto piuttosto che a gestirlo». E infine: «Ascolti la preghiera delle madri: porti loro la pace».


(La Svolta, 19 ottobre 2023)

di Jennifer Guerra


La situazione a Gaza si aggrava ogni minuto di più, a maggior ragione dopo l’esplosione all’ospedale Al Ahli Arabi che avrebbe causato almeno 500 morti. Al momento è difficile fare previsioni su cosa succederà nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore, ma una cosa è chiara: siamo di fronte a una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente e, come sempre accade, saranno i soggetti più vulnerabili a pagare il prezzo più alto.

Nei giorni scorsi l’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, aveva lanciato l’allarme sulle conseguenze che subiranno le donne nel conflitto, specialmente quelle incinte. Attualmente in tutto il territorio palestinese ci sono 123mila donne in attesa di un figlio, di cui 13.649 partoriranno entro la fine del mese. 50mila donne incinte vivono nella striscia di Gaza e per loro spostarsi costituirebbe un grande rischio per la salute. La situazione sanitaria è fuori controllo: già prima dell’escalation a Gaza mancava il 48% del materiale sanitario essenziale, fra cui 20 apparecchi indispensabili per le cure materne e neonatali. L’OMS al 13 ottobre aveva conteggiato almeno 37 attacchi a strutture ospedaliere e ambulanze che hanno causato la morte di medici e infermieri, oltre che di pazienti, a cui va aggiunto il devastante attacco del 17 ottobre.

Il rischio però non è soltanto di tipo sanitario. L’aumento dei tassi della violenza di genere è infatti una delle conseguenze più comuni nei momenti di guerra e di crisi umanitaria. In Palestina la situazione è da sempre problematica: nel 2019, quasi il 60% delle donne sposate aveva subìto una qualche forma di violenza di genere. I dati sono incompleti, anche a causa della reticenza delle donne ad affrontare l’argomento o a riconoscere come tali gli episodi di abuso. È stato ampiamente dimostrato come la violenza di genere si esacerbi nei luoghi di conflitto, problema a cui si aggiungono la mancanza di cure mediche, di assistenza psicologica o di luoghi sicuri in cui rifugiarsi. Già durante la crisi del 2021, durante gli sgomberi del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est da parte dei coloni israeliani, l’UNFPA aveva registrato un’escalation della violenza di genere, che viene considerato «uno dei problemi più seri e complessi che le donne palestinesi devono affrontare». La violenza aumenta nei confronti delle donne con disabilità, molte delle quali sono rimaste ferite durante gli scontri e i bombardamenti.

In previsione di un’eventuale invasione di terra, il rischio è anche quello degli stupri di guerra. In generale, è diffusa l’idea che a confronto con altri conflitti, i soldati israeliani non abbiano mai fatto un utilizzo sistemico dello stupro come arma di guerra, anche se sono diversi gli episodi di violenze sessuali registrati nel corso degli anni, specie in situazioni di vulnerabilità come gli interrogatori, le visite in carcere o ai checkpoint. Come fa però notare il ricercatore Revital Madar, specializzato nel conflitto israelo-palestinese, la nozione di “stupro di guerra” è inadeguata nel contesto del regime di sopraffazione che Israele ha inflitto sulla Palestina a partire dal 1948. Qualsiasi dato è poi viziato dalla ancor maggiore difficoltà delle vittime a rivolgersi ai centri antiviolenza, dall’enorme sproporzione di potere tra israeliani e palestinesi e dalla mancanza di un quadro normativo di riferimento, che di fatto crea un clima di impunità. Tuttavia, se l’invasione di terra dovesse concretizzarsi, ci troveremmo di fronte a uno scenario inedito e dalle conseguenze imprevedibili.

La violenza di genere nei luoghi di conflitto è stata condannata dalla risoluzione dell’ONU 1820 del 2008, la prima a riconoscere in maniera esplicita la portata del fenomeno. Nella risoluzione non solo si condanna lo stupro perpetrato da soldati contro civili come tattica di guerra (considerato un crimine contro l’umanità), ma si sottolinea come i conflitti aumentino i tassi di violenza, annullino i meccanismi di protezione delle vittime e favoriscano la proliferazione di luoghi ad alto rischio, come i campi profughi. In questo momento gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla protezione dei civili, sullo stop ai bombardamenti indiscriminati da parte di Israele e sull’invio di aiuti umanitari, per aiutare la popolazione e ancor più in particolare i soggetti fragili, come le donne, i bambini e gli anziani.

La situazione di Gaza purtroppo non è nuova, ma per molti aspetti è unica nel suo genere, perché oltre al conflitto attuale, già subiva le conseguenze dell’occupazione decennale di Israele, in una situazione di estrema deprivazione materiale che colpisce in primo luogo le donne, le bambine e le ragazze. Nel libro del 1974 Contro la nostra volontà, la femminista Susan Brownmiller riconduceva lo stupro di guerra alla progressiva sparizione delle donne dalla scena pubblica.

Escluso dalle decisioni politiche e militari, nascosto alla vista altrui, il corpo delle donne diventa un terreno contro cui è possibile fare qualunque cosa senza subire alcuna conseguenza. In altre parole, è l’invisibilizzazione delle donne che favorisce il dilagare della violenza nei loro confronti. E le donne che vivono a Gaza e nel West Bank ne vivono una duplice: in quanto donne e in quanto palestinesi.


(fanpage.it, 18 ottobre 2023)

di Giansandro Merli


«Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere nella mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito fallirei nella comprensione di un quadro più completo». Judith Butler ha un tono pacato e la voce bassa, la potenza del messaggio è nelle parole e nei gesti. Siamo all’università di Bari dove sta per ricevere, prima in Italia, il dottorato honoris causa in Gender Studies.

Nella cerimonia la filosofa statunitense, che tra i tanti libri ha pubblicato La forza della non violenza. Un vincolo etico-politico, parlerà di «immaginazione oltre la paura e la distruzione». Una lectio magistralis che non fa sconti a nessuno: dal governo italiano al regime russo, fino alla chiesa cattolica, c’è un fronte globale che ha trasformato il «gender» da strumento di analisi critica e liberazione in un «fantasma» attorno al quale catalizzare le principali paure del mondo contemporaneo. Con noi discute della situazione in Medio Oriente.

Quando un evento crea uno choc tale da rendere evidente che ci sarà un prima e un dopo – l’11 settembre 2001, l’invasione russa dell’Ucraina o il recente attacco di Hamas – pare che ognuno sia chiamato a schierarsi da una parte o dall’altra. La ricostruzione di storia e contesto è giudicata un’inutilità o perfino un tradimento. Questa sorta di presentismo è un dovere o un pericolo?

Dobbiamo condannare pubblicamente la violenza contro gli israeliani avvenuta il 7 ottobre e perpetrata da Hamas. Ma dobbiamo anche chiederci se è tutto ciò che va condannato. Siamo sconvolti che bambini, anziani e civili indifesi siano stati uccisi. Ma siamo stati sconvolti anche nei decenni in cui Israele ha bombardato case, scuole e ospedali a Gaza? Sappiamo che Israele dice: sono scudi umani, usati per proteggere installazioni militari. Ma abbiamo i numeri dei bambini morti a Gaza. Sono migliaia. Abbiamo visto persone uccise e case distrutte dai bombardamenti.

Dobbiamo chiederci perché la nostra indignazione è riservata ai civili israeliani. Io sono ebrea e quando gli ebrei vengono ammazzati il mio cuore si spezza. Quando sento che questo è stato il più grave attacco a qualsiasi gruppo di ebrei dalla seconda guerra mondiale sono sconvolta. Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere dentro la mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito restringerei la mia visione e fallirei nella comprensione del quadro completo.

Se non vogliamo più assistere a una simile violenza dobbiamo chiederci cosa c’è bisogno di fare per eliminarla per sempre. La risposta non è lo sterminio degli abitanti di Gaza o la loro espulsione in Egitto, come pensano alcuni leader di Israele. La risposta è liberare i palestinesi dall’occupazione e trovare una forma di coabitazione politica che permetta alle persone, a tutte le persone, di vivere con uguaglianza, libertà e giustizia. Solo una soluzione di democrazia radicale può mettere fine alla violenza.

Tracciarne la storia è un esercizio teorico o serve a trovare quella soluzione?

Dobbiamo imparare la storia di Gaza. Quando è stata costruita? Chi è stato messo lì contro la sua volontà? Dove viveva prima? Cosa sappiamo della loro espulsione e dell’occupazione? E poi: come è stata formata Hamas? Quando? Sappiamo quanti palestinesi la sostengono? Conosciamo le differenze tra l’ala politica e quella militare di Hamas? Questa non è teoria, è storia, è sociologia. È politica.

Dobbiamo conoscere tutta la vicenda, da entrambi i lati, inclusa la colonizzazione degli israeliani su quelle terre e l’espropriazione dei palestinesi mentre gli ebrei cercavano un rifugio. La conoscenza di questa storia è necessaria per avere una visione sufficientemente ampia da portare a una pace definitiva.

Cosa significa l’attacco di Hamas, con quel tipo di violenza e di progetto politico, per i movimenti della sinistra che nel mondo sostengono la causa palestinese?

La sinistra deve condannare le tattiche di Hamas. Non le difenderò mai. Ma mi interessa capire come sono arrivati lì. Condanna e comprensione storica non sono in contraddizione. Bisogna capire non per scagionarli ma per trovare un modo di superarli.

In generale i movimenti di sinistra che sostengono i palestinesi dovrebbero insistere sulla lotta non violenta. Un problema è che anche chi tra noi che appoggia il movimento per «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» (Bds, ndr) è chiamato terrorista.

La violenza degli oppressi è uguale a quella degli oppressori?

No, ma entrambe sono sbagliate. È chiaro che è diverso assoggettare i popoli o ribellarsi. Per esempio il New York Times definisce Hamas un’organizzazione terroristica. Loro invece si vedono coinvolti nella lotta armata contro un’occupazione. Lo Stato di Israele si sente impegnato in una legittima autodifesa. Possiamo chiederci se quell’autodifesa a volte opera come un veicolo per il furto della terra o l’imprigionamento di civili palestinesi che non costituiscono una minaccia per nessuno? Accettiamo che Hamas è coinvolta in una lotta armata come altre, come in Sud Africa per esempio? Accettiamo che Israele opera solo per autodifesa o è anche un potere militare aggressivo che cerca di mantenere i palestinesi in un assoggettamento permanente? Dobbiamo interrogarci su questi modi di descrivere la violenza.

Sono domande importanti. Spero sia possibile discuterne pubblicamente per capire meglio la situazione. Ho paura che reagiamo troppo velocemente o accettiamo il linguaggio dei media senza una comprensione critica sull’origine di quel linguaggio.

Nella rappresentazione che quel linguaggio produce, difendere Israele significa difendere la democrazia occidentale contro i barbari. È d’accordo?

No. Non ci sono dubbi che la violenza di Hamas sia orribile, ma le richieste dei palestinesi di libertà e giustizia sono un’altra cosa. È estremamente importante e legittimo il desiderio di vivere in una democrazia, con diritti politici. Non credo sia d’aiuto chiamare quelle persone «animali» o «barbari». Serve solo a darne una caricatura essenzialista e razzista.

E non credo che Israele rappresenti la migliore versione di democrazia. È uno Stato basato su un’occupazione violenta. Su espulsioni violente. Ha spogliato persone dei loro diritti per produrre la sua democrazia. Cosa significa democrazia basata sulla negazione dei diritti? Che è una democrazia per alcuni e non per tutti. Che ai non cittadini rimane una disuguaglianza radicale.

Non è la versione di democrazia che voglio difendere. Ho grandi speranze nella democrazia e spero di vederla nella regione. Ma non credo sia già successo.

Quando scoppia la guerra tutto il resto passa in secondo piano. Non è il tempo del femminismo o il femminismo può giocare un ruolo anche in un simile momento?

Il movimento femminista contro guerra, violenza statale e lotta armata è estremamente importante. Lo abbiamo visto nei Balcani, in Turchia, Sudafrica o America Latina, dove ci sono movimenti enormi per la democrazia e contro la violenza. Ni Una Menos o le lotte indigene non sono coinvolte nella lotta armata, ma in mobilitazioni di massa che si battono per estendere la democrazia in tutta la popolazione. Nella ex Jugoslavia le «donne in nero» erano contro la violenza, tutta la violenza, serba o croata.

Abbiamo molto da imparare dai movimenti femministi perché hanno riflettuto per decenni sulla violenza a ogni livello, venga essa da Stato, polizia o famiglia.

La non violenza è possibile durante una guerra?

No, ma non è una ragione per rinunciare ad affermarla. A volte affermiamo l’impossibile. Qualcuna deve farlo. Altrimenti diventiamo tutti guerrieri, accettiamo la realpolitik. È possibile che le persone ti prendano per pazza. Pensino che sei naif o idealista. Lasciamole pensare quello che vogliono.


(All’intervista ha collaborato Roberta Martino)


(il manifesto, 17 ottobre 2023)

di Nello Scavo


Giornalista, scrittrice, docente universitaria negli Usa, palestinese con cittadinanza italiana e israeliana, marito ebreo e parenti cristiani. «Per me un futuro di pace non è qualcosa di utopico».


«Mi rifiuto di permettere che la barbarie di Hamas cancelli la nostra umanità, ma anche la nostra razionalità, in questo momento in cui abbiamo più che mai bisogno di governare le nostre emozioni. Per me un futuro di pace non è qualcosa di utopico». Rula Jebreal, giornalista, scrittrice, docente universitaria negli Usa, risponde partendo dal suo Dna: palestinese con cittadinanza israeliana e italiana. «La mia famiglia è composta da ebrei, musulmani e cristiani. Mio marito è un ebreo americano di origine tedesca, la cui famiglia è fuggita dalle persecuzioni. Allo stesso tempo, membri della mia famiglia palestinese, che vivono in Israele, lavorano come operatori sanitari nei corridoi degli ospedali asfissiati dai lamenti dei feriti. Siamo tutti in lutto, sentiamo sulla pelle il senso di ingiustizia, il dolore delle madri, dei padri, di tutte le famiglie delle vittime. È una sensazione straziante».

Come guarda a questa prima settimana di conflitto?

Si tratta di una immane barbarie, ma è proprio per l’orrore di questa ferocia che abbiamo il dovere di rimanere ancorati alla legalità, alla moralità e ai nostri valori. Le guerre hanno delle regole. La vendetta non è una strategia. Per lottare contro il terrorismo dobbiamo non sacrificare la nostra umanità e non venir meno alla nostra moralità. Dobbiamo invece rompere il ciclo di odio e violenza, ascoltare le famiglie delle vittime israeliane che ci dicono: “Uccidere bambini palestinesi a Gaza non è giustizia, vogliamo la pace”. Non esiste una soluzione militare a questo conflitto. Perfino i vertici del’Idf (le forze di difesa israeliane) e del Mossad (il servizio segreto di Tel Aviv) riconoscono che non garantirà pace e sicurezza.

Si poteva prevenire?

Se la libertà palestinese è negata, è inevitabile che la disperazione di un popolo venga presa in ostaggio dal terrorismo. E se a quel terrorismo si risponde giustiziando interi quartieri di innocenti, vincono i terroristi.

Quali lezioni del passato non sono state apprese?

A seguito della prima intifada, altro episodio brutale che ha afflitto questa terra, è stato grazie al coraggio e alla lungimiranza di leader visionari come Rabin che accostavano strategicamente la lotta al terrorismo ai negoziati di pace, da cui sono nati gli accordi di Oslo, nonostante l’intifada avesse causato oltre 5.000 morti. A causa del suo pensiero libero volto a disinnescare la carneficina reciproca tra popoli, è stato assassinato da un fanatico israeliano. Ma torniamo indietro di qualche anno, a quello della mia nascita.

Era il 1973. La guerra del Kippur.

Altro evento storico dove Israele ha sottovalutato i segnali premonitori di una strage. Fu un’altra tragedia indelebile nella memoria collettiva di questa terra martoriata, che però portò all’accordo di Camp David con l’Egitto di Sadat. Anche qui, la necessità del dialogo prende forma a strage compiuta, ma prende forma. E abbiamo la responsabilità storica di far sì che il dialogo non diventi una toppa a ferite che non si rimarginano, ma che si consolidi come unica alternativa a stragi e guerre infinite.

Ma si può lasciare che Hamas sopravviva a queste stragi?

Hamas va sconfitta non solo militarmente. Va sconfitta la sua ideologia, costruendo un percorso di ascolto delle voci razionali in campo, animate da un sentimento fondato sulla reciproca libertà, e sulla reciproca dignità. Le armi non possono e non devono sostituire un progetto politico. Bisogna cooperare con i moderati che pur riconoscendo Israele e continuando a collaborare per garantire la sicurezza degli israeliani, vivono senza diritti sotto dittatura militare.

Dove ha sbagliato Netanyahu?

La verità è che l’attuale governo israeliano di estrema destra aveva una sola strategia: prevenire la costituzione di uno stato palestinese. Questo ha creato e favorito gli estremisti in Israele e in Palestina, rafforzando Hamas che oggi sta distruggendo la speranza di un futuro di coesistenza e dobbiamo fare tutto il possibile per non cadere nella loro trappola.

Quale iniziativa dovrebbe prendere l’Occidente?

L’occidente ha l’obbligo di sostenerci perché i nostri destini sono interconnessi. La questione di Israele è direttamente conseguente all’identità stessa dell’Occidente, della “democrazia”, dei “diritti umani”, dello stato laico contro quello religioso. Soprattutto per il fatto che ciascuna delle nazioni europee si è costruita anche sulla violenza e sui traumi. Ora più che mai occorre isolare i fondamentalisti, sostenendo i moderati sia in Palestina che in Israele, che sono stati marginalizzati. Perché il fragore della guerra suona più forte del dialogo. Non dobbiamo permettere che questo clima detti la nostra agenda politica, che deve essere improntata alla salvaguardia della democrazia israeliana e al sostegno della nascita di uno stato democratico palestinese. Nessuno di noi è libero o sicuro finché non lo siamo tutti.


(Avvenire, 17 ottobre 2023)

di Angelica Pirro e Silvia Protino


Per questo numero, la redazione di Via Dogana 3 voleva mettere in luce come l’autocoscienza, pratica sorgiva del femminismo radicale, ha continuato ad agire e dare frutti, prendendo talvolta forme lontane da quella delle origini pur mantenendone il punto cardine: la creazione di uno spazio di libera parola, uno spazio trasformativo e politico.

Mentre discutevamo di questo, io ho subito pensato al fenomeno sempre in crescita della produzione di podcast, ovvero la creazione di un audio (assimilabile a una trasmissione radio), distribuito attraverso Internet e fruibile attraverso uno smartphone o un computer. A mio avviso, ed è un azzardo, è una delle forme che ha preso la pratica dell’autocoscienza nel presente, attraverso l’uso delle tecnologie.

Durante la redazione allargata di domenica 1° ottobre, Linda Bertelli ha parlato dell’autocoscienza come creazione di uno spazio tracciato da due lembi, quello che una donna è e quello che pensa di essere, due estremità delimitanti uno spazio frutto della scommessa politica del femminismo, che ha permesso a ciascuna donna di trovare parole non estraniate per dire di sé. Come? Levando, nello scambio con le altre, strati di aspettative, presupposti, sottintesi scontati, false credenze e tabù, opinioni invalse, e via osteggiando pregiudizi, per arrivare a un’accettazione di sé per quello che si è.

Io sono un’ascoltatrice di podcast, amo particolarmente quelli in cui si crea uno spazio di parola libera e veritiera. Per esempio, il podcast How to fail di Elizabeth Day, dove la giornalista e scrittrice inglese accoglie le sue ospiti e le intervista, lei stessa è partita dal suo frustrato desiderio di maternità, che definiva come un fallimento, ed è visibile, nel farsi delle puntate, la trasformazione e l’accettazione di sé attraverso la parola scambiata, la modificazione del suo fallimento in una figura dello scambio, dispositivo simbolico in cui altre si possono riconoscere. Voglio citare anche il podcast The Adam Buxton podcast, dove l’attore e scrittore inglese si mette in gioco a partire da sé, in un setting dialogico, raccontando gli effetti del mondo dello spettacolo e dei social sulla vita, il rapporto col padre, la morte dei genitori, la famiglia, i figli, il lavoro, l’amore. È straordinario come, anche in questo caso, ci sia la restituzione di parole politiche per tutte e tutti.

Qui pubblichiamo la testimonianza di due giovani donne che producono un podcast femminista, Angelica Pirro e Silvia Protino. Il loro podcast, A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza, poggia sulla parola scambiata, alla ricerca di un’aderenza della parola all’esperienza femminile. In questo sta l’azzardo, nel vedere il perdurare dell’autocoscienza in nuove forme di presa di parola, anche attraverso la tecnologia.
(Laura Colombo – Redazione #VD3)


Silvia e io abbiamo avuto il piacere di partecipare alla redazione aperta di VD3 del primo ottobre 2023. Qui di seguito il nostro intervento riguardo le nuove forme di autocoscienza.

All’inizio del 2022, abbiamo creato un podcast che raccoglie testimonianze di donne che hanno subìto molestie sessuali.

In poche parole, un podcast è una radio che però non viene trasmessa in diretta, ma in differita. Un podcast solitamente è diviso in episodi che vengono pubblicati e che possono essere poi ascoltati liberamente e archiviati sul computer o sul cellulare. Mentre esistono podcast che forniscono anche un supporto visivo alle puntate, il formato originale è strettamente audio (come il nostro).

Silvia e io, al momento di scegliere quale medium usare per dare voce al nostro progetto, abbiamo prima di tutto stabilito che sarebbe stato uno spazio creato da noi. A quel punto abbiamo deciso di usare lo strumento del podcast perché è l’unico che ci permetteva di mettere al centro la nostra voce, e non solo la mia e quella di Silvia, ma quella di qualunque ragazza che avrebbe voluto prendervi parte. Sentivamo il forte bisogno di far risuonare la nostra voce collettiva. E poi ci piaceva l’idea di creare una raccolta di testimonianze orali, un vero e proprio archivio che però non fa riferimento al passato, ma al presente, che non è archiviato, impolverato, ma è vivo in ognuna di noi, nelle nostre singole voci che ne compongono una sola, che non è formalizzato e istituzionalizzato, di Stato, ma è libero, vitale, trasformativo, generativo. Un archivio che possa servire anche, magari per fini “scientifici”, di ricerca, attraverso il quale si possa indagare il fenomeno sociale delle molestie sessuali. In più, il podcast è bilingue, ascoltabile sia in italiano sia in inglese, ma cosa ancora più interessante, è registrato in due paesi differenti: Italia e Irlanda. Sarebbe interessante adottare una prospettiva critica, per analizzare quali sono le differenze e le somiglianze tra i racconti italiani e quelli irlandesi. Ecco, questo secondo noi è un primo elemento della pratica dell’autocoscienza: riconoscere che ciò che io vivo all’interno dei confini del mio paese, lo sta vivendo anche una ragazza a centinaia o migliaia di chilometri di distanza da me e che quindi ci fa vedere chiaramente come il nostro essere donne ci accomuna.

In più, il podcast ci permette di dare voce al silenzio che vige sul problema sociale e culturale delle molestie sessuali. Gli uomini, a parte essere coloro che mettono in atto le molestie, non sono consapevoli, o se lo sono, non lo sono pienamente, dell’esistenza di questa forma di violenza e di quanto sia capillare e pervasiva. Ci è capitato più volte di raccontare le nostre esperienze del podcast ad alcuni dei nostri amici maschi, che ovviamente stimiamo altrimenti non sarebbero nostri amici, ma che comunque sono rimasti sorpresi nel venire a conoscenza dell’esistenza e della normalità delle molestie sessuali. Eppure, è strano: è un fenomeno talmente diffuso che (quasi) tutti gli uomini hanno molestato una ragazza almeno una volta nella vita, o comunque ne sono stati complici, o indifferenti. Quindi come fanno a non saperlo? Loro sanno come si comportano i maschi in gruppo, di cosa sono capaci, eppure si ritrovano (e li ritrovi) stupiti. Forse non si rendono conto di ciò che significa per noi subire molestie quotidiane fino a quando non glielo comunichiamo in modo esplicito? Non lo sappiamo ancora.

In ogni caso, il podcast ci consente di far emergere dal silenzio tutti i racconti e le storie, che costituiscono un sommerso, un insieme di voci inespresse, che non si sentono, ma che comunque esistono. Se il discorso delle molestie sessuali ci permette di entrare in contatto con ragazze lontane da noi, sia a livello geografico sia di pensiero, e a noi sconosciute prima dell’incontro, allora anche altre, che ancora non conosciamo e di cui ancora non abbiamo sentito la voce, potrebbero raccontare una storia simile. Il nostro punto di partenza è credere a ogni donna che denuncia una qualsiasi forma di violenza, senza sentire il bisogno di constatare quella violenza, di provare, di dimostrare il fatto che sta denunciando, perché crediamo in lei, alla sua voce che risuona dentro di noi come se fosse la nostra.

Ecco, tutto questo scambio, condivisione, amicizia, amore, sorellanza, che sono svincolate da spazi e tempi predefiniti trovano forma in una raccolta di testimonianze orali, in un archivio dell’esperienza femminile che oggi chiamiamo podcast. 

Spiegato il mezzo, ora torno indietro a raccontarvi l’antefatto e l’origine del nostro podcast “A day in a Female Life – racconti di ordinaria violenza”. A quei tempi vivevo a Dublino, ma ero tornata a Milano per le vacanze di Natale. Come facevo spesso, ho preso i pattini e sono andata a pattinare nella zona che circonda lo stadio Meazza, San Siro. Ho messo i miei conetti per terra e con le cuffie nelle orecchie, mi stavo facendo i fatti miei. Speravo che i fatti suoi se li facessero anche le persone attorno a me, invece purtroppo così non è stato. Prima si avvicina un ragazzo e tra me e me penso, sarà solo curioso e vorrà vedermi fare qualche esercizio. Solo che questo ragazzo è rimasto lì, a braccia conserte, fissandomi senza farsi alcuno scrupolo. Non mi ha detto nulla, ma quello sguardo fisso, pesante, non richiesto, mi ha fermato sui miei passi. Mi sono bloccata e ho smesso di pattinare finché non si è allontanato.

Pochi minuti dopo arrivano due ragazzi che mentre sono girata iniziano a calciare i conetti che avevo messo per terra, per poi allontanarsi senza alcun rimorso. 

Come prima cosa, ho provato paura. Mi sono resa conto che non mi sentivo al sicuro in quel luogo. Ho interrotto il mio passatempo preferito e ho iniziato a pensare che se fossi stata un uomo, forse quei ragazzi non si sarebbero permessi né di avvicinarsi e fissarmi, né di danneggiare la mia attrezzatura. E questo perché un altro uomo lo rispettano; la donna invece è passibile di qualsiasi capriccio che passi per la testa ad un ragazzo.

Ho fatto delle storie su Instagram, raccontando quello che era successo con tanta rabbia e frustrazione. Dall’altra parte dello schermo ci sono state molte ragazze che hanno ascoltato e condiviso il mio dolore, offrendomi parole di conforto e di solidarietà. Ovviamente c’erano anche altri pareri, da parte di uomini, che invalidavano la mia esperienza dicendomi cose come “in zona San Siro cosa ti aspetti”.

Silvia ha subito colto il mio richiamo e in una conversazione che ormai è storica, in qualche secondo abbiamo entrambe sentito la necessità di creare qualcosa di più grande, che rimanesse per tutte. Siamo partite dalla constatazione che tutte le donne, nessuna esclusa, hanno vissuto almeno un episodio di molestia sessuale per strada o in luoghi pubblici. 

Nonostante questo dato fortemente preoccupante, non è comune che questi avvenimenti vengano menzionati e diventino argomenti di conversazione. Sono come dei dati di fatto. Questo comporta che quando poi una ragazza subisce una molestia sessuale: o non la considera tale tanto è normalizzata nella società patriarcale, oppure pensa di essere l’unica a cui succede e non lo condivide con nessuno. Il podcast avrebbe fornito una piccola soluzione a questo problema.

Anche il titolo è stato deciso con facilità: A day in a female life, un giorno in una vita di donna. Assieme al sottotitolo “storie di ordinaria violenza” volevamo trasmettere l’estrema ordinarietà delle esperienze raccolte nel podcast (le molestie sessuali nei confronti delle donne non sono degli eventi rari, che capitano alcune volte l’anno, sono giornaliere).

Il primo episodio l’abbiamo registrato io e Silvia, con strumenti rudimentali ma una voglia dirompente di far sentire le nostre voci. Prima di far condividere le proprie esperienze ad altre donne, volevamo raccontare le nostre.

Da quel momento, anche attraverso un invito all’azione su Instagram, abbiamo ricevuto una serie di email e messaggi sia di supporto, che di disponibilità a registrare una puntata del podcast. 

Per noi era imprescindibile che lo spazio offerto alle ragazze sul podcast fosse sicuro e libero. Le puntate sarebbero state registrate con me, oppure con Silvia (in base alla collocazione geografica della ragazza) in luoghi familiari, accoglienti. Quando è stato possibile infatti abbiamo registrato le puntate nelle nostre case, sul divano, con una tazza di tè e biscotti. Prima di accendere il microfono, ci assicuriamo che ci sia già una certa confidenza con la ragazza, che spesso è a noi sconosciuta. Questo passaggio è essenziale per creare un’atmosfera in cui la ragazza si senta al sicuro nel condividere le sue esperienze che potrebbero essere traumatiche e difficili da verbalizzare.

Una volta acceso il microfono la conversazione scorre come aveva fatto a microfono spento, senza domande preparate o limiti di tempo. La ragazza racconta tanto quanto decide sia abbastanza e l’interlocutrice, Silvia o io, ascoltiamo, offriamo conforto e poniamo domande se ne sentiamo la necessità. In molte puntate abbiamo anche avvertito la necessità di dare reciprocità alla conversazione, quando a me e a Silvia veniva naturale di raccontare delle esperienze personali che la storia della ragazza aveva fatto risvegliare in noi.

La libertà sta nel fatto che una volta registrata la puntata, la ragazza che ha partecipato può decidere di non pubblicare l’episodio, di tagliarne alcune parti o di usare un nome fittizio per proteggersi. Per noi, il fatto che la ragazza abbia condiviso la sua storia con noi e abbia ricevuto in cambio un ascolto sincero e non giudicante, è già abbastanza.

Le puntate che poi sono state pubblicate spaziano su diversi argomenti, ma colpisce la comunanza dell’evento della molestia. Le circostanze cambiano, ma l’intento dell’uomo è sempre lo stesso, denigrare la donna e farla sentire impotente. 

Nonostante l’intento iniziale fosse solo quello di raccogliere testimonianze di molestie sessuali in luoghi pubblici, alcuni episodi sono fluiti naturalmente verso altri tipi di violenza maschile, tra cui quella domestica.

Il riscontro del podcast è stato rincuorante. La maggior parte delle donne che ci contattano dicono di sentirsi riconosciute e legittimate nelle loro esperienze di molestia. Molte di loro si sono rese conto che esperienze che consideravano normali o di poca importanza, erano invece gravi e degne dell’appellativo di molestie sessuali. Perché succeda questo è necessario da parte nostra considerare ogni molestia sessuale che ci viene riportata come importante e degna, e porre l’accento sul dolore comune, invece che sui dettagli che necessariamente saranno diversi per ogni storia.

Carla Lonzi parla di uno “scatto a soggetto” delle donne che si “ri-conoscono come esseri completi non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo”.

La nostra idea iniziale non era quella di praticare l’autocoscienza. Cioè, non ci siamo messe a un tavolo e abbiamo detto “ok, ora facciamo l’autocoscienza”. Abbiamo detto: creiamo un podcast. Solo in un secondo momento, ci siamo accorte che il nostro podcast è una pratica di autocoscienza perché si costituisce dell’incontro con l’Altra, dove ogni donna può ritrovare sé stessa nelle parole delle altre. Questo dimostra la potenza, la forza di questa pratica: esiste ancora prima di saperla, pensarla, teorizzarla. Perché è una pratica dettata dalla necessità, dal desiderio, dal bisogno di riconoscersi nelle altre, di uscire dalla solitudine, ma anche di trasformare il dolore e la rabbia personali in resistenza collettiva. 


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.org, 16 ottobre 2023)

di Luciana Tavernini


Louise Glück (1943-2023) è morta il 13 ottobre scorso. La ricordiamo nelle sue opere. Proponendoci la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e rivelandoci il modo in cui le si è manifestata, la poesia del premio Nobel Louise Glück ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Nell’anno della pandemia planetaria (2020) il Nobel è andato a una scrittura di «austera bellezza» che ruota intorno al tema della morte ma anche della resilienza. Come recita la motivazione del premio, Louise Glück nella sua poesia attinge alla sua vita e costituisce una «voce inconfondibile» che «rende universale l’esistenza individuale».

Nata a New York il 22 aprile1943 da famiglie di origine ebrea e ungherese, emigrate negli USA all’inizio del Novecento, da giovane Louise Glück ha sofferto di anoressia. La sua è una poesia dell’esperienza e delle relazioni e lei ne è consapevole. Il secondo marito John Dranow e il figlio Noah, nato nel 1973, diventano interlocutori, ad esempio, in L’iris selvatico. E della sua maternità dice in un’intervista a Luca di Mastrantonio: «La nascita di mio figlio mi ha fatto crescere. Un’esperienza che mi ha dato tanto e mi ha sottoposta a molte forzature. All’improvviso, diventi responsabile di un esserino e, per un paio di anni, sono stata una mamma single. È uno shock, ma è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Anche sul lato artistico: sarei stata una poetessa molto più tediosa senza la nascita di un figlio. E senza i miei studenti, i loro testi, non avrei superato il mio primo grande blocco di scrittura.»

Louise Glück ha scritto dodici libri di poesie e due di saggi, e ha ottenuto i maggiori riconoscimenti statunitensi. Poems: 1962-2012, è un volume di ben 656 pagine che contiene cinquant’anni di poesie. Il Saggiatore, che ha ripubblicato L’Iris Selvatico e Averno, ha recentemente mandato in libreria Notte fedele e virtuosa, Ararat, e il suo ultimo libro Ricette per l’inverno collettivo.

Ho incontrato la poesia di Louise Glück, come credo molte, quando le è stato assegnato il Nobel: la sua poesia si è diffusa e si diffonde attraverso le relazioni, con il passaparola. Anche per le traduzioni in Italia dei primi due libri è stato così, come racconta il traduttore Massimo Bacicalupo in una intervista rilasciata presso il Centro Studi americani. Infatti Glück, come ci avverte nel suo discorso di accettazione del Nobel, non è una «poeta da stadio» e neppure «una poeta che parla a se stessa», ma fin dall’infanzia come lettrice di poesia sente l’importanza del «ruolo di lettrice scelta», un ruolo «intimo, seduttivo, spesso furtivo o clandestino» e ora come autrice sa che «chi legge o ascolta dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore» nel cogliere la profondità politica della poesia.

Diffida della vita pubblica in cui le generalizzazioni cancellano la precisione e le verità parziali cancellano il candore e la rivelazione. I premi, la notorietà, possono essere «un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione»; ciò che le interessa, come ad alcuni altri poeti e poete, è piuttosto «raggiungere molte persone […] nel tempo, nel futuro»; ma desidera che «in qualche modo profondo questi lettori arrivino sempre singolarmente, uno a uno». Cita proprio una poesia di Emily Dickinson, «I’m nobody! Who are you?» (1861), per esprimere questo intimo e necessario rapporto tra poeta e chi legge: «“Io sono Nessuno! Tu chi sei?/ Sei Nessuno anche tu?” […] “Allora siamo in due!/ Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…”».

Dunque, ci suggerisce come avvicinarci a lei. Farsi scegliere da chi fa poesia, e sedute sul divano, diventare «compagne di invisibilità», collaborando alla rivelazione che può accadere.

I suoi sono veri e propri libri, non semplici raccolte di poesie. La critica parla di sequenza poetica lirico narrativa, dunque andrebbero letti ciascuno per intero seguendo l’ordine da lei indicato, un ordine non solo temporale ma anche di sviluppo del tema proposto. Sono veri e propri classici perché ogni volta che li leggiamo scopriamo qualcosa di nuovo. Non dobbiamo, come certi collezionisti di opere d’arte, conservarli in cassaforte, nella libreria, cassaforte di libri. Sarebbe come lasciare ricoprire di polvere qualcosa di prezioso e vivo che a ogni rilettura rivela nuove scoperte; infatti, in ogni sua poesia ne sono stratificate altre, come in quelle di Emily Dickinson, da lei considerata sua maestra, ed è un vero piacere poter leggere il testo in originale per azzardare altre traduzioni sia per le caratteristiche linguistiche dell’inglese, sia per la scelta di parole polisemiche come bed, letto e aiuola, che ci fanno passare dal fiore alla relazione di coppia.

L’iris selvatico

Vorrei proporvi di conoscerla a partire dal suo settimo libro, L’iris selvatico (1992), per l’importanza che oggi sentiamo di un diverso rapporto con la natura, non a caso mostrato da ciò che María Zambrano chiama logos poetico, la capacità di stare presso le cose, amandole con meraviglia in un ascolto che riesce a portare alla parola verità non ancora espresse dell’esistenza.

Qui tutto accade nel giardino, nell’orto, nella campagna del Vermont dove Glück abitava col marito e il figlio. Tre sono all’incirca le tipologie delle cinquantaquattro poesie, scritte in due mesi e mezzo: quelle in cui i fiori parlano, figure che rappresentano stati dell’animo umano; i “Mattutini” e successivamente i “Vespri” in cui la giardiniera dialoga con il divino; alcune situazioni temporali e di luogo dove il divino si manifesta e parla direttamente. Intrecciandosi tra loro le poesie creano un percorso iniziatico che non si può raccontare ma solo seguire e ripercorrere, come il cammino a spirale dei templi indonesiani di Borobudur dove si ascende, entrando in profondità con se stesse.

Vengono presentate situazioni quotidiane vissute con grande intensità come può accadere nelle micro-meditazioni dello yoga in cui l’essere capaci dell’attenzione – nell’accezione di Simone Weil, del fare vuoto dentro di sé per aprirsi all’oggetto, a ciò che abbiamo davanti – ci permette di cogliere il senso dell’esistenza. La poesia di Glück a una lettura superficiale può sembrare che mostri qualcosa di banale, di quotidiano anche se avvertiamo in qualche suo verso come una scossa. Ma se ci limitiamo a una comprensione apparente perdiamo il piacere della sorpresa. E in un suo “Mattutino” lei dice: «Per me, sempre/ il piacere è la sorpresa» (p. 83).

Le sue poesie nascono da momenti di essere come li chiama Virginia Woolf, da momenti di felicità come dice Mansfield. Monica Farnetti scrive che si tratta di un’esperienza legata «a una percezione nitida, intera e pervasiva della realtà», «una realtà vivente». «È, insomma, un campo di percezione, e insieme di passione, il quale stando dentro i suoi limiti funziona però come parte per il tutto, vale a dire del mondo come corpo celeste pieno di meraviglie e del cosmo che lo ospita fin dall’inizio del tempo». Farnetti parla di Katherine Mansfield e, partendo da lei, disegna una genealogia di autrici che dall’inizio del Novecento «prendono via via coraggio e si autorizzano (l’una l’altra e ciascuna se stessa) a ficcare il naso nella terra e nel cielo, per rendersi conto da dove e per quale via il mondo sia venuto al mondo e quale posto occupino l’umano e i suoi dissimili» (p. 44). Oltre a Mansfield e Woolf, indica Colette, Marguerite Duras, Elisabeth von Armin, Clarice Lispector, Marguerite Yourcenar, le nostre Marisa Bulgheroni e Anna Maria Ortese e per gli USA Alice Walker, bell hooks, Toni Morrison. Insomma mi sento di collocare Glück in questa genealogia di donne che vivono l’esperienza dell’alterità impastata con l’identità, piazzandosi, come dice Farnetti, «con tutto il corpo e con tutti e cinque i sensi al centro di quest’esperienza e vivendola appunto come esperienza e non come concetto» (p. 49).

Una modalità empatica in cui si è disponibili «ad accorgersi dell’altro e a stare amorosamente in sua compagnia. A starci dunque per amore, e per amore appunto d’altro», una capacità di lettura per Glück che dal suo giardino fa «saltare le pareti dell’io» praticando «il passaggio Io/Altro», coniugando la sfera terrestre e celeste e «mantenendo il respiro e la grandezza dell’universo» (Farnetti, p. 50). Un’empatia che la porta a sentire i fiori e a dialogare con un Padre divino che ha elementi biblici. Come direbbe la teologa Antonietta Potente, nelle serie di poesie intitolate Mattutino e Vespro è «l’anima corporea» (p. 80) della giardiniera che si rivolge al Padre, a un Tu, al «grande Mistero che ci avvolge, noi normalmente lo chiamiamo “Dio”, in realtà non sappiamo se ha un nome» (p. 55). Si tratta di una presenza-assenza di cui si ha «nostalgia e sete» perché «se l’essere umano non percepisse l’assenza non potrebbe né cercare né amare» (p. 29). In contrasto con questa sua percezione del divino Louise Glück scrive la parola dio minuscola solo in tre poesie, per indicarne un uso ormai svilito: per commiserarsi (Viole, «povero dio triste», p. 59), per dividere (Zizzania «se adori/ un solo dio, ti serve/ un solo nemico», pp. 61-63), come voce di dio eco della propria (Scilla, p. 43).

Il tu divino invece lei può rimproverarlo per la sua indifferenza e per come «forza il cuore» e dunque lo può paragonare a un coltivatore che prova una nuova specie (Mattutino, p. 69), ma spera che «intenda farmi/ di nuovo sana per sempre, come fui/ sana e intera nell’infanzia ignara», o ancora prima quand’era dentro sua madre o nel sogno di una possibile eternità. Un tu divino a cui può esprimere anche i suoi dubbi cercando la prova della sua esistenza nel piantare un fico nel Vermont (Vespro, p. 97). Questo tu parla con compatimento («quando vi ho fatti vi amavo. / Ora vi compatisco») perché le anime che avrebbero dovuto essere immense per i doni della bellezza del mondo sono «piccole cose vocianti» (Vento calante, p. 45) o sono incapaci di pensare al suono della sua voce («come altro che una parte di voi», Fine dell’inverno, pp. 35-37).

Per dire di questa relazione mi sembrano utili le parole di Luisa Muraro (Il dio delle donne) riferite alle mistiche: si tratta de «l’imprevedibile dio delle donne», «presente-assente in una relazione di amore libero che si faceva riconoscere senza mai farsi prendere» (p. 24), che viene detto in un linguaggio che non ha mai «la pretesa di dire la verità su Dio» (p. 25), un dio che «c’è nella forma di un capitare sempre possibile» (p. 31). Per questo, potendo leggere l’originale, spesso io preferisco tradurre you con tu piuttosto che con voi, in questo modo il dialogo diviene intimo: il tu divino si rivolge a un altro tu e non mi appare come un predicatore che si rivolge sempre a un voi, che rappresenta il genere umano.

La poesia di Glück è relazionale ma proprio perché chi legge è ascoltatrice all’interno del dialogo, vi è difficoltà a capire chi sta parlando e a chi (situazione che si può definire di locutore inaffidabile). Si assiste alla rivelazione se ci mette nella stessa disposizione della poeta che si colloca in ascolto della realtà che la circonda, del vivente che, attraverso lei, prende voce e illumina il senso dell’esistenza.

Nelle diciotto poesie il cui titolo è il nome di un vegetale, Glück lo descrive con una precisione da pittura antica. A volte il nome mi era sconosciuto, così ho cercato in internet e, grazie all’esattezza della descrizione, ad esempio per il Lamium (p. 25), ho potuto individuare di quale sottospecie si trattava. La poesia mi ha dato così le parole per dire il valore di un’amica, una di quelle amiche riservate, con una loro luce interna «come un sentiero che nessuno può usare, un sottile/ lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri» (p. 25). Ho provato quindi l’emozione del ritrovare lì quell’amica che non si lascia toccare dal sole, che non si mette in mostra, ma è tanto più preziosa nella sua apparente freddezza.

La prima poesia, L’iris selvatico (pp.13-15), che dà il titolo al libro, è la più perfetta descrizione che io conosca della depressione e del suo superamento. Gli iris li conoscete. Pensate alla loro fioritura nel dipinto di van Gogh, ma d’inverno resta solo il rizoma sottoterra. Glück dice «è terribile sopravvivere come coscienza sepolta nella terra scura». E l’uscita dal soffrire accade con il ritorno della parola. «Tu che non ricordi /passaggio dall’altro mondo/ ti dico che seppi parlare di nuovo». E alla fine c’è la descrizione della bellezza dell’iris fiorito, apertura alla meraviglia della vita, alla sua origine. «Dal centro della mia vita venne /una grande fontana, ombre blu /profondo su acqua di mare azzurra». E in Bucanave il superamento della disperazione avviene «gridando sì, rischia la gioia// nel vento aspro del mondo» (p. 27).

Le sue poesie costituiscono una critica politica profonda: troviamo rappresentata, ad esempio, la costruzione del nemico come inganno per continuare a dolerci e incolpare qualcuno perché le nostre particolari passioni finiscono e non vogliamo prendere coscienza del fatto che non erano destinate a durare, (Zizzania, pp. 61-63); oppure la necessità del disfacimento dell’io per essere in grado di mostrare al sole, al signore in cielo, «il fuoco del mio cuore, fuoco come la sua presenza», come ci dice il papavero rosso, chiamandoci fratelli e sorelle (Il papavero rosso, p. 77); o la falsa credenza che le macchine siano il mondo vero, e il fascino che subisce la mente che «vuole brillare, scopertamente, come/ brillano le macchine, e non/ crescere in profondità come, per esempio, le radici», qualcosa che bisogna però «pensarci due volte» prima di dire (Margherite, p. 105).

A volte troviamo la rappresentazione della coppia, ma mai in modo idilliaco. Ad esempio ne Il giardino (p. 51) «persino all’inizio dell’amore» senza che vi sia consapevolezza si «compone un’immagine di separazione»; oppure il biancospino capisce che «passione e rabbia umana» hanno causato la fuga dei due perché hanno lasciato cadere tutto quello che avevano raccolto (Il biancospino, p. 53). I gigli bianchi, l’ultima poesia del libro è costruita sulla simmetria tra la coppia di gigli e la coppia umana, dove alla fine dell’estate, come durante la pandemia, possiamo sentire il terrore che tutto possa finire, essere soggetto a devastazione, perduto. Possiamo sentire inutile bellezza e aria profumata. Ma lo splendore, il giardino che abbiamo costruito in «quest’unica estate» ci ha fatto entrare nell’eternità. Le mani che seppelliscono il bulbo, le mani che ci toccano e di cui avvertiamo il bisogno permetteranno lo sprigionarsi dello splendore che ritornerà.

Glück propone la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e, mostrandoci come le si è manifestata in un rinnovato rapporto con la natura, ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Bibliografia


Massimo Bacigalupo, “Louise Gluck e la poesia americana”, Intervista rilasciata presso il Centro Studi Americani, il 10 dicembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=BbX0NqF5NpM

Emily Dickinson, “Io sono Nessuno! Tu chi sei?” in Tutte le poesie, trad. di Silvio Raffo, Meridiani Mondadori, Milano 1997

Monica Farnetti, “Felicità di Katherine Mansfield” in Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga/Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 40-55, 332 pagine, 17 euro

Louise Glück, Ararat, trad. di Bianca Tarozzi, Il Saggiatore, Milano 2021, 128 pagine, 14 euro e-Pub 7,99 euro

Averno, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2019, 160 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

L’iris selvatico, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2020, 158 pagine, 14 euro, e-Pub 7,99 euro

Notte fedele e virtuosa, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2021,176 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

Ricette per l’inverno dal collettivo, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2022, 96 pagine,13 euro, e-Pub 7.99 euro

Poems: 1962-2012, FSG – Macmillan, London 2013, 656 pagine, 22 dollari, e-Pub 8,72 dollari

Nobel Lecture, The Nobel Foundation, Stoccolma 2020, gluck-lecture-english.pdf

“Discorso per il premio Nobel”, trad. di Valeria Gorla, in The Italian Review, 1, 2021https://www.theitalianreview.com/discorso-per-il-premio-nobel/

Luca di Mastrantonio, “L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia”, Intervista a Louise Glück, https://www.corriere.it/sette/incontri/intrevista-louise-gluck-nobel/index.shtml

Luisa Muraro, Il dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, ripubblicato da Marietti, Milano 2020, 240 pagine, 17,50 euro

Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Ed. Paoline, Milano 2017, 130 pagine, 13 euro

Zambrano María, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, pp.188, 13 euro

Zamboni Chiara, “María Zambrano: il sentire inconscio e il linguaggio nel generarsi della natura”, In Sentire e scrivere la natura, Mimesis Edizioni, Milano 2020, pp. 89-131, 20 euro


(Leggendaria, n. 155/2022, pp. 43-45 – Primopiano/Louise Glück, 5 gennaio 2023)

di Jessica Chia


Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i sei e i diciassette anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» – questo il loro nome in dialetto – sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».

Tra loro c’è anche Nora, quindici anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro, La piccinina, appena uscito per edizioni e/o (pp. 192, 16,50 euro), che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca.

Scriveva La Domenica del Corriere sui quei tumulti: «Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro e irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombato delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie».

L’evento, infatti, non sconvolge solo i giornalisti dell’epoca: si sconvolgono le «maestre», che le seguono nei loro cortei, insultandole. Si sconvolgono gli uomini delle loro famiglie, che si sentono «insultati», provano la vergogna del disonore per queste figlie ribelli che non sanno stare al loro posto. E questo avviene anche nella famiglia di Nora. Ma lei si ispira agli insegnamenti di suo padre, morto nelle lotte delle Cinque giornate di Milano: «Il papà mi ha insegnato che le grandi lotte per i diritti partono sempre dalle rivolte del popolo. Quindi anche noi ci potevamo ribellare». E nonostante la balbuzie, lei cammina fiera, di fronte alla folla che si prende gioco di loro, fino alla Camera del lavoro, per consegnare i desiderata delle scioperanti: «“Boicottare” diceva (suo padre, ndr), scandendo bene le parole, “imparalo anche tu, Nora, cosa vuol dire. Che magari un giorno ti servirà. Una parola preziosa”».

A casa la vita non è facile: i suoi fratelli sono i primi che la insultano per via degli scioperi (le dicono che «i giornali scrivono delle piscinine, “le zabette che vanno in giro a fare lo sciopero”, come gli uomini» insiste lui. «Ci fai vergognare, tutti quanti»). E lei vive, senza amore familiare, nella perpetua insicurezza della sua balbuzie: non riesce a esprimersi, è lo zimbello di tutti. Ma quelli sono anche gli anni in cui Nora scopre le amicizie, come l’Angelica e la Lisa. Soprattutto la Lisa: così bella, in grado di parlare senza balbettare, dolce e composta. C’è poi l’Emilio, il suo amico pittore adulto, figura di riferimento per Nora. E infine l’Achille, il ragazzo di cui si innamora come solo a 15 anni ci si può innamorare: perdutamente e dolorosamente. Ma l’amicizia di questo trio di ragazzini è destinata a finire quando si troveranno ad affrontare un evento troppo grande per quelle piccole donne dal viso di bambine: l’aborto clandestino che quasi ucciderà una di loro.

«Mi avevano anche inculcato nella testa che ci fosse una sorta di potere nascosto, nel genere maschile, per cui noi donne dovevamo stare all’erta o saremmo finite abbandonate e rinnegate per via di uno sciocco errore di calcolo». Nora impara molto presto che la vita per le femmine è disseminata di dolori e ingiustizie: gli uomini possono farne quello che vogliono di una bambina povera, tanto la «vergogna» rimarrà attaccata solo addosso a lei, per tutta la vita. Ed è quello che lei subirà proprio sul luogo di lavoro; quel luogo per il quale avevano chiesto maggiori tutele e più dignità.

Attraverso gli occhi di Nora, Silvia Montemurro racconta una storia che è soprattutto una storia delle donne: dalle lotte collettive, alla loro figura marginale – di fatiche domestiche e «allevatrici» di figli – nelle famiglie, ai tentativi di emancipazione di quelle nate nelle classi più povere, per non rimanere «zitelle». Le descrive – con una prosa piacevole che, in prima persona, ricalca la voce della quindicenne Nora e il suo guardo di scoperta sulla vita – in un mondo ancora di dominazione maschile, dove la violenza è pane quotidiano e bisogna imparare a sopravvivere fin da piccole. Come fanno le piccinine, per cui il loro coraggio ha rappresentato un enorme passo in avanti nella storia dei diritti: «…diverranno lavoratrici oneste, combatteranno cento altre battaglie con la convinzione profonda di una verità appresa da bambine, molte diverranno madri; i loro figli certo non saranno crumiri. Su, camminate, bambine!» (Avanti!, giugno 1902).


(27esimaora.corriere.it, 15 ottobre 2023)


Mirella LeoneLe “Madri” della Ricostruzione italiana, 1945-1960, QuiEdit 2021. Sono politiche, insegnanti, contadine, casalinghe, sindacaliste, imprenditrici, giornaliste, sceneggiatrici. Donne note e meno note che l’autrice, filosofa e storica, attraverso documenti d’archivio e testimonianze, ha studiato e ci racconta in leggerezza. Soggettività in tensione tra spazio pubblico e privato oppure prese in un impegno assoluto: sono molte le differenti strade con cui hanno saputo creare simbolico e lasciare un’impronta nell’Italia da ricostruire. Dialogano con l’autrice Laura Minguzzi e Marina Santini della Comunità di storia vivente.


Per acquistare on line Le “Madri” della Ricostruzione italiana: https://www.bookdealer.it/goto/9788864646503/607

di Sarah Parenzo


La sorpresa della guerra. Il video di Shamur ’Imadi, sopravvissuta del kibbutz di Be’eri. «Chiedo una pace giusta, che i beduini del Negev ricevano aiuto come la mia comunità»

Or-ly Barlev, giornalista e attivista, ha condiviso su Facebook il videomessaggio della giovane superstite del kibbutz Be’eri, Shamur ’Imadi che, dall’albergo sul Mar Morto dove è stata trasferita al termine dell’agguato, si rivolge a tutte e tutti noi chiedendo di essere ascoltata con una forza e lucidità commoventi. Qui sotto si riportano degli estratti del suo discorso.

«La cosa peggiore, oltre a sentire il nome dei morti, dei dispersi e degli ostaggi, non è stata quella di rimanere sdraiata al buio nella camera blindata, né sentire gli spari o ricevere in tempo reale i messaggi dei membri del mio kibbutz, nomi che conosco da quando mi ricordo di me, che invocano aiuto senza che nessuno si presenti a salvarli». «La cosa più terribile per me, nel momento in cui sono uscita da casa quando ci hanno prelevati ed era buio […] è stato vedere nei volti delle persone del mio quartiere la paura». «Sono appena arrivata al Mar Morto e vedo le persone del mio kibbutz che cercano di svegliarsi la mattina, cercano di resistere e di sorridere ogni tanto, ognuno a modo suo». «Quello che ci è successo è stato terrificante ma c’è qualcosa che ci tengo molto a dire: ciò che ci è successo non è stato nuovo, ma solo peggiore. Sono anni che ci abbandonano. Anni. Non parlatemi di Iron Dome [sistema di intercettazione e difesa aerea israeliano, Ndr]: è un cerotto. Non dite soldati: è un cerotto per una persona che sta morendo dissanguata». «Vergogna: sono anni che parliamo di questo, anni che siamo stati abbandonati». «Cittadini di Israele, politici e persone all’estero ascoltatemi bene: come dovrei svegliarmi la mattina sapendo che a 4,5 km dal Kibbutz Be’eri, a Gaza, ci sono persone per le quali non è finita? Per me è finita dopo 12 ore perché c’era un posto dove rifugiarmi». «Chi parla di vendetta deve vergognarsi. È vero che c’è tanto dolore, dopo tutto quello che ho passato perdo le forze quando sento la parola vendetta. Ci sono altre persone che passeranno quello che ho passato io senza nessuno che le tiri fuori». «Ma così non si può: non si possono mettere altri cerotti. Ci chiedono continuamente se pensiamo di tornare al kibbutz, senza altre protezioni, senza altri soldati. Non parlatemi di soldati o protezione, parlatemi di soluzione politica: sono anni che la chiediamo. Io ho diciannove anni, ho amici caduti in battaglia come soldati negli ultimi giorni, amici che quando erano all’asilo sapevano già cosa volevano fare nell’esercito. Così dovrei crescere i miei figli? Vergogna».

«Quello che so è che Be’eri soffre, Nachalot soffre, Kfar Aza, Sderot e Gaza soffrono». «Credetemi che la terra a Be’eri e a Gaza trema esattamente allo stesso modo». «Nell’ultimo attacco, prima che arrivassero gli attentatori, ho sentito più razzi di quelli che ho sentito in diciannove anni di vita in una volta sola. Bum bum bum bum. Tanti, tanti. Abbiamo capito subito che si trattava di una guerra, prima ancora degli attentatori, prima di tutto, siamo sempre i primi a saperlo, siamo sempre i primi a sentirlo». «E vi dico che dal mio punto di vista sono razzi che ha mandato il mio governo, perché questo è il governo che mi ha abbandonato tutta la mia vita. E adesso arriva il peggio». «Accuso Bibi [Netanyahu, Ndr] di tutto: lui ha scelto di farci vivere così, lui ha scelto di darci Iron Dome invece che una soluzione politica e ha scelto anche molte altre cose, e il nostro sangue è sulle sue mani. Ma non solo le sue: Bibi è parte di un problema molto profondo». «Se le mie parole arrivano a qualcuno, guardatevi bene dentro, in profondità, chiedetevi quali sono i vostri valori». «Chiedetevi per chi votate, cosa gli chiedete. Io so cosa chiedo: una pace giusta, che i beduini del Negev ricevano aiuto come l’ha ricevuto il kibbutz Be’eri». «E anche nel nostro caso ad aiutarci sono venuti i cittadini, il governo non si è visto, e sono molto grata del fatto che abbiamo un albergo al Mar Morto. Ma chiunque qui vi rinuncerebbe in un secondo in cambio del ritorno dei nostri ostaggi. Tra l’altro due volte il governo ha fatto riferimento al fatto che esistono come se non esistessero: bombardano e sanno che il bombardamento costerà la vita anche degli ostaggi». «Rientro degli ostaggi, pace, giustizia: se non avete le orecchie per sentire quello che ho detto non c’è speranza. Fermatevi, ascoltatemi. Forse per alcuni di voi le mie parole saranno difficili da ascoltare». «Ma con quello che ho passato a Be’eri me lo dovete. Non sono qui a incolparvi: tutti stiamo passando tanto, prendetevi cura di voi e delle vostre famiglie. Ma mi dovete questo: chiedetevi per chi votate, chiedetevi cosa gli chiedete e non fate compromessi. Se fate morire la speranza farete morire di nuovo tutti noi».


(il manifesto, 13 ottobre 2023)

di Stefano Sarfati


Mai come oggi ho sentito il bisogno di trovare le parole giuste. Sul conflitto israelo-palestinese in passato ho scritto argomentando le verità storiche, evidenziando le contraddizioni di chi difende Israele senza se e senza ma, o di chi non vede che non è uno scontro di culture ma banale e cinica politica di forza delle potenze in campo. Ho ripetuto come un disco rotto le stesse cose per anni finché, dopo l’operazione Piombo Fuso di dicembre 2008 (in cui a Gaza morirono non meno di 1200 persone), sono diventato afono sull’argomento.

Quindici anni dopo, con quello che è appena successo, non trovo le parole e faccio fatica a pensare, un senso di lutto pervade ogni cosa. Lutto per le vittime israeliane, tra cui molti giovani, donne e bambini. Lutto per le vittime di Gaza rinchiuse nella loro striscia di terra senza una via d’uscita e sotto una pioggia di bombe indiscriminate che distruggono vite e palazzi, ennesima violenza su un popolo che è sotto occupazione dal 1948 (prima egiziana e poi, dal 1967, israeliana).

Lutto per la perdita del senso di umanità. Vittorio Arrigoni terminava le sue corrispondenze da Gaza per il Manifesto con: «restiamo umani», a indicare la vera posta in gioco.

Senso di lutto per un linguaggio e per parole che qualcuno non fa alcuna fatica a trovare, parole sbagliate, in malafede, commenti urlati a notizie prive di documentazione.

Lutto perché quello che è appena successo è uno specchio che ci dice che razza di girone infernale è il luogo da cui provengono le persone che hanno fatto quello che hanno fatto. La sorpresa che ha generato in tutti questo attacco mi ha ricordato il «perché ci odiano tanto?» dell’11 settembre 2001. I governi israeliani che si sono succeduti, e in particolare Netanyahu, hanno fatto di tutto per soffocare i palestinesi e contemporaneamente nascondere e far dimenticare al mondo l’occupazione. Ma chi la subisce non la può scordare e ritorna prepotentemente alla ribalta non più nella veste di vittima della storia, ha imparato il linguaggio globale della politica di forza, oggi molto in voga in questa guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita papa Francesco. Cinicamente parlando, l’attacco ha un senso politico, far ricordare al mondo che, contrariamente a quanto Netanyahu vuol far credere, mostrando la mappa di Israele che va dal Mediterraneo al Giordano, i palestinesi ci sono e adesso dimenticateli se ci riuscite.

Mentre le donne occidentali forse dicono il doppio sì, alla carriera e alla famiglia, o forse ne dicono uno solo come testimonia l’invecchiamento dei paesi occidentali, le donne della Striscia di Gaza sembrano avere uno scopo principale, imposto o volontario che sia: fare figli per garantire continuità alla resistenza di un territorio molto povero ma sovrappopolato e con un’età media molto giovane.

Mai come oggi ho bisogno di trovare parole e figure simboliche da far dilagare nel mondo e quella che mi parla più di tutte è Donna Vita Libertà. Intanto perché le due parole del binomio donna-vita sono intrinsecamente legate e opposte a quelle di soldato-guerra che dominano la scena della guerra mondiale a pezzi; poi la parola libertà fa capire che la strada non è obbligata, si può cambiare, ci si può ribellare, si può sovvertire l’ordine mondiale.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2023)

di Antonella Nappi


Sono molto interessata a una iniziativa possibile per il disarmo dell’Italia e dell’Europa: ho dunque firmato una petizione di Disarmisti Esigenti che chiedeva per il 30 settembre a Roma all’assemblea organizzata da Raniero La Valle e Michele Santoro – Pace Terra Dignità – di formare una lista indipendente per le elezioni europee.

L’assemblea ha deciso di raccogliere le firme per dare una possibilità di voto a chi vuole uscire dalla guerra – non dalla Nato – alle prossime elezioni europee. I partiti esistenti non parleranno della guerra, come è già accaduto, se non li costringiamo a schierare, anche tra le loro fila, persone più orientate ad uscire dalla guerra presente in Europa (oggi devo dire, dalle guerre che abbiamo permesso anche di fianco a noi).

La lista che faremo non raccoglie e non persegue le diverse idee politiche di chi la compone, ma si impegna soltanto in quello che tutte le unisce: la volontà di uscire dalla guerra e di non inviare armi né in Ucraina né nel mondo.

Disarmisti esigenti, a cui do attenzione anche se fondata da uomini, ha ricordato all’assemblea che a fine dicembre il governo chiederà al Parlamento italiano di votare il rinnovo del decreto per gli aiuti militari all’Ucraina. Sarà ancora una volta in piazza, davanti al Parlamento per contestare il decreto. Gli interventi dei giovani di altre associazioni, uomini e donne, hanno chiesto agli adulti di non disertare le manifestazioni delle piazze contro l’invio delle armi, per mostrare con la presenza dei corpi, che siamo contrarie e contrari alla distruzione delle vite e favorevoli alla discussione dei conflitti con le ragioni dei nostri sentimenti.

Certo noi donne femministe facciamo di più di questo quando ci distinguiamo dagli uomini e valorizziamo la nostra differenza, creiamo un sapere che non c’era, che non è ancora praticato dalla politica tutta. Silvia Baratella, nell’articolo pubblicato dalla Libreria delle donne il 6 ottobre 2023, Femminismo: una visione altra della guerra, denuncia la “questione maschile ancora irrisolta”. Sta «dietro alla violenza maschile contro le donne, all’organizzazione capitalista dell’economia, alla concezione dell’ambiente come terreno di conquista da saccheggiare, alla scienza a compartimenti stagni, iperspecialistici, che non confrontano con altre discipline l’impatto del loro operato. La questione maschile è anche la guerra. Per come si è sviluppata la nostra storia, la guerra è stata un’invenzione maschile; questo non vuol dire che agli uomini piaccia.» Riportando Virginia Wolf, Baratella ricorda che ancora oggi «bisogna trovare in alternativa alla guerra altre “occupazioni onorevoli per gli uomini onesti”». E, riprendendo un’idea di Clara Jourdan1, ricorda che «nelle piazze principali di tutti i paesi italiani c’è un monumento ai soldati (non ai e alle civili) caduti in guerra, si considera ancora un onore per gli uomini onesti morire da soldati sacrificandosi per il bene del paese. Nulla ricorda invece le vittime degli incidenti sul lavoro, che pure si sono sacrificate per produrre tutto ciò che ci serve per vivere o per vivere meglio, e quindi ancor più per il bene del paese». È necessario ribaltare il concetto di “onore” che educa uomini di destra come di sinistra, continua, una educazione distruttiva/autodistruttiva che celebra la morte in combattimento come «più valida eticamente delle opzioni di pace».

Le donne morivano di parto e i bambini di fame nella nostra storia pregressa che l’antropologia ci descrive, la morte non faceva paura ma si cercava di risparmiarla alla propria comunità con le incursioni alimentari nelle comunità straniere ma anche con gli scambi. Ricomporre tra i sessi il valore di dare la vita e di alimentarla in epoca di pace è quello che stiamo facendo.

Il pacifismo, cultura creata da donne e anche da uomini, è la più alta espressione umana, parte dal dare valore a sé stesse e sé stessi, al corpo nato da donne, curato da donne e da quegli uomini che ne sentono l’onore. Uomini pacifisti hanno contestato e disertato la guerra; lottato per non tenere un’arma in mano e oggi hanno anche approfittato della pace distanziandosi dalla guerra; al contempo noi donne siamo dappertutto, possiamo operare nella società se continuiamo a metterci in discussione tra noi e a relazionarci con sincerità. Comunichiamo anche con gli uomini che accettano di mettersi in discussione, di rispettare i limiti che la realtà delle altre esistenze impone, l’intangibilità dei corpi delle donne e degli uomini. Uscire dalla guerra è una battaglia per il riconoscimento della vita che è stata data e ricevuta dalle donne.


1 C. Jourdan, “La guerra fa parte della questione maschile”, https://www.libreriadelledonne.it/report_incontri/la-guerra-fa-parte-della-questione-maschile/


(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2023)

di Ruba Salih


In queste ore in cui si assiste sgomenti all’evolvere della escalation di morti palestinesi e israeliani, è chiara una forte dissonanza nelle reazioni dei due mondi. I milioni di palestinesi dentro e fuori i territori occupati si sono trovati in uno stato di trance, tra un’innegabile iniziale euforia, presto divenuta choc e paura: si chiedono se quello che hanno avuto davanti agli occhi sia stato delirio onirico o realtà. Non si capacitano del ribaltamento della esperienza della violenza, abituati come sono a vedersi vittime sotto le bombe, i mitra e gli apparati di controllo israeliani. Il governo israeliano ha risposto dichiarando «guerra totale», promettendo la polverizzazione di Gaza e chiedendo agli abitanti di lasciare la Striscia, sapendo che non c’è via di fuga.

Ma dichiarare guerra significa assumere che prima ci fosse la pace. Certamente gli abitanti di Sderot e del sud di Israele vorrebbero continuare a vivere in pace. Per gli abitanti di Gaza, all’opposto, «pace» è un concetto astratto, un vissuto mai sperimentato. Per gli abitanti della Striscia, così come per il diritto internazionale, Gaza è un territorio occupato la cui popolazione – 2,2 milioni, per due terzi rifugiati del 1948 – vive o, per usare le loro parole, muore lentamente in un regime di prigionia. Il controllo di ingressi e uscite di persone, cibo, medicinali, elettricità e telecomunicazioni, frontiere di mare, di terra e di aria, è in mano a Israele.

Il diritto internazionale, correttamente invocato a difesa della popolazione ucraina e per sanzionare l’occupante russo, è carta straccia per Israele che gode di una impunità concessa a nessun altro stato che operi in siffatta violazione delle risoluzioni delle Nazioni unite, degli accordi da loro stessi sottoscritti, e delle convenzioni internazionali.

Ciò che sta accadendo – sconvolgente e terribile per numero di vittime, inclusi bambini e anziani – crea non solo un nuovo scenario politico, ma impone una nuova cornice di senso. Si è infranto l’assunto che da sempre, ma più prepotentemente dagli accordi di Oslo in poi, fa da filtro emotivo e interpretativo al «conflitto», ossia la normalizzazione dell’asimmetria di valore delle vite degli uni e degli altri, che a sua volta poggia su un’aspettativa di acquiescenza e accettazione della propria subalternità dei palestinesi in quanto popolo colonizzato.

Tale impalcatura si è retta sulla certezza che i palestinesi non possano reagire alla loro condizione, non solo a causa dell’evidente inferiorità militare ma nella convinzione che la soggettività palestinese debba e possa accettare di rimanere colonizzata e occupata all’infinito. Come se l’asimmetria di forza sul campo debba trasformarsi in accettazione di inferiorità nella gerarchia della vita umana.

Tutto questo non si può comprendere con gli strumenti di chi vive in pace, ma solo (nella misura in cui questo sia perfino possibile per chi non vive a Gaza o nei territori occupati palestinesi) da dentro agli effetti della violenza e del trauma coloniale di cui gli effetti più devastanti, come ci spiega Franz Fanon, sono le ferite fisiche e psichiche e con queste la frammentazione di canoni di empatia e di sensibilità che sono privilegio e prerogativa primaria di chi vive in pace.

Oggi a Gaza chi non ha ancora vent’anni, circa la metà della popolazione, è già sopravvissuta ad almeno quattro bombardamenti, nel 2008-9, nel 2012, nel 2014 e ancora nel 2022. È a Gaza che si è perfezionata la tattica israeliana di sparare sui manifestanti durante le proteste pacifiche, come quelle del 2018, per menomare i corpi, in un cinico calcolo necropolitico di distribuzione delle casualità tra mutilati e morti. In tale stato di menomazione fisica e psichica la resistenza è l’unica possibilità di riparazione del soggetto colonizzato. Lo è stato storicamente in tutti i contesti di liberazione dal dominio coloniale, in cui la lotta palestinese si inserisce.

È in questa chiave che va letta la lunga durata della resistenza palestinese degli ultimi 70 anni di cui negli ultimi giorni abbiamo visto una svolta senza precedenti, risultato – come hanno notato molti osservatori anche israeliani – del fallimento delle molteplici forme di resistenza pacifica che i palestinesi hanno saputo portare avanti nonostante l’occupazione e che continuano a mettere in campo: gli scioperi della fame dei prigionieri in detenzione amministrativa, la resistenza civile degli abitanti di villaggi come Bi’lin o Sheikh Jarrah, schiacciati tra il muro di separazione e l’espropriazione delle terre e soffocati dalla sempre più aggressiva e inarrestabile espansione degli insediamenti, la protezione dell’ambiente naturale e della cultura indigena palestinese, degli alberi di ulivo secolari, bruciati e vandalizzati dai coloni, la resistenza delle organizzazioni della società civile palestinese che mappano le violazioni dei diritti umani – fatto che le rende, per Israele, organizzazioni terroristiche.

La lotta per la memoria culturale e politica, quella dei rifugiati nei campi profughi che attendono riparazione e riconoscimento dei loro diritti umani, supportati dalle risoluzioni dell’Onu, e la resistenza delle pietre della prima Intifada, quando giovani con fionde lanciavano quelle stesse pietre con cui i soldati israeliani spezzavano loro le ossa e la vita.

Scriveva Mahmoud Darwish in un suo saggio sulla «follia» della palestinità scritto dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982, che il palestinese «è ingombrato dall’incedere incessante della morte e impegnato nella difesa di ciò che rimane della sua carne e del suo sogno…Non riesce più a urlare, può solo fare una cosa, diventare ancora più palestinese, perché non ha altra scelta».

L’unico antidoto alla spirale di violenza è la fine dell’occupazione e dell’assedio, questo solo porterà alla realizzazione di un futuro di pace e di umanità per palestinesi e israeliani.


(Il manifesto, 11 ottobre 2023)

di Alessandra Pigliaru


Che la vecchiaia sia un tema presente nella discussione pubblica internazionale, non lo si deve solo all’attenzione che da anni gli Age Studies assicurano, quanto piuttosto a un intrecciarsi nelle forme della rappresentazione con i capisaldi dell’umano vivere capaci di declinarne i contesti, da quello lessicale a quello sessuato. Considerando alcuni libri editi in questo ultimo anno, ci accorgeremmo di quanto la trasversalità sia d’obbligo.

Lidia Ravera nel suo Age pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età (Einaudi, pp. 101, euro 13) propone per esempio «un nuovo titolo di merito» preferendo al termine anziano/anziana quello di Grande adulta o Grande adulto. E prosegue dicendo che nonostante l’attribuzione qualitativa tenda a immaginare persone «serene», ci si potrebbe sincerare come non lo siano affatto, «neppure rassegnati: inquieti» perché «sono corpi che conoscono le carezze, hanno imparato a farne a meno, ma anche a inventarne di nuove, diverse. Sono anime in prova, alle prese con la durata, alcune sono tormentate, altre soddisfatte. Ci sono le anime placate, ma ci sono anche le anime furiose. Ciascuno invecchia a modo suo, fedele alla sua storia, alla sua identità, al suo carattere».

Restando tuttavia sull’aggettivazione dell’essere adulti, anche Gabriella Caramore nel suo L’età grande (Garzanti, pp. 144, euro 14) racconta di una ampiezza, al netto di quanto la vecchiaia si leghi più facilmente al tempo. Ha quest’ultimo un aspetto ineluttabile, osserva la sua fine, la sua chiusura, e non è un caso che una delle più prestigiose manifestazioni culturali italiane quale è Torino Spiritualità, conclusasi pochi giorni fa e dedicata «Agli assenti. Della morte ovvero della vita», abbia scelto di presentare il libro di Caramore (in conversazione con Elena Loewenthal) dando alla parabola terrestre l’accezione temporale e spaziale che la designa.

Che i processi di invecchiamento restituiscano un quadro ben più generativo di quanto fornitoci dal senso comune lo si assume da diversi lavori, tra quelli di carattere antropologico si può vedere il volume a cura di Jacopo Favi, Invecchiare (Meltemi 2021). Anche Barbara Leda Kenny, in un lungo articolo di qualche mese fa su «L’essenziale» ragionava del mutamento e della trasformazione di scenario, soprattutto in Italia e a proposito delle donne anziane (erano 4,5 milioni quelle sole, soprattutto vedove) con cui si potrebbe auspicare un modello diverso di convivenza e di famiglia.

Sta di fatto che in una dimensione anzitutto del «sentire» la propria carne attraversata da ciò che è stato e ciò che arriverà, il nodo del presente si affaccia per dipanarsi in scritture letterarie, che spesso si ibridano tra il memoir, l’autobiografia e la prospettiva della storia culturale, come accade in La quarta parte, di Luisa Passerini appena uscito per manifestolibri (pp. 112, euro 12) in cui la vecchiaia è luogo frequentato dall’autrice da svariati anni. Già nel 2006 nella rivista «Storia delle donne» (Firenze University Press) dava conto, tra le altre cose, dell’affacciarsi anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, di alcune ricerche sulla necessità di sessuare la vecchiaia. Ciò per dire che La quarta parte ha una tale struttura teorica alle sue spalle che sarebbe riduttivo collocare questo agile e utile volumetto come un memoir, cominciato nella primavera del 2020 e concluso nell’inverno successivo.

Al centro vi è una donna che accompagna la coscienza dei suoi ottant’anni con Dante Alighieri, Agnès Varda e David Hume, aprendo degli squarci che vanno dunque dalle lettere al cinema e alla filosofia, nel corpo a corpo con alterne passioni, compresi vizi e virtù, tra cui spicca la temperanza. Specificata nella sua raffigurazione sapiente di arcano maggiore in cui c’è una figura femminile che travasa dei liquidi da una brocca a un’altra. In quest’operazione che Passerini identifica di mediazione, collegamento ed equilibrio, si sgrana ciò che connette e mescola «gradi di rilevanza e irrilevanza». E, potremmo aggiungere, nonostante tutto ha tenuta, in una pratica come quella di trasferire, trasmettere. Che cosa ci consegna invece il sapere critico delle donne è materia che Passerini maneggia perfettamente, coinvolgendo diversi campi di competenza, come accaduto nel lavoro collettivo Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (pubblicato dal Cirsde nel 2012), insieme a Edda Melon, Luisa Ricaldone e Luciana Spina.

Si trattava di una indagine avviata da alcuni incontri avvenuti tra il febbraio e il marzo del 2008. E che le pratiche torinesi siano floride in tale versante tematico lo si evince anche dal volume che Ricaldone ha dato alle stampe per Iacobelli editore nel 2018 dal titolo Ritratti di donne da vecchie (recensito su queste pagine da Laura Fortini). Se non si possono non segnalare i libri di Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie (2010), quello a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Passaggi d’età (2013) e di Francesca Rigotti, De senectute (2018), sono ugualmente utili volumi più recenti che interrogano da un’angolatura ogni volta differente il significato dello scorrere delle età. Insieme al romanzo di Fuani Marino, Vecchiaccia (Einaudi, pp. 160, euro 17), ci sono due sillogi che si misurano con alterne geografie sentimentali di un certo rilievo: la prima è una raccolta di racconti scritta da Jane Campbell che si intitola Spazzolare il gatto (Edizioni Atlantide, pp. 168, euro 17,50, traduzione di Federica Bigotti). La seconda è invece in versi ed è L’amore da vecchia, di Vivian Lamarque (Mondadori, pp. 160, euro 18). Campbell, di origine inglese, ha esordito con il primo racconto in rivista all’età di 77 anni diventando presto un caso di culto, e ora ci dona tredici magnifici ritratti di altrettanto donne che confessano la propria audacia senza nascondimenti.

A cominciare dal primo in cui una ottantaseienne degente in un reparto di geriatria, dopo aver condotto una moderata esistenza coniugale, osserva una giovane donna che si allunga per cambiare una lampadina e, senza preavviso alcuno, sente «la voglia risvegliarsi tra i lombi appassiti». O ancora quando sollecita, più avanti: «Adesso non possiedo nulla, tranne, suppongo, il mio corpo e la mia mente, così come sono dopo numerosi decenni di utilizzo. Mal-utilizzo, talvolta. Ma almeno, grazie a Dio, sono stati utilizzati e non li ho sprecati. Certo questo a mio figlio non posso dirlo». Non mancano le cliniche della memoria, dolori piuttosto lancinanti e niente è facile, Campbell neppure si presta a una retorica senza costrutto per scacciare via l’angoscia della morte. Racconta invece di una sfrontatezza capace di erodere l’imbarazzo. «Invecchiare – prosegue la scrittrice – è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio, di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza».

Il graffio, al contempo tagliente e delicato, è ciò che invece indaga Vivian Lamarque che, nelle sue poesie, nomina l’amore transitorio e non esclusivo che si promette al vivente. «Sono una Autunno./ Anzi, il tempo di dirlo/ e ora sono una Inverno. Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». E parla di scomparsi che non possiamo più toccare ma che sentiamo nella testa, con la stessa identica voce ad ammonirci che dobbiamo andare altrimenti si fa tardi, eppure non c’è un domani, non tutti i ritorni sono possibili. «Perché non sono un baobab e questa è l’infanzia?» si domanda Lamarque. «Numero d’anni avere davanti quante le stelle sulle teste/ degli alberi. E giorni ancora di più./ Agli anni preferisce i giorni e ai giorni i mattini […] Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo/ il Tempo […] Teneteli a cuore i mattini metteteli in banca./ Però anche vecchiaia è bellezza, capelli color/ della neve, pelle rigata come belle cortecce e alcuni che ti vogliono bene e alcuni che ti cedono il posto in tram». L’ironia agrodolce è nel post-scriptum, certo senza reclamare comprensione eppure «Ma perché non avete tutti 80 anni come me?».


(il manifesto, 11 ottobre 2023)