di Luciana Tavernini


Louise Glück (1943-2023) è morta il 13 ottobre scorso. La ricordiamo nelle sue opere. Proponendoci la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e rivelandoci il modo in cui le si è manifestata, la poesia del premio Nobel Louise Glück ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Nell’anno della pandemia planetaria (2020) il Nobel è andato a una scrittura di «austera bellezza» che ruota intorno al tema della morte ma anche della resilienza. Come recita la motivazione del premio, Louise Glück nella sua poesia attinge alla sua vita e costituisce una «voce inconfondibile» che «rende universale l’esistenza individuale».

Nata a New York il 22 aprile1943 da famiglie di origine ebrea e ungherese, emigrate negli USA all’inizio del Novecento, da giovane Louise Glück ha sofferto di anoressia. La sua è una poesia dell’esperienza e delle relazioni e lei ne è consapevole. Il secondo marito John Dranow e il figlio Noah, nato nel 1973, diventano interlocutori, ad esempio, in L’iris selvatico. E della sua maternità dice in un’intervista a Luca di Mastrantonio: «La nascita di mio figlio mi ha fatto crescere. Un’esperienza che mi ha dato tanto e mi ha sottoposta a molte forzature. All’improvviso, diventi responsabile di un esserino e, per un paio di anni, sono stata una mamma single. È uno shock, ma è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Anche sul lato artistico: sarei stata una poetessa molto più tediosa senza la nascita di un figlio. E senza i miei studenti, i loro testi, non avrei superato il mio primo grande blocco di scrittura.»

Louise Glück ha scritto dodici libri di poesie e due di saggi, e ha ottenuto i maggiori riconoscimenti statunitensi. Poems: 1962-2012, è un volume di ben 656 pagine che contiene cinquant’anni di poesie. Il Saggiatore, che ha ripubblicato L’Iris Selvatico e Averno, ha recentemente mandato in libreria Notte fedele e virtuosa, Ararat, e il suo ultimo libro Ricette per l’inverno collettivo.

Ho incontrato la poesia di Louise Glück, come credo molte, quando le è stato assegnato il Nobel: la sua poesia si è diffusa e si diffonde attraverso le relazioni, con il passaparola. Anche per le traduzioni in Italia dei primi due libri è stato così, come racconta il traduttore Massimo Bacicalupo in una intervista rilasciata presso il Centro Studi americani. Infatti Glück, come ci avverte nel suo discorso di accettazione del Nobel, non è una «poeta da stadio» e neppure «una poeta che parla a se stessa», ma fin dall’infanzia come lettrice di poesia sente l’importanza del «ruolo di lettrice scelta», un ruolo «intimo, seduttivo, spesso furtivo o clandestino» e ora come autrice sa che «chi legge o ascolta dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore» nel cogliere la profondità politica della poesia.

Diffida della vita pubblica in cui le generalizzazioni cancellano la precisione e le verità parziali cancellano il candore e la rivelazione. I premi, la notorietà, possono essere «un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione»; ciò che le interessa, come ad alcuni altri poeti e poete, è piuttosto «raggiungere molte persone […] nel tempo, nel futuro»; ma desidera che «in qualche modo profondo questi lettori arrivino sempre singolarmente, uno a uno». Cita proprio una poesia di Emily Dickinson, «I’m nobody! Who are you?» (1861), per esprimere questo intimo e necessario rapporto tra poeta e chi legge: «“Io sono Nessuno! Tu chi sei?/ Sei Nessuno anche tu?” […] “Allora siamo in due!/ Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…”».

Dunque, ci suggerisce come avvicinarci a lei. Farsi scegliere da chi fa poesia, e sedute sul divano, diventare «compagne di invisibilità», collaborando alla rivelazione che può accadere.

I suoi sono veri e propri libri, non semplici raccolte di poesie. La critica parla di sequenza poetica lirico narrativa, dunque andrebbero letti ciascuno per intero seguendo l’ordine da lei indicato, un ordine non solo temporale ma anche di sviluppo del tema proposto. Sono veri e propri classici perché ogni volta che li leggiamo scopriamo qualcosa di nuovo. Non dobbiamo, come certi collezionisti di opere d’arte, conservarli in cassaforte, nella libreria, cassaforte di libri. Sarebbe come lasciare ricoprire di polvere qualcosa di prezioso e vivo che a ogni rilettura rivela nuove scoperte; infatti, in ogni sua poesia ne sono stratificate altre, come in quelle di Emily Dickinson, da lei considerata sua maestra, ed è un vero piacere poter leggere il testo in originale per azzardare altre traduzioni sia per le caratteristiche linguistiche dell’inglese, sia per la scelta di parole polisemiche come bed, letto e aiuola, che ci fanno passare dal fiore alla relazione di coppia.

L’iris selvatico

Vorrei proporvi di conoscerla a partire dal suo settimo libro, L’iris selvatico (1992), per l’importanza che oggi sentiamo di un diverso rapporto con la natura, non a caso mostrato da ciò che María Zambrano chiama logos poetico, la capacità di stare presso le cose, amandole con meraviglia in un ascolto che riesce a portare alla parola verità non ancora espresse dell’esistenza.

Qui tutto accade nel giardino, nell’orto, nella campagna del Vermont dove Glück abitava col marito e il figlio. Tre sono all’incirca le tipologie delle cinquantaquattro poesie, scritte in due mesi e mezzo: quelle in cui i fiori parlano, figure che rappresentano stati dell’animo umano; i “Mattutini” e successivamente i “Vespri” in cui la giardiniera dialoga con il divino; alcune situazioni temporali e di luogo dove il divino si manifesta e parla direttamente. Intrecciandosi tra loro le poesie creano un percorso iniziatico che non si può raccontare ma solo seguire e ripercorrere, come il cammino a spirale dei templi indonesiani di Borobudur dove si ascende, entrando in profondità con se stesse.

Vengono presentate situazioni quotidiane vissute con grande intensità come può accadere nelle micro-meditazioni dello yoga in cui l’essere capaci dell’attenzione – nell’accezione di Simone Weil, del fare vuoto dentro di sé per aprirsi all’oggetto, a ciò che abbiamo davanti – ci permette di cogliere il senso dell’esistenza. La poesia di Glück a una lettura superficiale può sembrare che mostri qualcosa di banale, di quotidiano anche se avvertiamo in qualche suo verso come una scossa. Ma se ci limitiamo a una comprensione apparente perdiamo il piacere della sorpresa. E in un suo “Mattutino” lei dice: «Per me, sempre/ il piacere è la sorpresa» (p. 83).

Le sue poesie nascono da momenti di essere come li chiama Virginia Woolf, da momenti di felicità come dice Mansfield. Monica Farnetti scrive che si tratta di un’esperienza legata «a una percezione nitida, intera e pervasiva della realtà», «una realtà vivente». «È, insomma, un campo di percezione, e insieme di passione, il quale stando dentro i suoi limiti funziona però come parte per il tutto, vale a dire del mondo come corpo celeste pieno di meraviglie e del cosmo che lo ospita fin dall’inizio del tempo». Farnetti parla di Katherine Mansfield e, partendo da lei, disegna una genealogia di autrici che dall’inizio del Novecento «prendono via via coraggio e si autorizzano (l’una l’altra e ciascuna se stessa) a ficcare il naso nella terra e nel cielo, per rendersi conto da dove e per quale via il mondo sia venuto al mondo e quale posto occupino l’umano e i suoi dissimili» (p. 44). Oltre a Mansfield e Woolf, indica Colette, Marguerite Duras, Elisabeth von Armin, Clarice Lispector, Marguerite Yourcenar, le nostre Marisa Bulgheroni e Anna Maria Ortese e per gli USA Alice Walker, bell hooks, Toni Morrison. Insomma mi sento di collocare Glück in questa genealogia di donne che vivono l’esperienza dell’alterità impastata con l’identità, piazzandosi, come dice Farnetti, «con tutto il corpo e con tutti e cinque i sensi al centro di quest’esperienza e vivendola appunto come esperienza e non come concetto» (p. 49).

Una modalità empatica in cui si è disponibili «ad accorgersi dell’altro e a stare amorosamente in sua compagnia. A starci dunque per amore, e per amore appunto d’altro», una capacità di lettura per Glück che dal suo giardino fa «saltare le pareti dell’io» praticando «il passaggio Io/Altro», coniugando la sfera terrestre e celeste e «mantenendo il respiro e la grandezza dell’universo» (Farnetti, p. 50). Un’empatia che la porta a sentire i fiori e a dialogare con un Padre divino che ha elementi biblici. Come direbbe la teologa Antonietta Potente, nelle serie di poesie intitolate Mattutino e Vespro è «l’anima corporea» (p. 80) della giardiniera che si rivolge al Padre, a un Tu, al «grande Mistero che ci avvolge, noi normalmente lo chiamiamo “Dio”, in realtà non sappiamo se ha un nome» (p. 55). Si tratta di una presenza-assenza di cui si ha «nostalgia e sete» perché «se l’essere umano non percepisse l’assenza non potrebbe né cercare né amare» (p. 29). In contrasto con questa sua percezione del divino Louise Glück scrive la parola dio minuscola solo in tre poesie, per indicarne un uso ormai svilito: per commiserarsi (Viole, «povero dio triste», p. 59), per dividere (Zizzania «se adori/ un solo dio, ti serve/ un solo nemico», pp. 61-63), come voce di dio eco della propria (Scilla, p. 43).

Il tu divino invece lei può rimproverarlo per la sua indifferenza e per come «forza il cuore» e dunque lo può paragonare a un coltivatore che prova una nuova specie (Mattutino, p. 69), ma spera che «intenda farmi/ di nuovo sana per sempre, come fui/ sana e intera nell’infanzia ignara», o ancora prima quand’era dentro sua madre o nel sogno di una possibile eternità. Un tu divino a cui può esprimere anche i suoi dubbi cercando la prova della sua esistenza nel piantare un fico nel Vermont (Vespro, p. 97). Questo tu parla con compatimento («quando vi ho fatti vi amavo. / Ora vi compatisco») perché le anime che avrebbero dovuto essere immense per i doni della bellezza del mondo sono «piccole cose vocianti» (Vento calante, p. 45) o sono incapaci di pensare al suono della sua voce («come altro che una parte di voi», Fine dell’inverno, pp. 35-37).

Per dire di questa relazione mi sembrano utili le parole di Luisa Muraro (Il dio delle donne) riferite alle mistiche: si tratta de «l’imprevedibile dio delle donne», «presente-assente in una relazione di amore libero che si faceva riconoscere senza mai farsi prendere» (p. 24), che viene detto in un linguaggio che non ha mai «la pretesa di dire la verità su Dio» (p. 25), un dio che «c’è nella forma di un capitare sempre possibile» (p. 31). Per questo, potendo leggere l’originale, spesso io preferisco tradurre you con tu piuttosto che con voi, in questo modo il dialogo diviene intimo: il tu divino si rivolge a un altro tu e non mi appare come un predicatore che si rivolge sempre a un voi, che rappresenta il genere umano.

La poesia di Glück è relazionale ma proprio perché chi legge è ascoltatrice all’interno del dialogo, vi è difficoltà a capire chi sta parlando e a chi (situazione che si può definire di locutore inaffidabile). Si assiste alla rivelazione se ci mette nella stessa disposizione della poeta che si colloca in ascolto della realtà che la circonda, del vivente che, attraverso lei, prende voce e illumina il senso dell’esistenza.

Nelle diciotto poesie il cui titolo è il nome di un vegetale, Glück lo descrive con una precisione da pittura antica. A volte il nome mi era sconosciuto, così ho cercato in internet e, grazie all’esattezza della descrizione, ad esempio per il Lamium (p. 25), ho potuto individuare di quale sottospecie si trattava. La poesia mi ha dato così le parole per dire il valore di un’amica, una di quelle amiche riservate, con una loro luce interna «come un sentiero che nessuno può usare, un sottile/ lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri» (p. 25). Ho provato quindi l’emozione del ritrovare lì quell’amica che non si lascia toccare dal sole, che non si mette in mostra, ma è tanto più preziosa nella sua apparente freddezza.

La prima poesia, L’iris selvatico (pp.13-15), che dà il titolo al libro, è la più perfetta descrizione che io conosca della depressione e del suo superamento. Gli iris li conoscete. Pensate alla loro fioritura nel dipinto di van Gogh, ma d’inverno resta solo il rizoma sottoterra. Glück dice «è terribile sopravvivere come coscienza sepolta nella terra scura». E l’uscita dal soffrire accade con il ritorno della parola. «Tu che non ricordi /passaggio dall’altro mondo/ ti dico che seppi parlare di nuovo». E alla fine c’è la descrizione della bellezza dell’iris fiorito, apertura alla meraviglia della vita, alla sua origine. «Dal centro della mia vita venne /una grande fontana, ombre blu /profondo su acqua di mare azzurra». E in Bucanave il superamento della disperazione avviene «gridando sì, rischia la gioia// nel vento aspro del mondo» (p. 27).

Le sue poesie costituiscono una critica politica profonda: troviamo rappresentata, ad esempio, la costruzione del nemico come inganno per continuare a dolerci e incolpare qualcuno perché le nostre particolari passioni finiscono e non vogliamo prendere coscienza del fatto che non erano destinate a durare, (Zizzania, pp. 61-63); oppure la necessità del disfacimento dell’io per essere in grado di mostrare al sole, al signore in cielo, «il fuoco del mio cuore, fuoco come la sua presenza», come ci dice il papavero rosso, chiamandoci fratelli e sorelle (Il papavero rosso, p. 77); o la falsa credenza che le macchine siano il mondo vero, e il fascino che subisce la mente che «vuole brillare, scopertamente, come/ brillano le macchine, e non/ crescere in profondità come, per esempio, le radici», qualcosa che bisogna però «pensarci due volte» prima di dire (Margherite, p. 105).

A volte troviamo la rappresentazione della coppia, ma mai in modo idilliaco. Ad esempio ne Il giardino (p. 51) «persino all’inizio dell’amore» senza che vi sia consapevolezza si «compone un’immagine di separazione»; oppure il biancospino capisce che «passione e rabbia umana» hanno causato la fuga dei due perché hanno lasciato cadere tutto quello che avevano raccolto (Il biancospino, p. 53). I gigli bianchi, l’ultima poesia del libro è costruita sulla simmetria tra la coppia di gigli e la coppia umana, dove alla fine dell’estate, come durante la pandemia, possiamo sentire il terrore che tutto possa finire, essere soggetto a devastazione, perduto. Possiamo sentire inutile bellezza e aria profumata. Ma lo splendore, il giardino che abbiamo costruito in «quest’unica estate» ci ha fatto entrare nell’eternità. Le mani che seppelliscono il bulbo, le mani che ci toccano e di cui avvertiamo il bisogno permetteranno lo sprigionarsi dello splendore che ritornerà.

Glück propone la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e, mostrandoci come le si è manifestata in un rinnovato rapporto con la natura, ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Bibliografia


Massimo Bacigalupo, “Louise Gluck e la poesia americana”, Intervista rilasciata presso il Centro Studi Americani, il 10 dicembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=BbX0NqF5NpM

Emily Dickinson, “Io sono Nessuno! Tu chi sei?” in Tutte le poesie, trad. di Silvio Raffo, Meridiani Mondadori, Milano 1997

Monica Farnetti, “Felicità di Katherine Mansfield” in Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga/Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 40-55, 332 pagine, 17 euro

Louise Glück, Ararat, trad. di Bianca Tarozzi, Il Saggiatore, Milano 2021, 128 pagine, 14 euro e-Pub 7,99 euro

Averno, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2019, 160 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

L’iris selvatico, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2020, 158 pagine, 14 euro, e-Pub 7,99 euro

Notte fedele e virtuosa, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2021,176 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

Ricette per l’inverno dal collettivo, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2022, 96 pagine,13 euro, e-Pub 7.99 euro

Poems: 1962-2012, FSG – Macmillan, London 2013, 656 pagine, 22 dollari, e-Pub 8,72 dollari

Nobel Lecture, The Nobel Foundation, Stoccolma 2020, gluck-lecture-english.pdf

“Discorso per il premio Nobel”, trad. di Valeria Gorla, in The Italian Review, 1, 2021https://www.theitalianreview.com/discorso-per-il-premio-nobel/

Luca di Mastrantonio, “L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia”, Intervista a Louise Glück, https://www.corriere.it/sette/incontri/intrevista-louise-gluck-nobel/index.shtml

Luisa Muraro, Il dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, ripubblicato da Marietti, Milano 2020, 240 pagine, 17,50 euro

Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Ed. Paoline, Milano 2017, 130 pagine, 13 euro

Zambrano María, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, pp.188, 13 euro

Zamboni Chiara, “María Zambrano: il sentire inconscio e il linguaggio nel generarsi della natura”, In Sentire e scrivere la natura, Mimesis Edizioni, Milano 2020, pp. 89-131, 20 euro


(Leggendaria, n. 155/2022, pp. 43-45 – Primopiano/Louise Glück, 5 gennaio 2023)

di Jessica Chia


Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i sei e i diciassette anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» – questo il loro nome in dialetto – sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».

Tra loro c’è anche Nora, quindici anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro, La piccinina, appena uscito per edizioni e/o (pp. 192, 16,50 euro), che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca.

Scriveva La Domenica del Corriere sui quei tumulti: «Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro e irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombato delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie».

L’evento, infatti, non sconvolge solo i giornalisti dell’epoca: si sconvolgono le «maestre», che le seguono nei loro cortei, insultandole. Si sconvolgono gli uomini delle loro famiglie, che si sentono «insultati», provano la vergogna del disonore per queste figlie ribelli che non sanno stare al loro posto. E questo avviene anche nella famiglia di Nora. Ma lei si ispira agli insegnamenti di suo padre, morto nelle lotte delle Cinque giornate di Milano: «Il papà mi ha insegnato che le grandi lotte per i diritti partono sempre dalle rivolte del popolo. Quindi anche noi ci potevamo ribellare». E nonostante la balbuzie, lei cammina fiera, di fronte alla folla che si prende gioco di loro, fino alla Camera del lavoro, per consegnare i desiderata delle scioperanti: «“Boicottare” diceva (suo padre, ndr), scandendo bene le parole, “imparalo anche tu, Nora, cosa vuol dire. Che magari un giorno ti servirà. Una parola preziosa”».

A casa la vita non è facile: i suoi fratelli sono i primi che la insultano per via degli scioperi (le dicono che «i giornali scrivono delle piscinine, “le zabette che vanno in giro a fare lo sciopero”, come gli uomini» insiste lui. «Ci fai vergognare, tutti quanti»). E lei vive, senza amore familiare, nella perpetua insicurezza della sua balbuzie: non riesce a esprimersi, è lo zimbello di tutti. Ma quelli sono anche gli anni in cui Nora scopre le amicizie, come l’Angelica e la Lisa. Soprattutto la Lisa: così bella, in grado di parlare senza balbettare, dolce e composta. C’è poi l’Emilio, il suo amico pittore adulto, figura di riferimento per Nora. E infine l’Achille, il ragazzo di cui si innamora come solo a 15 anni ci si può innamorare: perdutamente e dolorosamente. Ma l’amicizia di questo trio di ragazzini è destinata a finire quando si troveranno ad affrontare un evento troppo grande per quelle piccole donne dal viso di bambine: l’aborto clandestino che quasi ucciderà una di loro.

«Mi avevano anche inculcato nella testa che ci fosse una sorta di potere nascosto, nel genere maschile, per cui noi donne dovevamo stare all’erta o saremmo finite abbandonate e rinnegate per via di uno sciocco errore di calcolo». Nora impara molto presto che la vita per le femmine è disseminata di dolori e ingiustizie: gli uomini possono farne quello che vogliono di una bambina povera, tanto la «vergogna» rimarrà attaccata solo addosso a lei, per tutta la vita. Ed è quello che lei subirà proprio sul luogo di lavoro; quel luogo per il quale avevano chiesto maggiori tutele e più dignità.

Attraverso gli occhi di Nora, Silvia Montemurro racconta una storia che è soprattutto una storia delle donne: dalle lotte collettive, alla loro figura marginale – di fatiche domestiche e «allevatrici» di figli – nelle famiglie, ai tentativi di emancipazione di quelle nate nelle classi più povere, per non rimanere «zitelle». Le descrive – con una prosa piacevole che, in prima persona, ricalca la voce della quindicenne Nora e il suo guardo di scoperta sulla vita – in un mondo ancora di dominazione maschile, dove la violenza è pane quotidiano e bisogna imparare a sopravvivere fin da piccole. Come fanno le piccinine, per cui il loro coraggio ha rappresentato un enorme passo in avanti nella storia dei diritti: «…diverranno lavoratrici oneste, combatteranno cento altre battaglie con la convinzione profonda di una verità appresa da bambine, molte diverranno madri; i loro figli certo non saranno crumiri. Su, camminate, bambine!» (Avanti!, giugno 1902).


(27esimaora.corriere.it, 15 ottobre 2023)

di Sarah Parenzo


La sorpresa della guerra. Il video di Shamur ’Imadi, sopravvissuta del kibbutz di Be’eri. «Chiedo una pace giusta, che i beduini del Negev ricevano aiuto come la mia comunità»

Or-ly Barlev, giornalista e attivista, ha condiviso su Facebook il videomessaggio della giovane superstite del kibbutz Be’eri, Shamur ’Imadi che, dall’albergo sul Mar Morto dove è stata trasferita al termine dell’agguato, si rivolge a tutte e tutti noi chiedendo di essere ascoltata con una forza e lucidità commoventi. Qui sotto si riportano degli estratti del suo discorso.

«La cosa peggiore, oltre a sentire il nome dei morti, dei dispersi e degli ostaggi, non è stata quella di rimanere sdraiata al buio nella camera blindata, né sentire gli spari o ricevere in tempo reale i messaggi dei membri del mio kibbutz, nomi che conosco da quando mi ricordo di me, che invocano aiuto senza che nessuno si presenti a salvarli». «La cosa più terribile per me, nel momento in cui sono uscita da casa quando ci hanno prelevati ed era buio […] è stato vedere nei volti delle persone del mio quartiere la paura». «Sono appena arrivata al Mar Morto e vedo le persone del mio kibbutz che cercano di svegliarsi la mattina, cercano di resistere e di sorridere ogni tanto, ognuno a modo suo». «Quello che ci è successo è stato terrificante ma c’è qualcosa che ci tengo molto a dire: ciò che ci è successo non è stato nuovo, ma solo peggiore. Sono anni che ci abbandonano. Anni. Non parlatemi di Iron Dome [sistema di intercettazione e difesa aerea israeliano, Ndr]: è un cerotto. Non dite soldati: è un cerotto per una persona che sta morendo dissanguata». «Vergogna: sono anni che parliamo di questo, anni che siamo stati abbandonati». «Cittadini di Israele, politici e persone all’estero ascoltatemi bene: come dovrei svegliarmi la mattina sapendo che a 4,5 km dal Kibbutz Be’eri, a Gaza, ci sono persone per le quali non è finita? Per me è finita dopo 12 ore perché c’era un posto dove rifugiarmi». «Chi parla di vendetta deve vergognarsi. È vero che c’è tanto dolore, dopo tutto quello che ho passato perdo le forze quando sento la parola vendetta. Ci sono altre persone che passeranno quello che ho passato io senza nessuno che le tiri fuori». «Ma così non si può: non si possono mettere altri cerotti. Ci chiedono continuamente se pensiamo di tornare al kibbutz, senza altre protezioni, senza altri soldati. Non parlatemi di soldati o protezione, parlatemi di soluzione politica: sono anni che la chiediamo. Io ho diciannove anni, ho amici caduti in battaglia come soldati negli ultimi giorni, amici che quando erano all’asilo sapevano già cosa volevano fare nell’esercito. Così dovrei crescere i miei figli? Vergogna».

«Quello che so è che Be’eri soffre, Nachalot soffre, Kfar Aza, Sderot e Gaza soffrono». «Credetemi che la terra a Be’eri e a Gaza trema esattamente allo stesso modo». «Nell’ultimo attacco, prima che arrivassero gli attentatori, ho sentito più razzi di quelli che ho sentito in diciannove anni di vita in una volta sola. Bum bum bum bum. Tanti, tanti. Abbiamo capito subito che si trattava di una guerra, prima ancora degli attentatori, prima di tutto, siamo sempre i primi a saperlo, siamo sempre i primi a sentirlo». «E vi dico che dal mio punto di vista sono razzi che ha mandato il mio governo, perché questo è il governo che mi ha abbandonato tutta la mia vita. E adesso arriva il peggio». «Accuso Bibi [Netanyahu, Ndr] di tutto: lui ha scelto di farci vivere così, lui ha scelto di darci Iron Dome invece che una soluzione politica e ha scelto anche molte altre cose, e il nostro sangue è sulle sue mani. Ma non solo le sue: Bibi è parte di un problema molto profondo». «Se le mie parole arrivano a qualcuno, guardatevi bene dentro, in profondità, chiedetevi quali sono i vostri valori». «Chiedetevi per chi votate, cosa gli chiedete. Io so cosa chiedo: una pace giusta, che i beduini del Negev ricevano aiuto come l’ha ricevuto il kibbutz Be’eri». «E anche nel nostro caso ad aiutarci sono venuti i cittadini, il governo non si è visto, e sono molto grata del fatto che abbiamo un albergo al Mar Morto. Ma chiunque qui vi rinuncerebbe in un secondo in cambio del ritorno dei nostri ostaggi. Tra l’altro due volte il governo ha fatto riferimento al fatto che esistono come se non esistessero: bombardano e sanno che il bombardamento costerà la vita anche degli ostaggi». «Rientro degli ostaggi, pace, giustizia: se non avete le orecchie per sentire quello che ho detto non c’è speranza. Fermatevi, ascoltatemi. Forse per alcuni di voi le mie parole saranno difficili da ascoltare». «Ma con quello che ho passato a Be’eri me lo dovete. Non sono qui a incolparvi: tutti stiamo passando tanto, prendetevi cura di voi e delle vostre famiglie. Ma mi dovete questo: chiedetevi per chi votate, chiedetevi cosa gli chiedete e non fate compromessi. Se fate morire la speranza farete morire di nuovo tutti noi».


(il manifesto, 13 ottobre 2023)

di Stefano Sarfati


Mai come oggi ho sentito il bisogno di trovare le parole giuste. Sul conflitto israelo-palestinese in passato ho scritto argomentando le verità storiche, evidenziando le contraddizioni di chi difende Israele senza se e senza ma, o di chi non vede che non è uno scontro di culture ma banale e cinica politica di forza delle potenze in campo. Ho ripetuto come un disco rotto le stesse cose per anni finché, dopo l’operazione Piombo Fuso di dicembre 2008 (in cui a Gaza morirono non meno di 1200 persone), sono diventato afono sull’argomento.

Quindici anni dopo, con quello che è appena successo, non trovo le parole e faccio fatica a pensare, un senso di lutto pervade ogni cosa. Lutto per le vittime israeliane, tra cui molti giovani, donne e bambini. Lutto per le vittime di Gaza rinchiuse nella loro striscia di terra senza una via d’uscita e sotto una pioggia di bombe indiscriminate che distruggono vite e palazzi, ennesima violenza su un popolo che è sotto occupazione dal 1948 (prima egiziana e poi, dal 1967, israeliana).

Lutto per la perdita del senso di umanità. Vittorio Arrigoni terminava le sue corrispondenze da Gaza per il Manifesto con: «restiamo umani», a indicare la vera posta in gioco.

Senso di lutto per un linguaggio e per parole che qualcuno non fa alcuna fatica a trovare, parole sbagliate, in malafede, commenti urlati a notizie prive di documentazione.

Lutto perché quello che è appena successo è uno specchio che ci dice che razza di girone infernale è il luogo da cui provengono le persone che hanno fatto quello che hanno fatto. La sorpresa che ha generato in tutti questo attacco mi ha ricordato il «perché ci odiano tanto?» dell’11 settembre 2001. I governi israeliani che si sono succeduti, e in particolare Netanyahu, hanno fatto di tutto per soffocare i palestinesi e contemporaneamente nascondere e far dimenticare al mondo l’occupazione. Ma chi la subisce non la può scordare e ritorna prepotentemente alla ribalta non più nella veste di vittima della storia, ha imparato il linguaggio globale della politica di forza, oggi molto in voga in questa guerra mondiale a pezzi, come l’ha definita papa Francesco. Cinicamente parlando, l’attacco ha un senso politico, far ricordare al mondo che, contrariamente a quanto Netanyahu vuol far credere, mostrando la mappa di Israele che va dal Mediterraneo al Giordano, i palestinesi ci sono e adesso dimenticateli se ci riuscite.

Mentre le donne occidentali forse dicono il doppio sì, alla carriera e alla famiglia, o forse ne dicono uno solo come testimonia l’invecchiamento dei paesi occidentali, le donne della Striscia di Gaza sembrano avere uno scopo principale, imposto o volontario che sia: fare figli per garantire continuità alla resistenza di un territorio molto povero ma sovrappopolato e con un’età media molto giovane.

Mai come oggi ho bisogno di trovare parole e figure simboliche da far dilagare nel mondo e quella che mi parla più di tutte è Donna Vita Libertà. Intanto perché le due parole del binomio donna-vita sono intrinsecamente legate e opposte a quelle di soldato-guerra che dominano la scena della guerra mondiale a pezzi; poi la parola libertà fa capire che la strada non è obbligata, si può cambiare, ci si può ribellare, si può sovvertire l’ordine mondiale.


(www.libreriadelledonne.it, 12 ottobre 2023)

di Antonella Nappi


Sono molto interessata a una iniziativa possibile per il disarmo dell’Italia e dell’Europa: ho dunque firmato una petizione di Disarmisti Esigenti che chiedeva per il 30 settembre a Roma all’assemblea organizzata da Raniero La Valle e Michele Santoro – Pace Terra Dignità – di formare una lista indipendente per le elezioni europee.

L’assemblea ha deciso di raccogliere le firme per dare una possibilità di voto a chi vuole uscire dalla guerra – non dalla Nato – alle prossime elezioni europee. I partiti esistenti non parleranno della guerra, come è già accaduto, se non li costringiamo a schierare, anche tra le loro fila, persone più orientate ad uscire dalla guerra presente in Europa (oggi devo dire, dalle guerre che abbiamo permesso anche di fianco a noi).

La lista che faremo non raccoglie e non persegue le diverse idee politiche di chi la compone, ma si impegna soltanto in quello che tutte le unisce: la volontà di uscire dalla guerra e di non inviare armi né in Ucraina né nel mondo.

Disarmisti esigenti, a cui do attenzione anche se fondata da uomini, ha ricordato all’assemblea che a fine dicembre il governo chiederà al Parlamento italiano di votare il rinnovo del decreto per gli aiuti militari all’Ucraina. Sarà ancora una volta in piazza, davanti al Parlamento per contestare il decreto. Gli interventi dei giovani di altre associazioni, uomini e donne, hanno chiesto agli adulti di non disertare le manifestazioni delle piazze contro l’invio delle armi, per mostrare con la presenza dei corpi, che siamo contrarie e contrari alla distruzione delle vite e favorevoli alla discussione dei conflitti con le ragioni dei nostri sentimenti.

Certo noi donne femministe facciamo di più di questo quando ci distinguiamo dagli uomini e valorizziamo la nostra differenza, creiamo un sapere che non c’era, che non è ancora praticato dalla politica tutta. Silvia Baratella, nell’articolo pubblicato dalla Libreria delle donne il 6 ottobre 2023, Femminismo: una visione altra della guerra, denuncia la “questione maschile ancora irrisolta”. Sta «dietro alla violenza maschile contro le donne, all’organizzazione capitalista dell’economia, alla concezione dell’ambiente come terreno di conquista da saccheggiare, alla scienza a compartimenti stagni, iperspecialistici, che non confrontano con altre discipline l’impatto del loro operato. La questione maschile è anche la guerra. Per come si è sviluppata la nostra storia, la guerra è stata un’invenzione maschile; questo non vuol dire che agli uomini piaccia.» Riportando Virginia Wolf, Baratella ricorda che ancora oggi «bisogna trovare in alternativa alla guerra altre “occupazioni onorevoli per gli uomini onesti”». E, riprendendo un’idea di Clara Jourdan1, ricorda che «nelle piazze principali di tutti i paesi italiani c’è un monumento ai soldati (non ai e alle civili) caduti in guerra, si considera ancora un onore per gli uomini onesti morire da soldati sacrificandosi per il bene del paese. Nulla ricorda invece le vittime degli incidenti sul lavoro, che pure si sono sacrificate per produrre tutto ciò che ci serve per vivere o per vivere meglio, e quindi ancor più per il bene del paese». È necessario ribaltare il concetto di “onore” che educa uomini di destra come di sinistra, continua, una educazione distruttiva/autodistruttiva che celebra la morte in combattimento come «più valida eticamente delle opzioni di pace».

Le donne morivano di parto e i bambini di fame nella nostra storia pregressa che l’antropologia ci descrive, la morte non faceva paura ma si cercava di risparmiarla alla propria comunità con le incursioni alimentari nelle comunità straniere ma anche con gli scambi. Ricomporre tra i sessi il valore di dare la vita e di alimentarla in epoca di pace è quello che stiamo facendo.

Il pacifismo, cultura creata da donne e anche da uomini, è la più alta espressione umana, parte dal dare valore a sé stesse e sé stessi, al corpo nato da donne, curato da donne e da quegli uomini che ne sentono l’onore. Uomini pacifisti hanno contestato e disertato la guerra; lottato per non tenere un’arma in mano e oggi hanno anche approfittato della pace distanziandosi dalla guerra; al contempo noi donne siamo dappertutto, possiamo operare nella società se continuiamo a metterci in discussione tra noi e a relazionarci con sincerità. Comunichiamo anche con gli uomini che accettano di mettersi in discussione, di rispettare i limiti che la realtà delle altre esistenze impone, l’intangibilità dei corpi delle donne e degli uomini. Uscire dalla guerra è una battaglia per il riconoscimento della vita che è stata data e ricevuta dalle donne.


1 C. Jourdan, “La guerra fa parte della questione maschile”, https://www.libreriadelledonne.it/report_incontri/la-guerra-fa-parte-della-questione-maschile/


(www.libreriadelledonne.it, 10 ottobre 2023)

di Ruba Salih


In queste ore in cui si assiste sgomenti all’evolvere della escalation di morti palestinesi e israeliani, è chiara una forte dissonanza nelle reazioni dei due mondi. I milioni di palestinesi dentro e fuori i territori occupati si sono trovati in uno stato di trance, tra un’innegabile iniziale euforia, presto divenuta choc e paura: si chiedono se quello che hanno avuto davanti agli occhi sia stato delirio onirico o realtà. Non si capacitano del ribaltamento della esperienza della violenza, abituati come sono a vedersi vittime sotto le bombe, i mitra e gli apparati di controllo israeliani. Il governo israeliano ha risposto dichiarando «guerra totale», promettendo la polverizzazione di Gaza e chiedendo agli abitanti di lasciare la Striscia, sapendo che non c’è via di fuga.

Ma dichiarare guerra significa assumere che prima ci fosse la pace. Certamente gli abitanti di Sderot e del sud di Israele vorrebbero continuare a vivere in pace. Per gli abitanti di Gaza, all’opposto, «pace» è un concetto astratto, un vissuto mai sperimentato. Per gli abitanti della Striscia, così come per il diritto internazionale, Gaza è un territorio occupato la cui popolazione – 2,2 milioni, per due terzi rifugiati del 1948 – vive o, per usare le loro parole, muore lentamente in un regime di prigionia. Il controllo di ingressi e uscite di persone, cibo, medicinali, elettricità e telecomunicazioni, frontiere di mare, di terra e di aria, è in mano a Israele.

Il diritto internazionale, correttamente invocato a difesa della popolazione ucraina e per sanzionare l’occupante russo, è carta straccia per Israele che gode di una impunità concessa a nessun altro stato che operi in siffatta violazione delle risoluzioni delle Nazioni unite, degli accordi da loro stessi sottoscritti, e delle convenzioni internazionali.

Ciò che sta accadendo – sconvolgente e terribile per numero di vittime, inclusi bambini e anziani – crea non solo un nuovo scenario politico, ma impone una nuova cornice di senso. Si è infranto l’assunto che da sempre, ma più prepotentemente dagli accordi di Oslo in poi, fa da filtro emotivo e interpretativo al «conflitto», ossia la normalizzazione dell’asimmetria di valore delle vite degli uni e degli altri, che a sua volta poggia su un’aspettativa di acquiescenza e accettazione della propria subalternità dei palestinesi in quanto popolo colonizzato.

Tale impalcatura si è retta sulla certezza che i palestinesi non possano reagire alla loro condizione, non solo a causa dell’evidente inferiorità militare ma nella convinzione che la soggettività palestinese debba e possa accettare di rimanere colonizzata e occupata all’infinito. Come se l’asimmetria di forza sul campo debba trasformarsi in accettazione di inferiorità nella gerarchia della vita umana.

Tutto questo non si può comprendere con gli strumenti di chi vive in pace, ma solo (nella misura in cui questo sia perfino possibile per chi non vive a Gaza o nei territori occupati palestinesi) da dentro agli effetti della violenza e del trauma coloniale di cui gli effetti più devastanti, come ci spiega Franz Fanon, sono le ferite fisiche e psichiche e con queste la frammentazione di canoni di empatia e di sensibilità che sono privilegio e prerogativa primaria di chi vive in pace.

Oggi a Gaza chi non ha ancora vent’anni, circa la metà della popolazione, è già sopravvissuta ad almeno quattro bombardamenti, nel 2008-9, nel 2012, nel 2014 e ancora nel 2022. È a Gaza che si è perfezionata la tattica israeliana di sparare sui manifestanti durante le proteste pacifiche, come quelle del 2018, per menomare i corpi, in un cinico calcolo necropolitico di distribuzione delle casualità tra mutilati e morti. In tale stato di menomazione fisica e psichica la resistenza è l’unica possibilità di riparazione del soggetto colonizzato. Lo è stato storicamente in tutti i contesti di liberazione dal dominio coloniale, in cui la lotta palestinese si inserisce.

È in questa chiave che va letta la lunga durata della resistenza palestinese degli ultimi 70 anni di cui negli ultimi giorni abbiamo visto una svolta senza precedenti, risultato – come hanno notato molti osservatori anche israeliani – del fallimento delle molteplici forme di resistenza pacifica che i palestinesi hanno saputo portare avanti nonostante l’occupazione e che continuano a mettere in campo: gli scioperi della fame dei prigionieri in detenzione amministrativa, la resistenza civile degli abitanti di villaggi come Bi’lin o Sheikh Jarrah, schiacciati tra il muro di separazione e l’espropriazione delle terre e soffocati dalla sempre più aggressiva e inarrestabile espansione degli insediamenti, la protezione dell’ambiente naturale e della cultura indigena palestinese, degli alberi di ulivo secolari, bruciati e vandalizzati dai coloni, la resistenza delle organizzazioni della società civile palestinese che mappano le violazioni dei diritti umani – fatto che le rende, per Israele, organizzazioni terroristiche.

La lotta per la memoria culturale e politica, quella dei rifugiati nei campi profughi che attendono riparazione e riconoscimento dei loro diritti umani, supportati dalle risoluzioni dell’Onu, e la resistenza delle pietre della prima Intifada, quando giovani con fionde lanciavano quelle stesse pietre con cui i soldati israeliani spezzavano loro le ossa e la vita.

Scriveva Mahmoud Darwish in un suo saggio sulla «follia» della palestinità scritto dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982, che il palestinese «è ingombrato dall’incedere incessante della morte e impegnato nella difesa di ciò che rimane della sua carne e del suo sogno…Non riesce più a urlare, può solo fare una cosa, diventare ancora più palestinese, perché non ha altra scelta».

L’unico antidoto alla spirale di violenza è la fine dell’occupazione e dell’assedio, questo solo porterà alla realizzazione di un futuro di pace e di umanità per palestinesi e israeliani.


(Il manifesto, 11 ottobre 2023)

di Alessandra Pigliaru


Che la vecchiaia sia un tema presente nella discussione pubblica internazionale, non lo si deve solo all’attenzione che da anni gli Age Studies assicurano, quanto piuttosto a un intrecciarsi nelle forme della rappresentazione con i capisaldi dell’umano vivere capaci di declinarne i contesti, da quello lessicale a quello sessuato. Considerando alcuni libri editi in questo ultimo anno, ci accorgeremmo di quanto la trasversalità sia d’obbligo.

Lidia Ravera nel suo Age pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età (Einaudi, pp. 101, euro 13) propone per esempio «un nuovo titolo di merito» preferendo al termine anziano/anziana quello di Grande adulta o Grande adulto. E prosegue dicendo che nonostante l’attribuzione qualitativa tenda a immaginare persone «serene», ci si potrebbe sincerare come non lo siano affatto, «neppure rassegnati: inquieti» perché «sono corpi che conoscono le carezze, hanno imparato a farne a meno, ma anche a inventarne di nuove, diverse. Sono anime in prova, alle prese con la durata, alcune sono tormentate, altre soddisfatte. Ci sono le anime placate, ma ci sono anche le anime furiose. Ciascuno invecchia a modo suo, fedele alla sua storia, alla sua identità, al suo carattere».

Restando tuttavia sull’aggettivazione dell’essere adulti, anche Gabriella Caramore nel suo L’età grande (Garzanti, pp. 144, euro 14) racconta di una ampiezza, al netto di quanto la vecchiaia si leghi più facilmente al tempo. Ha quest’ultimo un aspetto ineluttabile, osserva la sua fine, la sua chiusura, e non è un caso che una delle più prestigiose manifestazioni culturali italiane quale è Torino Spiritualità, conclusasi pochi giorni fa e dedicata «Agli assenti. Della morte ovvero della vita», abbia scelto di presentare il libro di Caramore (in conversazione con Elena Loewenthal) dando alla parabola terrestre l’accezione temporale e spaziale che la designa.

Che i processi di invecchiamento restituiscano un quadro ben più generativo di quanto fornitoci dal senso comune lo si assume da diversi lavori, tra quelli di carattere antropologico si può vedere il volume a cura di Jacopo Favi, Invecchiare (Meltemi 2021). Anche Barbara Leda Kenny, in un lungo articolo di qualche mese fa su «L’essenziale» ragionava del mutamento e della trasformazione di scenario, soprattutto in Italia e a proposito delle donne anziane (erano 4,5 milioni quelle sole, soprattutto vedove) con cui si potrebbe auspicare un modello diverso di convivenza e di famiglia.

Sta di fatto che in una dimensione anzitutto del «sentire» la propria carne attraversata da ciò che è stato e ciò che arriverà, il nodo del presente si affaccia per dipanarsi in scritture letterarie, che spesso si ibridano tra il memoir, l’autobiografia e la prospettiva della storia culturale, come accade in La quarta parte, di Luisa Passerini appena uscito per manifestolibri (pp. 112, euro 12) in cui la vecchiaia è luogo frequentato dall’autrice da svariati anni. Già nel 2006 nella rivista «Storia delle donne» (Firenze University Press) dava conto, tra le altre cose, dell’affacciarsi anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, di alcune ricerche sulla necessità di sessuare la vecchiaia. Ciò per dire che La quarta parte ha una tale struttura teorica alle sue spalle che sarebbe riduttivo collocare questo agile e utile volumetto come un memoir, cominciato nella primavera del 2020 e concluso nell’inverno successivo.

Al centro vi è una donna che accompagna la coscienza dei suoi ottant’anni con Dante Alighieri, Agnès Varda e David Hume, aprendo degli squarci che vanno dunque dalle lettere al cinema e alla filosofia, nel corpo a corpo con alterne passioni, compresi vizi e virtù, tra cui spicca la temperanza. Specificata nella sua raffigurazione sapiente di arcano maggiore in cui c’è una figura femminile che travasa dei liquidi da una brocca a un’altra. In quest’operazione che Passerini identifica di mediazione, collegamento ed equilibrio, si sgrana ciò che connette e mescola «gradi di rilevanza e irrilevanza». E, potremmo aggiungere, nonostante tutto ha tenuta, in una pratica come quella di trasferire, trasmettere. Che cosa ci consegna invece il sapere critico delle donne è materia che Passerini maneggia perfettamente, coinvolgendo diversi campi di competenza, come accaduto nel lavoro collettivo Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (pubblicato dal Cirsde nel 2012), insieme a Edda Melon, Luisa Ricaldone e Luciana Spina.

Si trattava di una indagine avviata da alcuni incontri avvenuti tra il febbraio e il marzo del 2008. E che le pratiche torinesi siano floride in tale versante tematico lo si evince anche dal volume che Ricaldone ha dato alle stampe per Iacobelli editore nel 2018 dal titolo Ritratti di donne da vecchie (recensito su queste pagine da Laura Fortini). Se non si possono non segnalare i libri di Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie (2010), quello a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Passaggi d’età (2013) e di Francesca Rigotti, De senectute (2018), sono ugualmente utili volumi più recenti che interrogano da un’angolatura ogni volta differente il significato dello scorrere delle età. Insieme al romanzo di Fuani Marino, Vecchiaccia (Einaudi, pp. 160, euro 17), ci sono due sillogi che si misurano con alterne geografie sentimentali di un certo rilievo: la prima è una raccolta di racconti scritta da Jane Campbell che si intitola Spazzolare il gatto (Edizioni Atlantide, pp. 168, euro 17,50, traduzione di Federica Bigotti). La seconda è invece in versi ed è L’amore da vecchia, di Vivian Lamarque (Mondadori, pp. 160, euro 18). Campbell, di origine inglese, ha esordito con il primo racconto in rivista all’età di 77 anni diventando presto un caso di culto, e ora ci dona tredici magnifici ritratti di altrettanto donne che confessano la propria audacia senza nascondimenti.

A cominciare dal primo in cui una ottantaseienne degente in un reparto di geriatria, dopo aver condotto una moderata esistenza coniugale, osserva una giovane donna che si allunga per cambiare una lampadina e, senza preavviso alcuno, sente «la voglia risvegliarsi tra i lombi appassiti». O ancora quando sollecita, più avanti: «Adesso non possiedo nulla, tranne, suppongo, il mio corpo e la mia mente, così come sono dopo numerosi decenni di utilizzo. Mal-utilizzo, talvolta. Ma almeno, grazie a Dio, sono stati utilizzati e non li ho sprecati. Certo questo a mio figlio non posso dirlo». Non mancano le cliniche della memoria, dolori piuttosto lancinanti e niente è facile, Campbell neppure si presta a una retorica senza costrutto per scacciare via l’angoscia della morte. Racconta invece di una sfrontatezza capace di erodere l’imbarazzo. «Invecchiare – prosegue la scrittrice – è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio, di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza».

Il graffio, al contempo tagliente e delicato, è ciò che invece indaga Vivian Lamarque che, nelle sue poesie, nomina l’amore transitorio e non esclusivo che si promette al vivente. «Sono una Autunno./ Anzi, il tempo di dirlo/ e ora sono una Inverno. Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». E parla di scomparsi che non possiamo più toccare ma che sentiamo nella testa, con la stessa identica voce ad ammonirci che dobbiamo andare altrimenti si fa tardi, eppure non c’è un domani, non tutti i ritorni sono possibili. «Perché non sono un baobab e questa è l’infanzia?» si domanda Lamarque. «Numero d’anni avere davanti quante le stelle sulle teste/ degli alberi. E giorni ancora di più./ Agli anni preferisce i giorni e ai giorni i mattini […] Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo/ il Tempo […] Teneteli a cuore i mattini metteteli in banca./ Però anche vecchiaia è bellezza, capelli color/ della neve, pelle rigata come belle cortecce e alcuni che ti vogliono bene e alcuni che ti cedono il posto in tram». L’ironia agrodolce è nel post-scriptum, certo senza reclamare comprensione eppure «Ma perché non avete tutti 80 anni come me?».


(il manifesto, 11 ottobre 2023)

di Redazione


Nell’ottobre 2016, oltre tremila donne israeliane e palestinesi hanno partecipato insieme alla marcia Women Wage Peace. È stata la prima di una lunga serie di manifestazioni. Partite dal nord di Israele sono arrivate a Gerusalemme. All’arrivo, le parole della premio Nobel per la Pace 2011 liberiana Leymah Gbowee. Partecipa anche la cantante e attivista canadese israeliana Yael Deckelbaum, autrice della Prayer of the Mothers. Questo il link del video:



(ilponte.com, 11 ottobre 2023)

di Beppe Pavan


La frase che ho scelto per il titolo di questa presentazione mi sembra illuminante: è l’immagine che amo evocare quando parlo della “macchia d’olio” che si allarga nel mondo ogni volta che un altro uomo si incammina consapevolmente sui sentieri del cambiamento della propria maschilità, abbandonando le forme patriarcali del possesso, del dominio, della competizione, della sopraffazione…

Il libro che vi presento si intitola Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (VandA ed. 2023): è un invito a offrire al mondo bambini, adolescenti, ragazzi «empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne» che incontreranno e sceglieranno. Chi scrive così è Monica Lanfranco, che non solo radica le proprie riflessioni su una ricca antologia di testi femministi, ma soprattutto ci spalanca numerose finestre sulla sua esperienza di mamma alle prese con due figli maschi da aiutare a “crescere”. E la citazione con cui apre l’introduzione ce ne comunica bene il senso: «Alleviamo le nostre ragazze a combattere gli stereotipi e a perseguire i loro sogni, ma non facciamo lo stesso con i nostri ragazzi».

La dialettica che percorre tutto il libro è tra patriarcato (da disertare) e femminismo (da affermare). A pag. 35 Monica cita la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie che «definisce femminista una persona che crede nella piena uguaglianza tra uomini e donne. Ma come possiamo crescere dei figli femministi, ovvero crescere dei figli gentili, sicuri di sé e liberi di inseguire i propri sogni, senza modelli alternativi a quelli del patriarcato?».

Non facciamoci tentare dal chiamarcene fuori, perché è uno degli stereotipi patriarcali più radicati pensare che crescere i figli sia compito delle madri. Il libro, in realtà, non è un esercizio di autocoscienza solo per le madri: il sottotitolo recita «crescere uomini disertori del patriarcato» e di questa necessità siamo consapevoli noi uomini adulti che da decenni partecipiamo a gruppi di autocoscienza maschile. Ma quanti siamo consapevoli e convinti che «se i bambini e le bambine vengono separati per sesso nel gioco così come nelle attività didattiche fin dalla scuola materna, alla fine del ciclo gli stereotipi di genere ne escono rafforzati, mentre i gruppi incoraggiati a giocare con amici e amiche del sesso opposto imparano a risolvere meglio i problemi e a comunicare in modo meno aggressivo e con più profondità» (pag. 98)?

«Nessuno dei nostri figli nasce cattivo, misogino, predatore: nessun bambino o ragazzo lo è. Sono l’esempio, i comportamenti appresi, i messaggi culturali diretti e indiretti, ad autorizzare i maschi a diventare arroganti machisti e pericolosi predatori, perché la violenza si insegna.

La buona notizia è che anche la nonviolenza si insegna, ed è in questa pratica quotidiana di rispetto, senso del limite e collaborazione che si costruisce la felicità propria e quella di chi ci sta accanto» (pag. 84).

Ah, la felicità! Grazie, Monica, di averla evocata! Anche a me è successo di incontrare la felicità, ed è successo proprio quando ho scelto di abbandonare – disertare – il modello patriarcale di stare nelle relazioni che famiglia, parrocchia, seminario, fabbrica, esercito e anche sindacato avevano cercato di inculcarmi.

C’è uno stereotipo che persiste anche all’interno dei nostri gruppi di Uomini in Cammino: è quello che continua a identificare il femminismo con “le donne che ce l’hanno con gli uomini”.

Un altro è «lo stereotipo secondo cui il femminismo riguarda solo le donne» (pag. 125). Questo libro ci invita, invece, a considerare il femminismo come alternativa al patriarcato: «Dovremmo essere tutti femministi» è il titolo del libro di Chimamanda Ngozi Adichie, che fa il paio con «Il femminismo è per tutti» di bell hooks. Credo che sia un invito da prendere sul serio, perché – conclude Monica a pag. 124 – «la parola crescere […] contiene le due facce della stessa medaglia: cresciamo da quando usciamo dal corpo di nostra madre, e poi siamo aiutati a crescere da chi si assume questo compito, per avviarci e guidarci a costruire un’esistenza autonoma».

Non è come affermava quel mio vicino di casa: «Io sono così e non posso cambiare!». Cambiare si può. Cambiare conviene. Diventare femministi, disertori del patriarcato, conviene!


(Uomini in Cammino, n.2/2023, www.maschileplurale.it)


Beppe Pavan fa parte del Gruppo Uomini di Pinerolo (i corsivi nel testo sono iniziativa sua).

di Toni Jop


E quindi, che dovrei fare? «Per ora, e senza fretta, ti assegno la convegnistica, così impari ad ascoltare quello di cui ti frega niente», scusa, non vorrei lamentarmi, ma io che non ho mai sonno vado in trance a un convegno… «Senti, devi avere pazienza, ti mando in quei posti noiosi perché lì impari a scoprire, se c’è, la notizia in un mare di parole e di recite a soggetto… fìdati…».

Tina Merlin è stata, cioè, una maestra di giornalismo, per me e per altri ragazzi alle prime armi, chiusi allora in uno stanzino al pian terreno del palazzo sul Canal Grande, ingresso da Corte del Remer, che ospitava, con l’Unità, la federazione provinciale e la segreteria regionale del vecchio Pci.

Sto parlando di storia discretamente lontana, a metà degli anni Settanta, il tempo in cui il Partito Comunista sembrava alle porte del governo e quella gloriosa testata giornalistica pareva saper interpretare esattamente ciò che Gramsci aveva “prescritto” per il suo futuro, sulla strada della lotta di classe e più in generale nella globale vicenda del movimento operaio e di tutti i lavoratori. Vendendo, tra l’altro, un mare di copie che, di domenica, faceva impallidire i grandi quotidiani nazionali.

Tina era la caporedattrice di una redazione piccola ma ricca di vita e di fascino. Accanto a lei, ecco Ferdi Zidar, un meraviglioso compagno, piccolo, intelligente e sornione, che a Dachau, da internato, aveva fondato la cellula del Pci. Gente formidabile. Tina veniva dalla Resistenza che aveva servito da coraggiosa staffetta, e, più avanti, dal Vajont, voragine di sistema che lei, da sola sul fronte della comunicazione, dalle pagine de l’Unità aveva messo a nudo ben prima che il monte Toc, nel Bellunese, rovesciasse una enorme frana nell’invaso della diga ai suoi piedi, spingendo in aria e verso valle un’onda gigantesca che aveva spazzato villaggi e migliaia di vite. Tina Merlin aveva avvisato che sarebbe stata tragedia, e così fu; aveva visto giusto, da brava giornalista libera (e bella, perché Tina, mi permetto di ricordarlo, era anche una bellissima donna) aveva raccolto voci e testimonianze tra gli abitanti della valle, aveva messo assieme i micro-eventi che avevano annunciato il crollo ma il potere politico, la stampa, molti tecnici preferirono trascinarla in tribunale invece che ascoltarla. E duemila esseri umani persero la vita per questa grettezza, ma del resto l’affare era troppo grande, impegnava troppi soggetti istituzionali e no a sua protezione per permettersi che la verità delle cose fosse posta in una luce corretta.

L’intera vicenda del Vajont, a cominciare dalle pagine più fangose di quella tragedia, si manifesta oggi come paradigma di ciò che accade quando la denuncia giornalistica, legata a dati e prove, va a colpire gangli di potere eccellenti, una sorta di parabola lucidissima sul potere e sulle sue reattività. Quando gli interessi sono di quel livello, la verità finisce in tribunale e deve rispondere di un “crimine” quasi sempre in grande solitudine. C’è una bella battuta in un vecchio pezzo del 1970 firmato e cantato da Chico Buarque de Hollanda, “In memoria di un congiurato” che – tradotta da Sergio Bardotti – riassume bene questa “morale”: «Se nel mondo un giusto grida, il carnefice verrà… chi sta zitto resta vivo, chi ha coraggio morirà… Ora che è morto e sepolto, si può cantarne la gloria, si può perfino parlarne in qualche libro di storia». Pare la vita di Tina Merlin, che amava la vita e i cappuccini e non aveva paura di nessuno.

Abbiamo vissuto anni si può dire assieme, il tempo della mia formazione professionale. Si lavorava dieci dodici ore al giorno, davanti alle fragorose Olivetti sui cui tasti arrancavo mentre mi sciroppavo tonnellate di convegni tremendi, quasi dolorosi per uno come me che sognava l’avventura della cronaca, bianca o nera poco importava, e invece eccomi a portare, di sera, i pezzi precotti lungo i binari della stazione veneziana di Santa Lucia, per spedirli, come si usava, “fuorisacco”.

Si parlava molto, io volevo sapere, capire e lei raccontava, anche del Vajont. Per esempio, diceva che all’inizio anche nel Pci e ne l’Unità qualcuno avrebbe preferito non dare troppo peso a quello che scriveva su quel monte gonfio d’acqua che assediava minacciosamente valle e paesi. Non si sentiva un’eroina, troppo concreta e diretta per crogiolarsi nel vittimismo, troppo lontana dall’epica per allestire un altarino tutto suo. Era una orgogliosa montanara di Trichiana, emancipata dall’impegno politico – che gran scuola di saperi e di dignità quell’impegno per milioni di bravi umani di allora – e comunque innamorata delle patate che così buone – assicurava – potevano uscire solo dalle zolle della sua terra d’origine. Intanto, curava la sua difesa nel corso di un interminabile viaggio processuale a suo carico, un tormento vero che affrontava con trasandato fastidio. Mi sembrava davvero più che sorprendente quel suo stato d’animo privo di asprezze di fronte a una ingiustizia subita da chi, fosse stata ascoltata, avrebbe garantito la sopravvivenza di duemila esseri umani, e invece eccola costretta a rispondere in un tribunale di quegli avvisi, dei quali poi si era potuta constatare la tristissima fondatezza.

Era fatta così, refrattaria alla teatralità e alle sue ben giustificate lusinghe: così come aveva rischiato più volte la vita per trasferire messaggi e altro ai partigiani, si era infilata in una vicenda poderosa in grado di frantumare le ossa a chiunque. Capelli fitti e biondissimi, occhi vivacissimi, sempre positiva, buona conoscitrice della vita, pantaloni, comunista italiana senza fronzoli né dèi, faceva ciò che le sembrava giusto, e questo lo fanno in molti, ma andava fino in fondo, senza badare alle resistenze questa volta di potere e all’immensità dei giganti che aveva disturbato.

Niente avrebbe potuto fermarla, solo la morte, come un grande scalatore che mentre risale una parete non guarda mai lo strapiombo sotto i suoi piedi. Aveva il grande Pci alle spalle, e lei voleva bene al Pci, lo rispettava, lo criticava, gli attribuiva un senso forte soprattutto sotto il profilo dell’organizzazione di massa. Con una sensibilità particolare, che ho fatto mia, nei confronti delle strutture organizzative del popolo della sinistra, un telaio di umani che non si costruisce con facilità e quindi quando esiste siamo di fronte a una risorsa più che preziosa, da salvaguardare con cura, comunque.

Siamo forse alle radici di quel senso di responsabilità nei confronti del partito di massa della sinistra che ancora tiene banco nel contesto politico attuale. Ma la forza che la animava sul fondale del Vajont veniva, mi pare, da profondità pre-politiche in cui ribollivano il senso della giustizia e il suo ruolo di giornalista, di cui rivendicava l’autonomia anche nei confronti di quel Pci di cui l’Unità era non semplice “voce” ma “organo”. La sua distanza dalla “scena” si misurava anche dalla mancanza di sopportazione che provava di fronte a una aggettivazione che in un articolo le pareva troppo ricca. Scrittura asciutta, lineare, limpida, essenziale, la sua, e allo stesso tempo intelligente, acuta, messaggera di umana, misurata morbidezza.

Così ricordo la mia prima maestra di giornalismo. Che ragazzo fortunato.


(Strisciarossa, 9 ottobre 2023, pubblicato con il titolo “Da staffetta nella Resistenza a partigiana della verità, Tina Merlin che vide arrivare la tragedia del Vajont e non fu creduta”)

di Letizia Pezzali


La studiosa dell’università di Harvard ha analizzato duecento anni di storia del mercato del lavoro. Nel 2021 ha pubblicato il libro “Career and Family” sulla penalizzazione della donna nelle aziende, in particolare nei cosiddetti “Greedy works”, i lavori avidi di tempo che richiedono disponibilità e impegno continuo


Non mi commuovo facilmente, ma alcune cose mi emozionano sul serio. Per esempio mi emoziona una persona che analizza più di duecento anni di storia del mercato del lavoro femminile, e lo fa con grande fatica investigativa. Il suo obiettivo è capire le disuguaglianze di genere e le cornici economiche e culturali dentro le quali le disuguaglianze si perpetuano, nonostante i miglioramenti reali e apparenti.

Sto parlando di Claudia Goldin, la professoressa di Harvard che ha ricevuto il Nobel per l’Economia. Un riconoscimento ai suoi studi sui fattori chiave delle differenze di genere nel mondo del lavoro. È la terza donna a ricevere il premio, e la prima a riceverlo da sola.

Sappiamo che ancora oggi, a livello globale, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è inferiore rispetto a quella maschile, sappiamo che esistono le differenze salariali e che in molti casi perdura il soffitto di cristallo. Certo, la situazione è migliore nei paesi avanzati, tant’è vero che pigramente si potrebbe concludere che la crescita economica porta alla risoluzione delle suddette differenze (o “gap” che dir si voglia). Eppure abbiamo la sensazione di vivere, da un po’ di tempo, in una nuova situazione di stallo.

Gli studi di Goldin, che sono anzitutto analisi storiche complesse di lunghissimo periodo, ci raccontano che la realtà è meno banale di una correlazione lineare fra crescita e maggiore uguaglianza, e che il futuro, dunque, non è mai una costruzione scontata. Anzi, le relazioni fra sviluppo e chiusura dei gap nel corso della storia non sono per niente lineari, la tempistica delle evoluzioni è lenta, e le rivoluzioni saltuarie. Spesso i cambiamenti più significativi avvengono non tanto in seguito alla mera crescita economica, ma grazie a modificazioni della struttura del mercato del lavoro (agricolo, industriale, dei servizi), a cambiamenti della cultura (barriere, pregiudizi) e dell’accesso all’istruzione. Avvengono anche grazie a fattori meno ovvi, come le innovazioni mediche: la pillola anticoncezionale che ha permesso alle donne di avere il controllo della propria fertilità.

Le analisi storiche sono complesse, non solo perché lo sono sempre, in qualsiasi campo, ma anche perché nel caso specifico mancano molti dati sul lavoro femminile. Le donne, non ci sorprende, spesso non esistono nelle rilevazioni storiche, o esistono meno, sono un essere di secondaria importanza. Qui Goldin qui si è dovuta trasformare in una detective e in una fine analista in grado di ricostruire i dati in maniera indiretta e attendibile. L’obiettivo, lo ha detto lei stessa, è stato quello di capire il problema e chiamarlo con il suo nome.

Un concetto esemplificativo è quello di disuguaglianza di coppia, che nella coppia eterosessuale si traduce poi in disuguaglianza di genere. Un uomo e una donna scelgono la carriera, il lavoro, ma scelgono anche quanto tempo ciascuno di loro dedicherà alla famiglia, ai bambini, alla cura. Ancora oggi, un soggetto (di solito la donna) sceglierà un lavoro più flessibile, che permette di essere disponibile per la famiglia nei casi di emergenza, ma che permette anche meno possibilità di avanzamento. La flessibilità ha un prezzo.

Alla base di tutto c’è il problema del tempo: il problema più esigente. Le ore sono ventiquattro per tutti, e spesso le donne si trovano a scegliere professioni con orari adatti alla famiglia. Esistono, lo sappiamo, i lavori “avidi di tempo”, quelli che richiedono la nostra disponibilità assoluta, e in cambio ci promettono il successo o una sua approssimazione.

C’è poi la questione dell’orologio biologico, che si scontra con l’orologio della crescita professionale. Oggi un percorso professionale giunge a relativo compimento ben dopo i trent’anni, quando la fertilità femminile a sua volta inizia a ridursi. Goldin stessa dice che quand’era ragazza la carriera giungeva a compimento un po’ prima, e questo spiega come una donna nata negli anni Quaranta, come lei, abbia vissuto in un’epoca forse migliore da questo specifico punto di vista.

Se la flessibilità costa in termini di minor stipendio e possibilità, la cura dei figli (asili, babysitter) costa, sia in senso proprio, sia come costo opportunità (rinunciare al lavoro). Su questi due fattori la società potrebbe intervenire per velocizzare la chiusura dei gap. C’è poi un terzo fattore, ed è la condivisione del problema: in una coppia, entrambi possono condividere gli aspetti legati alla famiglia, e rinunciare a qualcosa, perché tengono allo sviluppo dell’altro come individuo.

C’è ancora molto da fare, in senso pratico e culturale. Ma il premio a Goldin è un’ottima notizia.


(Domani, 9 ottobre 2023)

di Silvia Baratella


Intervento all’incontro Tre giorni per la pace a Milano. Contro l’invio delle armi, per una trattativa di pace, svoltosi al C.I.Q., Centro Internazionale di Quartiere di via Fabio Massimo, 19. Prima giornata, 22 settembre 2023, con presentazioni di Nadia Schavecher, Coordinamento per la Pace – Milano e Manuela Valenti, responsabile della divisione di pediatria di Emergency. Il video dell’intero incontro è visibile qui.


Poiché questa prima giornata è dedicata alla denuncia – io non avevo pensato il mio intervento in questi termini – se devo denunciare qualcosa è la “questione maschile”. Voi sapete che dalla fine dell’Ottocento per tutta una metà del Novecento e oltre si è parlato della “questione femminile”. La questione femminile consisteva nell’interrogarsi su come mai le donne fossero meno istruite, meno occupate, meno retribuite e meno presenti nella vita pubblica. In realtà c’era poco da domandarselo, la risposta era una: perché gli uomini le escludevano, con la forza e con le leggi. Questa semplicissima risposta, però, porta alla vera domanda: perché mai gli uomini lo facessero, e alla vera “questione”, che è la “questione maschile”. La questione maschile non è risolta. È dietro alla violenza maschile contro le donne, all’organizzazione capitalista dell’economia, alla concezione dell’ambiente come terreno di conquista da saccheggiare, alla scienza a compartimenti stagni iperspecialistici che non confrontano con altre discipline l’impatto del loro operato. La questione maschile è anche la guerra. Per come si è sviluppata la nostra storia, la guerra è stata un’invenzione maschile; questo non vuol dire che agli uomini piaccia. La maggior parte di loro non vorrebbe saperne di andare in guerra. Ma non è stata né inventata né codificata dalle donne.

Nel 1940 Virginia Woolf scriveva1 che bisogna trovare in alternativa alla guerra altre «occupazioni onorevoli per gli uomini onesti». Questa cosa è ancora vera. Come ha osservato la mia amica Clara Jourdan, aprendo un incontro contro la guerra alla Libreria delle donne2, nelle piazze principali di tutti i paesi italiani c’è un monumento ai soldati (non ai e alle civili) caduti in guerra, si considera ancora un onore per gli uomini onesti morire da soldati sacrificandosi per il bene del paese. Nulla ricorda invece le vittime degli incidenti sul lavoro, che pure si sono sacrificate per produrre tutto ciò che ci serve per vivere o per vivere meglio, e quindi ancor più per il bene del paese. Da qui si vede quanto ci sia bisogno di ribaltare il concetto di “onore”. Un altro esempio di come la concezione dell’onore dettata dalla questione maschile sia trasversale: quand’ero giovane i miei amici rivoluzionari esaltavano la figura di Ernesto Che Guevara, non tanto per la particolarità del suo pensiero politico, bensì perché era «morto con le armi in pugno». Io provavo perplessità per questo. Sia perché avrei preferito che non si facesse ammazzare, sia perché consideravo la sua morte come il tragico esito di un errore politico: non aver colto che in Bolivia il suo progetto non aveva radici, aver cercato di suscitare artificialmente un movimento rivoluzionario. Ebbene, alle mie prime elezioni politiche, nel 1983, ero scrutatrice. Tra gli altri componenti del mio seggio c’era un militante del MSI che non faceva mistero delle sue opinioni e del suo anticomunismo assoluto. Disprezzava tutti i comunisti, con un’eccezione: Che Guevara. «Lui lo ammiro perché è morto con le armi in pugno». Lo diceva con le stesse identiche parole dei miei compagni rivoluzionari, lo stesso motivo per cui lo ammiravano a sinistra: solo perché era morto “onorevolmente”, non per come volesse trasformare il mondo. Ed è questa trasversale cultura dell’“onore” che denuncia Virginia Woolf: l’opzione distruttiva/autodistruttiva della morte in combattimento è considerata più forte e più valida eticamente delle opzioni di pace. E questa concezione io la attribuisco a una cultura patriarcale che in parte è sopravvissuta a sé stessa, in parte no.

Il patriarcato come sistema di pensiero che faceva ordine, grazie al femminismo ha perso di credito e ha smesso di fare ordine nella testa della gente. Finché reggeva, la guerra di conquista era apertamente considerata un’impresa legittima e gloriosa. Oggi per fortuna non più. Oggi neanche chi manda i soldati in guerra osa più dire che è giusto conquistare un altro paese e sottometterne la popolazione. Si tratta lo stesso di guerre di conquista, e di sterminio delle popolazioni civili, come ci ha raccontato Manuela Valenti3 nel suo intervento, ma per farle digerire alle opinioni pubbliche bisogna chiamarle “umanitarie”, “di difesa”, addirittura dire che si tratta di “resistenza” (io ho sempre creduto che la resistenza fosse un movimento spontaneo, e il vocabolario mi dà ragione, ma adesso si usa per definire uno Stato con un esercito regolare che sospende il regime democratico e arruola a forza gli obiettori), “esportazione della democrazia”, “denazificazione”. Tutte mistificazioni da smantellare, pericolose perché mirano a rendere accettabile l’inaccettabile. Però, altra osservazione di cui sono debitrice a Clara Jourdan4, dimostrano che la guerra ha perso ogni legittimità agli occhi delle popolazioni, al punto che oggi, pur con tutta la retorica sulla “resistenza” ucraina e la quasi totalità delle forze politiche del nostro paese schierata con la NATO e favorevole a mandare armi all’Ucraina, i sondaggi di opinione mostrano che la maggior parte delle italiane e degli italiani è contraria. È un passo avanti contro la cultura della guerra, piccolo poiché non riesce a fermare il massacro, ma un punto importante da cui ripartire. E bisogna far sì che questa consapevolezza diffusa ci spinga a considerare che le occupazioni da considerare “onorevoli per gli uomini onesti” non possono più comprendere la guerra.

E le donne? Abbiamo parlato della loro lunga esclusione dagli spazi pubblici e decisionali. Si può usarla come un’opportunità. Lo dirò con le parole di Carla Lonzi, autrice nel 1970 del Manifesto di Rivolta femminile, in cui scrive: «La differenza femminile sono duemila anni di assenza dalla storia: approfittiamo dell’assenza». L’assenza ci consente di posizionarci al di fuori e di assumere un punto di vista nostro, uno sguardo libero dai vincoli sociali che legano gli uomini tra loro. Noi non siamo tenute a aderire a un ruolo sociale che prevede di partire per la guerra a comando e di essere stigmatizzati se ci si sottrae alle prove di forza, e così abbiamo una possibilità in più di pensare fuori dagli schemi. Ma è una possibilità, non una certezza né una predestinazione. Ci si riesce se si parte da sé anziché da quello che ci viene detto, e se si sta in relazione con altre donne. Non è scontato, ci vuole la scelta consapevole di assumere la propria parzialità come una risorsa. Non c’è un pacifismo femminile innato.

E lo vediamo con delusione adesso che le donne sono dappertutto, meno degli uomini ma comunque in tutte le posizioni: alla guida della Banca Centrale Europea, della Commissione europea, di diversi governi dell’Unione. Donne come Sanna Marin, ministra capo della Finlandia fino a giugno 2023, Kaja Kallas, prima ministra dell’Estonia, e Ursula von der Leyen, attuale presidente della Commissione, che si erano insediate facendo riferimento all’orgoglio di essere donne e talvolta esplicitamente al femminismo. Ci aspettavamo da loro che avrebbero frenato o invertito la tendenza a (non) risolvere le controversie con la guerra. Invece abbiamo visto addirittura due paesi come la Svezia (neutrale da due secoli) e la Finlandia (neutrale da circa ottant’anni), guidati da donne al momento dello scoppio del conflitto russo-ucraino, presentare istanza di ingresso nella NATO e schierarsi buttando via una lunghissima e preziosa tradizione di neutralità. Lo avrebbero fatto degli uomini al loro posto? Lo hanno fatto come l’avrebbero fatto quegli uomini? O per motivi differenti? È accaduto semplicemente perché è toccato a loro trovarsi lì nel momento in cui si compiva un processo già in atto (per esempio trattative già avviate con la Nato), e quindi non si sono differenziate dai loro colleghi maschi? Oppure sono state mosse da qualcosa che non avrebbe toccato gli uomini, forse hanno ceduto al panico che la guerra si espandesse sui loro territori, contro le loro popolazioni, e hanno pensato che la Nato rappresentasse una protezione? Di certo so solo che non hanno saputo o voluto radicarsi nella loro differenza, non hanno saputo approfittare dell’assenza dalla storia e sono entrate a piè pari nelle regole del gioco maschili.

Ma come avrebbero potuto fare a radicarsi nella loro differenza? Facciamo un esempio di donne che ci sono riuscite. Non riguarda propriamente una guerra ma l’opposizione a una delle più sanguinarie dittature del XX secolo, quella argentina. Parlo delle Madres de plaza de Mayo. Hanno totalmente ignorato le dinamiche e gli schemi della politica maschile. Non hanno giudicato le posizioni politiche di regime o contro il regime, non hanno fatto considerazioni religiose o ideologiche o di compatibilità. Sono partite da sé, dalla propria esperienza di madri a cui erano spariti i figli, le figlie e hanno semplicemente detto “li rivogliamo indietro”. «Vivos los parimos, vivos los queremos», li abbiamo partoriti vivi e vivi li rivogliamo, è stato il loro noto slogan. Una verità semplicissima, incontrovertibilmente giusta, che ha tolto legittimità al regime agli occhi della popolazione e del mondo, aprendo una crepa insanabile nell’immagine della dittatura.

La luce che hanno gettato su di essa e sulla storia recente dell’Argentina è stata tale che ha condizionato il dopo-dittatura, aprendo uno spazio per la verità e la memoria che non si è aperto per esempio nel vicino Cile. Ho assistito in occasione dell’11 settembre, il cinquantennale del colpo di stato del 1973 in Cile, a un dibattito in collegamento da remoto con un ex-dirigente del MIR, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, ex-esule in Italia. Uno dei presenti gli ha chiesto di questa differenza con l’Argentina, osservando che in Cile sembra esserci una tendenza alla rimozione della storia del colpo di stato e della dittatura e una difficoltà maggiore a lasciarsi alle spalle le sue conseguenze. Non c’è la stessa capacità di coltivare la memoria storica che c’è in Argentina, dove tra l’altro alcuni dei responsabili dei crimini della dittatura sono stati processati e condannati. Mentre parlava io pensato: «Beh, è perché in Argentina ci sono state le Madres de Plaza de Mayo». Ma intanto lui continuava e chiedeva: «Perché in Cile non ci sono state le Madri di Plaza de Mayo?», con quella che ho visto come una strana torsione, un’inversione della causa con l’effetto. Lui si figurava che in Cile fosse mancato un ingrediente della politica tradizionale dell’opposizione, presente invece in Argentina, che aveva impedito sia che nascessero le Madres, sia che si facesse giustizia e si trasmettesse la memoria. Mentre invece, al contrario, l’ingrediente imprevisto che ha permesso di fare luce e giustizia sono state proprio le Madres. Sono loro che hanno reso dicibile l’indicibile, che mettendo in gioco la loro differenza hanno sparigliato le regole del gioco.

Queste donne sono diventate un tale faro da essere proverbiali. In occasione della morte della presidente dell’associazione, Hebe Pastor de Bonafini, ho letto un servizio su un giornale che raccontava come in Argentina sia nato un modo di dire: «Quando non sai cosa fare, guarda dove vanno le Madri»5. Hanno acquisito una potenza simbolica capace di orientare perché hanno fatto politica radicandosi nella loro differenza. E, attenzione, hanno fatto tutto questo senza immolarsi, senza “morire con le armi in pugno”. In qualche modo, sono state intoccabili e intoccate. Loro non sono state ammazzate, incarcerate né fatte sparire come i loro figli e le loro figlie. È quasi un mistero che il regime non le abbia toccate, come avrebbe potuto fare e aveva fatto con migliaia di persone. E in questo mistero c’è un grande potenziale della politica delle donne da usare contro la cultura di guerra. Non è il primo episodio nella storia. Una cosa simile è accaduta nella Germania nazista nel 1943: un gruppo di tedesche non ebree mogli di ebrei rastrellati presidiò per una settimana l’edificio in cui i mariti erano stati rinchiusi, in Rosenstraße 2/46, e alla fine i mariti furono rilasciati. Benché minacciata di sgombero, la manifestazione non fu mai repressa, e questo in pieno nazismo e in piena guerra mondiale, quando si subivano terribili conseguenze per molto meno. Quando le donne agiscono partendo da sé e dalla propria differenza, fuori dagli schemi, possono prodursi dei risultati inattesi. Sono esempi da seguire per contrastare la cultura della guerra. Sradicare la cultura della guerra può sia prevenire nuove guerre, sia condizionare il modo in cui si esce da una guerra in corso, così come in Argentina ha influenzato l’uscita dalla dittatura. 

Per concludere, quindi, cosa si può fare? Se per noi donne si tratta di continuare a partire da sé in relazione con le altre per continuare a inventare pratiche politiche, per gli uomini è essenziale superare la “questione maschile”, cioè mettere da parte la convinzione di riassumere in sé l’umanità tutta, riconoscere e ammettere la propria parzialità e imparare alcune lezioni dalle donne. Fra queste, c’è una delle pratiche che il femminismo ha inventato e sperimenta: è la pratica del conflitto. Significa che di fronte a un dissidio non si rinuncia a confliggere, non si rinuncia alle proprie posizioni, ma lo si fa con il presupposto che lo scopo non può essere in nessun caso cancellare, annientare l’altra e la sua posizione. È il contrario della logica del nemico. Se si riesce a mantenersi in questa pratica – non è semplice – a un certo punto si deve trovare una soluzione che va oltre. Si è costrette a delle schivate, a degli spostamenti, alla ricerca di strade terze che a volte danno luogo a delle invenzioni politiche altrimenti impossibili. È l’esatto contrario della pretesa di entrambi i contendenti oggi, nella guerra tra Russia e Ucraina: che il presupposto per aprire delle negoziazioni sia che l’avversario non possa neppure sedere al tavolo. La pratica del conflitto invece va agita già in tempo di pace, come alternativa a una democrazia in crisi, quella concepita come maggioranza che impone la propria posizione come unica, cancellando del tutto quelle delle minoranze.


1 Virginia Woolf, Pensieri di pace durante unincursione aerea, 1940. Edizioni italiane: in AA.VV., “Guerre che ho visto”, Libreria delle donne, Quaderni di Via Dogana – Supplemento a Via Dogana n. 44/45, settembre 1999; in V. Woolf, “Pensieri di pace”, Coppola Editore, collana I Fiammiferi, 2021.

2 Clara Jourdan, La guerra fa parte della questione maschile, 15 febbraio 2023, https://www.libreriadelledonne.it/report_incontri/la-guerra-fa-parte-della-questione-maschile/

3 Responsabile della divisione di pediatria di Emergency, presente all’incontro con un intervento sulle “Vittime collaterali della guerra”.

4 C. Jourdan, ibidem

5 Elena Basso, la Repubblica, 20 novembre 2022: https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/e-morta-hebe-de-bonafini-presidente-delle-madres-de-plaza-de-mayo/

6 L’episodio storico, che ha avuto luogo dal 27 febbraio al 5 marzo 1943, è descritto nel film Rosenstrasse di Margarethe von Trotta (Germania, 2003) tratto dal libro di Nina Schroeder, Le donne che sconfissero Hitler (Pratiche 2001).


(www.libreriadelledonne.it, 22 settembre 2023)

di Annalisa Camilli


Una macchinetta rossa, un paio di occhiali da sole, delle fotografie scolorite, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, un anello, una bussola, un accendino, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura, una pagella, un telefono: sono alcuni degli oggetti appartenuti alle 368 persone morte nel naufragio del 3 ottobre 2013 e che hanno permesso ai familiari lontani di identificarli e di dare un nome ai corpi senza vita arrivati sulle spiagge di Lampedusa.

Gli oggetti sono sopravvissuti alle persone e ne raccontano la storia, tramandano la memoria che spesso si vorrebbe cancellare dei lunghi viaggi fatti per raggiungere l’Europa e delle famiglie che non possono archiviare quei lutti.

Nel decennale di quel naufragio, la mostra La memoria degli oggetti al Memoriale della shoah di Milano presenta le immagini di questi oggetti scattate dal fotografo Karim El Maktafi. L’esposizione è visitabile dal 26 settembre al 31 ottobre.

“La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del dna, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari”, raccontano gli organizzatori. “Alcuni familiari hanno dovuto aspettare anche fino a dodici mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte”, continuano.

“La forza di quegli oggetti è che ci costringono a guardarci in tasca”, spiegano nei testi che accompagnano le immagini Valerio Cataldi e Imma Carpiniello di Carta di Roma e Associazione museo migrante. “A cercare quegli occhiali da sole, quell’orologio, quella boccetta di profumo ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo”.

“In un’epoca in cui l’indifferenza e la disinformazione possono rapidamente diluire l’impatto emotivo di una tragedia”, evidenzia nel suo scritto Giulia Tornari di Zona, “questa esposizione può servire come potente richiamo alla nostra responsabilità collettiva. E nel farlo, offre la possibilità di usare la memoria non solo come un atto di ricordo, ma come uno strumento per l’azione e il cambiamento”.


(Internazionale, 5 ottobre 2023)

di Redazione Valigia Blu


Centinaia di donne palestinesi e israeliane si sono radunate il 5 ottobre 2023 a Gerusalemme e in Cisgiordania per chiedere la fine del conflitto israelo-palestinese.

«Vogliamo la pace», hanno gridato le manifestanti, molte vestite di bianco e con cartelli con la scritta «Smettetela di uccidere i nostri figli».

«Vogliamo che i nostri figli siano vivi piuttosto che morti», ha detto all’AFP Huda Abu Arqoub, attivista palestinese e direttrice dell’ONG Alliance for Middle East Peace (alleanza di due associazioni guidate da donne: Women Wage Peace e Women of the Sun) che ha organizzato la manifestazione.

«Sono molto felice di essere qui e di sapere che noi, le donne palestinesi, non siamo sole e ci sono molte donne che vogliono porre fine alle uccisioni», ha aggiunto Yasmeen Soud, una palestinese di Betlemme alla manifestazione a Gerusalemme.

Alla manifestazione hanno partecipato anche diplomatici distaccati in Israele e politici dall’estero, tra cui Sonya McGuinness, ambasciatrice irlandese in Turchia, e Viviane Teitelbaum, membro del parlamento regionale del Belgio e presidente dell’Osservatorio femminista sulla violenza sulle donne.

Le donne si incontrate a Gerusalemme e poi si sono spostate in Cisgiordania, dove sono state raggiunte da altre manifestanti. Lì hanno steso una “trapunta di pace” e una installazione artistica di Sigalit Landau rappresentante un tavolo di pace vuoto.

«Vogliamo lanciare un appello congiunto da parte delle madri israeliane e palestinesi alle leadership di Israele e Palestina affinché riprendano i negoziati per arrivare finalmente a un accordo diplomatico», ha dichiarato Pascale Chen, coordinatrice di Women Wage Peace.

«È tempo che i leader coraggiosi operino per dare la speranza di un futuro migliore per i nostri figli», ha affermato Yael Admi, una delle fondatrici di Women Wage Peace.

«Sempre più donne si uniscono al movimento, donne che vogliono proteggere i loro figli e impedirgli di essere la prossima vittima… Abbiamo iniziato in poche e ora siamo migliaia dalla Cisgiordania e da Gaza», ha aggiunto Reem Hajajr, fondatrice di Women of the Sun. «Non siamo più in secondo piano. Siamo determinate ad agire con insistenza per porre fine al ciclo di spargimento di sangue, raggiungere la libertà e dare una vita giusta e dignitosa a bambini palestinesi e israeliani».

Non è la prima volta che donne israeliane e palestinesi organizzano una manifestazione congiunta. Nel 2017 si erano messe in marcia per due settimane, dal 24 settembre – inizio del nuovo anno ebraico – all’8 ottobre, toccando i quattro angoli dello Stato di Israele e la Cisgiordania, percorrendo una simbolica “strada per la pace” per chiedere ai rispettivi leader di raggiungere un accordo politico che mettesse fine alle ostilità tra i due popoli e di garantire un’adeguata rappresentanza delle donne ai negoziati. L’anno scorso, a marzo, si sono riunite sul Mar Morto per chiedere nuovamente di avviare negoziati di pace per un futuro di libertà, pace e sicurezza per entrambi i popoli.

Ma i fatti hanno detto altro. Almeno 243 palestinesi e 32 israeliani sono stati uccisi nel conflitto quest’anno. Il 2022 è stato l’anno più sanguinoso dal 2005, vale a dire dalla fine della seconda intifada. In particolare, per i palestinesi in Cisgiordania, l’area della Palestina in cui da quasi due anni è saltato del tutto quel singolare e precario equilibrio che teneva in piedi la collaborazione tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele, soprattutto sul piano della sicurezza.

Le organizzatrici hanno sottolineato che a molte donne palestinesi non sono state date le autorizzazioni per entrare a Gerusalemme dalla Cisgiordania e partecipare alla manifestazione.

Alla manifestazione era presente la parlamentare finlandese Eva Biaudet: «In Finlandia, la mia generazione non ha sperimentato la guerra, anche se abbiamo sperimentato la violenza nella sfera privata», ha detto. «Ora, quando vediamo la guerra della Russia contro l’Ucraina, vedi quanto sia fragile la pace», ha detto. È un promemoria che «le donne devono essere più presenti nel processo decisionale».


(Valigia Blu, 5 ottobre 2023)

di Jennifer Guerra


Carla Lonzi ha vissuto molte vite, pur in una vita piuttosto breve. È stata prima una critica d’arte, poi una femminista, una saggista e una poetessa. Ma è stata anche una filosofa riluttante che, con una formazione accademica completamente diversa, a trentanove anni decide di intitolare il suo brevissimo e folgorante debutto teorico Sputiamo su Hegel, bersagliando il Filosofo per eccellenza. Oggi, a più di cinquant’anni dalla sua prima edizione, il testo è tornato in libreria per La Tartaruga, con la curatela di Annarosa Buttarelli. Il ritorno di Lonzi era più che mai atteso: dopo l’edizione di Gammalibri del 1982, pubblicata all’indomani della morte dell’autrice, l’unico modo per leggerla era scovare uno dei rari Libretti verdi di Rivolta, la piccola produzione editoriale del gruppo di Rivolta femminile. Per la sua difficile reperibilità – e anche grazie a un titolo indimenticabile – Sputiamo su Hegel è diventato un libro per cui è giusto scomodare un aggettivo spesso usato a sproposito, iconico.

Ancora oggi c’è chi si stranisce per la scelta di questo verbo così forte, alla prima persona plurale: sputare. Perché sputare su Hegel e non criticare con forza, rigettare, disconoscere? Perché un gesto corporeo così viscerale, quasi ripugnante? Un titolo del genere presuppone una cesura del dialogo, l’impossibilità definitiva di comunicazione, con una modalità del tutto estranea a quel femminismo conciliante che deve essere a misura e a beneficio di tutti a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Non si può fare altro che sputare di fronte a Hegel, suggerisce Lonzi già nel Manifesto di Rivolta femminile, perché per le donne non c’è dialettica né dialogo nelluniverso patriarcale. E non ha senso che chi è stata storicamente esclusa da quella dinamica, sia proprio colei che si fa carico di promuovere una conciliazione. Sputo sia, dunque, perché Hegel non è soltanto Georg Wilhelm Friedrich Hegel nato a Stoccarda il 27 agosto 1770, ma è l’incarnazione di tutto ciò che Lonzi vuole lasciarsi alle spalle una volta per tutte. Nella scheda di Rivolta femminile scritta per Lalmanacco del movimento femminista italiano, edito da Edizioni delle donne nel 1978, si legge che questo testo “apre una strada per chiudere tutte le altre”: ideologia, lotta di classe, cultura.

Definire Carla Lonzi una filosofa potrebbe sembrare un azzardo. Come fa notare Franco Restaino, che pure la annovera fra le «avanguardie filosofiche del Novecento», Lonzi ha scritto soltanto una manciata di brevi testi teorici e che mancano di organicità, per poi chiudere la sua produzione con il “diario” Taci, anzi parla e con il dialogo con Pietro Consagra Vai pure. Anche in questo la definizione di “diario” appare quanto mai riduttiva: un mastodontico testo sperimentale, che mescola memoria, prosa, poesia, sogno e autocoscienza. Anche Taci, anzi parla finisce così con l’essere un testo dal carattere eminentemente filosofico, attraverso una retrospettiva che potrebbe essere accostata alle Confessioni agostiniane. D’altronde quella al femminismo, scrive Lea Melandri, somiglia per tutte a una conversione. Non si tratta di un’adesione ideologica, ma di un investimento totale e totalizzante della propria vita, che ti costringe a rivedere il tuo passato e ad ancorare diversamente il tuo essere al mondo.

Per Roberto Esposito, la filosofia italiana del Novecento è caratterizzata da una «integrale storicizzazione». Non una consapevolezza della determinazione storica del pensiero, quanto piuttosto di una «tendenza, tacita o proclamata, a farsi esso stesso storia o, per usare un’espressione più carica di risonanze, “pensiero in atto” – inteso nel senso, insieme, dell’azione e dell’attualità». La peculiarità italiana starebbe, per il filosofo, nel tentativo di farsi filosofia, oltre che di fare filosofia, ovvero di «conferire alla filosofia i caratteri concreti della vita». Questa attitudine attraversa tutto il Novecento e sfiora anche il pensiero di Carla Lonzi, che si configura come ancora più eretico e avanguardistico rispetto a ciò che le accade intorno. Da critica d’arte, Lonzi comincia a mettere in discussione il senso stesso della critica, un “vivere nevroticamente il bisogno di conoscenza”, quando si rende conto che non tutto si può spiegare con la teoria, ma c’è qualcosa, in quell’interstizio tra vita e pensiero, che le sfugge continuamente.

Questa intuizione, già presente quando Lonzi è poco più che ventenne, si cementifica nel femminismo che la investirà una decina di anni dopo. Lonzi capisce che quell’incertezza che le sembra impossibile fermare è antitetica a un’idea di mondo come quella proposta dalle ideologie dominanti del suo tempo, il materialismo storico e il freudismo. In quelle visioni del mondo, non c’è spazio per la marginalità, per l’«eterna ironia della comunità» che è la presenza femminile. Per Lonzi allora il «pensiero in atto» sta necessariamente altrove, è un «muoversi su un altro piano», per citare ancora il Manifesto di Rivolta femminile. Questa alterità non è semplicemente dovuta a un’esclusione storica della donna dai processi di potere e riconoscimento, ma a un rifiuto radicale di parteciparvi, un rifiuto che prevede che la donna si faccia soggetto e si allontani dal gioco, che «vanifichi il traguardo della presa di potere».

Rigettando la dialettica hegeliana, e quindi l’idea di una storia progressiva, in Sputiamo su Hegel Lonzi fa un coraggioso voto di fiducia al presente. Questo ancoramento al presente non va però confuso con l’immanenza in cui il patriarcato ha sempre costretto le donne. «Hegel ritiene la donna per sua natura ferma in uno stadio, a cui egli attribuisce tutta la risonanza possibile, ma tale che un uomo preferirebbe non essere mai nato se dovesse considerarlo per sé stesso», scrive Lonzi. Lo strumento che condanna le donne a questa immobilità è l’universalità. Vediamo ancora oggi quanto la pretesa di universalità depotenzi le singolari esperienze delle donne, pretendendo che tutte replichino la stessa storia e lo stesso destino, si facciano portatrici dei medesimi desideri. Per questo quando una donna prende la parola, specie se è una donna con un ruolo pubblico, si dà per scontato che stia parlando a nome di tutte le donne.

E così attorno al tema dell’universalità si plasma la grande dicotomia che attraversa tutto Sputiamo su Hegel e che sarà centrale per tutto il pensiero femminista italiano: uguaglianza contro differenza. Rigettare l’uguaglianza non significa soltanto rinunciare alla cultura del padre, ma anche credere che quell’interstizio che sfugge, quel muoversi su un altro piano, sia l’unica strada percorribile. Per questo la frase più bella e significativa del Manifesto di Rivolta femminile, scritto nel 1970 con Carla Accardi ed Elvira Banotti, resta: «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte». È il proposito più alto, più difficile della filosofia di Carla Lonzi. Non una filosofia di reiette o di escluse che si riscattano dalla storia, ma una filosofia che si fa storia pur avendo disconosciuto questa parola una volta per tutte.


(Limina.it, 3 ottobre 2023)

di Francesca Coin e Francesca Gabbriellini


Era il 2021 quando la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni parlava del collettivo di fabbrica della Gkn. In quei giorni, il tribunale del lavoro di Firenze aveva accolto il ricorso contro il licenziamento collettivo dei 422 operai dello stabilimento di Campi Bisenzio, Firenze, lasciati a casa da un giorno all’altro dal fondo d’investimento Melrose attraverso un’email. «Bene la sentenza del tribunale del lavoro di Firenze sul caso Gkn», aveva detto in quell’occasione Meloni. «Difendere l’economia reale e il lavoro, combattere le delocalizzazioni selvagge delle multinazionali e impedire che casi simili si possano ripetere continueranno ad essere priorità di Fratelli d’Italia», aveva aggiunto.

Sono passati due anni. Nel frattempo, Giorgia Meloni è approdata alla guida del governo e ha cambiato la denominazione del ministero dello sviluppo economico, che ora si chiama ministero delle imprese e del made in Italy. Tuttavia, niente è servito a risollevare le sorti del tessuto produttivo del paese. Al contrario, la situazione è sempre più preoccupante. In un’intervista di qualche giorno fa la sottosegretaria Fausta Bergamotto ha addirittura screditato il piano di reindustrializzazione e ha chiamato fuori il governo.

In questi due anni, ben tre esecutivi si sono avvicendati al governo. Nessuno ha saputo dare risposte agli operai della piana fiorentina, né impegnarsi per una vera transizione ecologica nel settore automobilistico. L’ex ministro del Movimento 5 stelle Roberto Cingolani l’aveva descritta come un “bagno di sangue”, suggerendo che la riduzione dell’impatto ambientale del nostro sistema produttivo avrebbe prodotto una perdita significativa di posti di lavoro, anzitutto nell’industria automobilistica. La decisione di chiudere lo stabilimento di Campi Bisenzio era l’antesignano di un destino pronto a colpire l’intero settore.

Poco tempo dopo, una procedura di licenziamento simile è stata annunciata alla Gianetti Ruote a Ceriano Laghetto, Monza, che ha licenziato 152 dipendenti, sempre per email; alla Bosch a Bari, che nel 2022 ha annunciato settecento licenziamenti in cinque anni; e nello stabilimento Marelli di Crevalcore, Bologna, che a settembre ha delineato la chiusura della fabbrica di componentistica. La logica è sempre la stessa, “chiusura e spezzatino”, come l’hanno definita gli economisti della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Maria Enrica Virgillito: “spacchettare” le imprese per darle in pasto ai migliori offerenti.

La logica dello spezzatino

Una logica che nell’agosto 2021 dominava anche gli 87 tavoli di crisi aziendale sul tavolo del ministero dello sviluppo economico, che coinvolgevano circa centomila lavoratori. Secondo gli economisti del Sant’Anna, i licenziamenti di massa sono una scelta politica. Delocalizzazione e privatizzazioni sono vantaggiose per i privati ma costose per le casse dello stato, perché richiedono ammortizzatori sociali per gli operai. Ma a farne le spese sono anche i territori, perché queste operazioni lasciano dietro di sé un deserto produttivo in cui proliferano disoccupazione e crisi sociali. Ma la transizione ecologica nel settore automobilistico non deve essere un bagno di sangue. Non deve sostenere le fantasie di speculazione di aziende e fondi d’investimento: può dotarsi di misure d’intervento statale per creare alternative percorribili.

Proprio per questo si è costituito un gruppo di ricerca interdisciplinare a cui partecipano anche gli economisti del Sant’Anna. L’obiettivo è aiutare il collettivo di fabbrica della Gkn a elaborare un «piano multilivello per la stabilità occupazionale e la reindustrializzazione del sito di Campi Bisenzio», pubblicato sui Quaderni della fondazione Feltrinelli. Come si legge nel rapporto, il gruppo ha voluto elaborare il piano di reindustrializzazione seguendo le traiettorie di sviluppo sostenibile previste da organizzazioni internazionali come il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) e l’International energy agency.

Il cuore del progetto, coerente con il Pnrr, è la mobilità sostenibile e la produzione di energia pulita, a partire da una prospettiva sinergica di sviluppo economico e sociale, in cui innovazione tecnologica e alta formazione vanno di pari passo con la tutela del territorio e delle comunità. Questa proposta rappresenta un’alternativa concreta a una strada certa di deindustrializzazione e declino validata da Artes 4.0, uno dei centri di competenza attivati nel 2018 dal ministero dello sviluppo con il piano nazionale Industria 4.0 e incaricati di promuovere il trasferimento tecnologico nel tessuto produttivo, collegando università e aziende.

Uscire dall’immobilismo

Purtroppo questo progetto non è mai stato discusso né al ministero né nelle istituzioni regionali, nonostante sia stato presentato ai diretti interessati. Da più di due anni il collettivo di fabbrica della Gkn chiede alla politica di uscire da decenni di immobilismo. Per gli operai, che lo scorso 9 luglio hanno celebrato due anni di assemblea permanente, questa necessità si è fatta ancora più urgente dopo l’acquisizione dello stabilimento da parte dell’imprenditore Francesco Borgomeo, il cui arrivo nel dicembre 2021 ha segnato l’inizio di una fase di limbo fatta di inerzia, attese e tavoli di trattativa disertati.

Il piano di reindustrializzazione dell’imprenditore, che emblematicamente chiama “QF Spa” la nuova Gkn (“Qf” sta per “Quattro f”: fiducia nel futuro della fabbrica a Firenze), presto è disatteso. Come ha ricostruito la testata di giornalismo investigativo Irpimedia, le promesse fatte da Borgomeo – tra cui investimenti per ottanta milioni di euro, «produzioni customizzate nel settore della mobilità elettrica», e trasformazione dello stabilimento in un «cuore molto importante di ricerca e sviluppo», «perché siamo riusciti a convincere i grandi player industriali» – dopo pochi mesi si dissolvono nel nulla.

Nel febbraio 2023, dopo un anno di tavoli di trattativa disertati da Borgomeo e mesi senza stipendio, l’azienda è messa in liquidazione. Bisognerebbe chiedersi come mai un progetto industriale mai nato possa essere stato annunciato con tale fanfara anche se privo di investitori. Fatto sta che, anche in questo caso, i lavoratori non sono stati con le mani in mano e hanno costruito un’alternativa.

I progetti

Pur continuando a chiedere l’intervento pubblico, nel marzo 2023 il collettivo di fabbrica e il gruppo di ricerca interdisciplinare hanno fatto partire la campagna di raccolta fondi per il progetto Gkn for future, che ha raccolto 175mila euro in poco più di un mese. Nei mesi precedenti era stato aperto il dialogo con una start up italo-tedesca interessata a sviluppare in Italia la produzione di pannelli fotovoltaici e batterie di nuova generazione in materiale organico, per essere competitivi sul mercato e lontani dallo sfruttamento del sud globale per reperire le terre rare fondamentali per queste tecnologie.

Oltre a questa iniziativa, c’è il progetto cargo-bike per un mezzo di trasporto ideale in grado di ripensare la logistica leggera nelle nostre città congestionate e mettersi al servizio delle nuove realtà dei servizi di consegna etici. Dal punto di vista dell’assetto proprietario, la fabbrica pubblica e socialmente integrata a cui aspirano le lavoratrici e i lavoratori dello stabilimento di Campi Bisenzio ha assunto la forma di una cooperativa, con prevalente attività mutualistica, partecipata da coloro che l’hanno difesa: una realtà ecosostenibile in cui il primo azionista è il territorio e le sue reti solidali.

Lo consente la legge Marcora del 1985, che facilita la creazione di nuove cooperative da parte di lavoratrici e lavoratori di aziende in crisi o soggette a liquidazione, con lo scopo preciso di consentirgli di non arrendersi alla disoccupazione e di non ricorrere agli ammortizzatori sociali, che rappresentano un costo per lo stato. Le imprese recuperate dai lavoratori sono un win-win, scrivono Paola De Micheli, Stefano Imbruglia e Antonio Misiani in Se chiudi, ti compro (Guerini e Associati 2017). La legge Marcora, del resto, è uno strumento efficace di politica attiva, capace di «evitare il rischio di inaridimento industriale» e «di favorire la ripartenza del capitalismo di territorio italiano» senza ricorrere ad ammortizzatori sociali.

In questo caso, la legge consentirebbe allo stabilimento di Campi Bisenzio di diventare un polo della mobilità sostenibile e della logistica decarbonizzata, e libererebbe lo stato dall’onere dei sussidi e dell’assistenzialismo. Per questo il collettivo di fabbrica ha istituito la campagna per l’azionariato popolare “100×10.000”, che punta a raccogliere un milione di euro entro la fine dell’anno per consentire ai singoli e alle organizzazioni che lo desiderano di diventare parte integrante di questo progetto e di contribuire alla piena attuazione del piano industriale. Al posto del bagno di sangue fatto di licenziamenti e disoccupazione a cui sembrano destinati i territori che per decenni hanno lavorato nel settore automobilistico, l’alleanza tra la lotta operaia, i movimenti ambientalisti e il mondo della ricerca è riuscita a progettare e, entro certi limiti, perfino a trovare i finanziamenti necessari per restituire una prospettiva di sviluppo sostenibile ai territori coinvolti.

È per questo che sorprende, in questo contesto, l’intervista di Bergamotto. Tocca alla regione reindustrializzare, dice la sottosegretaria, facendosi portavoce del governo. Il governo intervenga e non scarichi questa vertenza sul territorio, replica il presidente della regione Toscana, Eugenio Giani. Sembrerebbe una brutta partita di pingpong, ma è una nuova e tragica pagina di deresponsabilizzazione politica nella quale le istituzioni affermano che occuparsi di lavoro e di reindustrializzazione è responsabilità d’altri.

È chiaro che siamo a un punto di svolta. Mentre Borgomeo rompe il silenzio e annuncia l’imminente riapertura dei licenziamenti per l’ex Gkn, bisogna decidere se lo stabilimento sarà l’ennesima vittima di una lunga tradizione d’immobilismo istituzionale o meno. Le alternative sono due: lasciare che l’inerzia del governo condanni un’altra area alla disoccupazione e alla crisi sociale, com’è successo già troppe volte. O sostenere il collettivo di fabbrica nel suo tentativo di difendere l’economia reale e il lavoro dalle delocalizzazioni selvagge. Lo scopo che, a parole, si era preposta l’attuale presidente del consiglio. E che può ancora essere realizzato, per dare un futuro diverso al territorio e a tutti noi.


(Internazionale, 2 ottobre 2023)

di Maura Gancitano


«Questo paese è pieno di donne che impazziscono e nessuno se ne accorge» scriveva Doris Lessing nel Taccuino doro nel 1962, raccontando forse per la prima volta nella storia della letteratura la condizione delle donne infelici e sfiduciate, schiacciate da ruoli di madre e moglie e piene di sensi di colpa. Si trattava di donne che Lessing aveva davvero incontrato mentre faceva campagna elettorale in giro per Londra, e che fino a quel momento erano rimaste invisibili anche ai suoi occhi. La politica non si occupava di loro, e ciascuna rimaneva nel silenzio della propria casa senza poter prendere parola, sentirsi rappresentata, riconoscere che i propri problemi personali erano problemi politici, Erano donne impazzite «malgrado il marito e i figli, o forse per colpa loro», secondo la scrittrice. Questa condizione di stanchezza cronica, depressione e insoddisfazione avrebbe trovato poi conferma in studi e inchieste nei decenni successivi.

Poco è cambiato da quei primi anni sessanta, perché ancora oggi diventare madre significa troppo spesso ritrovarsi sola. Se hai la fortuna di avere una rete intorno sei fortunata, ma a passare giornate infinite con un neonato pieno di esigenze rimarrai comunque tu, spesso senza sapere come comportarti. Eppure quella stanchezza fisica e psicologica sembra ancora una questione privata, che ognuna cerca di risolvere secondo le proprie possibilità.

Al contrario, si tratta di una questione pubblica e non di un fatto naturale. Se un antico proverbio africano recita che «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», quello che accade nella società contemporanea è che per crescere un bambino finisce col volerci sempre solo la madre, perché così sembra indicare la natura. E se quella madre intende tornare al lavoro, dovrà fare i conti con un carico mentale senza fine e con una stanchezza che a un certo punto le sembrerà parte integrante della propria identità.

Se la questione esiste, e se deriva dall’organizzazione sociale e non dalla natura, come può essere risolta? Innanzitutto, facendo emergere la vera questione, cioè la condizione di isolamento e carico in cui le madri si trovano, e mettendo da parte l’idea che i ruoli di genere diano intoccabili. Se davvero ci interessa uscire dall’inverno demografico e permettere alle coppie che lo desiderano di avere figli, è necessario toccare gli stereotipi che ancora determinano i ruoli all’interno delle famiglie. Servono politiche in grado di cambiare tutto un sistema, a cominciare da un cambiamento di paradigma: non più l’idea che la vita dei figli, a partire dai primi mesi di vita, sia quasi del tutto a carico delle madri, ma fare in modo che gli aiuti alle famiglie siano continui, massicci, capillari e accessibili.

Per questa ragione, l’idea di una assistente materna che il governo ha intenzione di inserire nella Nadef 2023, e che sembra calcata sul modello di alcuni paesi nordici, ha lo scopo di curare il sintomo e non la causa. Innanzitutto, già dal nome ha lo scopo di assistere unicamente la madre, senza toccare le altre figure familiari. Il suo compito sarebbe quello di rispondere al telefono o in videocall e andare qualche volta a casa della puerpera nei primi sei mesi di vita del figlio. Questo, però, oltre a mettere in discussione l’importanza di altre figure professionali che già esistono, che hanno competenze specifiche e che non sono ancora presenti in modo uniforme sul territorio, non sembra davvero una soluzione a quel senso di solitudine che tante madri sperimentano.

Per risolverlo, infatti, non basta una singola iniziativa politica, ma serve innanzitutto una descrizione della condizione delle madri il più possibile libera da pregiudizi e ideologie. Le piccole aggiunte non cambiano un sistema, specie se i ruoli di genere rimangono fissi e vengono anzi difesi come naturali, in particolare il ruolo del padre, che ha ancora una posizione di contorno in un nage familiare in cui sarebbe invece essenziale non come “aiuto” alla madre, ma come genitore responsabile e in grado di prendersi carico del lavoro di cura.

Non basta quindi una figura professionale in più, laddove manca del tutto il villaggio, cioè una comunità che non faccia sentire sole le madri, che non le schiacci su quell’unico ruolo, che renda sereno il periodo del puerperio e accompagni verso una ripresa dell’attività lavorativa.

Perché questo smetta di essere un paese pieno di donne che impazziscono, mentre nessuno se ne accorge.


(la Repubblica, 30 settembre 2023)

di Angela Napoletano


Da domani i diciottenni potranno ricevere le informazioni. Applicata solo ora una legge del 2005. I cattolici di Anscombe: un piccolo passo positivo per mitigare i danni dell’uso di donatori anonimi


L’ora “X” è arrivata. I bambini nati nel Regno Unito dopo il primo aprile 2005 da ovociti, sperma o embrioni “donati” potranno, da domani, sapere chi sono i loro genitori biologici. Una svolta resa possibile da una legge entrata in vigore diciotto anni fa di cui nessuno, finora, ha di fatto potuto usufruire. Il provvedimento che ha abolito l’anonimato dei donatori prevede infatti che la loro identità sia accessibile a chi lo desidera solo al raggiungimento della maggiore età. Sono 30 i diciottenni che potranno per primi beneficiare di questa opportunità. Tutti nati tra aprile e dicembre 2005. La platea degli interessati è però molto più ampia. Sono 700 quelli che matureranno il diritto a conoscere le proprie origini biologiche nel corso del 2024. Secondo le statistiche il numero è destinato a raggiungere quota 11.427 entro il 2030.

Cosa, in pratica, succederà? I ragazzi che vogliono sapere chi ha donato gli ovociti o lo sperma da cui sono nati dovranno presentare una domanda alla Human Fertilization and Embryology Authority (Hfea), l’autorità che vigila in materia di procreazione assistita. Le informazioni che l’ente potrà fornirgli sono quelle potenzialmente utili a rintracciare i genitori biologici: nome, cognome, data di nascita e ultimo indirizzo nel database. È certo insolito che una legge vecchia diciott’anni trovi di fatto applicazione solo adesso. L’Hfea ha persino organizzato una campagna, #WhoIsMyDonor (chi è il mio donatore), per ricordare all’opinione pubblica che le “policy” sulla tutela dell’anonimato dei donatori sono cambiate. I “post” circolati sui social network a marcare la svolta li incoraggiano, addirittura, ad aggiornare i contatti rilasciati anni fa ai centri di fecondazione assistita «per evitare di deludere i giovani», tecnicamente loro figli, che vorranno rintracciarli.

Numerosi studi hanno dimostrato che la mancanza di informazioni sulle origini genetiche ha un impatto significativo sullo sviluppo degli individui concepiti con cellule “prestate” a coppie che, per un motivo o per l’altro, sono ricorse alla fecondazione assistita. Per Mehmet Çiftçi, esperto del Centro cattolico Anscombe Bioethics, il cambiamento «è un piccolo passo verso la mitigazione dei danni causati dalle cosiddette pratiche di donazione anonima». I piccoli nati prima dell’aprile 2005 sono esclusi dalla legge. Inoltre, non è detto che le pratiche di “ricongiungimento”, se così si può dire, vadano a buon fine. «Nessuno dovrebbe cercare di concepire un bambino – sintetizza l’esperto – che sarà privato della conoscenza delle proprie origini».


(Avvenire, 30 settembre 2023)

di Doranna Lupi


Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino e ha recentemente pubblicato Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (ed. Bollati Boringhieri), un libro ricco di spunti per riflettere sul tema della libertà.

Nelle prime righe della sua introduzione spiega che questo libro nasce dallo sconcerto che prova per “il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento mascherate e giustificate nel nome della libertà”. Sono nuove forme di schiavitù volontaria, in cui ci troviamo di fronte anche a persone che negano di essere sfruttate o che sostengono di desiderare di esserlo. Nel mercato del biocapitalismo non si mettono più in vendita solo i prodotti della fatica umana ma gli stessi corpi umani, soprattutto quelli delle donne, attraverso la prostituzione, la pornografia, la maternità surrogata. Allora, come entra in gioco la libertà quando si parla di corpi in vendita come se fossero merce? Cos’è la libertà? Di quale libertà e della libertà di chi stiamo parliamo?

Per rispondere a questi interrogativi l’autrice si è avvalsa anche di ciò le donne hanno detto rispetto all’esperienza della prostituzione o della gestazione per altri, sia quelle che l’esperienza l’hanno vissuta sia quelle che non l’hanno vissuta ma che ritengono il tema della vendita dei corpi femminili un nodo fondamentale da dipanare per il rispetto della libertà e della dignità di tutti e tutte. Da questo mondo ci arrivano testimonianze diverse ed è possibile farci un’idea ascoltando le diverse voci. Nel libro l’autrice parte da letture tratte sia da Fiere di essere puttane di M. Nikita e T. Schaffauser che da Stupro a pagamento di Rachel Moran.

Dopo aver ascoltato queste voci così inconciliabili tra loro, cosa dici?

Dico che ci restituiscono un quadro molto variegato, che è anche quello che emerge facendo un po’ di ricerca su Internet, tra blog e siti di associazioni pro e contro il sex work… Oggi anche il mondo della ricerca è diviso su questo tema, tra chi difende la possibilità che la prostituzione sia una libera scelta e chi ritiene, invece, a partire da testimonianze come quella di Rachel Moran, che la prostituzione sia per definizione “stupro a pagamento”, qualcosa di violento e disumanizzante. Come ci si comporta di fronte a questi racconti, come ci si posiziona? Una modalità abbastanza frequente consiste nel dire “il mondo è bello perché è vario”, il modo di vivere la prostituzione è del tutto soggettivo e noi non possiamo giudicare le scelte altrui e imporre le nostre personali intuizioni su ciò che significa prostituirsi. Questo è un approccio abbastanza comune, che a me però sembra insufficiente, perché fare ricerca nelle scienze sociali – ricerca di qualsiasi tipo, storica, sociologica, antropologica – significa andare oltre la semplice registrazione delle testimonianze, che vanno certo ascoltate ma anche contestualizzate, decodificate, interpretate, messe a confronto con ciò che sappiamo da altre fonti. Di certo, sulla prostituzione qualcosa sappiamo. Sappiamo che si tratta di un’attività oggettivamente pericolosa, per chi la esercita per un certo lasso di tempo, dal punto di vista fisico e psichico. Le prostitute (in maggioranza donne e in una piccola percentuale trans e uomini al servizio del desiderio omosessuale, mentre i clienti sono quasi tutti maschi) rischiano diciotto volte di più delle altre donne di morire di morte violenta. Non solo. Ci sono ricerche che ci dicono che due terzi delle persone coinvolte nella prostituzione soffre di disturbi da stress post traumatico, esattamente quelli che si riscontrano nei veterani di guerra e in chi è vittima di stupro e di altri gravi traumi. Altre ricerche insistono sul rischio di suicidio, depressione e altre problematiche psichiatriche importanti, legate tra l’altro alla necessità, per chi esercita questo “mestiere”, di attivare meccanismi psicologici di dissociazione da ciò che fa, per mantenere un’immagine accettabile di sé. Questo mi sembra che spieghi perché, alla fine, la prostituzione non può essere considerata “un lavoro come un altro”: non esistono altri lavori altrettanto pericolosi e usuranti.

Tu racconti che quando hai proposto all’università di discutere di prostituzione, maternità surrogata, velo islamico, il dibattito in aula è stato molto acceso. Ma in quell’occasione si è anche rivelata la difficoltà di andare oltre l’idea di libertà espressa dalla maggior parte delle e degli studenti: che ciascuno deve poter fare ciò che vuole, che la libertà è il valore supremo e l’autorealizzazione individuale l’unico obiettivo da raggiungere.

A ben vedere questa sembra l’idea che sta dietro al nuovo significato dato dalle giovani femministe al diritto all’autodeterminazione delle donne: libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, anche di metterlo in vendita, in quanto imprenditrici di sé stesse. Questo può aiutarci a spiegare come mai in molti ambienti, anche a sinistra, nonostante la maggior parte delle donne che mettono in vendita i loro corpi siano povere e, quindi, nonostante la disuguaglianza che c’è tra i soggetti coinvolti in questo mercato, si sia arrivati a pensare alla prostituzione e alla maternità surrogata in termini di nuovi diritti da legalizzare e regolamentare?

Certo, c’è una sinistra che ha accettato i principi del neoliberalismo e c’è un femminismo neoliberale. Che cos’è il neoliberalismo? È una concezione non solo dell’economia, ma del mondo, che consiste nell’estendere la razionalità del mercato all’intera società e nel considerare gli individui come “imprenditori di se stessi”, in perenne competizione tra loro. In questa chiave sicuramente il corpo può essere inteso come un oggetto di cui sono proprietario, o proprietaria, e da cui posso ricavare qualcosa.

Quanto alla domanda “che cos’è la libertà?”, la risposta più semplice è anche quella più intuitiva: “poter fare quello che voglio”, nell’assenza di divieti e obblighi. Ma questa è la libertà dello stato di natura di Hobbes, è la libertà del lupo di mangiare l’agnello. In contesti in cui non esistono obblighi né divieti siamo tutti liberi di fare ciò che vogliamo, ma poi i forti prevalgono sui deboli. Se vogliamo uscire dallo stato di natura, e garantire i diritti dei più deboli, dobbiamo accettare qualche limite e qualche obbligo. Rispetto al tema dell’autodeterminazione a me sembra che ci sia davvero tanta confusione oggi. Che cos’è la libertà sessuale, che la nostra Costituzione riconosce come un diritto fondamentale? È il diritto a esprimere la propria sessualità come si vuole, con chi si vuole, ma non è il diritto di vendere servizi sessuali. I diritti fondamentali sono per definizione inalienabili, imprescrittibili, indisponibili. Non sono in vendita.

Quando parliamo di prostituzione, o anche di gestazione per altri, stiamo parlando di un altro genere di libertà: la libertà di iniziativa economica, che è anch’essa riconosciuta dalla nostra Costituzione, ma entro certi limiti. L’articolo 41 dice che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quando si usano, in relazione alla prostituzione o alla maternità surrogata, slogan come “il corpo è mio e lo gestisco io” sì fa veramente confusione, perché in questo caso non è in gioco il diritto ad autodeterminarsi in campo sessuale e riproduttivo, ma l’esercizio dell’autonomia negoziale entro la sfera del mercato, dove si incontrano soggetti diseguali. In questo contesto, la legge deve proteggere i soggetti deboli perfino da se stessi, perché il soggetto debole può essere tentato dal mettersi in vendita. Questo ce lo spiegava già Marx nel Capitale, quando invitava gli operai a lottare per ottenere “una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale”.

Dove è in gioco qualcosa di inaccettabile spesso una buona strategia è un processo di abbellimento della realtà attraverso la sanificazione del linguaggio. La prostituzione è diventata lavoro sessuale, la tratta lavoro sessuale forzato, i papponi dei grandi bordelli in Germania sono diventati manager, il traffico della pedofilia lavoro sessuale minorile. La maternità surrogata è diventata gestazione congiunta e solidale. Perché, ti chiedi nel libro, facciamo fatica a chiamare le cose con il loro nome? Cosa c’è di inaccettabile nella prostituzione e nella maternità surrogata da richiedere questo processo di trasformazione del linguaggio? E a vantaggio di chi?

Le parole sono importanti ed effettivamente oggi intorno al linguaggio usato per nominare questo fenomeno c’è un conflitto durissimo. Ce lo dicono i titoli di libri come Sex work is work, oppure Sex work is not work. E capita di assistere a discussioni accesissime sul tema: “la prostituzione è lavoro o non è lavoro? Che cos’è?”. Sembra talvolta che se ne faccia quasi una questione ontologica… Ma naturalmente questo tipo di approccio non ha senso. La prostituzione è, diventa, dal punto di vista giuridico, ciò che noi vogliamo che sia. È un lavoro là dove il diritto la inquadra in tal senso. Quando, prima della legge Merlin, esistevano le “case chiuse”, la prostituzione era un lavoro anche da noi. Chi dice “sex work is not work” evidentemente esprime una posizione normativa: afferma che la prostituzione non dovrebbe essere considerata come un lavoro. In Germania è passata una legge, nel 2002, che ha depenalizzato l’induzione, il favoreggiamento, lo sfruttamento della prostituzione. Lì il pappone è diventato un imprenditore come un altro, che organizza il lavoro dei suoi (ma soprattutto delle sue) dipendenti. In Italia non è così: la prostituzione non è un lavoro, e non è neanche un diritto. Su questo dobbiamo capirci bene. Nel nostro paese prostituirsi non è vietato, è lecito. Esiste quindi la libertà di prostituirsi, intesa come libertà di fatto, ma non esiste un diritto a prostituirsi riconosciuto da una norma giuridica. Se esistesse, esisterebbe il dovere correlativo di non ostacolare, e anzi di promuovere, il suo esercizio. Qui da noi non è così.

Questa è stata la scelta della Senatrice Merlin, parlamentare socialista, che ha scritto nel ’58 una legge che a me sembra ancora valida nel suo impianto di fondo (anche se poi qualche correttivo si può immaginare) perché profondamente rispettosa nei confronti delle donne. La legge Merlin non prevede nessun tipo di etichettatura, nessun tipo di registrazione o visita medica obbligatoria, dalle implicazioni umilianti e stigmatizzanti, che erano previste nelle “case chiuse”. Non vieta la prostituzione, ma vieta e punisce chiunque si avvantaggi della prostituzione altrui. Oggi c’è chi vorrebbe superare questa legge. Nella scorsa legislatura c’erano 22 proposte di legge depositate in Parlamento, quasi tutte orientate a depenalizzare le “condotte parallele”, ossia lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento. Leggi in genere difese in nome della libertà delle donne, quando in realtà mirano a riconoscere la libertà di chi lucra sulla prostituzione altrui.

Tornando alla questione delle parole, sono diverse anche in riferimento a quell’altra pratica, oggi molto contestata e oggetto di dibattito, che è la maternità surrogata (o “utero in affitto” o “gestazione per altri”: bisogna vedere come chiamarla, per l’appunto). A me non piace la formula “gestazione per altri” perché mi sembra che isoli il momento della gestazione, lo presenti come qualcosa di impersonale, disincarnato, come se non ci fosse sempre una donna, una madre, che porta avanti la gravidanza. Quindi preferisco parlare di “maternità surrogata” (anche se, per comodità, mi capita di usare anche la formula gpa). Di che cosa si tratta? Della possibilità, dischiusa dalle moderne tecnologie mediche, di scomporre il processo procreativo rendendo possibile che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna l’utero. Quest’ultima si impegna, per contratto, a farsi impiantare uno o più embrioni prodotti in laboratorio e a portare avanti una gravidanza, per poi partorire e consegnare il bambino o la bambina ai “committenti” (detti anche “genitori intenzionali”). A proposito di “neolingua”, questa donna il più delle volte viene chiamata “portatrice”, parola un po’ curiosa perché essere incinta non è proprio come portare un pacco; il bambino è dentro di lei e per venire al mondo deve essere partorito, aspetto di cui ci si dimentica molto spesso quando si parla di questo tema.

Anche sulla maternità surrogata è interessante notare che esistono racconti diversi. Ci sono donne che raccontano la loro esperienza in termini drammatici, dicendo di aver sofferto molto quando hanno dovuto separarsi del bambino, pur avendo firmato un contratto in cui inizialmente si rendevano disponibili a farlo, e donne che sostengono di avere liberamento scelto di diventare madri surrogate e di essere riuscite a vivere con distacco la gravidanza. Molte insistono sulle motivazioni altruistiche che le avrebbero guidate, sul desiderio di “donare” un bambino alle coppie infertili.

Il dono è entrato prepotentemente nella retorica per giustificare tutta una serie di transazioni. È il caso anche della maternità surrogata. Ma quando ci scambiamo dei doni tra di noi non firmiamo un contratto, non c’è un principio legale che regola lo scambio, non ci sono rimborsi, agenzie di intermediazione, consulenti legali, blog e marketing. Semplicemente c’è il nostro scambio, che sta nella sfera delle relazioni umane e, come per il sesso, è una dimensione esclusivamente relazionale. Uno dei tuoi capitoli si intitola: la libertà di donarsi e di donare. In che senso possiamo intendere questa libertà?

In teoria è facile distinguere la forma commerciale della maternità surrogata da quella altruistica: nel primo caso si prevede un compenso, nel secondo un semplice “rimborso spese”. In pratica il rimborso va ben oltre le spese che comporta una gravidanza e la sua entità è del tutto equiparabile ai compensi previsti per la gpa commerciale. Perché allora insistere nel qualificare l’attività della madre surrogata in termini di dono? A me pare che le retoriche del dono si spieghino con il bisogno degli imprenditori del settore, per un verso, e delle stesse donne che si prestano a questa attività, per un altro, di raccontarsi, e raccontare, qualcosa di diverso dallo scambio commerciale. E tuttavia – come accennavi – c’è un contratto che le vincola, che stabilisce cosa possono e non possono fare, quali farmaci devono assumere, a quali regole dietetiche devono attenersi per il bene del feto che ospitano nel loro utero… E c’è, soprattutto, l’obbligo finale di consegnare il bambino a coloro che lo hanno “commissionato”. Nel Regno Unito si prevede la possibilità che la donna cambi idea, ma si tratta di una possibilità più teorica che reale. La decisione della donna di tenere il bambino diventa efficace solo dopo sei settimane dal parto; nel frattempo il bambino è già stato affidato alla coppia dei “genitori intenzionali” e, quando il giudice si pronuncia, di regola lo assegna a loro, nel suo “superiore interesse” a essere cresciuto in una famiglia più benestante di quella della madre naturale. Ma se è un dono, come mai sono sempre donne di ceto medio-basso e di scarso livello di istruzione, disoccupate o lavoratrici precarie al momento della stipula del contratto, a rendersi disponibili? Questa è una domanda che dovremmo farci…

C’è poi ciò che raccontano gli imprenditori del settore sulla necessità della “formazione” della madre surrogata. Leggendo questa letteratura si scopre che madre surrogata non si nasce ma si diventa, attraverso un percorso diverso a seconda dei contesti. In India le donne, poverissime, vengono ricoverate in ostelli, nei quali vivono per tutto il periodo della gravidanza, e qui viene detto loro che sono uteri e soltanto uteri, e che l’utero è come uno spazio vuoto, una casa che può ospitare i figli degli altri. Queste sono veramente delle narrative che ci rimandano indietro, alle origini della nostra civiltà, quando nelle Eumenidi di Eschilo il matricida Oreste viene assolto perché la sua colpa non è così grave: in fondo i figli li fa il padre, non la madre, che è solo il contenitore del seme paterno.

In altri paesi le retoriche cambiano, ma fino a un certo punto. In Israele, dove pure questa pratica è consentita, si invitano le madri a non toccarsi la pancia quando il feto incomincia a muoversi, per evitare che si stabilisca l’attaccamento tra madre e bambino, che tuttavia – come sappiamo – ha una base ormonale e può venirsi a creare comunque. Di qui tutta una serie di tecniche e strategie messe in atto dalle agenzie per evitare questo rischio. Negli Stati Uniti il modello cosiddetto “aperto” di gpa mira a deviare l’affettività della madre surrogata dal bambino che ha nel ventre alla coppia di committenti: li si invita a conoscersi, a diventare amici, si prevedono gruppi di auto-aiuto con altre madri surrogate per il sostegno reciproco, e una consulenza psicologica obbligatoria. “Ma non era una questione di libera scelta? – si è chiesta Daniela Danna – di autodeterminazione? Perché allora l’affiancamento di una psicologa?”. Volendo far lavorare gli psicologi, aggiunge, potremmo pensare piuttosto a un sostegno psicologico alle coppie infertili…

Al di là della provocazione, qui bisognerebbe aprire una riflessione sul desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali e, più in generale, sul rapporto tra desideri e diritti. Dovremmo chiederci se ogni nostro bisogno o desiderio possa essere trasformato in un diritto, in presenza del quale sorge in qualcun altro un dovere corrispondente. Con riferimento alla maternità surrogata, il punto è che non stiamo parlando del diritto di accedere a una tecnica di procreazione assistita, ma a usare il corpo di una donna. Bisognerebbe anche riflettere sul fatto che ci sono tanti modi di essere genitori, anche al di là della genetica. Su questo tema c’è oggi un grande dibattito all’interno del mondo Lgbt, diviso tra chi guarda con favore alla gestazione per altri e chi propone, in alternativa, di rivendicare il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, o comunque di riflettere su altre forme di genitorialità “sociale”. Questo tenendo presente che oggi la richiesta di questo tipo di pratica viene in gran parte da coppie infertili eterosessuali.

Come mai per quanto riguarda la prostituzione e la GPA sei favorevole ai divieti, sei per limitare legalmente il favoreggiamento, l’induzione, e non sei per la liberalizzazione, mentre per il velo islamico sei contraria a qualsiasi divieto?

Io ho provato a costruire un ragionamento attorno a tre casi diversi tra di loro: quando parliamo di prostituzione e maternità surrogata ci confrontiamo con la sfera del mercato; quando ragioniamo di velo islamico entriamo in una sfera diversa. Nel caso del velo le leggi francesi vietano sia l’hijab nelle scuole sia il velo integrale nei luoghi pubblici. Penso invece che non si dovrebbero prevedere divieti, perché stiamo parlando non di libertà di iniziativa economica, e quindi di mercato, ma di libertà di espressione. Questo non significa che non ci siano pratiche problematiche: in particolare il velo integrale suscita inquietudine e molti interrogativi. La psicologa Silvia Bonino ha scritto cose interessanti proprio sulle implicazioni del velo integrale, come il burqa, che coprendo persino gli occhi fa venir meno la possibilità di comunicare attraverso lo sguardo, limitando le relazioni umane. Rimane il fatto che un divieto, in questo caso, rischia di avere effetti controproducenti. Banalmente, se vieto alle donne velate di frequentare luoghi pubblici, ciò che probabilmente otterrò è che restino ancora più confinate entro le mura domestiche… Quindi, riassumendo, sul piano dei principi la libertà di espressione è altra cosa rispetto alla libertà economica. Quest’ultima può e deve essere limitata per difendere i lavoratori dalle pressioni del mercato, prevedendo ad esempio il divieto di rinunciare alle ferie. La libertà di espressione, invece, è tendenzialmente inoffensiva e va limitata solo in casi molto particolari. Questo sul piano dei principi. Sul piano pragmatico, ritengo che le leggi francesi sul velo, che sono state scritte in nome della laicità, falliscano nel loro obiettivo. Con questo voglio dire che il velo non va vietato, ma neanche imposto, mi sembra ovvio…

L’ultimo capitolo del tuo libro si intitola “La libertà e le sue sorelle dimenticate”. In realtà la triade liberté, égalité, fraternité avrebbe dovuto essere fin dall’inizio della rivoluzione francese una quadriade: libertà, uguaglianza, fraternità e sorellanza. Le donne, infatti, erano fuori dal contratto sociale e Olympe de Gouges ha provato a inserirle nel 1891 con la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma i fratelli rivoluzionari non erano ancora pronti e la sua libertà di pensiero le è costata il patibolo. I fratelli, anche i più illuminati, hanno tenuto ben stretto, per più di un secolo, il loro diritto ad accedere ai corpi delle donne attraverso il matrimonio e la prostituzione, due capisaldi del patriarcato. Non potrebbero trovarsi proprio qui, in queste dinamiche di dominio sui corpi delle donne di stampo patriarcale, le radici di un sistema capitalistico sganciato da ogni rispetto dei corpi e della natura?

Per quanto riguarda la triade che dovrebbe invece diventare una quadriade, come ho detto, le parole sono importanti, hanno una storia, ed effettivamente ai tempi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino quando si scriveva “uomo” si alludeva proprio all’uomo maschio, al cittadino maschio. Detto questo, le parole poi col tempo possono essere risemantizzate, possono assumere significati diversi, e a me “fratellanza” continua a piacere. Il linguaggio ha dei limiti e in italiano non esiste il genere neutro, così di fatto il maschile ha funzionato a lungo come maschile sovraesteso, perché se diciamo “sorelle” è chiaro che stiamo parlando solo delle sorelle, delle donne, se diciamo “fratelli”, a seconda del contesto d’uso, possiamo riferirci a uomini e donne. E oggi c’è il problema che qualcuno chiede un linguaggio in grado di includere anche le persone non binarie…

Quanto alla sostanza, se per patriarcato intendiamo qualcosa che va oltre la sfera della politica e del diritto, la sfera pubblica, e investe anche l’ambito del privato e la sfera simbolico-culturale, si tratta di un tema centrale. È chiaro che nella prostituzione si esprime un certo modo di vedere la sessualità, molto misero e gretto, con una visione predatoria del maschio che vede nella donna solo un oggetto del suo piacere, e in qualche modo anche nella maternità surrogata ritornano costrutti patriarcali, sia che si rappresenti la donna come una santa, che ama rimanere incinta per donare i figli ad altri, sia che, come scrive Silvia Niccolai, la si riduca alla mera funzione biologica di “fornetto”, da impiegare per produrre bambini. Io in questo libro mi sono occupata principalmente della sfera politica, ma poi bisognerebbe interrogarsi sulla grande domanda di sesso a pagamento, che viene quasi esclusivamente da maschi. Come su ciò che si nasconde dietro al velo imposto alle donne da culture patriarcali. Io nel libro ho riflettuto più sul capitalismo che sul patriarcato, affrontando il tema della “schiavitù volontaria” in termini generali, e non solo in riferimento alle donne. Ma riconosco l’importanza dei temi da te indicati.


(Viottoli, 1/2023)

di Francesca De Benedetti


Pubblichiamo un estratto dellintervista alla regista Agnieszka Holland in occasione della premiazione alla Biennale di Venezia del suo film Zielona Granica, “il confine verde”, apparsa sul quotidiano Domani.

La redazione


Agnieszka Holland vive tra Francia, Stati Uniti e Polonia. Nata a Varsavia, si sente “una cittadina del mondo”. Regista del film The Green Border – Il confine verde, ha ricevuto il premio speciale della giuria al festival di Venezia).

[…]

Il governo polacco ha creato alla frontiera una zona cieca alla quale né i media né le ong potevano accedere. Come si racconta per immagini ciò che è vietato guardare?

Vede, mi ha motivata a fare questo film proprio aver capito che c’era un laboratorio di violenza. Quando è stato vietato l’ingresso alle videocamere, ai giornalisti, ai dottori, a chi voleva prestare assistenza umanitaria, io mi sono detta: non vogliono lasciare tracce del loro comportamento criminale, e allora a maggior ragione è cruciale documentarlo. Siccome un documentario in senso stretto non era possibile, ma io so fare fiction, mi sono detta: ecco, questo è il contributo che io posso dare per aiutare a diffondere la verità. In quei giorni i rifugiati e chi era alla frontiera si trovavano in una trappola; la storia andava raccontata, non potevo consentire una narrazione a senso unico.

Il laboratorio di cui parla era per testare che cosa?

Penso che il governo volesse testare il grado di accettazione della popolazione nei confronti di privazioni della libertà: la zona al confine è stata chiusa per un anno, l’accesso è stato vietato a tutti tranne che ai residenti, a loro volta controllati. La narrazione unica è dovuta al fatto che il governo spara menzogne, e l’opposizione dal canto suo ha il terrore di affrontare il tema: sta zitta o dice cose simili alla destra ma aggiungendo di voler essere umana. Io sono libera, e ho voluto dire ciò che nessuno osava dire, dare voce a chi non ne aveva. I metodi della propaganda del Pis sono quelli dei totalitarismi che ho visto, studiato e raccontato nei miei film, ne ho fatti sia sull’olocausto che sui metodi staliniani. Le tappe sono stigmatizzare, disumanizzare, respingere, annichilire. Alle presidenziali 2020, il Pis [Prawo i Sprawiedliwość, “Diritto e giustizia”, il partito di governo, Ndr] ha preso di mira la comunità lgbt; poi, il capro espiatorio sono stati i rifugiati. È come l’uovo di un serpente: vedi quel che sta accadendo, e c’è un momento in cui puoi ancora fare qualcosa, finché non è troppo tardi. Io sono una sentinella, una whistelblower.


[…]


(Domani, 28 settembre 2023, estratto da un’intervista pubblicata sotto il titolo “Holland: ‘Il Pis alleato di Meloni usa i metodi dei totalitarismi’”)