di Matilde Moro


Leopoli è uno strano posto. Per arrivarci, ora che c’è la guerra, ci vuole poco meno di un giorno di viaggio: nel mio caso, un aereo Venezia-Vienna, poi Vienna-Cracovia e infine un treno fino a Przemyś, al confine tra Polonia e Ucraina. Passiamo la frontiera a piedi, al tramonto di un giovedì di fine agosto. Diligentemente, abbiamo scaricato la app degli allarmi antiaerei. Si chiama Air Alert! e l’icona sullo smartphone ha un’accattivante grafica gialla e blu. Ogni tanto, anche quando il cellulare è bloccato, parte il suono di una sirena a un volume spaventoso, una prima volta quando inizia l’allarme e una seconda quando cessa. Poi, in un tripudio di americanissimo pop, si sente la voce di Mark Hamill (per chi vive su un altro pianeta: il Luke Skywalker di Guerre Stellari), nella catch-phrase più popolare del tardo ’900, rispolverata per l’occasione: May the force be with you.

A Leopoli, scopriamo subito, quasi nessuno va più nei rifugi antiaerei. Il perché me lo spiega Larisa, un’energica signora dallo sguardo buono che dall’inizio della guerra si è reinventata interprete per coadiuvare gli aiuti internazionali in un paese in cui si parlano quasi solo ucraino e russo: «Preferiamo continuare a vivere, anche se sappiamo che potrebbe succedere qualcosa di terribile da un momento all’altro». Questa tensione verso la normalità riassume bene l’aria che si respira a Leopoli.

Ovunque in città si fa funzionare tutto, per quanto possibile. Librerie e caffè, negozi e uffici, autobus e tram. È facile qualche volta persino dimenticarsi che ci si trova in un paese in guerra. Ogni tanto, a lato di una strada, capita di vedere un cavallo di Frisia che qualcuno ha dimenticato di spostare, ma per il resto il traffico scorre tranquillo. Quando si sente parlare di guerra – specie attraverso i media e in un Occidente che da decenni si rifiuta anche solo di pronunciarne il nome – la mente corre a immaginare qualcosa di infinitamente distante, diametralmente opposto alla quotidianità che conosce. Così non è. Le strade di Leopoli sono popolate, i ristoranti aperti, si può uscire a mangiare cucina georgiana, vedere una mostra o fare shopping, ma questo non rende la guerra meno reale. La città non è rasa al suolo, ma questo non significa che le conseguenze del conflitto siano meno concrete.

Se a Leopoli la guerra come si è portati a immaginarla non è sempre e immediatamente visibile, è invece costantemente presente e ingombrante nel suo aspetto più subdolo e inequivocabilmente ingiusto: le ripercussioni sulla popolazione civile. In questa come in ogni altra guerra, i civili sono infatti le uniche vere vittime: impotenti davanti a giochi di potere a cui non possono prendere parte, ma che hanno su di loro gli effetti più tangibili e devastanti. Leopoli è diventata, dall’inizio del conflitto e in maniera molto naturale, una città-rifugio. Fino a poco più di un anno e mezzo fa, la città aveva una popolazione di circa 700.000 abitanti – dall’inizio delle ostilità si sono fermati qui più di due milioni di profughi.

Nell’oblast c’è un solo campo profughi ufficiale, riconosciuto a livello governativo, ed è quello di Skykyv. Si tratta di una serie di quelli che chiamano “moduli”, che sono in realtà minuscole stanze di circa due metri per tre, ricavate all’interno di container posizionati in un parco. In ogni modulo vivono da tre a cinque persone. A Skykyv conosco Valentina, viene dal Donbass, ha 77 anni e un figlio al fronte che non riesce a contattare da un po’. Ha perso una gamba e casa sua a gennaio durante un bombardamento. Era uscita da pochi minuti quando un missile ha distrutto la sua casa e una scheggia l’ha colpita. Dice che è fortunata anche così: almeno è viva. Ora vive in un piccolo spazio ricavato in un container nel campo profughi. In poco più di due metri quadri sta tutto quello che ha. Sua figlia, che inizialmente si era rifugiata in Grecia, è tornata per stare con lei dopo l’operazione. Anche Ludmila è del Donbass, vive qui da qualche mese e soffre di depressione. Svetlana viene da est, da Slovinski, suo figlio è al fronte e la mamma è morta qui nel campo poco più di un anno fa, vive nel campo dallo scorso marzo. Axana è qui da aprile del 2022 con suo marito e i tre figli piccoli, vivono in cinque in un tre metri quadrati.

Il campo di Skykyv non basta però a coprire che una piccola parte dei posti letto necessari a dare rifugio a tutti gli sfollati interni che raggiungono la città. Per il resto, l’accoglienza è stata organizzata con una serie di campi o soluzioni informali, come quello nelle due grandi palestre del politecnico oppure in edifici abbandonati o negli oratori di qualche chiesa. In uno di questi conosco Sveta, che ha perso tutte le dita dei piedi durante lo scorso inverno: un missile ha distrutto una parte dell’appartamento in cui viveva, ma lei non è riuscita ad andarsene. È rimasta a vivere in uno spazio a cui mancavano le finestre e una parte del tetto, e così ha subito un congelamento a cui è seguita l’amputazione. Ha un’aria calma, tranquilla e incredibilmente triste. Le donne come lei in città sono moltissime, si incontrano continuamente.

Leopoli – questo è un altro aspetto che non dovrebbe sorprendere ma che colpisce comunque quando lo si vede – è una città fatta quasi solo di donne. La maggior parte degli uomini da quando c’è la legge marziale si trovano al fronte o nelle caserme. Le donne sono invece le custodi della società civile, tengono insieme quello che resta. Zoya ha un problema alla tiroide dovuto allo stress e vive in uno dei campi insieme a sua figlia adolescente, potrebbe lasciare il paese e trasferirsi in qualche città europea dove riceverebbe un’assistenza migliore. Lei, come decine di donne che incontro, si rifiuta di andarsene: «voglio restare più vicina possibile a mio marito che è al fronte: restando nel paese diamo agli uomini qualcosa per cui combattere».

Una mattina incontro Krystyna Senchenko, che con le donne lavora ogni giorno: gestisce uno spazio di Insight, un’organizzazione a tutela dei diritti civili, e in particolare fa parte del progetto femminista Women in March. Ci incontriamo davanti all’ospedale militare di Leopoli, mi colpisce subito per la sua schiettezza e il suo sorriso. Stamattina, dice, è particolarmente sconvolta, stanotte non ha dormito. Ieri c’è stato un attacco missilistico durante una conferenza sui droni a Chernihiv. Scopro subito che anche in quanto a droni e armi è ormai diventata un’esperta. Davanti a un ottimo caffè, si lancia in spiegazioni e tecnicismi sui vari equipaggiamenti che l’esercito ha o vorrebbe acquisire e che lei sembra conoscere nei dettagli. La guerra fa anche questo: per contingenza, si diventa esperti negli argomenti prima più impensabili. «Non avremmo mai pensato che si arrivasse davvero all’invasione», racconta, «anche perché quasi ogni famiglia ucraina ha parenti in Russia, anche la mia». Con i parenti russi, che definisce vittime della propaganda, oggi non parla più. Anche sui rapporti con l’Occidente Krystyna ha le idee chiare: «Leggo sui media occidentali che si parla già di ricostruzione, ma qui sono discorsi impossibili da fare, non sappiamo nemmeno se e quando finirà la guerra, l’unica cosa che riusciamo a pensare adesso è come sopravvivere giorno per giorno».

Insight gestisce due rifugi a Leopoli, uno per donne e uno per persone queer, oltre a uno spazio comune in cui organizzano incontri e workshop, momenti di condivisione e arteterapia: «Cerchiamo di ricreare un senso di comunità per le donne e i bambini che hanno perso tutto e provano a ricominciare qui». È molto giovane, ma sembra avere un’energia inesauribile: «Sono fortunata, ho una casa e la mia famiglia sta bene, così faccio quello che posso per aiutare gli altri». Siamo sedute sui due grandi divani nello spazio di Insight, Krystyna mi sta raccontando della sua quotidianità, quasi come nulla fosse. Abbiamo all’incirca la stessa età, ma la sua vita si è trasformata all’improvviso in qualcosa di così complesso e distante, e la sua risposta è stata così ferma e determinata, che mi sento piccolissima. Prima di salutarci, mi mostra l’hub. Una carta geografica dell’Ucraina appesa al muro mi colpisce in maniera particolare. Alcune puntine colorate, concentrate per lo più a est, segnano le città, regioni e i paesini da cui vengono le persone che frequentano questo spazio.

Puntine da disegno colorate su una mappa appesa al muro per dire “sono qui”. Di milioni di puntine, di puntini, è fatta questa vicenda. Un mosaico complesso che è la faccia più umana della guerra. Le storie dei civili, della gente, delle persone in movimento. Cinque minuti per ascoltarle che cambiano tutto. Sulla loro pelle si combatte questa guerra, nei loro occhi il suo ritratto più onesto.


(Pangea News, 31 ottobre 2023)

di Silvia Morosi


Il filo invisibile che collega tre generazioni di donne e il desiderio di vivere liberamente la propria maternità, dentro o fuori una famiglia tradizionale, è al centro del libro «Una buona madre» (Guanda, 2022) dell’irlandese Catherine Dunne, vincitrice della prima edizione del Premio Europeo Rapallo. Promosso dalla cittadina ligure, con il sostegno di BPER Banca, il riconoscimento di respiro internazionale è stato annunciato lunedì 30 ottobre, insieme alle terne delle scrittrici italiane finaliste per le sezioni narrativa e saggistica (che saranno – invece – premiate durante la cerimonia finale di sabato 11 novembre). La giuria composta da scrittori, giornalisti e critici che da sempre hanno dedicato ampia parte della loro attività ai problemi connessi al genere, ha scelto Dunne tra una selezione di autrici di 27 Paesi dell’Unione europea: il suo lavoro «si impone come voce dell’universo femminile, dei dolori e degli affetti, delle ingiustizie subite e del loro coraggioso superamento, fin dall’uscita nelle librerie de “La metà di niente”», si legge nella motivazione. L’opera premiata, in particolare, «collega un presente avvincente a un passato tormentato, mettendo in luce modi e aspetti diversissimi dell’essere madre, insieme ai trascorsi storici di un Paese cattolico come l’Irlanda, carico di istituzioni ignobili dovute alle collusioni Chiesa/Stato». L’autrice si è detta «grata» per il riconoscimento pensato per riconoscere il talento della letteratura scritta dalle donne, e ha ringraziato «i traduttori che, con il loro lavoro, rendono la narrativa europea accessibile a tanti lettori».

Selezionate tra le oltre cento candidature ricevute di opere edite in lingua italiana e pubblicate per la prima volta a partire dal primo ottobre 2022, sono risultate finaliste in questa edizione per la narrativa Mariapia Veladiano con Quel che ci tiene vivi (Guanda); Claudia Petrucci con Il cerchio perfetto (Sellerio); Giusy Sciacca con Damore e di rabbia (Neri Pozza). Per la saggistica, invece, Marina Valensise con Sul Baratro. Città, artisti e scrittori dEuropa alla vigilia della Seconda guerra mondiale (Neri Pozza); Teresa Cremisi con Cronache dal disordine (La nave di Teseo); Sara De Simone con Nessuna come lei (Neri Pozza). L’edizione 2022 aveva visto trionfare Francesca Maccani nella sezione narrativa ed ex aequo Maura Gancitano e Bianca Pitzorno nella categoria saggistica.

Anche quest’anno – spiega a La27Ora Margherita Rubino, coordinatrice del Premio Rapallo – «sono state numerose le candidature (più di cento libri, tra saggistica e narrativa, ndr) anche se, in accordo con i sette componenti della giuria, abbiamo limitato le possibilità di adesione delle case editrici. Dai libri di saggistica potevamo aspettarci trattassero temi politici, societari, storici, ma è sorprendente la quantità di bellissimi libri sull’amicizia tra donne (Mansfield e Woolf), sulle biografie di artisti rilette con sensibilità estrema, su certi punti di vista della Storia fin qui disattesi». Quanto ai romanzi, chiarisce, «molte storie portano il segno di un punto di vista femminile, ma romanzi come L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi della rumena Tatiana Țîbuleac, ben considerato dalla giuria per i romanzi stranieri, è scritto in prima persona e chi narra è un ragazzo, un adolescente disastrato e geniale». Se si osservano le classifiche dei libri venduti nel 2023, «si vede con chiarezza che le donne stanno vendendo sempre di più. E questo dovrà di certo incrementare la quantità di scrittrici vincitrici di premi letterari. Non posso dire che il futuro è rosa, ma posso dire che la situazione sta migliorando moltissimo. Non dobbiamo dimenticare – conclude – i millenni in cui le donne non venivano pubblicate. Oggi la diffusione e il successo delle autrici non può non incrementare la quantità, ma io credo anche la qualità del mercato».


(Corriere della Sera, Luisa, la newsletter de La27Ora, 30 ottobre 2023)

di Lucrezia Ercolani


Parla la regista israeliana, a DocLisboa con il film «Tzipora and Rachel Are Not Dead»: «Siamo diventati ciò che più avversavamo. Non firmerò mai la clausola per il cinema “leale” allo Stato israeliano. Il festival ha rifiutato il patrocinio e vista la situazione ne sono felice»


«Sentirsi aggressore e vittima allo stesso tempo è terribile» afferma Hadar Morag. La regista israeliana è al festival DocLisboa per presentare il suo film, Tzipora and Rachel Are Not Dead. Un documentario su due sorelle vittime di abusi, di cui una delle due ospedalizzata per il disagio psichico che vive. Una storia importante che viene però sorpassata da tutto quello che sta accadendo tra Israele e Palestina. «Ho lavorato a questo film per sedici anni. E ora che dovrei parlarne, mi sembra di non ricordare nulla, è come se avessi perso le mie parole» spiega la regista, scossa ma decisa a parlare quando la incontriamo al centro culturale Culturgest. Vive a Jaffa, «proprio perché è una città mista, ho molti amici arabi. Ora lì c’è solo silenzio. Da una parte c’è Allah, dall’altra Yahweh, ma in realtà c’è solo la politica» spiega.

Come si sente in questo momento?

Non riesco a dormire ma devo vedere tutti i video di ciò che sta accadendo, anche se è molto doloroso sento di dover essere presente in qualche modo. Gli ultimi anni sono stati durissimi, Netanyahu ha incluso nel governo questi estremisti sionisti, dei veri terroristi, sono loro a legittimare tutto quello che accade a Gaza e in Cisgiordania. E sono al governo solo perché Bibi aveva bisogno di loro per non finire in prigione. Israele è il mio Paese, ma in qualche modo non lo è. Quando mia nonna arrivò qui, dopo l’Olocausto, la Jewish Agency le promise una casa. Non aveva niente, tutta la sua famiglia era stata sterminata. È rimasta in attesa per lungo tempo in una tenda, in una situazione estremamente precaria. La portarono quindi ad Ajami, a Jaffa, in una stupenda casa sulla spiaggia. Vide che sul tavolo c’erano ancora i piatti degli arabi che ci abitavano e che erano stati cacciati via. Allora lei tornò all’agenzia e disse: riportatemi nella tenda, non farò mai a qualcun altro ciò che è stato fatto a me. Questa è la mia eredità, ma non tutti hanno fatto quella scelta. Come possiamo essere diventati ciò che avversavamo? Questa è la grande domanda.

In questi giorni bui che tipo di soluzione vede?

L’unica speranza è nelle voci di alcune, come la giornalista araba Rajaa Natour, che dice: Palestina libera non significa stuprare e uccidere donne israeliane. Questa non è la mia via. Oppure la ottantacinquenne liberata da Hamas che tutti abbiamo visto. L’unica cosa che dovrebbe interessare a Israele è la liberazione degli ostaggi, e far sì che arrivino ai palestinesi, che non sono Hamas, tutti gli aiuti umanitari di cui hanno bisogno. Mentre il governo vuole solo la vendetta, sfruttando le storie delle persone uccise che però quel terribile giorno non state soccorse per ore e ore, e le loro famiglie sono le prime a non voler altro sangue. C’è poi la propaganda dei coloni, si sentono cose come «spianare Gaza», «occupare Gaza», «vivremo lì l’anno prossimo». È una follia, è tutto così estremo, l’antisemitismo sta tornando e allo stesso tempo i Paesi arabi non vogliono accogliere i palestinesi. È facile dire: andiamo in guerra, così da non vedere tutte le persone traumatizzate dal passato, traumatizzate dall’Olocausto, traumatizzate da quello che è accaduto in Palestina negli anni. C’è sempre un trauma che viene prima, ma quando si sceglie una parte tutto diventa più semplice, non si sente questo dolore.

Il trauma, anche se affrontato a un livello individuale, è al centro del suo film «Tzipora and Rachel Are Not Dead».

Sì, e quando il trauma si impossessa di Tzipora, il linguaggio è completamente distrutto. Il trauma è il luogo dove non ci sono parole, la possibilità di una testimonianza, di una narrazione è negata. Finché si è intrappolati in questo meccanismo non si riesce a vedere un futuro. Mi sembra che oggi si parli solo tramite cliché, in realtà non si sta dicendo nulla. La gente sta morendo, si deve interrompere questa guerra. Punto. Ma intorno molti sembrano volere solo violenza.

Cosa ha significato per lei presentare il suo film adesso?

Mi chiedo se sia giusto o meno mostrare un film così «duro» in questi giorni, in cui le persone provano molto dolore. Poi l’ambasciata israeliana voleva dare al festival dei fondi per finanziare il mio soggiorno a Lisbona, ma DocLisboa ha rifiutato: non volevano il logo dello Stato di Israele nella loro comunicazione, non volevano il patrocinio. Mi hanno detto però di credere in me e nel film, e di volerlo a Lisbona, e questo è molto toccante: essere considerata come un individuo, non come parte di un violento governo occupante.

Cosa farà ora?

Prima che tutto questo succedesse, la mia intenzione era lasciare Israele. Ma ora sento che forse non dovrei scappare. Non sono più sicura di nulla, non so nemmeno se voglio continuare a fare dei film. Ora c’è un fondo per il cinema pensato appositamente per i coloni, solo chi vive in quelle zone può accedervi ed è interdetto agli arabi. Una cosa assurda per un governo democratico. C’è il rischio che anche il cinema diventi un’arma politica, come quando si chiede di firmare la clausola per cui si è «leali al proprio paese» per accedere ai finanziamenti. Non lo farò mai.


(Il manifesto, 29 ottobre 2023)

di Franco Lolli


Poco più di centoquaranta pagine sono state sufficienti a Manuela Fraire per riportare all’attenzione del lettore, nel suo saggio La porta delle madri (Cronopio, pp. 146, € 13,00), i temi che la sua attività di psicoanalista e di donna impegnata nel movimento femminista ha da sempre incrociato e studiato.

Tra questi, il concetto di differenza sembra occupare un posto centrale: particolarmente efficace, un passaggio nel quale specifica (rettificando errate opinioni) che «la differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarietà. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale».

A venire interrogata non è dunque, semplicisticamente, la diversità dell’universo maschile rispetto a quello femminile, bensì l’impossibilità per entrambi di sapere qualcosa sulla sessualità dell’altro. Fraire compie questo passaggio mettendo a fuoco la sottomissione di qualunque corpo umano al regime pulsionale nel quale il dato biologico si interseca con quello linguistico, il reale del corpo con il simbolico della parola, il soma – direbbe Freud – con la psiche. In questa ottica, studia la differenza tra madre e donna, tra madre e gestante, tra femminilità e disposizione alla passività, tra istinto e pulsione, tra genere e sesso. E orienta il suo interesse verso le nuove forme di famiglia (omogenitoriali e monoparentali, in particolare), le nuove forme di gravidanza che la tecnologia ha reso possibile e gli aspetti etici legati alle trasformazioni di quello che un tempo veniva definito «legame primario». Anche in questo ambito, ciò che sembra attrarre soprattutto l’attenzione di Fraire è la differenza: tra l’accudimento del bambino da parte del genitore donna e quello da parte del genitore uomo, ovvero tra un’esperienza di cura radicata nella tradizione e la prassi di chi «non ha ancora accumulato abbastanza esperienza di allevamento di un infans senza la supervisione di una donna» che gli consenta di «contare su un sesto senso che gli permetta di decifrare e anticipare i bisogni di chi ancora non parla».

Il libro di Manuela Fraire offre anche, all’interno della sua prospettiva concettuale, una riflessione sulla pratica analitica, alla luce di una serie di interrogativi: sull’eventuale condizionamento del sesso dell’analista, su quanto il controtransfert risenta dei pregiudizi «sessuali» dell’analista, su quale sia il peso dell’identificazione proiettiva.

Tre film, narrati da altrettanti registi uomini – The Favourite diretto da Yorgos Lanthimos, Vier Minuten diretto da Chris Kraus, e The French Lieutenant’s Woman di Karel Reisz – consentono all’autrice di analizzare altre differenze ancora: quella tra l’atteso e l’ospite, e quelle tra l’essere e il sentirsi soli e, ancora, l’avvertire se stessi come diversi, «i tre volti che può assumere la condizione che chiamiamo solitudine».


(Alias – il manifesto, 29 ottobre 2023)

di Franca Fortunato


Ci sono gesti, di cui sono capaci più donne che uomini, che hanno la forza di stravolgere la realtà, indicare la strada giusta e illuminare la speranza davanti alla catastrofe. Mi riferisco al gesto di Yocheved Lifschitz, la donna israeliana di 85 anni, che presa in ostaggio da Hamas, dopo la sua liberazione insieme a un’altra donna, stringe la mano al suo carceriere con un Shalom (“pace”). Un gesto imprevisto il suo, inaspettato, impensato, spiazzante che va nella direzione opposta a quella imboccata da Israele dopo l’attacco terroristico di Hamas. Un gesto che avrà colto di sorpresa anche il suo carceriere che non l’ha respinto ma ricambiato. Una donna e un uomo, un’ebrea e un terrorista di Hamas, una vittima e un carnefice, che si stringono la mano in segno di riconciliazione, mentre tutto intorno non è che morte e distruzione, odio e ritorsione, sangue e vendetta nei confronti di un popolo disarmato, inerme, vittima a sua volta di una feroce occupazione e oppressione, è un’immagine simbolica potentissima di un desiderio di pace e non di guerra, di amore e non di odio tra due popoli che vogliono vivere sulla stessa terra. Eppure quella donna non ha dimenticato l’“inferno” che ha vissuto e al quale non pensava sarebbe “sopravvissuta”. «Sono riusciti a distruggere il recinto – ha raccontato -. Hanno attaccato le nostre case, ucciso e rapito vecchi e giovani, senza distinzione. Le immagini di quello che è successo si ripetono nella mia mente, da quando mi hanno legato su una motocicletta e mi hanno subito rubato l’orologio e i gioielli. Mentre attraversavamo i campi un altro motociclista mi ha percosso con un’asse di legno […]. Abbiamo camminato sottoterra per chilometri, per due o tre ore, in una ragnatela di tunnel, fino a raggiungere una grande sala, dove eravamo un gruppo di venticinque persone e ci hanno separato in base al kibbutz di provenienza […]. Ciascuno di noi aveva una guardia». Nelle donne come lei, della sua generazione, che hanno conosciuto la Shoah e hanno sempre lavorato per la pace tra israeliani e palestinesi – lei col marito era solita trasportare i palestinesi malati da Gaza alle cure mediche in Israele – riconosco l’eredità di Etty Hillesum, morta ad Auschwitz all’età di ventinove anni. «Se tutto questo dolore – scrive nel suo Diario – non allargherà i nostri orizzonti e non ci rende più umani […] è stato tutto inutile […]. Non si combina niente con l’odio. Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale». Da sempre, e ancora oggi, quell’immane tragedia simbolicamente è stata l’arma più potente nelle mani dello Stato d’Israele, che, nato all’indomani della Shoah, è stato identificato come uno stato “vittima” per nascondere la realtà e i crimini contro il popolo palestinese. Quella donna con il suo gesto ha distrutto quell’arma e il mondo può guardare la tragedia di un popolo “oppresso”, “umiliato”, “colonizzato”, “disperso”, “esiliato”, “odiato”, “massacrato”. Il popolo palestinese non è Hamas. Non meno sorprendente è stata la risposta di quella donna alla domanda del perché abbia stretto la mano al suo carceriere. «Mi hanno trattata bene. Le guardie davano ai prigionieri lo stesso tipo di cibo che mangiavano loro. Un medico visitava ogni giorno e forniva medicinali e cure, anche per un ostaggio ferito in un incidente in moto». È ancora una donna a indicare la strada della riconciliazione e non dell’invasione, della pace e non della guerra, della convivenza e non della diaspora. L’uccisione di 7000 palestinesi di cui 3000 bambine/i non è diritto alla difesa né lotta al terrorismo, ma genocidio di un popolo. Fermate Israele, liberate gli ostaggi.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 28 ottobre 2023)

di Annalena Benini


Cinquantanni dopo Carla Lonzi, grazie a lei e alle altre, possiamo non sentirci più oppresse. Ma non è finita lì.

La figlia che detesta la Storia dei maschi, e gli uomini che dicono “ma io che centro” (vi meritate di lavare i piatti)

“Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente” (Carla Lonzi, estate 1970)


Poche sere fa, per la prima volta, mia figlia ha cominciato a parlare di università e di speranze. Poiché non era mai successo, e anzi a ogni mia goffa domanda sulle idee per il futuro lei rispondeva sempre tirandosi il cappuccio della giacca sulla fronte e scappando in un’altra stanza, sono rimasta in silenzio: ascoltavo e basta. Per non innervosirla, per non rovinare tutto, ma anche perché stava arrivandomi addosso l’evidenza: maggiorenne, partire o restare, partire partire, valigia che si rompe, aereo, Amsterdam forse, vivere da sola, copriti che fa freddo, morire di fame, lavorare, barista, babysitter, troppo vino, strade buie la sera tornando nella stanza in affitto, mai un messaggio a tua madre. Tra pochi mesi cambia tutto, quindi, è così che succede.

E poi sapevo già che non avrebbe detto: meccanica razionale. Sapevo già che non avrebbe detto: economia aziendale. Infatti ha detto: a me piace capire quello che fanno le persone e perché, voglio studiare le storie delle persone. Mio marito non ha nascosto la sua felicità e le ha detto: certo, filosofia, devi studiare filosofia, lì dentro c’è tutto. Io muta, perché almeno questo l’ho imparato con i figli adolescenti: non fare altri danni, prendi tempo, no spontaneismi, intervieni solo alla fine e non dare idee che potrebbero essere usate contro di te. Benedetta aveva in mano un bicchiere pieno di Coca Cola, l’ha appoggiato sul tavolo. Sembrava improvvisamente una donna. Vado a memoria adesso, dovete fidarvi di me: «No, non voglio studiare il pensiero di tutti quei maschi che hanno escluso le donne dalla storia e dalla vita. Non mi va e mi rende infelice, mi dispiace proprio per loro e per me: a scuola studio quello che dicono questi uomini e le donne non ci sono mai. Al massimo muoiono, oppure sono l’amante di qualcuno, o partoriscono. Come in Storia: quanto devo aspettare per trovare le donne? Dico a parte Saffo e Giovanna d’Arco se fai il classico. È troppo ingiusto. Studio e mi sento esclusa, ti sembra bello?». Ha aggiunto poi: greve. Greve non significa solo greve, significa molte cose, non necessariamente negative. Fa parte del nuovo dizionario in movimento della lingua italiana.

Non voglio dire qui l’orgoglio che ho provato. Lì ho detto soltanto, battendo una mano sul tavolo: sputiamo su Hegel. Lei mi ha guardato senza capire e ha detto: massì, pure su Hegel anche se l’ho appena iniziato nel programma, ma mi sta antipatico. Mio marito si è acceso un’altra sigaretta, la ventunesima della giornata.

Lei ha diciassette anni e non conosce Carla Lonzi. Io ne ho molti di più e certo che la conosco: i suoi libri con la copertina verde sono in fila su uno scaffale basso, sono gli Scritti di rivolta femminile (La donna clitoridea e la donna vaginale ha scioccato mio figlio quando aveva appena imparato a leggere e sillabava tutti i titoli dei libri con il dito sotto le parole) e adesso, proprio adesso, La Tartaruga ha ripubblicato, con copertina rosa, Sputiamo su Hegel e altri scritti (a cura di Annarosa Buttarelli). Rileggerlo è uno choc, rileggerlo è davvero greve, non saprei come altro dirlo.

«Le donne stesse accettano di considerarsi “seconde” se chi le convince sembra loro meritare la stima del genere umano: Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri.

Sputiamo su Hegel l’ho scritto perché ero rimasta molto turbata constatando che quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione», scrive nel novembre 1973. Cinquant’anni fa Carla Lonzi denunciava il patriarcato di Marx, Lenin, Freud e tutti gli altri. Denunciava il tradimento della rivoluzione e della psicoanalisi: tutte le cose importanti, tutti i cambiamenti importanti avevano considerato le donne poco importanti, residuali, spesso colpevoli.

Ora, se non vi siete mai sentite oppresse tanto meglio, neanche mia figlia si sente oppressa grazie a Carla Lonzi che nemmeno conosce e grazie a tutte le altre. Ma si rende conto, cinquant’anni dopo, che quella strada non è finita nel 1973, e che tutto quello che è successo prima arriva dritto nelle nostre vite di oggi sotto forma di abitudine di pensiero, sotto forma di scocciatura perfino, sotto forma di lontani ricordi e, per molte, sotto forma di qualcosa che è già stato fatto, già lottato, e che quindi non richiede più attenzione. Adesso basta, dicono molte signore di allora e perfino ragazze di oggi, adesso non esageriamo, abbiamo già fatto tanto. E bisognerà pur rassicurarli questi uomini, dai, sennò scappano. Vorrei comunque dire che no, non scappano. Non scappano mai.

E quindi anche oggi sputiamo su Hegel e sulla sua fenomenologia dello spirito fatta tutta di maschi che considerano la donna un’immagine, un principio divino femminile. E che si sarebbero ammazzati se questo principio divino fosse toccato a loro. Mia figlia adesso mi interroga: perché Emily Dickinson, la poeta più famosa del mondo, più importante del mondo, scriveva: io sono nessuno? Perché non le permettevano di essere qualcuno? Io le rispondo imbarazzata che lei parlava direttamente con l’assoluto e con la natura, non aveva tempo per le quisquilie della fama e del riconoscimento, però non lo so più se è vero. Era lei che rifiutava il mondo o era il mondo che la rifiutava fino a farla impazzire, travestito da reverendi arcigni che le scrivevano lettere mai all’altezza?

Gli uomini hanno sempre parlato a nome del genere umano, a nome anche nostro, ma hanno cancellato le tracce delle donne, e fino ai romanzi di Jane Austen le donne non avevano il diritto di parola e di conversazione. Con Jane Austen iniziano a negoziare il proprio destino, ma sempre dentro il matrimonio e sempre entro i trent’anni. Insomma, io sinceramente non credo che gli uomini possano permettersi di dire adesso: che noia. Proprio no. Ci siamo sorbite tutte quelle guerre, quelle gesta, a scuola tutte quelle date di battaglie. Ancora oggi le date mi tormentano, a partire dalla battaglia di Salamina, che mi ricordo solo perché la salamina (da sugo col purè) è il mio piatto preferito. Ma come potrei mai dare torto a mia figlia che non si appassiona e si dispiace a studiare una storia fatta solo di maschi? «Noi non siamo nella storia perché ci è stato impedito di esserlo, non perché abbiamo detto: grazie raga, ma noi vogliamo andare a casa a lavare i piatti e preferiamo l’invisibilità», dice la diciassettenne che non lava i piatti se prima non li ha lavati suo fratello, ma in effetti non li lava neanche dopo. Dice che ha un credito verso la storia, ma ce l’ho anche io, allora sai che c’è: i piatti lavateli voi per i prossimi duemila anni. Hanno detto: va bene, tanto c’è la lavastoviglie.

«Leggiamo nell’epistolario di Freud alla fidanzata: Caro tesoro, mentre tu gioisci per le cure domestiche, io sono attratto dal piacere di risolvere l’enigma della struttura del cervello», scrive Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel. E insomma, caro Freud, tu il mio cervello non lo devi neanche guardare da un chilometro di distanza. E neanche quello di mia figlia, e delle figlie dei miei figli. Perché di questo si tratta: andare avanti, dopo aver sputato su Hegel. Non importa se dite: che noia. Non è per farvi divertire. Però quando dite: “Ma io che c’entro”, vi meritate di lavare i piatti per i prossimi tremila anni.

«La donna così com’è è un individuo completo: la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».

Ecco, adesso il punto è come si vede lei dentro l’universo, quindi anche come la vedono le altre donne. Le altre donne stanno pensando alle donne che arrivano dopo? O sono stanche, sono convinte che possiamo accontentarci? Si accontentano i pesci rossi, non gli esseri umani. Ci sono ancora le figlie, e poi le figlie delle figlie, c’è tutta quella storia stracciata da recuperare e c’è il presente che è eccezionale. Come in quella bellissima canzone nel film di Mary Poppins (1964, super femminista), Sister Suffragette, cantata dalla signora Banks, splendida suffragetta. Lei è allegra e convinta e canta davanti alle signore perplesse: «Le figlie delle nostre figlie ci adoreranno e canteranno: ben fatto, sorelle suffragette».

È andata così? Non sempre così, e a leggere Carla Lonzi oggi, dopo cinquant’anni, è molto evidente. Molte pensano che stiamo parlando di emancipazione, ma non è vero: non mi devo emancipare da nessuno, grazie a Carla Lonzi e alle altre, grazie alle suffragette di Mary Poppins, ma non posso tollerare di essere trattata con sospetto e condiscendenza, così come mia figlia impazzisce quando un uomo non le rivolge la parola perché è una ragazza, e parla solo con suo cugino che ha la sua età, e non la guarda neanche in faccia e non chiede la sua opinione. Io mi rendo conto, adesso che me lo dice lei, che queste cose sono successe anche a me, e che forse da qualche parte le ho considerate normali. Adesso no, adesso noto tutto e sono pronta a tutto (voi lo sapete chi siete, grandissimi maleducati, e io non mi dimentico niente).

«Il femminismo è la scoperta e l’attuazione della nascita a soggetto delle singole componenti di una specie soggiogata dal mito della realizzazione di sé nell’unione amorosa con la specie al potere». Persino di Marie Curie sono riusciti (e anche riuscite) a dire che però era la moglie di Pierre, anche dopo che Pierre era morto. E allora hanno montato uno scandalo su un altro uomo e su altri drammi.

Non basta sputare su Hegel: ci vuole un po’ di vera gratitudine verso le donne che hanno fatto tutta la fatica, che giorno dopo giorno hanno cambiato le cose e che non hanno nemmeno un nome, un ritratto, una lapide, perché non hanno avuto la parola. E ci vuole anche gratitudine verso le nostre figlie, che ci insegnano la libertà.


(Il Foglio weekend, 28 ottobre 2023)

di Anita Chaudhuri, The Guardian, Regno Unito


A Londra un’esperienza di cohousing riservata a donne di più di cinquant’anni si rivela un modello di vita alternativo che ha molti aspetti positivi


Chipping Barnet, un verdeggiante quartiere residenziale nella zona nord di Londra, è una località improbabile per un’utopia femminista. Eppure è lì che si trova la prima comunità di cohousing (coabitazione) del Regno Unito riservata a donne di più di cinquant’anni.

L’ingresso di New Ground, con molte vetrate e cartelli scritti in caratteri grandi, potrebbe essere scambiato per uno spazio di coworking, e lo stesso vale per la sala comune in cui mi fanno accomodare. Tutto è luminoso, arioso e pulitissimo. Alle pareti sono allineate delle raffinate librerie bianche e una tv con schermo gigante. L’unico indizio dell’età delle inquiline è il puzzle da mille pezzi lasciato incompleto sul tavolo che dà sul grande giardino.

Un gruppo di donne eleganti mi accoglie calorosamente insieme a un buon odore di caffè. «Abbiamo dai 58 ai 94 anni», dice Jude Tisdall, 71 anni, consulente d’arte. Come la maggior parte delle inquiline, vive qui da quando la struttura è stata completata, nel 2016. «Molte di noi lavorano ancora, altre fanno volontariato e sono attive nella comunità. Chi viene qui può pensare che effettivamente abbiamo tutte una certa età. Ma non possiamo essere definite vecchie». Ed è vero che nessuna qui somiglia agli stereotipi delle anziane, tanto meno Tisdall, la cui foto è stata pubblicata da Vogue in un numero dedicato a “persone che rompono le regole” in quanto “pioniera del cohousing”.

A New Ground ci sono 25 appartamenti per 26 inquiline (c’è una coppia sposata), e otto sono unità di edilizia residenziale pubblica. Le case danno su un giardino pieno di fiori selvatici, bacche e alberi da frutto. La sala comune è usata per cene settimanali, serate di cinema e lezioni di yoga («e non yoga sulla sedia, yoga quello vero»). C’è anche un appartamento per gli ospiti in visita che si fermano per la notte.

L’allusione alle visite mi spinge a porre la domanda scottante: gli uomini possono entrare? «Ma certo!», dice Tisdall. «Abbiamo fratelli, padri, figli, nipoti, amanti e tutto quello che sta in mezzo. L’unica cosa che non possono fare è vivere qui». Perciò se una di loro sposa un uomo deve trasferirsi? «Non necessariamente», ride Tisdall, che è divorziata. «Avrebbe una scusa fantastica per poter dire: “Mi dispiace caro. Non posso vivere con te ma possiamo trascorrere dei bellissimi fine settimana insieme!”»

Il cohousing non somiglia affatto a una comune. Le persone occupano appartamenti che possono essere di proprietà o in affitto, e poi ci sono degli spazi condivisi per socializzare, seguire dei corsi e fare giardinaggio. Di certo è un’idea perfetta per quest’epoca. Nel 2021 nel Regno Unito 3,6 milioni di persone sopra i 65 anni vivevano da sole, e le donne erano il 70 per cento. Secondo l’ultimo rapporto del Center for ageing better, nel giro di dieci anni le persone di età superiore ai 65 anni saranno aumentate del 19 per cento, raggiungendo il 22 per cento della popolazione. Un ulteriore motivo di riflessione è il fatto che continua a scendere il numero di anni che possiamo prevedere di trascorrere senza malattie invalidanti: oggi è di 62,4 per gli uomini e 60,9 per le donne. Nonostante questi dati, il cohousing è ancora in uno stadio embrionale: ci sono solo 302 case in dieci comunità.

Facciamo un giro della struttura con un’altra inquilina, Hilary Vernon-Smith, 72 anni. Con le scarpe da ginnastica giallo limone e un taglio di capelli geometrico, ha l’aspetto di un’artista al lavoro, e in effetti il suo appartamento serve anche da studio. Prima di andare in pensione è stata per ventotto anni caposcenografa al National theatre. Indicando il prato ovale al centro della struttura, spiega che le donne hanno lavorato in stretta collaborazione con gli architetti. «Gli studi indicano che un cervello affetto da demenza risponde in modo più positivo alle curve, e questa è una cosa di cui abbiamo tenuto conto».

Data l’atmosfera rilassata, è facile sottovalutare la forza del gruppo. Per trasformare in realtà il sogno di New Ground ci sono voluti 18 anni di sviluppo, informazione, intense attività di rete e moltissimi incontri. Maria Brenton è ambasciatrice di Uk Cohousing Network e ha contributo a facilitare la nascita di New Ground nel 1998. «Le donne che hanno dato il via a tutto questo erano irremovibili: non volevano starsene sedute in una sala ricreativa per il resto della vita», racconta. «Ci opponevamo con fermezza alle discriminazioni nei confronti degli anziani, al paternalismo e all’infantilizzazione da parte dei servizi sociosanitari».

Unidea illuminante

A New Ground le donne gestiscono tutto da sé e i compiti sono divisi tra squadre di responsabili della manutenzione, del giardinaggio, delle comunicazioni, delle pulizie e delle questioni legali. A beneficio di chi non comprende la necessità del modello per sole donne, Brenton racconta la storia eloquente di un complesso di cohousing in Canada che ha deciso di ammettere anche gli uomini “così ci sarebbe stato qualcuno a cui far cambiare le lampadine”. «Nel giro di sei mesi tutti i componenti del comitato di gestione erano uomini. Le donne che sono qui sanno cambiare una lampadina da sole».

Brenton era una ricercatrice e si stava preparando a tenere un master sull’invecchiamento. Durante un viaggio di ricerca nei Paesi Bassi, ha scoperto il cohousing e si è chiesta se un’idea simile potesse prendere piede anche nel Regno Unito. «Dagli anni ottanta il governo olandese ha incoraggiato la pratica del vivere in gruppo come alternativa alle costose case di cura e agli istituti assistenziali. L’idea era che non solo sarebbe stato più economico, ma avrebbe permesso alle persone anziane di supportarsi a vicenda e di mantenersi più sane, più felici e più attive».

Una volta tornata a Londra, Brenton ha contattato le principali reti di donne e ha organizzato un laboratorio. «Poi sei persone che vivevano da sole hanno dato vita all’Older womens cohousing group». Brenton ha ricevuto dei finanziamenti per far funzionare il gruppo e diverse centinaia di donne si sono unite all’iniziativa nel corso degli anni, ma non tutte sono vissute abbastanza a lungo da vedere il sogno diventare una realtà.

Vincere le diffidenze

Perché ci è voluto tanto? «Uno dei problemi era che non sapevamo cosa stavamo facendo», racconta. «Nessuna aveva esperienza in materia di alloggi, edilizia o progettazione. Eravamo in tutto e per tutto delle principianti». Il desiderio del gruppo di includere l’edilizia sociale complicava ulteriormente le cose. C’era bisogno di un’associazione per l’edilizia abitativa. Ma anche dopo aver trovato il sito, che nemmeno a farlo apposta era quello di una ex scuola femminile e confinava con un convento, hanno dovuto combattere per cinque anni contro il consiglio municipale per la progettazione.

L’inquilina più anziana, Hedi Argent, di 94 anni, descrive un atteggiamento a suo avviso poco collaborativo: «Ricordo benissimo uno di loro che ci ha detto: “A Barnet vivono già abbastanza persone anziane”». Secondo lei non ne volevano altre perché pensavano che questo avrebbe gravato ulteriormente sui servizi sociali e sanitari. In realtà però la struttura fa risparmiare soldi. Per esempio, le donne hanno istituito il sistema delle “amiche della salute”, in cui ogni persona ha una cerchia di due o tre amiche che passano a trovarla regolarmente per vedere come sta e si offrono di dare una mano per fare la spesa o cucinare se ha subìto un intervento di protesi al ginocchio o un’altra procedura che ne limita la mobilità.

«Facciamo attenzione le une alle altre, ma non ci accudiamo le une con le altre né ci occupiamo della cura personale», spiega Argent. «Chi ha bisogno di assistenza fa venire qualcuno da fuori che l’aiuti». Argent è entrata nel gruppo undici anni fa, quando il suo compagno è morto e lei si è trovata a vivere da sola. «Le mie due figlie erano preoccupate per me e io ho cominciato a preoccuparmi delle loro preoccupazioni. Ora questo circolo vizioso è finito».

Argent vive comunque una vita piena di impegni. Un tempo editor di libri, accetta ancora degli incarichi da freelance e ha da poco finito di scrivere un’autobiografia in cui racconta della sua esperienza di fuga dall’Europa nazista quando aveva nove anni. Va spesso a parlare nelle scuole e a breve si unirà a lei Charlotte Balazs, 70 anni, anche lei un’inquilina la cui famiglia è legata alla storia dell’olocausto.

«Questo posto è fantastico per fare rete», dice Balazs, che prima viveva da sola in un appartamento senza spazi esterni. «Ho capito quanto fossi fortunata a vivere qui durante la pandemia. Ogni giorno alle due del pomeriggio facevamo ginnastica nel parcheggio e poi ci sedevamo in giardino. Ci facevamo consegnare la spesa e alcune di noi le prescrizioni mediche. Sembra melodrammatico, ma penso che senza questa comunità avrei avuto un esaurimento nervoso».

Un altro esempio dei benefici di questa struttura lo offre Tisdall raccontando di quando è caduta e si è rotta una spalla: «Mia figlia e mia nipote venivano a trovarmi, ma non dovevano starsene tutto il tempo qui per assicurarsi che mangiassi e bevessi. C’erano persone che facevano la spesa per me e che venivano a farmi visita per bere un bicchiere di vino».

Sembra un idillio, ma sul serio non ci sono aspetti negativi? Mi viene in mente che una persona naturalmente portata alla discrezione come me potrebbe trovare tutto questo particolarmente difficile. «Be’, c’è un’ottima insonorizzazione», dice Argent, ridendo. «L’unica cosa che la mia vicina sente è l’acqua del mio bagno scorrere. Anzi, l’altro giorno è venuta a chiedermi se stavo bene perché non l’aveva sentita». C’è poi l’inevitabile senso di frustrazione che deriva dal fatto che ogni decisione va presa con il consenso di tutte. Ann Beatty, 58 anni, aveva dei dubbi prima di trasferirsi. «Mi sono chiesta se fossi pronta per una cosa così. Però ero appena tornata dopo aver vissuto all’estero e non avevo né una casa né dei progetti per il futuro. All’inizio prendere delle decisioni condivise era un freno. Impediva alle persone di fare cose molto semplici, come per esempio andare a comprare un orologio per la sala comune». Da allora però, racconta, le cose sono migliorate. «Abbiamo imparato che non tutto richiede una decisione condivisa. Abbiamo fatto una formazione sul consenso e il processo decisionale, ci ha aiutate molto».

I benefici del cohousing vanno oltre i servizi offerti a chi ci vive. Gli abitanti del quartiere frequentano New Ground e partecipano alle feste e alle giornate dedicate al giardinaggio. «La magia del cohousing è data dalla combinazione di persone fantastiche e di una progettazione collaborativa», spiega Frances Wright, facilitatrice di comunità per l’impresa sociale di costruzione Town. Insieme alla sua partner di recente è andata a vivere in un appartamento più piccolo in un complesso della Town a Cambridge che mette a disposizione un laboratorio per il fai da te, una palestra e un negozio di prodotti tipici. C’è anche un servizio di automobili condivise e questo ha spinto Wright a rinunciare per la prima volta alla sua vettura. «Prendere le decisioni insieme può essere difficile. Però abbiamo lasciato una casa per vivere in un appartamento di due stanze e non abbiamo la sensazione di aver sacrificato qualcosa».

Mellis Haward, direttrice del gruppo di architetti Archio, ha diretto molti progetti di cohousing. «Le persone attratte dal cohousing di solito danno molta importanza alla possibilità di vivere accanto ai vicini. Non si tratta solo di alleviare la solitudine, ma è un modo per permettere alle persone di diventare parte di un ecosistema di famiglie e individui».

Haward è convinta che occorra un cambio di mentalità per favorire la nascita di più progetti simili. «Nell’edilizia sta emergendo la tendenza a costruire dei complessi di cohousing». All’improvviso ci si è accorti dei benefici dell’economia della condivisione? «In realtà nella rete del cohousing ci sono molte persone che cercano una casa. Quindi per i costruttori è un affare. Ma forse sono solo molto cinica».


(Internazionale, Regno Unito – numero 1535 del 27 ottobre 2023)

di Maria Nadotti


Sotto tregua Gaza. 2009-1956 (Italia 2009, 33m), cortometraggio di Maria Nadotti, è adesso visibile qui: https://www.oktafilm.it/murale/#film

Febbraio 2009. L’attacco di Israele alla Striscia di Gaza si è appena concluso, lasciandosi alle spalle una scia di sangue, rovina e menzogne. Alternandosi alle immagini, nove attori e attrici italiani prestano la loro voce alle parole di scrittori e intellettuali palestinesi, israeliani e europei. Una carrellata a ritroso, dal gennaio del 2009 all’ottobre del 1956, nel paesaggio devastato di un lembo della Palestina occupata. Un viaggio nel tempo in compagnia di scrittori come Mahmud Darwish, John Berger, Gideon Levy e Ghassan Kanafani. Info: https://www.oktafilm.it/project/sotto-tregua-gaza/


(OKTAFILM, 26 ottobre 2023)

di Gad Lerner


Si può aiutare Israele a sfuggire al vicolo cieco in cui sta cacciandosi, nell’illusione di poter sopravvivere solo grazie alla sua forza militare? Oggi la società israeliana è angosciata dalla sensazione che il mondo non comprenda il trauma vissuto a partire dal 7 ottobre. E questa incomprensione rischia di produrre conseguenze catastrofiche.

Serpeggia un dubbio, che ormai Israele venga considerato un ingombro, un’anomalia difficile da sopportare, anche da parte delle nazioni che finora ne hanno difeso il diritto all’esistenza. Lo conferma com’è caduta nel vuoto l’irricevibile richiesta di dimissioni del segretario generale dell’Onu. Seguita dalla scelta di campo della Turchia, Paese Nato, il cui presidente chiama “liberatori, non terroristi”, i fanatici miliziani di Hamas. Mentre assume sempre più un ruolo-chiave il Qatar, protettore di Hamas, monarchia wahabita di cui siamo peraltro fornitori di armi.

Leggo l’“appello contro l’indifferenza morale” sottoscritto da decine di intellettuali pacifisti israeliani, primi firmatari David Grossman, Eva Illouz e Aviad Kleinberg: «Con nostro sgomento, alcuni esponenti della sinistra globale, individui che fino ad ora erano nostri partner politici, hanno reagito con indifferenza a questi eventi orribili e talvolta hanno perfino giustificato le azioni di Hamas». E ciò proprio quando «abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili di entrambe le parti». Con ciò vengono accusati di tradimento in patria, e al tempo stesso di fiancheggiare Netanyahu all’estero. Mentre cercano solo di farci capire che il massacro di innocenti perpetrato da Hamas in territorio israeliano non può essere banalizzato come episodio fra i tanti di un secolo di guerre. Sia detto per inciso, se proprio si vuole insistere a far valere la contabilità dei morti: in cento anni di guerre arabo-israeliane ha perso la vita neanche un decimo degli ebrei che i nazisti sterminarono in soli due mesi del 1941 quando invasero l’Unione Sovietica. I morti sono sempre troppi, certo, ma questa sproporzione pesa ancora enormemente nella psicologia dell’israeliano medio.

L’avvertimento ci giunge da uomini e donne che perseguono da sempre il dialogo e la convivenza con i palestinesi. E per questo sono angosciati dallo stato d’animo radicato nei loro concittadini sospinti a dirsi: «Non dobbiamo fidarci più di nessuno. Contiamo solo sulla nostra forza. Venderemo cara la pelle. Fino all’arma proibita, se necessario».

Oggi sembra impossibile disinnescare quest’ira funesta. Alla quale sembra sommarsi la disperazione, il senso d’impotenza delle minoranze lungimiranti di ambo le parti. Vorrei che tutti apprezzassimo lo sforzo che vibra nel drammatico, bellissimo “Diario da Tel Aviv” che ci invia ogni giorno Manuela Dviri: una donna che ha perso in guerra il figlio Yoni, si è messa alla testa del movimento pacifista e ha organizzato la cura dei bambini palestinesi affetti da patologie gravi negli ospedali israeliani. Proprio come faceva Yocheved Lifshitz, la donna presa in ostaggio da Hamas che ha salutato i suoi carcerieri invocando “pace” in arabo e in ebraico. Dietro alla sindrome da abbandono che genera la pulsione alla sfida mortale, si cela la visione erronea ma diffusa di Israele come “Stato coloniale”. Avvalorata, ma non per questo giustificata, dall’occupazione dei Territori palestinesi che si protrae da oltre mezzo secolo. Questa visione di Israele corpo estraneo, entità provvisoria da estirpare nelle terre dell’Islam, ha origini lontane. Attinge da un’interpretazione della storia delle Crociate in cui si rimarca che il Regno latino di Gerusalemme durò solo 88 anni prima di essere rovesciato; sorte a cui, dando tempo al tempo, anche Israele sarebbe quindi predestinato. Ma è insostenibile il paragone fra le sparute legioni di cavalieri e i milioni di ebrei che vi emigrarono e vi si radicarono nel corso di decenni. Né si può dimenticare che essi provenivano in larga maggioranza dall’Europa orientale e dai Paesi arabi. Non possono essere liquidati come avamposto dell’Occidente.

Il destino di Israele dipenderà anche dalla nostra comprensione delle vicissitudini che l’hanno portato a dare risposte sbagliate al senso di accerchiamento vissuto. Il che non comporta adesione acritica, semmai il contrario. Aiuta Israele chi rifugge la logica della rappresaglia e lo sospinge a riconoscere l’improrogabile necessità che il popolo palestinese pervenga all’autodeterminazione. Ma abbandonare Israele al proprio destino sarebbe irresponsabile, oltre che immorale.


(Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2023)


P.S. In una settimana la nostra sottoscrizione per la sede di Gaza di Msf [decins Sans Frontières, Ndr] ha raggiunto 150mila euro. Ecco un modo giusto di far sentire la nostra voce.

di Lucia Capuzzi


«Non scrivete il nome di mio padre su una bomba». È stato questo il toccante appello di Yoatam Kpnis, figlio ventinovenne di Liliach Lea Havron ed Eviatar Kipnis, gli italo-israeliani assassinati da Hamas nell’attacco al kibbutz di Be’eri dove vivevano. Entrambi erano scomparsi il 7 ottobre. Dieci giorni dopo, attraverso il test del Dna era stato identificato il cadavere di Eviatar. Il 23 ottobre era stato scoperto il corpo di Liliach. Yoatam, che era scampato alla strage solo perché quel giorno si era fermato a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, ha tenuto un breve discorso durante la cerimonia di addio del padre, al kibbutz Maagan Michael. «Papà è stato ucciso e abbandonato da persone che non riescono a capirlo. Razzisti che odiano lo straniero, estremisti che santificano morte e vendetta anziché vita», ha sottolineato il giovane che ha ricordato il clima di tolleranza respirato in famiglia fin da bambino: «A casa sentivamo proverbi in arabo, canzoni in spagnolo e francese. Facevamo lezioni di italiano e di inglese». Proprio per rispettare la memoria di Eviatar – ha aggiunto – «non lasceremo i politici, che lo hanno lasciato solo, danzare sul suo sangue. Non faremo silenzio quando i cannoni ruggiscono, e non dimenticheremo che papà amava la pace. Che non era pronto a servire nei Territori per i quali il Negev è stato abbandonato». Parole forti e coraggiose specie in questo tempo di lutto collettivo e di rabbia per la violenza subita. La risposta, però – ha sottolineato Yoatam – non può essere la vendetta. «Papà non ha dimenticato che a Gaza vivono anche persone innocenti, bloccate tra il martello del governo di Israele e l’incudine della dittatura di Hamas. Hamas che è il nemico, non i palestinesi». Poi ha concluso: «La guerra non finirà davvero finché non porteremo la pace. E anche quando celebriamo un funerale dopo l’altro, non possiamo dimenticare la vita. La vita che papà amava tanto. Perché c’era vita prima della guerra, ci sarà vita dopo, e c’è vita durante la guerra. Ed è permesso amare. Amare la vita che era e la vita che c’è ancora, amare il mondo e amare l’essere umano».


(Avvenire, 25 ottobre 2023)

di Anonima


Abbiamo ricevuto una lettera di una cittadina tedesca che vive in Italia.

Rispettiamo la sua richiesta di rimanere anonima perché comprendiamo che può suscitare paura il clima di sistematica intimidazione di ogni opinione che si allontani dal conformismo occidentalista.

Decidiamo di pubblicarla in più lingue per denunciare la gravità dellatteggiamento delle autorità europee pronte a tollerare ogni crimine di Israele in nome della colpa europea, come se giustificare un nuovo genocidio potesse assolverci dai genocidi del passato.

(Redazione di Effimera.org)


Come per tutti, l’orrore di quanto è accaduto nell’attacco di Hamas del 7 ottobre è per me stato angosciante da vedere. I sentimenti di rabbia e tristezza per le morti inutili in Israele causate da Hamas, si sommano però al tormento dovuto alla reazione di Israele che colpisce tutta la popolazione palestinese, causando migliaia di morti, una reazione già vista in tanti episodi del passato. Mi fa così arrabbiare che la spirale di morti inutili da entrambe le parti continui ad allargarsi. E mi fa ancora più arrabbiare il fatto che nessun paese europeo, che ogni anno commemora le innumerevoli vittime dell’Olocausto, ora taccia di fronte al paragone israeliano dei palestinesi considerati come nazisti. Per esempio, l’ex primo ministro israeliano Naftali Bennet ha insistito molto emotivamente in un’intervista a Sky News quando gli è stato chiesto della minaccia al supporto vitale per i bambini nelle incubatrici, dopo che Israele ha tagliato la corrente: «Sta seriamente chiedendo dei civili palestinesi? Cosa c’è che non va in lei? Stiamo combattendo i nazisti… Non ho intenzione di dare elettricità o acqua ai miei nemici… Non ne siamo responsabili». Il conduttore di Sky News ha cercato di distinguere tra Hamas e i palestinesi, cosa che non è stata accettata dal Naftali Bennet.

Non sono una studiosa di genocidi, sono tedesca. In quanto tale, non sono “autorizzata” a denunciare le atroci vicende in corso in Palestina, dato che i miei antenati furono un tempo gli aggressori contro l’intera popolazione ebraica. È molto difficile mettere per iscritto queste parole.

Come tedeschi, siamo cresciuti nella vergogna per quello che abbiamo fatto. Gli orrori dell’Olocausto erano radicati nei nostri cervelli e per decenni dopo la guerra il disgusto per i tedeschi ci è stato gettato addosso dalla popolazione locale di Francia, Paesi Bassi, Regno Unito o Polonia. Vengo da Norimberga, la città dove nel 1935 furono applicate le leggi contro gli ebrei. Nel dopoguerra il luogo della città dove Hitler tenne i suoi comizi si trasformò in un centro di documentazione che ritraeva le nostre atrocità contro gli ebrei e come funzionava il nazionalsocialismo (nazismo). Norimberga è anche la città in cui furono processati i principali criminali di guerra nazisti, la città in cui sono nati i moderni diritti umani delle Nazioni Unite per garantire che questo tipo di atrocità non si ripeta mai più.

Cosa dire da tedesca degli orrori che si stanno svolgendo a Gaza? Nulla, assolutamente nulla, perché da “tedesca” non sono “autorizzata”. Tuttavia il mio cuore dice di fermare la violenza contro i palestinesi. Voglio dire agli israeliani, nonostante il loro dolore e la loro sofferenza a lungo termine, che bombardare la Palestina non è la risposta. L’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso è stato l’attacco più mortale dall’Olocausto e ha riportato alla luce i ricordi dei precedenti pogrom, dell’Olocausto e dei programmi polacchi del XIX e XX secolo. Ma il dolore non scomparirà infliggendo dolore, negando ai palestinesi acqua, medicine, cibo e benzina, bombardando zone urbane piene di civili, mentre si dice loro di lasciare le loro case e intanto bombardando anche i corridoi di fuga al sud di Gaza. Come tedesca non mi è permesso dire questo. Le immagini dell’Olocausto stanno emergendo nella mia mente, pensando a come trattavamo gli ebrei quando i nazisti li rastrellavano per andare nei ghetti. Non posso mettere questa immagine dell’olocausto accanto a ciò che vedo nel presente a Gaza. Mi rende antisemita. Mi etichetta come una sostenitrice di Hamas, e quindi del terrorismo. Questa è una classificazione pericolosa. Davvero molto pericolosa! Mettere a tacere le persone che denunciano gli orrori da entrambe le parti, mette a tacere la nostra possibilità di riconciliarci e cercare una soluzione pacifica.

In Germania, ai palestinesi e ai sostenitori di una soluzione pacifica è proibito manifestare. I giornali non si occupano criticamente della situazione israeliano-palestinese, non l’hanno mai fatto e mai lo faranno. In quanto tedeschi siamo in debito con gli ebrei in quanto aggressori dell’Olocausto, e quindi qualsiasi attacco contro gli israeliani è considerato un pogrom contro gli ebrei, con Israele che ha il diritto di difendersi, qualsiasi sia il costo dei civili palestinesi. In Germania non sono ammesse altre voci. Per i palestinesi che vivono in Germania significa soffrire in isolamento, in quanto non meritano il nostro Mitleid (compassione) da quando hanno attaccato Israele. Tutte le loro manifestazioni contro l’attacco di Israele a Gaza e i loro appelli a fermare gli incessanti bombardamenti sui civili palestinesi sono proibiti. Così come etichettiamo tutti i palestinesi come sostenitori di Hamas, così tutti hanno etichettato i tedeschi come nazisti. L’aver sorvolato sul nominare i colpevoli con il loro nome, inevitabilmente nasconde le sfumature di come il nazismo sia stato vissuto dai tedeschi. Fino ad oggi, non si parla della vita sotto il nazismo in Germania. Nessuno lo chiede: c’è un grande Schweigen (silenzio). Mio padre, vissuto a Norimberga durante la guerra, è sopravvissuto a non so quanti bombardamenti da bambino. Ma non gli è mai stato permesso di parlare della sua sofferenza per la guerra, anche quando il trauma delle bombe che gli cadevano addosso è emerso ripetutamente, poiché lui e tutti i tedeschi sono nazisti e quindi sono carnefici.

È la nostra Schuld (colpa) ciò che abbiamo fatto al resto del mondo, e quindi non ci è permesso di soffrire. Da allora portiamo questa colpa come una croce. La colpa è così enorme, che affermiamo di non voler ripetere mai più il fascismo, e gli orrori del genocidio. Cinque giorni fa, le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme su un nuovo caso di pulizia etnica di massa dei palestinesi e hanno chiesto un cessate il fuoco immediato. La Germania crede nelle Nazioni Unite e recentemente ha richiesto una riforma del Consiglio di Sicurezza con il desiderio di diventarne membro, ma come giustificherebbe la sua intenzione di non voler fermare i bombardamenti sulla Palestina?

I palestinesi che vivono a Berlino costituiscono la più grande comunità al di fuori del Medio Oriente. Per anni, i loro sforzi per far luce sulla situazione politica e sociale con manifestazioni e campagne sono stati accolti con grande ostilità dal governo tedesco. Il movimento Boycott, Divestment, Sanctions (BDS) che lavora contro l’oppressione israeliana dei palestinesi e fa pressione su Israele affinché rispetti gli standard internazionali sui diritti umani, è stato decretato dal Bundestag tedesco nel 2019 come antisemita. Le persone che cercano di manifestare devono affrontare i cannoni ad acqua della polizia. I palestinesi rischiano di perdere il loro status di rifugiati o i loro mezzi di sostentamento. Gli antisionisti che si uniscono alla causa palestinese sono ugualmente attaccati. Istituzioni, come il Goethe-Institut, che promuovono la pace e i diritti umani in tutto il mondo, cancellano il discorso dello scrittore e poeta palestinese Mohammed el-Kur nel 2022. Con l’attacco di Hamas a Israele, la Frankfurter Buchmesse (Fiera del libro di Francoforte) ha ritirato il prestigioso premio letterario per la scrittrice palestinese Adania Shibli alla quale era stato conferito per il suo romanzo Un dettaglio minore. Questo romanzo giustappone la vera storia dello stupro e dell’omicidio di una ragazza beduina da parte di un’unità dell’esercito israeliano nel 1949 con la storia immaginaria di una giornalista che indaga sul crimine nella città palestinese di Ramallah, decenni dopo. Il quotidiano Die Tageszeitung, generalmente descritto come di tendenza verde-sinistra, ha accusato il romanzo di usare narrazioni antisemite: «In questo breve romanzo, tutti gli israeliani sono stupratori e assassini, mentre i palestinesi sono vittime di occupanti dal grilletto facile». Queste prospettive non sono condivise da molti altri critici nel circolo letterario. Il libro è stato nominato negli Stati Uniti per il National Book Awards e l’International Book Awards. Tra i suoi ammiratori ci sono J.M. Coetzee e la scrittrice australiana Mireille Juchau, che questa settimana ha scritto: «Più che mai abbiamo bisogno di una scrittura sfumata sui modi inconfutabili in cui le storie violente e genocide esercitano il loro potere sul presente. Un dettaglio minore di Adania Shibli è uno dei migliori esempi recenti».

La sospensione del premio letterario è stata giustificata da Jürgen Boos, direttore della Fiera del Libro di Francoforte con il fatto che la sua organizzazione «è completamente solidale con Israele». La chiusura alle voci palestinesi in un ambiente letterario che dovrebbe praticare la libertà di parola e invitare al dialogo tra posizioni opposte e sensibilità diverse invia al Medio Oriente un chiaro segnale che la Germania non sostiene una soluzione pacifica, ed è schierata con l’attacco ai palestinesi e a chiunque osi criticare Israele. Paradossalmente, ancora una volta la Germania diventa l’aggressore, questa volta come complice di Israele, ed è Israele preme il grilletto.

Dopo settantacinque anni dall’Olocausto, come tedeschi veniamo di nuovo messi a tacere quando assistiamo a un genocidio. Ma ripeto, sono tedesca e non spetta a me dire nulla. Subito dopo che Israele ha dichiarato la sua strategia di guerra su Gaza, il 15 ottobre scorso oltre 800 studiosi e professionisti di diritto interno, di studi sui conflitti e sul genocidio hanno rilasciato una dichiarazione pubblica avvertendo della possibilità di genocidio perpetrato dalle forze israeliane contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. Ancora una volta, e più che mai, la popolazione tedesca è congelata tra il passato e il presente. Non posso e non voglio credere che nessun tedesco provi compassione per i palestinesi. Ma come faccio a saperlo? Non ci è permesso manifestare, e quindi parlare tra di noi, è meglio non menzionare nulla, perché ci ricorda troppo il nostro passato doloroso. Non possiamo avere un’opinione su questo argomento, altrimenti saremmo colpevoli di paternalismo nei confronti degli ebrei. Ironia della sorte, è come vivere sotto la Stasi nella Germania dell’Est, dove non si poteva parlare contro lo stato perché si temeva di essere imprigionati. Conosco questa paura, mi è stata trasmessa da mia madre, il cui padre è stato imprigionato non so quante volte dalla Stasi per aver parlato contro la repressione esercitata sul popolo tedesco dai russi, quando vivevano nella Germania dell’Est prima di dover fuggire nel 1957. Ora, con il conflitto israelo-palestinese che entra in una nuova fase violenta, come tedeschi siamo intorpiditi pubblicamente, ma in isolamento soffro con i palestinesi e con gli israeliani e spero un giorno che entrambi questi popoli depongano le armi e vivano in pace come due nazioni fianco a fianco.


Nota dell’autrice: Le informazioni di base per questo articolo provengono da Democracy Now 16.10.2023 “A textbook case of genocide: Israeli Holocaust Scholar Raz Segal decries Israel’s Assualt on Gaza”; The Conversation 18.10.2023 “A Palestinian author’s award ceremony has been cancelled at Frankfurt Book Fair. This sends the wrong signals at the wrong time”; The New Arab 18.10.2023 “Gaza war: Germany’s crackdown on Palestine solidarity does not spare even anti-Zionist Jews”; Third World Approaches to International Law Review 17.10.2023 “Public Statement: Scholars warn of potential Genocide in Gaza”.


(Effimera.org, 25 ottobre 2023. Sul sito originale è disponibile anche la versione in tedesco dell’articolo)

di Arianna Di Genova


Parla la libraia marocchina Jamila Hassoune, ospite al 900fest di Forlì dedicato alla scuola. «Penso di essere riuscita, negli anni, ad accendere una scintilla di curiosità in chi ha partecipato. Il mio progetto nomade nasce dal dialogo e dalla conoscenza»


È la scuola la grande protagonista della decima edizione del Festival di Storia del Novecento, a cura della Fondazione Alfred Lewin, che si apre oggi a Forlì (fino a sabato 28). Si va dagli anni della Dad e la pandemia alle esperienze dei maestri di strada fino al nodo (costellato di lutti aberranti) dell’alternanza di insegnamento fra i banchi e il lavoro. 
900fest parte con una sessione internazionale dal titolo Il velo che protegge è l’istruzione. Donne, scuola e islam. Fra le varie ospiti (l’avvocata e femminista tunisina, la giornalista Giuliana Sgrena, la filosofa Cinzia Sciuto, la filmmaker iraniana Somayeh Haghnegahdar, l’attivista e fondatrice di Trama di Terre Tiziana Dal Pra), anche la libraia marocchina Jamila Hassoune, che da anni guida il progetto Carovana dei libri: un nomadismo culturale il suo che promuove l’incontro e l’accessibilità alle biblioteche per tutti.

Il suo Paese è stato drammaticamente colpito dal sisma. Come si sono evolute le iniziative della Carovana e qual è, oggi, il lavoro della sua libreria? 
L’8 settembre il Marocco ha vissuto un catastrofico terremoto, che ha interessato soprattutto Marrakech e la regione circostante. Molte sono state le vittime, colte impreparate, con interi paesi sommersi dalle macerie. Questi villaggi di montagna – che già scontavano un’assenza di infrastrutture – hanno avuto case e scuole danneggiate o distrutte. Abbiamo piantato delle tende dove poter far lezione con gli alunni piccoli, mentre altri giovani venivano trasferiti in luoghi più sicuri, come la città, in collegi dove potessero continuare i loro studi. Si è rivelata la scelta giusta per tirarli fuori dallo shock. Tutti i marocchini hanno reagito bene, non abbiamo mai visto tanta solidarietà, soprattutto da parte delle generazioni ultime, che si sono caricati i beni primari sulle loro spalle arrivando nei villaggi inaccessibili. Con un gruppo di amici ho organizzato l’aiuto personalmente, ci siamo presi cura dei feriti di un villaggio; dopo che sono usciti dagli ospedali, accudivamo i bambini e anche i loro genitori, rimanendo con la famiglia tutto il tempo necessario al soddisfacimento dei loro bisogni. Ho acquistato libri da colorare e storie da leggere per i bambini rimasti senza un tetto. Volevamo consolarli, ma in realtà è successo il contrario quando ci hanno visti con le lacrime agli occhi: siamo stati consolati noi.

Lei ha viaggiato molto con i suoi libri, anche in Europa. Cosa può dire delle nostre periferie, dei suoi incontri e le possibilità offerte dalla Carovana? 
Spesso nelle periferie dei paesi europei si incontrano giovani che provengono da un contesto di immigrazione. Sono individui mai completamente integrati perché non esiste una buona strategia sociale: vengono emarginati o messi insieme in un ghetto. Il problema del razzismo esiste e persiste, nonostante si parli così tanto di diritti umani. Isolare le persone e lasciarle in balia di loro stesse non può che favorire la nascita di problemi. Nel mio paese o in qualsiasi altro luogo, dico sempre: vuoi un buon cittadino? Allora crea l’opportunità affinché lo sia, considerandolo innanzitutto come tale e trattandolo come gli altri, senza stigmatizzazioni. Si può essere orgogliosi della propria cultura e storia, promuovendo uno scambio alla pari.

Il suo progetto culturale può riuscire a colmare anche le lacune nella lettura e nell’istruzione delle ragazze nei Paesi dove il fondamentalismo ostacola il loro libero apprendimento? 
In tutte le religioni possiamo trovare elementi di fondamentalismo: scorrendo il corso della storia, questo è molto evidente. Ma con il dialogo, la lettura, lo scambio culturale tra nazionalità diverse e religioni differenti, si possono sradicare tutti i comportamenti che veicolano odio e intolleranza. Da parte mia, continuo a organizzare carovane di libri, laboratori di scrittura per i giovani, incontri con le donne, dibattiti su argomenti di attualità. Ritengo di essere riuscita, negli anni, ad accendere una scintilla di curiosità e conoscenza in chi ha partecipato. Naturalmente, l’istruzione è al primo posto e, in molti paesi, le ragazze non sono incoraggiate ad andare a scuola, anche se ultimamente sono più numerose le studentesse che riescono ad accedervi. Dobbiamo investire in programmi educativi e sociali, in quelle relazioni che generano fiducia e accettazione dell’altro.


(il manifesto, 25 ottobre 2023)

di Andrea Carloni


Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 è uscita per Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie, ma ha continuato, e continua, a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba e, recentemente, il Premio Strega Poesia).

Vorrei cominciare dallinizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: Lamore da vecchia. Cosa può raccontarci di questa scelta?

Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno “dato il la”. Unica eccezione, Madre d’inverno, che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.


    e perdono chiedo ai fidanzati.

    Tutti dimenticati?

    No, i loro nomi ho ancora dentro bene

    incisi, ma come per nebbia

    confondo un poco rami e mani, colore

    delle foglie e dei capelli.

    Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?


Lei dichiara per questo libro una matrice fortemente autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?

Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando di così tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.


    I am an orphan! I am an orphan!

    Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.

    Come io non lo sono

    come voi non lo siete

    come tutti

    lo siamo.


In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea, fa pensare allavvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?

Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. «Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia», scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.


    Finito, già finito

    lincantato tempo

    dei rami in fiore?

    Come quando

    sul più bello del ricamo

    finisce il filo da ricamo?


Lironia e soprattutto lautoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense, Io non sono morta io sono nata. Quanto aiuta lalleggerimento?

È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo quattro anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: «ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!». Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con «Cari genitori», per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!


    Nessuno si meraviglia

    se uno alla sua età

    muore.

    Nessuno.

    Ma lei sì!

    Lei che sarei io, sì.

    Sì, lei si meraviglierà,

    io mi meraviglierò.

    Tanto


Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione Poesie sulla poesia: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?

Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a ottant’anni poesie che avevo letto a trenta, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.


   Dipenderà dalla poesia e dalla rosa

    una tra i fogli laltra tra le foglie

    se di qualche millimetro col tempo

    cresceranno, o se resteranno lì inerti

    sul foglio e nel vaso, senza una nuova

    parola, senza una foglia nuova.


(La Balena Bianca, 24 ottobre 2023)

di Laboratorio Ebraico Antirazzista


LƏA, Laboratorio Ebraico Antirazzista, formato da giovani ebree ed ebrei italiani, esprime angoscia e orrore per la situazione in Palestina e Israele. In questo momento di dolore e di devastazione, in cui piangiamo persone amate sia israeliane sia palestinesi, chiediamo la fine del massacro a Gaza e il rilascio immediato degli ostaggi israeliani.

Siamo ancora sgomenti per la carneficina di Hamas del 7 ottobre: niente può giustificare la strage e la cattura di civili inermi. A questo lutto si è aggiunto l’orrore per la violenta campagna militare israeliana volta a punire collettivamente il popolo palestinese. A Gaza, oltre due milioni di persone sono assediate e bombardate dall’aviazione israeliana, private di cibo, acqua, corrente elettrica e corridoi umanitari. Un crimine di guerra non ne giustifica un altro. Chiediamo al governo italiano e all’Unione Europea di attivarsi con urgenza per porre fine allo spargimento di sangue e per raggiungere un cessate il fuoco.

Qui in Europa, denunciamo la stretta sulla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Rifiutiamo la retorica dello scontro di civiltà che sta già causando una drammatica recrudescenza di episodi di islamofobia e antisemitismo. Invece di mobilitare alcune minoranze contro altre, è necessario affrontare con serietà ogni forma di razzismo, e ragionare su altre forme di coesistenza oltre lo stato nazione.

La Nakba, i decenni di occupazione militare della Cisgiordania, le politiche di colonizzazione, apartheid e l’embargo su Gaza sono tra i fattori che impediscono di immaginare un futuro insieme. Come lo sono gli attacchi indiscriminati sui civili. La comunità internazionale è complice delle ripetute violazioni del diritto internazionale da parte di Israele e della distruzione fisica e morale di tutte le comunità che vivono nella regione. Chi è sul campo ha bisogno dell’aiuto e della pressione di tutti gli attori coinvolti per fare spazio a una soluzione politica che comporti la fine dell’occupazione e la dignità per tutti i popoli. Non c’è altra via d’uscita.


(Radio Onda d’Urto, www.radiondadurto.org, 21 ottobre 2023)

di Luca Celada


Migliaia di persone si sono riversate sul National Mall, la spianata centrale di Washington, in quella che è stata definita la maggiore manifestazione ebraica pro-Palestina. La folla ha scandito slogan come “il colore del nostro sangue è lo stesso” e “il nostro dolore non è la vostra arma”. La protesta di mercoledì è stata fra le più esplicite nel formulare una posizione netta contro la guerra, vicino cuore del potere americano che in questi giorni, come ha scritto il Washington Post, sta dando fondo ai magazzini per rimpinguare gli arsenali di Tel Aviv.

Nella folla rumorosa c’erano molti giovani, tatuaggi e piercing accanto a rabbini in scialli da preghiera e shofar – il rituale corno di montone per chiamare a raccolta i fedeli. C’erano anche pacifisti laici e palestinesi con la kefiah ma la manifestazione è stata indetta dalla rete attivista dei pacifisti ebrei che negli ultimi anni di regressione autoritaria e xenofoba ha messo efficacemente in relazione l’involuzione totalitaria ed antisemita del XX secolo con l’attuale recrudescenza della neodestra. Formazioni come Never Again Action sono state fra le più efficaci nell’articolare una critica progressista attraverso azioni di protesta e disubbidienza civile (per esempio in centri di detenzione per immigrati). Ora è da questa rete che proviene l’opposizione più incisiva ai crimini di guerra nel braciere mediorientale con manifestazioni in molte città americane.

A Washington, già lunedì scorso la protesta aveva preso la forma di un picchetto davanti alla Casa Bianca per invocare un immediato cessate il fuoco, con l’arresto di trenta persone. L’altroieri, 450 persone, appartenenti a Jewish Voice for Peace e If Not Now, fra cui 25 rabbini, hanno occupato la rotonda del Cannon building, l’edificio degli uffici dei deputati per fermare “i genocidi attualmente in corso”. I manifestanti indossavano maglie nere recanti la scritta “not in our name” (non nel nostro nome) e sul retro “ebrei per l’immediato cessate il fuoco”. Più di 300 di loro sono stati arrestati dalla Capitol Police e almeno tre imputati di resistenza e pubblico ufficiale.

«In decenni di attivismo ebraico antisionista, non ho mai visto nulla di simile», ha affermato Naomi Klein. «È nostra responsabilità impedire che i nostri genitori e nonni, sorelle fratelli e cugini, sacrifichino le loro anime alla ricerca di sanguinaria vendetta. Non lasceremo che il nostro timore dell’antisemitismo venga manipolato per ostruire l’unica possibile soluzione politica: fine all’occupazione e al colonialismo, libertà ed autodeterminazione». «Vorrei che il popolo palestinese potesse vederci qui ora», ha detto dallo stesso palco Rashida Tlaib, unica parlamentare palestinese del Congresso. «Che sapessero che non tutti gli americani li vogliono vedere morti».

Secondo dati raccolti dall’osservatorio Crowd Counting Consortium, dall’inizio delle ostilità iniziate con la strage perpetrata da Hamas, in America si sono registrate più di 400 manifestazioni, veglie e presidi. 270 circa sono state di sostegno ad Israele e 200 a favore dei palestinesi. Le proteste ebree di Washington hanno espresso piuttosto le voci di un crescente movimento pacifista ed equidistante, che invoca l’immediata cessazione delle ostilità, nell’interesse di tutte le vittime. Un contrappunto ai proclami di alleanza e sostegno militare ribaditi da Joe Biden anche “al fronte”. Parallelamente alle dichiarazioni di supporto incondizionato, il presidente sembra invero perseguire una politica di “contenimento” delle azioni israeliane o quantomeno favorire i corridoi umanitari a Gaza (Biden ha nuovamente parlato alla nazione ieri notte, troppo tardi per queste pagine).

Il panorama americano si è comunque rivelato più variegato di quello che sarebbe stato lecito prevedere. La destra è compattamente schierata con Netanyahu, alcuni più cinicamente di altri. Il governatore della Florida De Santis ha organizzato charter di “evacuazione” da Tel Aviv, pubblicizzandoli in spot elettorali. Il dissenso contro la guerra ha invece raggiunto anche le istituzioni politiche, con l’annuncio ieri di Josh Paul, un alto dirigente dell’ufficio che sovrintende alla cessione di materiale bellico all’estero, che ha lasciato il Dipartimento di stato, motivando le dimissioni con «l’inaccettabile politica che mira ad ampliare e velocizzare la fornitura di armi letali ad Israele». Al Senato, infine, Bernie Sanders ha bloccato l’approvazione di un decreto repubblicano che avrebbe proibito l’invio di aiuti umanitaria Gaza in quanto “potenziale ausilio ad Hamas.” «A Gaza vi sono attualmente centinaia di migliaia di persone innocenti che hanno perso casa, cibo, acqua e carburante», ha ricordato Sanders. «Metà di loro sono bambini».


(il manifesto, 20 ottobre 2023)

di Monica Lanfranco


Forse dal prossimo anno non sarà più possibile associarsi solo tra donne in Italia. O meglio: sarà possibile creare associazioni di sole donne, ma senza avere l’accesso al registro come Aps, cioè come associazione di promozione sociale, perdendo dunque la possibilità di partecipare alla stragrande maggioranza dei bandi nazionali, che per lo più richiedono questa caratteristica per essere valutati, accolti e finanziati.

Non è un fatto meramente tecnico, ma bensì assume un connotato politico: non essere iscritte al registro delle associazioni come Aps, e quindi poter essere inserite solo nel registro ‘minore’ degli altri enti del Terzo settore, comporta logicamente una netta diminuzione della possibilità di accesso alle risorse economiche pubbliche e private. Se alla già complessa partecipazione ai bandi aggiungi anche un declassamento il risultato è, garantito, meno futuro, più povertà e rischio di smettere di esistere.

Prendiamo per esempio alcune storiche associazioni di donne, come Arcilesbica, nata ufficialmente nel 1996, che associa donne (lesbiche e non); o Udi (Unione donne italiane), una tra le prime e più autorevoli associazioni di donne in Italia, che nasce nel 1944 e che per decenni stamperà la prima testata femminista, Noidonne. O il Cif, di stampo cattolico, anch’esso nato nel 1944. Dall’inizio dell’autunno 2023 hanno iniziato ad arrivare le prime lettere da parte delle Regioni dove sono registrate le associazioni di donne, notificando che senza un cambio statutario le associazioni non potranno più essere accolte nel Runts, il registro nazionale del Terzo settore. In Emilia Romagna, a meno che non vengano apportate modifiche agli Statuti, l’Udi di Ferrara, di Modena e di Ravenna (accusate di discriminare gli uomini non ammettendoli all’associazione), saranno cancellate dal Runts, così come la stesa Arcilesbica, che ha a Bologna la sede nazionale.

Le tre Udi emiliano romagnole, di concerto con Udi Nazionale, hanno posto un quesito interpretativo del decreto 117/2017 al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e chiesto alla Regione Emilia-Romagna di sospendere la scadenza del 21 ottobre in attesa della risposta del Ministero. Lo stesso ha fatto Arcilesbica, che chiarisce: «Arcilesbica è un’associazione di donne perché il lesbismo è un’esperienza di donne. L’accesso all’associazione è aperto, perché tutte le donne senza discriminazione possono associarsi. Anche con la nuova legge dovrebbe essere riconosciuto che il tesseramento femminile è coerente con le finalità perseguite da un’associazione lesbica, cioè lottare contro la violenza ai danni delle donne, e ciò è di interesse generale. Per queste ragioni abbiamo chiesto l’iscrizione come APS».

Le attiviste sostengono che «una interpretazione discutibile della legge da parte degli uffici regionali del Runts è alla base di questa situazione. In ballo c’è la sopravvivenza stessa dell’associazionismo femminista separatista, quello che in ottant’anni di storia, per quel che concerne l’Udi, ha lavorato strenuamente nottetempo nel solco dell’articolo 3 della Costituzione per una sua piena applicazione. Vani fino a ora i tentativi informali di spiegare che l’affiliazione esclusivamente femminile non è un dettaglio per le associazioni femminili, né una svista statutaria a cui porre con solerzia rimedio con una banale revisione di editing, ma il presupposto stesso della nostra costituzione, la ragione intrinseca e sostanziale della natura del nostro agire politico, che elaboriamo e mettiamo in atto con l’obiettivo di colmare lo svantaggio sociale che, da sempre, grava sulle donne a causa della normalizzazione secolare della disparità di potere fra i sessi definita dal Patriarcato e che solo le lotte dell’ultimo secolo delle donne hanno rilevato, tematizzato e denunciato creando mobilitazione attorno alla costruzione di una cultura e una società diversa da quella che conosciamo con le donne protagoniste».

Alla vigilia dello scadere dell’ingiunzione pena la cancellazione è stata presentata una interrogazione parlamentare del Pd sulla vicenda alle ministre Roccella e Calderone per fare in modo che l’attività di UDI e delle altre associazioni di donne non sia messa a rischio da provvedimenti che, interpretando il principio antidiscriminatorio in modo esclusivamente formale, finiscono per negare la pari dignità sociale di queste realtà associative.


(Il Fatto Quotidiano Blog, 20 ottobre 2023)

di Chiara Manetti


Pochi giorni prima degli attacchi di Hamas contro Israele e dei bombardamenti israeliani su Gaza, centinaia di donne vestite di bianco, impugnando ombrelli nivei, si sono riunite attorno al Museo della Tolleranza di Gerusalemme. «Vogliamo la pace», hanno cantato le manifestanti. «Smettetela di uccidere i nostri figli». Tutte quelle donne, israeliane e palestinesi, hanno chiesto la fine di un conflitto che attanaglia i loro popoli da decenni, un conflitto che è tornato a riempire le prime pagine dei giornali tre giorni dopo quella manifestazione pacifista organizzata da Women Wage Peace e Women of the Sun.

Il 7 ottobre 2023, il movimento israeliano Women Wage Peace ha pubblicato l’immagine di una colomba ferita e macchiata di sangue, con un messaggio: «Mattinata orribile. I nostri cuori sono con i residenti del centro e del sud di Israele e con le nostre forze armate. Osserviamo lo svolgersi degli eventi con il fiato sospeso. State al sicuro. Mantenete i vostri cari al sicuro».

Due giorni dopo, il gruppo pacifista femminista ha denunciato il rapimento da parte del gruppo militante palestinese di Vivian Silver, una delle più note attiviste per la pace tra israeliani e palestinesi e fondatrice di Women Wage Peace. Suo figlio, Yonatan Ziegen, ha sentito la madre al telefono quando il kibbutz Be’eri dove viveva, una piccola comunità proprio sul confine con Gaza, è stato attaccato da Hamas. «Ti voglio bene, mamma. Non ho parole. Sono con te». «Ti sento», gli ha risposto lei su whatsapp. E poi, più nulla. Da allora, non si hanno notizie di Silver.

Nei giorni successivi, il movimento ha scritto: «Ogni madre, ebrea e araba, dà alla luce i suoi figli per vederli crescere e fiorire e non per seppellirli. Ecco perché, anche oggi, nel dolore e nella sensazione che la fede nella pace sia crollata, tendiamo una mano pacifica alle madri di Gaza e della Cisgiordania». Il 13 ottobre, intervistata dal quotidiano israeliano Haaretz, la co-direttrice del movimento palestinese Women of The Sun Layla Sheikh ha spiegato: «Vogliamo essere oneste e aperte, ma dobbiamo anche stare attente perché ci sono persone nella società palestinese che non approvano ciò che facciamo (il nostro lavoro femminista e la nostra partnership con Women Wage Peace). Ma come donne, come madri e come palestinesi, dobbiamo dire la nostra verità». La fondatrice del gruppo, Reem Hjajara, ha raccontato di avere «una figlia, sedici anni, e due ragazzi, diciotto e quattordici. Voglio che vivano una vita migliore della mia. Non penso solo a mia figlia, ma a tutta la comunità».

Entrambe le organizzazioni, spiega su The Conversation Siobhan Byrne, direttrice dell’Institute for Intersectionality Studies della University of Alberta, sono nate dopo la guerra di Gaza nel 2014, che durò 50 giorni e causò la morte di oltre 2.200 palestinesi. Women Wage Peace è stata fondata proprio quell’anno, e oggi conta circa 45.000 membri israeliani: è il più grande movimento pacifista con sede in Israele. Women of the Sun, con sede a Betlemme, è più recente: è nata nel luglio 2021 dalle palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana. I due gruppi fanno parte dell’Alliance for Middle East Peace, una coalizione di oltre cento organizzazioni non governative che lavorano per promuovere la riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

L’iniziativa di Women Wage Peace e Women of the Sun non è l’unica a chiedere una risoluzione del conflitto: il movimento Women in Black in Israele risale al 1988, in risposta all’inizio della prima Intifada palestinese, e chiede ancora oggi “Stop all’occupazione” con delle veglie settimanali in tutto il Paese. Qualche anno dopo, nel 1993, donne palestinesi e israeliane hanno dato vita a Jerusalem Link, uno dei programmi congiunti per le donne più famosi e riconosciuti a livello internazionale, nato in seguito al processo di pace di Oslo. Il gruppo riunì le donne israeliane rappresentate da Bat Shalom (Figlia della Pace) e le donne palestinesi coinvolte nel Markaz al- Quds la l-Nissah (Centro per le Donne di Gerusalemme).

Lo sforzo collettivo di queste donne non arretra. In occasione della visita in Israele di Joe Biden, Women Wage Peace ha diffuso un messaggio rivolto al presidente degli Stati Uniti: «La imploriamo di aiutarci a prevenire un’ulteriore escalation e altri danni a vite innocenti da entrambe le parti, di garantire il rilascio immediato e sicuro di tutti gli ostaggi e di aiutarci a risolvere il conflitto piuttosto che a gestirlo». E infine: «Ascolti la preghiera delle madri: porti loro la pace».


(La Svolta, 19 ottobre 2023)

di Jennifer Guerra


La situazione a Gaza si aggrava ogni minuto di più, a maggior ragione dopo l’esplosione all’ospedale Al Ahli Arabi che avrebbe causato almeno 500 morti. Al momento è difficile fare previsioni su cosa succederà nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore, ma una cosa è chiara: siamo di fronte a una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente e, come sempre accade, saranno i soggetti più vulnerabili a pagare il prezzo più alto.

Nei giorni scorsi l’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, aveva lanciato l’allarme sulle conseguenze che subiranno le donne nel conflitto, specialmente quelle incinte. Attualmente in tutto il territorio palestinese ci sono 123mila donne in attesa di un figlio, di cui 13.649 partoriranno entro la fine del mese. 50mila donne incinte vivono nella striscia di Gaza e per loro spostarsi costituirebbe un grande rischio per la salute. La situazione sanitaria è fuori controllo: già prima dell’escalation a Gaza mancava il 48% del materiale sanitario essenziale, fra cui 20 apparecchi indispensabili per le cure materne e neonatali. L’OMS al 13 ottobre aveva conteggiato almeno 37 attacchi a strutture ospedaliere e ambulanze che hanno causato la morte di medici e infermieri, oltre che di pazienti, a cui va aggiunto il devastante attacco del 17 ottobre.

Il rischio però non è soltanto di tipo sanitario. L’aumento dei tassi della violenza di genere è infatti una delle conseguenze più comuni nei momenti di guerra e di crisi umanitaria. In Palestina la situazione è da sempre problematica: nel 2019, quasi il 60% delle donne sposate aveva subìto una qualche forma di violenza di genere. I dati sono incompleti, anche a causa della reticenza delle donne ad affrontare l’argomento o a riconoscere come tali gli episodi di abuso. È stato ampiamente dimostrato come la violenza di genere si esacerbi nei luoghi di conflitto, problema a cui si aggiungono la mancanza di cure mediche, di assistenza psicologica o di luoghi sicuri in cui rifugiarsi. Già durante la crisi del 2021, durante gli sgomberi del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est da parte dei coloni israeliani, l’UNFPA aveva registrato un’escalation della violenza di genere, che viene considerato «uno dei problemi più seri e complessi che le donne palestinesi devono affrontare». La violenza aumenta nei confronti delle donne con disabilità, molte delle quali sono rimaste ferite durante gli scontri e i bombardamenti.

In previsione di un’eventuale invasione di terra, il rischio è anche quello degli stupri di guerra. In generale, è diffusa l’idea che a confronto con altri conflitti, i soldati israeliani non abbiano mai fatto un utilizzo sistemico dello stupro come arma di guerra, anche se sono diversi gli episodi di violenze sessuali registrati nel corso degli anni, specie in situazioni di vulnerabilità come gli interrogatori, le visite in carcere o ai checkpoint. Come fa però notare il ricercatore Revital Madar, specializzato nel conflitto israelo-palestinese, la nozione di “stupro di guerra” è inadeguata nel contesto del regime di sopraffazione che Israele ha inflitto sulla Palestina a partire dal 1948. Qualsiasi dato è poi viziato dalla ancor maggiore difficoltà delle vittime a rivolgersi ai centri antiviolenza, dall’enorme sproporzione di potere tra israeliani e palestinesi e dalla mancanza di un quadro normativo di riferimento, che di fatto crea un clima di impunità. Tuttavia, se l’invasione di terra dovesse concretizzarsi, ci troveremmo di fronte a uno scenario inedito e dalle conseguenze imprevedibili.

La violenza di genere nei luoghi di conflitto è stata condannata dalla risoluzione dell’ONU 1820 del 2008, la prima a riconoscere in maniera esplicita la portata del fenomeno. Nella risoluzione non solo si condanna lo stupro perpetrato da soldati contro civili come tattica di guerra (considerato un crimine contro l’umanità), ma si sottolinea come i conflitti aumentino i tassi di violenza, annullino i meccanismi di protezione delle vittime e favoriscano la proliferazione di luoghi ad alto rischio, come i campi profughi. In questo momento gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla protezione dei civili, sullo stop ai bombardamenti indiscriminati da parte di Israele e sull’invio di aiuti umanitari, per aiutare la popolazione e ancor più in particolare i soggetti fragili, come le donne, i bambini e gli anziani.

La situazione di Gaza purtroppo non è nuova, ma per molti aspetti è unica nel suo genere, perché oltre al conflitto attuale, già subiva le conseguenze dell’occupazione decennale di Israele, in una situazione di estrema deprivazione materiale che colpisce in primo luogo le donne, le bambine e le ragazze. Nel libro del 1974 Contro la nostra volontà, la femminista Susan Brownmiller riconduceva lo stupro di guerra alla progressiva sparizione delle donne dalla scena pubblica.

Escluso dalle decisioni politiche e militari, nascosto alla vista altrui, il corpo delle donne diventa un terreno contro cui è possibile fare qualunque cosa senza subire alcuna conseguenza. In altre parole, è l’invisibilizzazione delle donne che favorisce il dilagare della violenza nei loro confronti. E le donne che vivono a Gaza e nel West Bank ne vivono una duplice: in quanto donne e in quanto palestinesi.


(fanpage.it, 18 ottobre 2023)

di Giansandro Merli


«Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere nella mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito fallirei nella comprensione di un quadro più completo». Judith Butler ha un tono pacato e la voce bassa, la potenza del messaggio è nelle parole e nei gesti. Siamo all’università di Bari dove sta per ricevere, prima in Italia, il dottorato honoris causa in Gender Studies.

Nella cerimonia la filosofa statunitense, che tra i tanti libri ha pubblicato La forza della non violenza. Un vincolo etico-politico, parlerà di «immaginazione oltre la paura e la distruzione». Una lectio magistralis che non fa sconti a nessuno: dal governo italiano al regime russo, fino alla chiesa cattolica, c’è un fronte globale che ha trasformato il «gender» da strumento di analisi critica e liberazione in un «fantasma» attorno al quale catalizzare le principali paure del mondo contemporaneo. Con noi discute della situazione in Medio Oriente.

Quando un evento crea uno choc tale da rendere evidente che ci sarà un prima e un dopo – l’11 settembre 2001, l’invasione russa dell’Ucraina o il recente attacco di Hamas – pare che ognuno sia chiamato a schierarsi da una parte o dall’altra. La ricostruzione di storia e contesto è giudicata un’inutilità o perfino un tradimento. Questa sorta di presentismo è un dovere o un pericolo?

Dobbiamo condannare pubblicamente la violenza contro gli israeliani avvenuta il 7 ottobre e perpetrata da Hamas. Ma dobbiamo anche chiederci se è tutto ciò che va condannato. Siamo sconvolti che bambini, anziani e civili indifesi siano stati uccisi. Ma siamo stati sconvolti anche nei decenni in cui Israele ha bombardato case, scuole e ospedali a Gaza? Sappiamo che Israele dice: sono scudi umani, usati per proteggere installazioni militari. Ma abbiamo i numeri dei bambini morti a Gaza. Sono migliaia. Abbiamo visto persone uccise e case distrutte dai bombardamenti.

Dobbiamo chiederci perché la nostra indignazione è riservata ai civili israeliani. Io sono ebrea e quando gli ebrei vengono ammazzati il mio cuore si spezza. Quando sento che questo è stato il più grave attacco a qualsiasi gruppo di ebrei dalla seconda guerra mondiale sono sconvolta. Non si può dubitare del mio dolore. Ma se dovessi rimanere dentro la mia indignazione di ebrea senza vedere la devastazione che Gaza ha subito restringerei la mia visione e fallirei nella comprensione del quadro completo.

Se non vogliamo più assistere a una simile violenza dobbiamo chiederci cosa c’è bisogno di fare per eliminarla per sempre. La risposta non è lo sterminio degli abitanti di Gaza o la loro espulsione in Egitto, come pensano alcuni leader di Israele. La risposta è liberare i palestinesi dall’occupazione e trovare una forma di coabitazione politica che permetta alle persone, a tutte le persone, di vivere con uguaglianza, libertà e giustizia. Solo una soluzione di democrazia radicale può mettere fine alla violenza.

Tracciarne la storia è un esercizio teorico o serve a trovare quella soluzione?

Dobbiamo imparare la storia di Gaza. Quando è stata costruita? Chi è stato messo lì contro la sua volontà? Dove viveva prima? Cosa sappiamo della loro espulsione e dell’occupazione? E poi: come è stata formata Hamas? Quando? Sappiamo quanti palestinesi la sostengono? Conosciamo le differenze tra l’ala politica e quella militare di Hamas? Questa non è teoria, è storia, è sociologia. È politica.

Dobbiamo conoscere tutta la vicenda, da entrambi i lati, inclusa la colonizzazione degli israeliani su quelle terre e l’espropriazione dei palestinesi mentre gli ebrei cercavano un rifugio. La conoscenza di questa storia è necessaria per avere una visione sufficientemente ampia da portare a una pace definitiva.

Cosa significa l’attacco di Hamas, con quel tipo di violenza e di progetto politico, per i movimenti della sinistra che nel mondo sostengono la causa palestinese?

La sinistra deve condannare le tattiche di Hamas. Non le difenderò mai. Ma mi interessa capire come sono arrivati lì. Condanna e comprensione storica non sono in contraddizione. Bisogna capire non per scagionarli ma per trovare un modo di superarli.

In generale i movimenti di sinistra che sostengono i palestinesi dovrebbero insistere sulla lotta non violenta. Un problema è che anche chi tra noi che appoggia il movimento per «boicottaggio, disinvestimento e sanzioni» (Bds, ndr) è chiamato terrorista.

La violenza degli oppressi è uguale a quella degli oppressori?

No, ma entrambe sono sbagliate. È chiaro che è diverso assoggettare i popoli o ribellarsi. Per esempio il New York Times definisce Hamas un’organizzazione terroristica. Loro invece si vedono coinvolti nella lotta armata contro un’occupazione. Lo Stato di Israele si sente impegnato in una legittima autodifesa. Possiamo chiederci se quell’autodifesa a volte opera come un veicolo per il furto della terra o l’imprigionamento di civili palestinesi che non costituiscono una minaccia per nessuno? Accettiamo che Hamas è coinvolta in una lotta armata come altre, come in Sud Africa per esempio? Accettiamo che Israele opera solo per autodifesa o è anche un potere militare aggressivo che cerca di mantenere i palestinesi in un assoggettamento permanente? Dobbiamo interrogarci su questi modi di descrivere la violenza.

Sono domande importanti. Spero sia possibile discuterne pubblicamente per capire meglio la situazione. Ho paura che reagiamo troppo velocemente o accettiamo il linguaggio dei media senza una comprensione critica sull’origine di quel linguaggio.

Nella rappresentazione che quel linguaggio produce, difendere Israele significa difendere la democrazia occidentale contro i barbari. È d’accordo?

No. Non ci sono dubbi che la violenza di Hamas sia orribile, ma le richieste dei palestinesi di libertà e giustizia sono un’altra cosa. È estremamente importante e legittimo il desiderio di vivere in una democrazia, con diritti politici. Non credo sia d’aiuto chiamare quelle persone «animali» o «barbari». Serve solo a darne una caricatura essenzialista e razzista.

E non credo che Israele rappresenti la migliore versione di democrazia. È uno Stato basato su un’occupazione violenta. Su espulsioni violente. Ha spogliato persone dei loro diritti per produrre la sua democrazia. Cosa significa democrazia basata sulla negazione dei diritti? Che è una democrazia per alcuni e non per tutti. Che ai non cittadini rimane una disuguaglianza radicale.

Non è la versione di democrazia che voglio difendere. Ho grandi speranze nella democrazia e spero di vederla nella regione. Ma non credo sia già successo.

Quando scoppia la guerra tutto il resto passa in secondo piano. Non è il tempo del femminismo o il femminismo può giocare un ruolo anche in un simile momento?

Il movimento femminista contro guerra, violenza statale e lotta armata è estremamente importante. Lo abbiamo visto nei Balcani, in Turchia, Sudafrica o America Latina, dove ci sono movimenti enormi per la democrazia e contro la violenza. Ni Una Menos o le lotte indigene non sono coinvolte nella lotta armata, ma in mobilitazioni di massa che si battono per estendere la democrazia in tutta la popolazione. Nella ex Jugoslavia le «donne in nero» erano contro la violenza, tutta la violenza, serba o croata.

Abbiamo molto da imparare dai movimenti femministi perché hanno riflettuto per decenni sulla violenza a ogni livello, venga essa da Stato, polizia o famiglia.

La non violenza è possibile durante una guerra?

No, ma non è una ragione per rinunciare ad affermarla. A volte affermiamo l’impossibile. Qualcuna deve farlo. Altrimenti diventiamo tutti guerrieri, accettiamo la realpolitik. È possibile che le persone ti prendano per pazza. Pensino che sei naif o idealista. Lasciamole pensare quello che vogliono.


(All’intervista ha collaborato Roberta Martino)


(il manifesto, 17 ottobre 2023)

di Nello Scavo


Giornalista, scrittrice, docente universitaria negli Usa, palestinese con cittadinanza italiana e israeliana, marito ebreo e parenti cristiani. «Per me un futuro di pace non è qualcosa di utopico».


«Mi rifiuto di permettere che la barbarie di Hamas cancelli la nostra umanità, ma anche la nostra razionalità, in questo momento in cui abbiamo più che mai bisogno di governare le nostre emozioni. Per me un futuro di pace non è qualcosa di utopico». Rula Jebreal, giornalista, scrittrice, docente universitaria negli Usa, risponde partendo dal suo Dna: palestinese con cittadinanza israeliana e italiana. «La mia famiglia è composta da ebrei, musulmani e cristiani. Mio marito è un ebreo americano di origine tedesca, la cui famiglia è fuggita dalle persecuzioni. Allo stesso tempo, membri della mia famiglia palestinese, che vivono in Israele, lavorano come operatori sanitari nei corridoi degli ospedali asfissiati dai lamenti dei feriti. Siamo tutti in lutto, sentiamo sulla pelle il senso di ingiustizia, il dolore delle madri, dei padri, di tutte le famiglie delle vittime. È una sensazione straziante».

Come guarda a questa prima settimana di conflitto?

Si tratta di una immane barbarie, ma è proprio per l’orrore di questa ferocia che abbiamo il dovere di rimanere ancorati alla legalità, alla moralità e ai nostri valori. Le guerre hanno delle regole. La vendetta non è una strategia. Per lottare contro il terrorismo dobbiamo non sacrificare la nostra umanità e non venir meno alla nostra moralità. Dobbiamo invece rompere il ciclo di odio e violenza, ascoltare le famiglie delle vittime israeliane che ci dicono: “Uccidere bambini palestinesi a Gaza non è giustizia, vogliamo la pace”. Non esiste una soluzione militare a questo conflitto. Perfino i vertici del’Idf (le forze di difesa israeliane) e del Mossad (il servizio segreto di Tel Aviv) riconoscono che non garantirà pace e sicurezza.

Si poteva prevenire?

Se la libertà palestinese è negata, è inevitabile che la disperazione di un popolo venga presa in ostaggio dal terrorismo. E se a quel terrorismo si risponde giustiziando interi quartieri di innocenti, vincono i terroristi.

Quali lezioni del passato non sono state apprese?

A seguito della prima intifada, altro episodio brutale che ha afflitto questa terra, è stato grazie al coraggio e alla lungimiranza di leader visionari come Rabin che accostavano strategicamente la lotta al terrorismo ai negoziati di pace, da cui sono nati gli accordi di Oslo, nonostante l’intifada avesse causato oltre 5.000 morti. A causa del suo pensiero libero volto a disinnescare la carneficina reciproca tra popoli, è stato assassinato da un fanatico israeliano. Ma torniamo indietro di qualche anno, a quello della mia nascita.

Era il 1973. La guerra del Kippur.

Altro evento storico dove Israele ha sottovalutato i segnali premonitori di una strage. Fu un’altra tragedia indelebile nella memoria collettiva di questa terra martoriata, che però portò all’accordo di Camp David con l’Egitto di Sadat. Anche qui, la necessità del dialogo prende forma a strage compiuta, ma prende forma. E abbiamo la responsabilità storica di far sì che il dialogo non diventi una toppa a ferite che non si rimarginano, ma che si consolidi come unica alternativa a stragi e guerre infinite.

Ma si può lasciare che Hamas sopravviva a queste stragi?

Hamas va sconfitta non solo militarmente. Va sconfitta la sua ideologia, costruendo un percorso di ascolto delle voci razionali in campo, animate da un sentimento fondato sulla reciproca libertà, e sulla reciproca dignità. Le armi non possono e non devono sostituire un progetto politico. Bisogna cooperare con i moderati che pur riconoscendo Israele e continuando a collaborare per garantire la sicurezza degli israeliani, vivono senza diritti sotto dittatura militare.

Dove ha sbagliato Netanyahu?

La verità è che l’attuale governo israeliano di estrema destra aveva una sola strategia: prevenire la costituzione di uno stato palestinese. Questo ha creato e favorito gli estremisti in Israele e in Palestina, rafforzando Hamas che oggi sta distruggendo la speranza di un futuro di coesistenza e dobbiamo fare tutto il possibile per non cadere nella loro trappola.

Quale iniziativa dovrebbe prendere l’Occidente?

L’occidente ha l’obbligo di sostenerci perché i nostri destini sono interconnessi. La questione di Israele è direttamente conseguente all’identità stessa dell’Occidente, della “democrazia”, dei “diritti umani”, dello stato laico contro quello religioso. Soprattutto per il fatto che ciascuna delle nazioni europee si è costruita anche sulla violenza e sui traumi. Ora più che mai occorre isolare i fondamentalisti, sostenendo i moderati sia in Palestina che in Israele, che sono stati marginalizzati. Perché il fragore della guerra suona più forte del dialogo. Non dobbiamo permettere che questo clima detti la nostra agenda politica, che deve essere improntata alla salvaguardia della democrazia israeliana e al sostegno della nascita di uno stato democratico palestinese. Nessuno di noi è libero o sicuro finché non lo siamo tutti.


(Avvenire, 17 ottobre 2023)