di Jacopo Agostini


L’arte in fuga. Dopo l’invasione dell’Ucraina, parecchie migliaia di russi hanno lasciato il paese, tra questi numerosi intellettuali e artisti in cerca di un futuro sicuro.

Chi era già in possesso di un visto europeo è fuggito in Finlandia o altrove in Europa. Gli altri si sono diretti verso paesi come la Turchia, il Dubai, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Tagikistan, la Serbia, la Bulgaria, l’America Latina e la Thailandia. C’è anche chi ha trovato rifugio in Georgia e Armenia (due paesi che non richiedono il visto per i russi), nei Balcani e in Lettonia, dove le comunità russe sono particolarmente attive.

Chi è fuggito si pone molte domande sul futuro. Ne parliamo con alcuni artisti, alcuni dei quali per motivi di sicurezza mantengono l’anonimato. Valeria Lemeshevskaya, che si sta ricostruendo una vita nella capitale del Kirghizistan, è stata pittrice, ora è regista sperimentale, organizza cineclub, proiezioni di film e conferenze sul cinema a Biškek. Ha lasciato la Bielorussia – suo paese di origine – poco dopo l’inizio della rivoluzione delle ciabatte del 2020 per andare a studiare alla Saint Petersburg School of New Cinema. Gli eventi recenti l’hanno segnata nel profondo. «Ero a casa e mi nascondevo sotto il tavolo quando la porta è stata sfondata dalla polizia antisommossa, durante le manifestazioni di protesta scappavo dalle granate stordenti lanciate indiscriminatamente sulla folla e ho visto i miei amici uscire traumatizzati dalle carceri. Non appena è iniziata la guerra in Ucraina ho preso la decisione di andarmene. Sapevo che se fossi stata tagliata fuori dal mondo sarei precipitata in una profonda depressione» racconta.

L’esodo per molti giovani è stato anche un’emigrazione morale: ha rappresentato un atto di coraggio, di resistenza culturale e di dissenso nei confronti delle attuali politiche del governo. Davanti a questi pericoli ognuno ha dovuto scontrarsi con le proprie paure.

Lo ha postulato Kirill, fotografo e regista che si occupa di cinema sperimentale e documentaristico, secondo cui «L’azione libera dalla paura». Dopo che nel novembre 2021 il cosiddetto Archivio Saveliev è arrivato sul web mostrando filmati di torture e stupri di prigionieri nelle colonie russe, il terrore di trovarsi in un ambiente chiuso e sotto tortura lo ha travolto completamente. Per superare questa paura ha realizzato un breve lavoro sull’argomento. «L’atto e l’azione di una persona spinta dal bisogno di “creare” può davvero essere un’opportunità per cambiare sé stessi (solo se stessi, non gli altri, altrimenti cesserebbe di essere pura). Ciò che serve in questo caso è coraggio e precisione» racconta Kirill.

La paura di cui invece ci parla Vladimir (nome d’invenzione), attore e regista di teatro classico, riguarda la realtà della guerra e le conseguenze che ha avuto nel popolo russo.

Vladimir aveva paura di uscire a protestare e di essere in prima linea assieme ai compagni non addestrati, impreparati e spesso ignari del pericolo che li spetta. L’attore parla di concorsi di disegni per bambini con orpelli e fotografie militariste, di educatori che mettono i bambini in ginocchio a forma di lettera Z (simbolo militarista usato nella propaganda russa e dai civili russi come segno di sostegno all’invasione) e che scattano foto a sostegno di Putin e della guerra per poi pubblicarle online. Tutto questo mentre le tombe nei cimiteri stanno aumentando. Vladimir si è trasferito a Biškek dopo che la direzione del teatro per cui lavorava è stata licenziata per essersi opposta all’invasione in Ucraina. Lavora come insegnante di recitazione, attore e regista in un teatro classico da 700 posti, in un teatro più piccolo con una black box da circa 40 posti e collabora con artisti locali per creare performance, happening e masterclass, oltreché letture di drammi contemporanei contro la guerra.

Come fa notare ulia (anche questo è un nome fittizio), il filone principale della cultura russa è la sofferenza. Lo si può rintracciare da Dostoevskij all’arte moderna. Yulia è una DoP e una regista di film e di videoarte. Al momento si sta concentrando sui lungometraggi, in particolare sui film drammatici d’autore. Il suo stile risente delle influenze di Marina Abramović, Yoko Ono e Rebecca Horn, nelle sue opere lavora molto con il linguaggio del corpo.

«Per me fare arte in Russia significa dover attraversare il dolore. Non solo il dolore personale, ma anche quello del proprio popolo. Si tratta di cercare il punto più dolente e di esaltarlo. Quando si vive in Russia e si riflette sulla vita di un artista, si può capire il modo molto specifico in cui i russi si sentono, pensano e affrontano le ferite dell’anima» ci racconta.

Molti russi non vogliono «permettere che una guerra venga condotta in loro nome», per questo abbandonano il paese, incrementando così la fuga di cervelli e la perdita di capitale umano che da diversi anni contraddistingue la Russia. «Non appena ho lasciato il territorio russo ho trovato la forza di fare volontariato. Ho insegnato in una scuola di animazione online per bambini provenienti dalla Bielorussia, Russia e Ucraina che si trovavano senza un’istruzione. Mi ha aiutato ad affrontare l’orrore di ciò che stava accadendo, ho smesso di sentirmi impotente e lasciando la Russia mi sono liberata della mia paura» racconta Valeria.

Nonostante l’esodo verso l’estero, gli emigrati russi mantengono un forte legame con la madrepatria. Il sogno di Yulia è tornare nella Russia libera. È convinta che dopo la caduta del regime totalitario, l’arte e la cultura di chi è sopravvissuto alla guerra costituirà terreno fertile per la futura generazione. «Spero un giorno di poter costruire un nuovo paese, come è avvenuto nel ’900 dopo il crollo dell’Unione Sovietica» ci spiega l’artista.

Ma com’è la vita nei nuovi paesi? Esistono anche qui la censura e la violazione della libertà di parola. «Pure in Kirghizistan sussiste lo stesso problema con le autorità e la polizia. Recentemente alcuni attivisti russi sono stati arrestati per un’azione a sostegno dell’Ucraina – ammette Kirill – Tuttavia il totalitarismo provoca resistenza, energia e confronto. Per noi è importante alimentare questo senso di resistenza». Essere un artista in questi paesi solitamente significa vivere dentro un dilemma morale e trovare dei compromessi: mantenere la distanza dalle controversie politiche e non criticare apertamente il governo mentre si esprimono le proprie idee.

Yulia, emigrata in Georgia, ha trovato un paese tradizionale e conservatore dove la Chiesa ortodossa ha una grande influenza. E come nel suo paese d’origine anche qui esistono problemi di omofobia e corruzione. Nonostante queste somiglianze, «gli artisti possono esporre le loro opere in pubblico in qualsiasi modo, possono proiettare i loro film nei cinema ed esporre le loro opere in qualsiasi galleria senza temere la persecuzione politica» ci spiega l’artista.

«Fare arte in Russia, Bielorussia e Kirghizistan significa non avere alcun sostegno da parte dello Stato, doversi confrontare costantemente con la svalutazione di ciò che si sta facendo e avere paura di parlare apertamente di argomenti che ci stanno a cuore» racconta Valeria. Chi fa trasparire le proprie idee, i propri sentimenti e l’orrore della guerra nelle proprie opere è oscurato e preso di mira dall’apparato di controllo sociale. «Sono a Biškek da quasi un anno e vedo molti problemi simili con la Russia e la Bielorussia, tra cui la censura, la libertà di parola, l’ecologia, la corruzione, etc. Ma il fatto di trovarmi nel territorio di un Paese che non è un aggressore in un conflitto militare mi rassicura» sottolinea la regista. L’arte fuori dalla guerra e contro la guerra.


(Alias – Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Francesca Borrelli


Morta a ottantasette anni la scrittrice e critica letteraria inglese, aveva vinto il Booker Prize nel 1990 con «Possessione». Ripubblichiamo l’intervista che Francesca Borrelli le fece in occasione del festival di Mantova il 3 settembre del 2003, incontrando l’autrice, notoriamente schiva, a Torino


La scrittrice britannica A.S. Byatt, che vinse il Booker Prize nel 1990 col suo romanzo «Possessione» (pubblicato in Italia da Einaudi, come gli altri suoi romanzi), è morta all’età di 87 anni. Lo ha annunciato il suo editore Penguin Random House. Nata nella città inglese di Sheffield nel 1936 e formatasi all’Università di Cambridge, Byatt ha insegnato alla Central School of Art and Design e allo University College di Londra tra il 1972 e il 1984. Fra i suoi libri (in Italia con Einaudi), «Possessione» – da cui nel 2002 è stato tratto un film con Gwyneth Paltrow -, «Tre storie fantastiche», «Angeli e insetti», «La torre di Babele», «Le storie di Matisse», «La vergine nel giardino», «Natura morta», «Una donna che fischia», «La Cosa nella foresta», «Il libro dei bambini», «Ragnarök», «Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris».

Forse non è governato da un principio razionale il progetto di pubblicare in Italia i libri che compongono la tetralogia ideata da Antonia Byatt in un ordine diverso da quello da lei predisposto. Infatti, la prima volta che ci imbattemmo nella protagonista, Frederica Potter, buona parte delle sue esperienze formative le stavano già alle spalle, e tutto ignoravamo dei suoi trascorsi giovanili, che occupavano circa ottocento pagine di due libri precedenti, ma solo successivamente tradotti. Tuttavia, non c’è dubbio che dopo l’incredibile successo di Possessione, la scommessa di attirare il lettore nella nuova, immane trama che la Byatt andava tessendo si giocasse tutta nella Torre di Babele, il romanzo tradotto per primo, nonostante formasse il terzo quadro della tetralogia: perché è tra quelle pagine che i personaggi acquistano una vivacità e un carattere tali da indurre il desiderio di non abbandonarli più. Nel volume inaugurale, la Vergine nel giardino, dedicato al figlio perduto in un incidente stradale, la scrittura di Antonia Byatt era ancora affaticata dalla sua vocazione saggistica, da una erudizione insufficientemente mascherata, dal bagaglio mai deposto delle troppe reminiscenze letterarie che affollavano la pagina, dove il gusto dell’intreccio e la vitalità dei personaggi guadagnavano a fatica il respiro di una autentica felicità narrativa. Ora che il secondo movimento del quartetto ci viene restituito con il titolo Natura morta (sempre grazie alla appassionata traduzione di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi) la consolazione di potere proiettare sulle figure ancora indistinte che lo popolano la luce di cui saranno investiti nel libro seguente – La Torre di Babele, appunto – ci aiuta a motivare la nostra partecipazione alle loro vicende.

Della famiglia Potter, riguardata dalla proverbiale vocazione inglese a sdrammatizzare le avversità della vita, tra le pagine di Natura morta seguiamo soprattutto i tre figli: la materna Stephanie, sposata al pastore di scarsa fede Daniel Orton, è senz’altro la più attraente dei tre, sebbene anche su di lei Antonia Byatt proietti una cerebralità che, tanto per dirne una, la fa «odiare alla maniera di George Eliot» e amare con le riserve di una vocazione intellettuale sacrificata alle incombenze familiari. Il fratello Marcus è un ragazzo disturbato, ma non tanto da staccarsi narrativamente dallo sfondo, se non grazie a quegli impacci ben descritti, di cui cade vittima a fronte di richieste emotivamente troppo cariche. Ma la vera protagonista, qui come in tutta la tetralogia, è Frederica, adolescente per lo più ritratta nell’ambiente del college dove studia, e dove consuma le sue prime, scriteriate avventure sessuali. Se non fosse per una irredimibile povertà di inventiva, Frederica si darebbe alla tessitura di romanzi. Il suo passato l’ha vista calcare le scene del teatro, il presente è ancora filtrato da una ambizione sufficiente a giustificarle l’epiteto di «squalo intellettuale», e il suo futuro reclama uno status sociale per il quale ci vuole un marito: lo individuerà nel bel personaggio di Nigel Reiver, un filibustiere dal quale sarà impegnata a separarsi violentemente nel corso del libro successivo. Studenti e professori di Cambridge ruotano sullo sfondo a animare debolmente il contesto, tra loro il solo dotato di un profilo originale è Raphael Faber, ebreo tedesco umorale e tendenzialmente misantropo le cui barriere difensive Frederica cercherà invano di sfondare. Così va la vita, o quel che di essa filtra tra le mura di un college, mentre la Storia si prepara di lì a poco a registrare la crisi di Suez e l’invasione dell’Ungheria. Finché il capitolo finale del libro, di gran lunga il migliore, spezzerà l’incantesimo investendo anche gli interni della famiglia Potter di una assurda tragedia.

Antonia Byatt è una scrittrice notoriamente schiva, è restia alle interviste e paventa i bagni di folla. Perciò decide di dosare gli impegni e chiede di andarla a incontrare a Torino, dove ieri era di passaggio prima di approdare al Festival di Mantova, che oggi inaugura con lei i suoi appuntamenti letterari.

Proviamo a sorvolare rapidamente lintera architettura di questa sua tetralogia, cominciata venticinque anni fa e appena conclusa con il romanzo titolato The whistling woman (La donna che fischia), uscito questa estate in Inghilterra. Come si è assestato il suo progetto narrativo via via che prendeva corpo, e qual è il bilancio di questa sua fatica distribuita in circa 2000 pagine?

Fin dall’inizio avevo intenzione di scrivere un lungo libro, al quale mi sarei dedicata a piccole dosi, nei ritagli di tempo che mi lasciavano i miei figli, allora molto piccoli. Lo immaginavo come un romanzo destinato a scorrere lungo la mia vita come un fiume, costruito tramite una architettura aperta. E pensavo sarebbe stato un libro sulla contemporaneità. Infatti, il prologo della Vergine nel giardino è ambientato nel `68, ma poi la narrazione torna indietro ai primi anni `50. Quando ho terminato l’ultimo romanzo avevamo passato la soglia del 2000, perciò questa tetralogia ha finito per diventare «storica»: ecco la differenza più importante rispetto al progetto iniziale. La stampa inglese insiste nel domandarsi come mai i nostri scrittori non si occupino del presente. Io avevo intenzione di farlo, ma tutto sommato l’avere composto un grande romanzo storico ora mi sembra un fatto positivo. Un altro elemento stabilito dall’inizio riguarda il contrasto tra scienza e religione. Fin da subito sapevo che alla fine dell’ultimo romanzo avrei inserito una conferenza sui rapporti tra mente e corpo, sollevando domande che oggi sono di estrema attualità. Tutto questo mi è costato un grandissimo lavoro, ho studiato molto, ho scambiato una corrispondenza interessante con alcuni scienziati attenti agli aspetti metaforici del linguaggio e preoccupati dal dibattito sulle analogie tra mente e computer. Avrei preferito che questa tetralogia fosse ancora più lunga, perché – come diceva Tolkien – qualcosa finisce sempre col restare fuori. Quando Henry James cominciò a scrivere Le ali della colomba, disse che nel dare inizio a un romanzo si ha sempre l’ambizione di catturare il mondo intero. A dire il vero, io volevo raccontare solo frammenti di realtà, e forse per questo ho inframezzato la scrittura di alcuni racconti; perché implicano una prospettiva parziale, che permette, tra l’altro, di dedicarsi con più gusto alla scrittura.

Il lettore che segue i libri organizzati intorno alla vita di Frederica Potter si accorge con sollievo che le tentazioni saggistiche dellautrice cedono via via alla sua attitudine narrativa. Fin qui, tra le pagine di Natura morta, Frederica impara di più dalla letteratura che dalla vita. Ma già nella Torre di Babele il rapporto si capovolge, e finalmente le emozioni guadagnano spazio. È daccordo?

Sono d’accordo, più si va avanti, più le passioni prendono il sopravvento sulle idee mutuate dalla letteratura. Frederica risente di una educazione limitante, com’è stata quella della mia generazione. Anch’io mi sono formata prevalentemente sulla letteratura, e quasi solo sugli autori inglesi. Imparavamo interi poemi a memoria, e questo ci insegnava a coltivare l’amore delle parole, mentre ora i giovani preferiscono occuparsi di teoria della critica. Io nasco come saggista, sono vissuta in una enorme soggezione per i nostri grandi scrittori, e poi col tempo ho perso interesse per la teoria letteraria, mentre è cresciuta in me la narratrice. Ora mi sento pienamente realizzata come autrice di romanzi.

Tra le pagine di Natura morta i personaggi si presentano ancora come figure indistinte, debolmente caratterizzate. Mi domando se è voluto, ossia se essendo ancora molto giovani devono scontare lincertezza di una identità non ancora acquista; o se la sua abilità descrittiva sia cresciuta nel tempo, come il frutto di un apprendistato al romanzo maturato via via.

Una parte del progetto prevedeva, in effetti, di accordare il carattere dei personaggi alla loro età, ed è ovvio che la giovinezza comporti identità ancora sul vago. Certo, nella Torre di Babele gli stessi caratteri saranno precisati meglio, anche perché il libro è investito da una vena satirica e questo aiuta a definire i profili. Inoltre, la mia idea prevedeva di presentare gruppi di persone accomunate da uno stesso modo di parlare, dotate di un linguaggio condiviso, e anche questo elemento contribuisce a disegnare le fisonomie con più precisione. Ma c’è anche un diverso aspetto del mio progetto secondo cui Natura morta avrebbe dovuto essere il mio libro biologico, al centro del quale stanno il sesso, la nascita, la morte. Per descrivere tutto questo mi ero proposta di evitare l’uso di metafore, di figure retoriche. Volevo nominare le cose stesse così come si presentano alla percezione. Ma era una pretesa impossibile da realizzare, infatti non ci sono riuscita.

In effetti, specialmente Natura morta risente di una tentazione fenomenologica…

È vero, ma più ancora – dati i miei interessi scientifici – mi è stato maestro Wittgenstein, e soprattutto il poeta americano William Carlos Williams: nessuna idea se non nelle cose – diceva. Inoltre, io sono stata allevata nella letteratura inglese, le cui virtù stanno nella concretezza, nel creare cose piuttosto che astrazioni.

In molti dei suoi libri è evidente come lei si senta a casa non solo nella letteratura, ma anche nella pittura. In Natura morta la narrazione è intervallata da frequenti osservazioni su Van Gogh, nonché da brani delle sue lettere al fratello Theo. Dal suo racconto Zucchero abbiamo appreso che lei passò un lungo periodo di tempo a Amsterdam, mentre suo padre era ricoverato in ospedale, e nel tempo libero andava spesso al museo Van Gogh. Per questo il pittore olandese ha un ruolo protagonista nel suo libro?

No, c’è una ragione che riguarda la struttura del romanzo e poi ce n’è una istintuale; ma i ricordi autobiografici non c’entrano. L’aspetto istintuale sta nel fatto che quando cominciai a scrivere Natura morta vedevo questo romanzo colorato di viola scuro. Allora pensai che mi sarebbe stato necessario un colore complementare, non potevo andare avanti a scrivere un libro investito di una tonalità così buia. E mentre riflettevo sul colore di cui avevo bisogno, vidi davanti a me La sedia gialla di Van Gogh. Era proprio lui il pittore che faceva al mio caso, perché non cerca di connettere religiosamente la pittura ai concetti, va diritto alle cose come appaiono. Anch’io cerco di procedere così nel libro, volevo fosse un romanzo domestico, fatto di sedie, oggetti, interni di case, bambini, e volevo guardasse alla natura fattuale di quel che accade: come fa Van Gogh, e questa è la ragione strutturale per cui l’ho scelto.

Torniamo ai personaggi, e parliamo di due figure che si fanno strada lentamente, per poi acquistare una speciale vivacità narrativa: il pastore Daniel Orton, che piomberà nella tragedia dopo la morte di sua moglie Stephanie; e Nigel Reiver, il violento marito di Frederica. Non trova che siano tra i comprimari più interessanti?

In effetti ho la tendenza a creare personaggi maschili positivi. Fin dall’inizio della tetralogia intendevo dipingere Daniel Orton come un uomo buono. Non era ancora interessante nella Vergine nel giardino, ma lo diventa qui, in Natura morta, anche se la disperazione per la morte di Stephanie lo rende un cattivo padre. Se la caverà meglio nel libro successivo, La Torre di Babele, quando il suo nuovo lavoro consisterà nel prestare soccorso telefonico. Per un uomo provato come lui è più facile essere d’aiuto se le persone che glielo chiedono gli sono estranee. Quanto a Nigel Reiver, in un romanzo strettamente femminista dovrebbe essere un uomo del tutto negativo. Ma a me piace, ha una influenza positiva su Frederica, ha ragione di pretendere da lei più di quel che lei gli dà, la aiuta a trasformarsi in una persona responsabile, così come il figlio l’aveva trasformata nella madre in cui stentava a riconoscersi. E quando firmeranno il divorzio, tutto questo le impedirà di sentirsi una vittima. Il motivo per cui Frederica sceglie Nigel sta nel fatto che, diversamente dagli altri uomini con cui era andata a letto negli anni di Cambridge, lui ha una fisicità spontanea, è l’unico che ci sa fare col sesso. E lei, che è l’incarnazione del conflitto tra le ragioni del corpo e quelle della mente, fa lo sbaglio di pensare che risolverà i problemi del corpo… col corpo.

In non pochi passaggi la voce narrante irrompe nellintreccio. È un espediente usato da molti scrittori, ma soprattutto qui, in Natura morta, linterruzione arriva spesso in modo brusco, a esplicitare intenzioni poi abbandonate, o cambiamenti di idee dellautore. Tanto che viene da chiedersi non solo se lei intenda prendere le distanze dai suoi personaggi, o ricordare che siamo allinterno di una finzione, ma se lei desideri scoraggiare, almeno a tratti, ogni possibile meccanismo di identificazione…

Questa domanda implica una risposta sincera, che mi è particolarmente difficile dare. Perché quando ero una giovane narratrice quel che desideravo era proprio creare un incidente tecnico che comportasse nel lettore lo stesso shock di un incidente reale. Tra il momento in cui concepii questa idea e il tempo che mi ci volle a realizzarla, mio figlio venne investito per la strada e morì. Talvolta non riuscivo a scrivere affatto, ma quando ce la facevo la condizione era che ricordassi a me stessa di essere all’interno di un artificio. Anche il fatto di inventare un incidente capitato a uno dei miei personaggi, dal momento che sapevo cosa significava nella realtà, mi sembrava una impresa insormontabile. Così introdussi questa voce narrante, per tenere me stessa a distanza da quella disgrazia. Per scusarmi di avere scritto un libro e tenermelo lontano, attribuendolo a un altro narratore.

Cosa dobbiamo aspettarci dal romanzo conclusivo della tetralogia?

La protagonista, che è sempre Frederica, riuscirà a conciliare in sé la donna che si permette di fischiettare, che è capace di svolgere il suo ruolo di madre e che mette su una famiglia: a modo suo naturalmente, ossia in maniera un po’ improbabile. La volevo protagonista di una commedia di stampo shakespeariano, non di un dramma. Ora il mio editore francese è preoccupato, ha una idea molto elevata di Frederica e pensa che se una donna fischia questo la rende volgare. Crede che il titolo rimandi a qualcosa di comico, infatti ha ragione, è proprio così. E ci sarà un happy ending, per Frederica come per tutti i personaggi, salvo la figura di un religioso visionario al quale farò fare una fine tragica.


(Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Franca Fortunato


Se è vero che la guerra, con le dovute eccezioni, non ha un volto di donna, come scrive la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, è certo, invece, che la lotta e la resistenza ha il volto di tante donne. Donne libere e consapevoli, unite contro il dominio e la violenza degli uomini sul loro corpo. Sono (siamo) le figlie e le nipoti di Delia, la protagonista del film geniale di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Un domani che, grazie alle femministe, per noi donne è divenuto il nostro oggi, un tempo di libertà femminile ma non di libertà maschile per tutti quegli uomini, troppi, che non accettano di perdere il dominio e il controllo sul corpo e la vita delle donne. Da qui il loro odio verso le donne e la paura della libertà femminile che generano violenza, stupri, molestie fino al femminicidio. Loro sono gli eredi di Ivano, il marito di Delia, che, figlio degno di suo padre, sin dalla prima scena del film dà alla moglie, che lo saluta a letto, un sonoro ceffone in faccia perché si è svegliata tardi. Donne libere e consapevoli sono le afghane. È di loro che voglio parlare, dopo aver letto il libro Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani, tre giornaliste dell’“Avvenire” che raccolgono le lettere al giornale inviate da Kabul e le testimonianze e interviste a donne che, fuggite dopo il ritorno dei talebani, vivono in esilio. Tutte chiedono alla comunità internazionale, ai mass media e a tutte/i noi di non dimenticarle, di non lasciarle sole e di accogliere «quante/i fuggono dal Paese perché non possono più rimanere», come quelle/i fatti morire nel naufragio di Cutro. Si sentono “tradite”, in particolare dagli Stati Uniti. È per non dimenticarle che nasce il libro e io ne scrivo. Chi è fuggita parla con nostalgia del suo Paese dove sogna un giorno di tornare. Chi è rimasta parla con rabbia e indignazione dei divieti imposti dai talebani, ma non rinuncia ai sogni, alla volontà di vivere, di lottare e resistere. «Prima ci hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar e fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima riservate a noi. È proibito cantare. Ridere è un peccato. Non ci ammazzano tutte perché serviamo per partorire. Naturalmente figli maschi. Una donna se esce deve essere accompagnata da un maschio, mai da sola.» Ma loro sono donne resilienti. C’è chi, espulsa dall’università, continua a studiare online e insegna di nascosto alle altre ragazze. L’associazione di donne Rawa, col ritorno dei talebani, è tornata con le scuole segrete. «Insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a fare sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e fingere di stare leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi (sarta)». C’è chi con la figlia prepara in casa biscotti e torte di compleanno e le vende on line perché «c’è ancora chi festeggia, e chi viene festeggiato, nelle città. Di nascosto», e intanto sogna il giorno in cui avrà un suo negozio e «ci saranno negozi ovunque, donne ovunque che lavorano, libere». C’è chi sogna ancora di diventare pilota e chi «durante la notte, in segreto, continua a scrivere canzoni perché l’arte non può essere repressa e soffocata». Fuori «si vedono solo maschi», città senza donne. Dopo le manifestazioni contro i divieti, represse con la forza, le donne hanno fatto della casa un luogo di libertà, di lotta e di resistenza, e parlano. Altro che “stai zitta”. Per loro, c’è da credere, “C’è ancora un domani”. Non dimentichiamole.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 18 novembre 2023)

Rosella Prezzo, Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti. Moretti&Vitali, 2023. Cosa può accadere se cominciamo a pensarci come “comuni natali” invece di “comuni mortali”? Oggi, ripensare la nascita è più che mai urgente e necessario. L’autrice, in compagnia di Hannah Arendt e María Zambrano, ci invita a “ricominciare dall’inizio“, per ripensare la vita e il vivere comune. E per affrontare le derive tecnocratiche e la libertà individualista onnipotente del presente. In dialogo con l’autrice Annarosa Buttarelli e Laura Minguzzi.

Per acquistare online Trame di nascita:

https://www.bookdealer.it/goto/9788871869001/607

Marie Déhé è fotografa e artista visiva. Ed è madre. Vive a Parigi, e il suo ultimo progetto, Artists Mothers Working, riguarda la relazione tra pratica artistica e maternità oggi. Come riusciamo a farlo? Questo è un invito aperto a partecipare, prendere parola, porre domande, condividere materiale. Il risultato di questa ricerca collaborativa sarà un’installazione che integra materiale d’archivio e immagini contemporanee. In dialogo con Marie, Giorgia Basch. Introduce Marta Equi.

In Libreria ci sarà un display con materiali visivi e testuali raccolti dall’artista in questa ricerca.

di Andrea Engheben


Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida. Tutti, fidanzati, ex, padri, mariti, figli, potenzialmente, potremmo diventarlo. Anche il sottoscritto che scrive. Nessuno è escluso.


Ieri, 15 novembre, Vanity Fair ha pubblicato un articolo a firma di Valeria Fonte, divulgatrice e attivista contro le narrazioni misogine, dal titolo: Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida.

Nel testo, Fonte riporta alcune riflessioni scaturite da un colloquio che ha avuto con un femminicida che ha ucciso la compagna e ha scontato dodici anni di carcere, senza mezzi termini, com’è il suo stile, affermando che «Non conta solo l’azione. Conta la potenzialità dell’azione e la reazione sociale a quelle azioni. Gli uomini possono scegliere o non scegliere di compiere degli abusi, ma questo è paradossalmente irrilevante se nessuno educherà e rieducherà i maschi in ottica femminista. Lì si capisce che nessuno è assolto e che sì, tutti pensano come pensa un femminicida».

Come si può immaginare, l’articolo è stato accolto con entusiasmo da un lato e con un rifiuto netto dall’altro, in particolare dai lettori maschili che si sono esibiti in esempi di not all men” da manuale.

È una reazione istintiva e parlando da uomo ne comprendo bene anche le origini. A nessuno piace essere accusato di qualcosa su cui pensa non avere alcuna responsabilità, men che meno se si tratta di cose gravissime come violenze e femminicidi.

Mettersi sulla difensiva è quindi comprensibile, ma più ci si barrica dietro la propria presunta innocenza, più sale il dubbio che sia in difesa di un’enorme coda di paglia.

C’è chi punta tutto sulla logica, pretendendo dall’autrice di turno un trattato dettagliato sul perché mai “io che non ho mai fatto male a una mosca” dovrei ritenermi responsabile di tali violenze; e poi c’è chi invece la rigira sottomettendosi alla “palese superiorità” della donna, verso la quale mai potrebbe nutrire pensieri “da femminicida”.

I più, però, reagiscono con la cara e vecchia cattiveria da social, insultando, aggredendo e contraddicendo in poche parole la loro stessa tesi di non essere dei violenti.

Il punto è che ci possiamo arrabbiare quanto vogliamo, possiamo protestare fino a far cambiare i titoli, possiamo insultare e sbavare sulle tastiere, ma la verità non cambia: ha ragione Fonte, tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida. Tutti, fidanzati, ex, padri, mariti, figli, potenzialmente, potremmo diventarlo. Anche il sottoscritto che scrive, nessuno è escluso, ed è un’affermazione forte da pronunciare, lo so, e lo è ancora di più se per professione ci si occupa di femminismo tutti i giorni, ma forte è anche la consapevolezza di cui dovremmo finalmente farci carico.

Perché, parafrasando Faber, potremo dichiararci assolti quanto vogliamo, ma saremo sempre coinvolti. E c’è un motivo.

Fonte nel suo articolo lo spiega meglio di quanto potrei fare io, ma dopotutto in una società patriarcale come la nostra, dove moltissimi degli “step maschilisti” che precedono l’eventuale epilogo femminicida vengono non solo tollerati, ma a volte persino esaltati, l’eccezione sarebbe un uomo che pensa femminista (sì, uso il termine come contrario del “pensare da femminicida”, se la cosa vi turba chiedetevi il perché).

«Nessuno nasce cattivo, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce maschilista, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce con l’intenzione di ucciderci, nemmeno un femminicida. Non è genetica. È cultura».

Scrive Fonte, e ha ragione, purtroppo però sganciarsi da una cultura è un’operazione difficoltosa, ancor di più se si tratta di una cultura che (apparentemente) ci avvantaggia. La cultura dello stupro pone infatti noi uomini in una posizione di potere, al quale, senza scomodare Orwell, si capisce bene facciamo fatica a rinunciare.

Che poi tale potere sia mantenuto al costo di un’instabilità perenne, dove viviamo in costante competizione, dove non possiamo mai mostrarci fragili, esprimere emozioni e dove abbiamo sempre paura di perdere quello “status di maschio”, così difficile da guadagnare e facile da perdere, poco ci importa. Anche se dovrebbe importarci tantissimo, ma aver costruito una cultura che ci rende paurosi della paura stessa, mal si concilia con l’abbracciare sane preoccupazioni.

Un mezzo che abbiamo trovato per gestire questa fragilità sotterranea è mantenere il controllo su coloro che sono mediamente più soggette alla nostra forza fisica, che nei secoli si è poi diramata in altre forme di padronanza, da quella psicologica a quella economica, ma anche a forme ancora più subdole nella loro apparente natura innocua, come il corteggiamento cavalleresco che “tratta le donne come regine”, ma al contempo le conquista come terre da depredare; come la gelosia esaltata a prova d’amore; come romanticizzare il «tu sei mia» sussurrato nell’intimità, e molte altre piccole applicazioni di quello che altro non è che il patriarcato, il “pensare da femminicida”.

E quando le situazioni sfuggono al nostro controllo, quanto ci rendiamo conto di essere superflui, come scrive Fonte, di fronte a chi credevamo essere “nostro”, ecco che allora torniamo alle origini, a quella forma di controllo primordiale che si esercita attraverso la forza bruta, la violenza.

È vero, non tutti retrocederemo fino a tal punto, c’è chi si “fermerà” a uno schiaffone, chi urlerà e basta, chi seguirà e spierà l’ex, chi per vendicarsi la chiamerà “t***a” con gli amici, chi si limiterà solo a pensarle queste cose… Non tutti diventeremo femminicidi, ma le basi per diventarlo sono già tutte lì.

E quanti, a fronte di questi pensieri e comportamenti, sarebbero ancora, con onestà, pronti a urlare “not all men”?

Fonte si rivolge poi alle donne, consigliando loro modi per “cambiare la narrazione”, ma cosa possiamo fare invece noi uomini? Perché se è vero che la cultura in cui siamo immersi non ci aiuta ad affrancarci da questa forma mentis, è vero che la stragrande maggioranza di noi non vuole essere femminicida.

È un’ovvietà, ma se non facciamo nulla, limitandoci al silenzio (o a recriminare che le donne “osano accusarci”) il nostro desiderio pacifista rimarrà sempre vano.

Dobbiamo impegnarci, metterci in discussione, ascoltare le donne e ascoltarle davvero, sempre, senza pensare di non avere più nulla di tossico da decostruire. Imparare a non avere paura di perdere la nostra mascolinità e iniziare a fregarcene del giudizio degli altri uomini. Dobbiamo mollare la mania di controllo che ci assale, dobbiamo sperimentare la libertà fuori dagli stereotipi di genere ed evitare le persone che ci impongono di rispettarli, fossero anche donne. Dobbiamo trovare un modo di “essere uomini” che non sia ciò che ci è stato insegnato fino a ora.

Comprendo che siano suggerimenti che richiedono tempo e forza di volontà per essere messi in pratica, anche perché siamo soli in questo percorso, senza istituzioni che facciano davvero qualcosa, ma il primo passo per affrancarci da questi “pensieri da femminicida” è ammettere che li abbiamo. Sapere che potrei essere un femminicida, che la cultura mi ha fornito tutti gli strumenti in tal senso, non mi renderà tale, anzi: è l’unico modo per iniziare a essere davvero sicuro di non diventarlo mai.


(Roba da donne, rubrica “Uomini che amano le donne”, 16 novembre 2023)

di Letizia Rittatore Vonwiller


La sua opera I monologhi della vagina del 1996, rappresentata nei teatri di più di 140 Paesi e tradotta in 48 lingue, è stata la scintilla che l’ha spinta a promuovere progetti a favore delle donne e delle bambine abusate: come il V-Day, organizzazione mondiale che raccoglie fondi per associazioni in assistenza alle donne che subiscono violenza e One Billion Rising, manifestazioni nelle piazze di Paesi per ballare insieme in segno di protesta. Eve Ensler sarà in Italia dal 24 al 26 novembre per presentare il suo libro «Io sono un’esplosione». Le date: venerdì 24 novembre, ore 20.30, al Teatro Niccolini di Firenze. Domenica 26 novembre, ore 11, al Piccolo Teatro Grassi di Milano.


Ora V (Eve Ensler), settant’anni, drammaturga, una delle «150 donne che hanno cambiato il mondo» secondo Newsweek, ha dato alle stampe Io sono unesplosione. Una vita di lotta e di speranza (Il Saggiatore): racconto dei suoi quarantacinque anni di vita come artista e attivista attraverso poesie, lettere, saggi e appunti dai suoi diari che affrontano temi personali e sociali, come il suo tumore all’utero, le continue atrocità nei confronti delle donne in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Repubblica democratica del Congo, la crisi climatica, le storture del capitalismo.

Nelle pagine ricorre anche il dramma degli abusi paterni, esperienza raccontata nel libro Chiedimi scusa (2019), in cui ha deciso di scrivere lei le scuse che aveva bisogno di sentire da suo padre, anche dopo la sua morte, avvenuta trentuno anni prima. In questa intervista ci spiega il motivo che l’ha spinta ad assumere una lettera, la V, come nome e perché dovremmo impegnarci tutte per un cambiamento della cultura patriarcale dall’impronta distruttiva.

Perché ha deciso di chiamarsi V?

«Quando ho scritto Chiedimi scusa, le immaginarie scuse di mio padre per i suoi abusi nei miei confronti, ho scavato profondamente dentro me stessa. Ho avuto la sensazione che finalmente se ne fosse andato, ho anche capito che non nutrivo più rabbia perché quella persona non esisteva più. Così non ho più voluto il nome che mi aveva dato. V è una bella lettera nella mia vita, vagina, vittoria, e ha una forma straordinaria».

Che significato ha la parola esplosione del titolo del nuovo libro?

«L’ho presa da una mia poesia, ha tanti significati: riguarda l’arte, il teatro, il dire la verità, il fare i conti. Purtroppo è una parola che ha anche a che fare con quello che stiamo vivendo ora con la guerra in Israele e Palestina. Ovviamente il mio cuore è spezzato e soffre per tutte le persone che muoiono e che sono state prese in ostaggio e per quello che succede in Gaza. Il mio pensiero va anche alle palestinesi. Sono stata in West Bank, e ho visto una cultura patriarcale che ritiene la donna un oggetto di possesso, che si può ucciderla per privarla della libertà, per impedirle l’autodeterminazione. Bisogna guardare dentro questa violenza, affrontare la questione, aprire la mente a qualcosa di diverso. Insomma, fare i conti è molto difficile, ma è la sola cosa che si può fare».

In una poesia scrive che a trentanove anni è riuscita a dire a sua madre che suo padre laveva violentata. Lei non aveva sospettato niente?

«Non l’ho fatto prima perché pensavo che non mi avrebbe creduto, non trovavo le parole per dirlo. Mio padre mi adorava ma non era in grado di esprimere il suo amore. Quando mia madre ha cominciato a capire, lui ha iniziato a picchiarmi. La sua sensazione patriarcale di privilegio, combinata con l’alcol, è stata distruttiva e io ne sono stata la vittima».

Abusi di questo genere lasciano effetti psicologici devastanti, oggi può dire di esserne uscita?

«Penso di sì, il mio scopo era di non sentirmi più parte della narrativa di mio padre. E più lavoro su di me, più provo sensazioni di libertà. Ho avuto un marito e un compagno per quindici anni, ora sono sola, ma con tanti amici, ed è il mio periodo migliore. Finalmente ho guadagnato in autonomia e indipendenza. Ho imparato attraverso la terapia, la scrittura e l’attivismo, che potevo indirizzare i miei sentimenti intensi su progetti per determinare un cambiamento positivo per me e le altre persone e dare voce a quelle emozioni creando bellezza e spettacoli. L’empatia sarà il fulcro della nostra sopravvivenza».

Lei dice che la cultura patriarcale è alla base della violenza contro le donne. Come cambiarla?

«Finché gli uomini non capiscono che il paradigma patriarcale è pericoloso anche per loro, sarà difficile che succeda. Basta guardare la situazione di oggi, continuiamo a distruggere aria, acqua, mari e siamo incapaci di nutrire milioni di persone. Patriarcato e capitalismo hanno raggiunto il massimo della devastazione. Abbiamo bisogno disperatamente di un altro paradigma, diverso da quello maschile che è oppressione e dominazione. La nuova cultura dovrebbe iniziare con la fine del patriarcato e con la promozione di una cultura di cooperazione, in cui l’arte è centrale, che rispetta i sentimenti e che punta su uguaglianza, inclusione, diversità e ricchezza condivisa».

Ma si può modificare la mentalità maschile?

«Ho sempre cercato di dialogare con gli uomini per creare un nuovo mondo, oggi non lo faccio più. Però mi domando: come fa un uomo che ha madre, moglie e figlia che ama ad abusarne o a permettere che vengano maltrattate? Non lo capisco. L’unica ragione forse è che ribellarsi al metodo patriarcale della violenza vuol dire per lui rinunciare al potere e a una situazione di superiorità. L’unica cosa che possiamo fare noi donne è cercare di cambiare, oltre che il sistema di trattare noi stesse, anche il mondo in modo che diventi attraente».


(Corriere della Sera, 27esima ora, 16 novembre 2023)

di Alessandra Pigliaru


È un volume che raccoglie conversazioni con Lea Melandri, Luisa Muraro, Adriana Cavarero e saggi di Rossana Rossanda quello curato da Elvira Roncalli dal titolo Il futuro è aperto. Storia e prospettive del femminismo italiano (Prospero editore, pp. 312, euro 18). Il progetto editoriale, pubblicato in lingua inglese circa un anno fa da Roncalli, docente di filosofa negli Stati Uniti al Carroll College, Helena, Montana, viene ora reso disponibile anche qui. Comprensibile l’intenzione, più che legittima da parte di Roncalli che in altre sedi si è occupata di filosofia europea novecentesca e contemporanea, di apparecchiare un testo che sia di ragionamento e soprattutto stimolo. Ne risulta un libro utile nella sua agilità, per certi versi audace nella vicinanza di femministe e teoriche diverse fra loro che mostra tuttavia quanto sia stato articolato il movimento delle donne in Italia, la rivoluzione che è stata il femminismo e le sue pratiche politiche, i fili inscindibili che – anche chi femminista non è stata – ha intessuto.

Infine quanto, pur nella eterogeneità, si possa considerare viva e orientante nella sua parzialità la mappa che Il futuro è aperto contiene e intende consegnare, nelle mani di chi desideri leggere ciò che hanno avuto da dire quattro protagoniste, a diversi livelli, della discussione pubblica. Esplorare la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, prende consistenza intorno allo squasso diventato un taglio che in quegli anni si andava determinando, con pratiche politiche diverse a partire dalla esperienza, che non è parola neutra perché il femminismo, a meno che non sia una gabbia teorica, scintillante eppure disabitata, è una esperienza che anzitutto si incontra e che chi è arrivata prima di noi ha attraversato. Di questo danno conto anzitutto le tre intervistate che hanno fatto germinare scoperte e scelte in un momento storico tanto complesso quanto propizio: il movimento studentesco e il Sessantotto, la nascita dei primi collettivi, il separatismo, l’università, puntellando di ricerche, libri (utile prima delle interviste, raccolte singolarmente e in momenti diversi, è la breve nota bio-bibliografica dedicata a ciascuna), contaminazioni soprattutto nella relazione con altre donne.

Il volume si apre a partire dalla memoria del corpo con cui esordisce Melandri in risposta alla prima domanda di Roncalli; la differenza sessuale come verità soggettiva, intorno a cui si concentra Muraro; l’unicità incarnata materialmente relazionale, con cui risponde Cavarero. Nell’ultima parte del libro vengono ospitati tre scritti di Rossana Rossanda, i primi due sono del 1987, uno contenuto nella rivista Memoria e l’altro sul manifesto, così come il terzo che nel 1996 sempre su questo giornale. Sono tre testi che sigillano e illuminano il volume, e che intercettano qualche momento del rapporto di Rossana Rossanda con il femminismo, segnato da confronti inaggirabili.

Nel libro di Elvira Roncalli a essere presente è anche il suo sguardo, anche lei cioè – che insieme a Silvia Benso ha di recente curato il volume Contemporary Italian Women Philosophers: Stretching the Art of Thinking – dice come sia arrivata al femminismo. In molti passaggi viene convocata Carla Lonzi, per esempio. Ma la sensazione più intensa dopo averlo letto è che il futuro è stato davvero aperto. E lo può essere ancora.


(il manifesto, 15 novembre 2023)

di Anna Zafesova


«Non c’è nulla da commentare. Nulla da chiedere. Non ha senso cercare giustizia: la giustizia è stata rinchiusa in una cella di punizione per aver screditato il potere». Le parole dei figli e dei colleghi di Anna Politkovskaja sono piene di una amarezza gelida e disillusa, in un mondo ribaltato in cui loro e gli assassini della loro madre e collega godono della stessa libertà. Anzi, no: la Novaja Gazeta, giornale per il quale scriveva la giornalista uccisa nel 2006, è stato chiuso dalle autorità russe, e la versione della testata pubblicata in esilio, in Europa, è stata proclamata una “organizzazione indesiderata”, la collaborazione con la quale può costare a un cittadino russo il carcere. L’uomo che è stato condannato per il suo assassinio, Sergej Khadzhikurbanov, invece non solo è uscito dal carcere, ottenendo la grazia e tornando in libertà, ma ha anche ottenuto la promozione a comandante di battaglione, «una carriera da Rambo», commenta una fonte del giornale online russo Baza, che ha rivelato la notizia.

Non è il primo, e sicuramente non è l’ultimo dei criminali e assassini graziati dal Cremlino in cambio dell’arruolamento sul fronte ucraino. Soltanto pochi giorni fa aveva fatto scalpore la notizia della liberazione di Vladislav Kanjus, autore di uno dei femminicidi più efferati degli ultimi anni: aveva ricevuto diciassette anni per aver torturato per tre ore la sua ex fidanzata, prima di strangolarla, ma l’arruolamento nel gruppo Wagner gli ha permesso di «espiare la sua colpa con il sangue», come ha spiegato il portavoce della presidenza Dmitrij Peskov.

Sono mesi che città e villaggi russi vivono un’impennata di violenza per mano dei criminali liberati dal carcere e mandati a uccidere ucraini: dopo sei mesi, se sopravvivono in trincea, tornano liberi, ottengono la grazia e ricominciano una nuova vita con tutti gli onori militari. Ma il caso di Khadzhikurbanov è speciale, e lui non è un delinquente comune: è stato condannato a vent’anni per aver organizzato uno degli omicidi politici più clamorosi, quello di Anna Politkovskaja. La giornalista aveva denunciato i crimini dei militari russi in Cecenia, ed era stata uccisa a sangue freddo sotto casa sua, a Mosca, nel giorno del compleanno del presidente russo. Stava per consegnare alla redazione un articolo sulle torture e gli abusi compiuti in Cecenia dal suo leader Ramzán Kadýrov. Per molti, la sua morte, il 7 ottobre 2006, ha segnato un punto di non ritorno nell’instaurazione della dittatura putiniana. E in Russia la grazia viene concessa da una sola persona, dal presidente.

Diciassette anni dopo la morte di Politkovskaya, il suo Paese ha messo a tacere o costretto all’esilio praticamente tutti i giornalisti liberi, mentre invece ha bisogno di “Rambo” per una nuova guerra ancora più sanguinosa. «Mentre il regime condanna a venticinque anni di carcere per le idee, grazia gli assassini che servono allo Stato», scrivono Ilja e Vera Politkovskaja, che denunciano una «grazia che non testimonia l’espiazione e il pentimento di un assassino, bensì un atto mostruoso di ingiustizia e abuso, una profanazione della memoria di una persona uccisa per aver fatto il proprio lavoro». Per riuscire a condannare Khadzhikurbanov e i suoi complici, ci sono voluti anni di processi chiusi, cancellati e poi riaperti, di appelli e revisioni, di pressioni dell’opinione pubblica internazionale e di coraggiose inchieste giornalistiche dei colleghi di Politkovskaja, nella consapevolezza che gli uomini sul banco degli imputati erano soltanto gli esecutori materiali di un omicidio che aveva mandanti altolocati rimasti sconosciuti. Per graziarlo, è bastato farlo uscire dalla prigione e inviarlo al fronte, dove si sarebbe mostrato talmente efficiente da venire promosso, e aver firmato, secondo il suo avvocato, un contratto per rimanere a combattere anche da uomo libero.

Una storia che avrebbe potuto uscire dalla penna della stessa Politkovskaja, che già vent’anni fa aveva raccontato la guerra in Cecenia come prova generale di quella che oggi devasta l’Ucraina: stessa crudeltà, stesse torture dei civili e bombardamenti indiscriminati, stessi soldati gettati nel tritacarne con indifferenza da generali senza pietà. Khadzhikurbanov avrebbe dovuto uscire dalla prigione soltanto nel 2034: come ex membro dei corpi speciali, ed ex poliziotto della squadra anti-criminalità organizzata (già licenziato e incarcerato per collusione con bande criminali), era stato assoldato per organizzare la logistica dell’omicidio di Politkovskaja, anche se non ha mai ammesso la sua colpevolezza. Il suo complice ceceno Lom-Alí Gaitukaev è morto in carcere, il killer Rustam Makhmudov sta scontando l’ergastolo, i suoi due fratelli sono stati condannati rispettivamente a dodici e quattordici anni. O almeno è quello che si sa ufficialmente: potrebbero anche loro essere in procinto di “espiare con il sangue” e di tornare liberi. Come scrivono i familiari e i colleghi della giornalista uccisa, liberi «di fare quello che sono abituati a fare, umiliando le vittime i loro parenti e amici, i testimoni e i giudici, la legge e lo Stato, talmente debole da dover chiedere loro soccorso e dare loro clemenza».


(La Stampa, 15 novembre 2023)

di Elettra Raffaela Melucci


Federmeccanica, Assistal, Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil promuovono, su proposta della Commissione Nazionale per le Pari Opportunità (organismo paritetico della categoria), il progetto Generiamo cultura, finalizzato al contrasto della violenza di genere e della prevenzione delle molestie nei luoghi di lavoro del settore metalmeccanico. Le aziende, che aderiscono a Generiamo cultura – tra cui Fincantieri, ABB, Aero Avio, Leonardo S.p.A., Engie Italia S.p.A e molte altre sparse nel territorio nazionale – intendono avviare sul tema un percorso di evoluzione culturale indispensabile per abbattere gli stereotipi e proiettare l’immagine della donna verso una dimensione di maggiore libertà, dignità e affermazione di sé. Ne parla in questa intervista per Il diario del lavoro Michela Spera della Fiom-Cgil, promotrice del progetto.


Qual è il contesto di partenza?

Ci abbiamo lavorato molto e questo progetto inaugura un nuovo percorso. All’inizio dal territorio c’era “cautela”, sia tra le strutture sindacali che le strutture territoriali che le aziende. È chiaro che affrontare in azienda un tema con questi contenuti preoccupa chiunque ed è giusto che sia così, perché denota serietà, anche perché nessuno pensa di avere gli strumenti per poter fare una cosa di questo genere su una platea di lavoratori e lavoratrici. Quindi abbiamo riscontrato preoccupazione e un po’ di cautela. Oggi vediamo che in parte alcuni stanno già iniziando ad avviare il programma, mentre altri ancora stanno a vedere come andrà altrove. Questo non per insensibilità, ma perché è difficile gestire una cosa del genere in un settore produttivo come quello metalmeccanico.

Il settore metalmeccanico include un ampio spettro di lavorazioni. Qual è la percentuale di donne impiegate nel settore?

Si aggira intorno al 20%, ma la nostra idea è che su questo argomento della violenza di genere e delle molestie bisogna lavorare in particolare sugli uomini.

Qual è il percorso che vi ha portato alla realizzazione di questo progetto?

Nel 2021 abbiamo fatto il contratto dove abbiamo introdotto una serie di norme e tutele per le donne vittime di violenze, una serie di impegni da parte delle aziende a tutela delle lavoratrici vittime di violenza. L’iniziativa di oggi, quindi, nasce su un terreno che è stato in parte già affrontato attraverso l’esperienza per noi più alta, che è il rinnovo del contratto nazionale. C’è la Commissione Nazionale per le pari opportunità – composta da Federmeccanica, Assistal, Fim-Fiom-Uilm e rappresentanti delle associazioni territoriali, delle aziende e delle organizzazioni sindacali – che esiste da molti anni ma viene attivata dopo il contratto del 2016, e con il contratto del 2021 si introducono queste norme. Il contratto assegna alla Commissione il compito di lavorare alla prevenzione di forme di molestie sessuali nei luoghi di lavoro, anche attraverso ricerche sulla diffusione e le caratteristiche del fenomeno. A tal fine si promuovono inoltre iniziative di sensibilizzazione finalizzata allo sviluppo della cultura del rispetto della dignità della donna e su questo sono state fatte molte cose dal 2021 ad oggi. La stessa cosa vale per le commissioni territoriali. In più, il contratto prevede, in un capitolo specifico, delle azioni per la prevenzione di molestie e violenze nei luoghi di lavoro allo scopo di perseguire l’obiettivo di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nell’ambiente di lavoro quale luogo in cui ogni azione contraria deve essere considerata inaccettabile. Le aziende sono tenute ad adottare la dichiarazione sottoscritta da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 25 gennaio 2016 al fine di promuovere comportamenti consoni, favorire relazioni interpersonali improntate al rispetto della correttezza reciproca, e si attiveranno per sensibilizzare i lavoratori e le lavoratrici sul tema e migliorare il livello di consapevolezza con iniziative formative e informative mirate anche sulla base dell’indicazione elaborata dalla Commissione Nazionale per le pari opportunità nell’ambito della propria attività di promozione. Il nostro contratto, quindi, ha tanti elementi di tutela e si rivolge a tutta la platea di lavoratori e lavoratrici. La seconda parte, invece, contiene forme di tutela per le donne vittime di violenza, tra cui l’estensione della banca ore solidale, tre mesi di permessi retribuiti (che si sommano ai tre mesi dell’aspettativa già previsti dall’Inps con la legge del 2005, che riconosce a tutte a tutte le lavoratrici vittime di violenza il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al percorso di protezione). Inoltre, le donne vittime di violenza hanno anche diritto alla trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo parziale o comunque a forme di flessibilità oraria nel momento in cui sono in questo percorso di tutela. E poi, dove è possibile, perché le aziende hanno più di una sede, le donne hanno diritto a chiedere il trasferimento in un’altra sede lavorativa.

Generiamo Cultura. In cosa consiste questo progetto?

Come Fim, Fiom e Uilm abbiamo mandato una lettera a tutte le strutture territoriali, sindacali e datoriali di Federmeccanica e Assistal, contenente le indicazioni per l’organizzazione di iniziative formative e informative nelle aziende contro la violenza di genere finalizzata allo sviluppo della cultura, del rispetto della dignità della donna. Le aziende sono chiamate a organizzare sul tema in oggetto nel mese di novembre un evento finalizzato di sensibilizzazione e formativo sul tema, e promuoviamo una campagna nazionale proprio su questo. La durata di ciascuna iniziativa, in orario di lavoro, è di un’ora e mezza-due. La commissione ha messo a disposizione di ogni struttura delle indicazioni e del materiale, ma siamo rispettosi del fatto che le aziende e le RSU decideranno in autonomia con quali modalità e con quali contenuti, anche nel rapporto con le istituzioni locali, con i centri antiviolenza, con gli esperti aziendali. Inoltre, per queste iniziative possono essere usate le ore di formazione obbligatoria. Destinatari sono lavoratori e lavoratrici che devono essere messi in condizione di partecipare e quindi utilizzare sia la presenza che il collegamento, o farlo su più turni. Le aziende della Commissione – che sono Fincantieri, ABB, Aero Avio, Sicme, Alstom e Schneider – da subito si sono dichiarate disponibili all’iniziativa. Sono state quindi le singole aziende a costruire gli eventi, nei contenuti, nelle date e nelle modalità che hanno ritenuto opportuno.

Quali sono gli strumenti di contrasto alla violenza di genere che avete messo a disposizione delle aziende?

In particolare per le piccole e medie aziende, ma non solo, abbiamo messo a disposizione del materiale proprio per aiutarle nell’organizzazione, come i tre video che abbiamo realizzato all’Università La Sapienza di Roma l’anno scorso. In ogni video c’è l’intervento di una figura che offre un contributo che potrà essere utilizzato a seconda del contesto aziendale; quello di Patrizia Romito, professoressa associata presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Trieste, che ragiona sul ruolo fondamentale che i contratti nazionali rivestono nell’affrontare questi temi, come messaggio che si dà all’intera popolazione che lavora, uomini e donne, dando valore a questa sensibilizzazione e questa tutela delle donne maltrattate. C’è poi l’intervento del Direttore Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, Francesco Messina, che ha spiegato quali potevano essere le tutele che le donne possono attivare prima di arrivare a una denuncia. Il terzo, infine, è quello di Antonella Veltri, ricercatrice Cnr e Presidente di D.i.RE, la rete nazionale dei centri antiviolenza, che spiega cosa sono i centri antiviolenza e quale la loro esperienza, ragionando anche sul fatto che non è scontato che le donne denuncino e bisogna quindi capire le loro ragioni. Abbiamo realizzato un video sul consenso, con delle frasi iconiche pronunciate dai nostri segretari generali Michele De Palma, Rocco Palombella e Roberto Benaglia, oltre che i componenti e le componenti della commissione, e abbiamo preparato un piccolo glossario, prendendo le definizioni europee dei termini sulla violenza da quella economica a quella di genere. Infine, ci sono i flyer della rete DiRE che illustrano “i nove cuori”, i nove segnali di quando una relazione diventa violenta. Ovviamente abbiamo cercato di coprire i vari i vari aspetti che potevano essere affrontati in ogni singola realtà.

Voi siete quindi la bussola attraverso la quale le aziende possono orientarsi nell’organizzazione di queste giornate.

Le aziende stanno organizzando molte iniziative in connessione anche con i territori – le università, le scuole, i centri antiviolenza, le case rifugio, associazioni del terzo settore, le consigliere di parità – chiamando a intervenire numerosi profili esperti in materia, tra cui anche autorità cittadine. Se si riesce a organizzare eventi strutturati il territorio comincerà a parlarne, trascinando anche altre aziende, e si favorisce in questo modo l’apertura di una discussione. Gli eventi si stanno praticamente moltiplicando.

Nelle indicazioni ai territori per l’organizzazione di queste iniziative si precisa di non limitarsi al solo 25 novembre per parlare del tema. Non sarebbe più efficace un programma che sia più capillare su tutto l’anno?

Noi abbiamo indicato il 25 novembre perché bisogna anche fare i conti con i tempi della normale vita aziendale. Già il fatto di essere partiti con questo impegno sul mese di novembre è stato un segnale importante, poi sicuramente si creeranno altre condizioni per proseguire. Abbiamo detto subito che non è necessario programmare iniziative solo nel mese di novembre, per cui altre verranno messe in campo e se il progetto avrà continuità lo vedremo nei fatti concreti. Quindi nella pratica abbiamo bisogno di capire se siamo efficaci o meno e dai segnali che abbiamo credo lo saremo. Da questo dipende la continuità. Noi abbiamo dato degli strumenti, ma il mondo metalmeccanico è un mondo vivo fatto di rappresentanze sindacali e delle imprese e sono convinta che avrà gambe proprie e si amplierà oltre quello che noi oggi possiamo vedere. Al di là delle spettacolarizzazioni del governo, ad esempio su Caivano, c’è un impegno della società civile sul tema e quindi ci sarà anche una sensibilità del mondo del lavoro che lo fa non solo come denuncia o come solidarietà, ma come azione concreta. Gli strumenti adesso ci sono per poterlo fare. È chiaro che bisogna punire il crimine e punire è quello che fa la politica, quando la violenza è già avvenuta, il problema è prevenirla. Quante martiri ancora dobbiamo avere? Per quel che ci riguarda noi non abbiamo compiti pedagogici come può avere la scuola, sicuramente però dal punto di vista della educazione civica tanto possiamo fare.

Si insiste molto su come le donne debbano difendersi dalle molestie e dalla violenza. Quali sono invece gli strumenti da agire sugli uomini?

La libertà femminile non viene accettata perché c’è il concetto di possesso da parte dell’uomo. Adesso gli uomini violenti sono gli uomini più fragili, quelli che non riescono a fare i conti con la fine del patriarcato e che non riescono ad avere una propria identità che non sia legata al possesso. Abbiamo realizzato un video sul consenso, di cui ho già parlato, in cui sono i nostri segretari generali e metterci la faccia. Abbiamo realizzato anche dei materiali sulle molestie e sono rivolti direttamente agli uomini perché le donne sanno perfettamente cosa sono. Inoltre, abbiamo il glossario su alcune voci che vanno da “atti persecutori”, “informatici”, “generici”, cosa vuol dire “dignità”, quali sono le discriminazioni dirette e indirette; c’è anche la voce sul matrimonio forzato, perché abbiamo tanti lavoratori stranieri; le mutilazioni genitali, la parità di genere, il patriarcato, la segregazione di genere, la segregazione professionale di genere, gli stereotipi. E poi ancora il revenge porn, la violenza domestica contro le donne in senso generico, la violenza economica, la violenza informatica contro donne e bambini. Abbiamo creato anche un prospetto con i numeri di sicurezza a cui rivolgersi, che ogni singola azienda o RSU può completare con i numeri del territorio. Essere a conoscenza di queste informazioni a volte mette nelle condizioni di salvarsi o aiutare un collega o una collega che attraversano momenti di difficoltà. In pratica abbiamo realizzato una rete di informazioni.

La violenza non è solo fisica, ma è anche privazione del diritto. Questo fa parte del vostro programma?

Noi lavoriamo su tutti i tipi di violenza, sulle discriminazioni dirette e sulle discriminazioni indirette. C’è la segregazione di genere e la segregazione professionale di genere. La punta dell’iceberg sono i femminicidi, ma nel sommerso c’è davvero molto.

Qual è stato il contributo della rappresentanza maschile nell’ideazione del programma?

È stato molto importante. Per esempio i nostri segretari generali sono venuti a presentare questa campagna al Tempo delle Donne a settembre, evento organizzato dalle donne del Corriere della Sera, mettendo in gioco sé stessi, così come nei video presentati nel corso dell’iniziativa alla Sapienza. Bisogna cambiare e far vedere che si mettono in gioco anche gli uomini su questo, perché la violenza sulle donne è un problema loro. Noi come donne paghiamo un prezzo altissimo, ma è la società tutta che ci rimette.

Quali le prospettive pratiche? Come si svilupperà il programma?

In questo momento starei a vedere che cosa produce e osservare cosa viene messo in campo. Quando l’anno scorso abbiamo realizzato l’iniziativa alla Sapienza non avevamo in mente questa cosa, ma ragionando su come era andata abbiamo azzardato questo progetto. Dico azzardo perché non c’è nessuno che lo fa. Abbiamo deciso di osare, di andare nei luoghi di lavoro e vedere se ci fosse qualcuno disposto a seguirci. Adesso siamo a un buon inizio, sarà interessante capire gli effetti e in particolare i benefici che si avranno territorialmente, perché comunque si è aperta una discussione. In alcune realtà, ad esempio, non erano ancora stati definiti gli eventi, ma intanto l’Associazione industriale manda il materiale a tutte le proprie associate e questo fa la differenza nella valorizzazione del tema. Certo incrocerà qualche sensibilità e incrocerà qualche donna manager o qualche delegata sindacale o qualche uomo manager, piuttosto che qualche delegato sindacale che ritiene ci siano le condizioni per fare questo progetto. Secondo me questo accadrà sicuramente. La Commissione nell’immediato ha anche altri obiettivi, a partire dall’approfondimento con un gruppo di esperti sulla direttiva europea sulla applicazione del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Adesso dobbiamo realizzare questo ed è un buon auspicio.


(Il diario del lavoro. Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali, 15 novembre 2023)

di Nadav Weiman*


Una delle prime cose che abbiamo fatto in quella terribile mattina del 7 ottobre, non appena ci siamo resi conto di ciò che stava accadendo, è stata quella di contattare i nostri amici e tutti coloro che conoscevamo nell’area di Gaza. Alcuni di loro a oggi non hanno ancora risposto.

Come soldato della Brigata Nahal ho combattuto a Gaza nel 2008, prima dell’operazione “Piombo fuso”. Uno dei ricordi principali che mi è rimasto impresso di quel periodo è l’enorme quantità di potenza di fuoco che usavamo a Gaza, mentre a pochi metri di distanza i palestinesi conducevano la routine della loro vita quotidiana. Da allora non sono più riuscito a staccarmi da Gaza. Nel decennio successivo ho dedicato tutte le mie energie alla ricerca sui nostri sistemi di controllo militare nella Striscia assediata. Ho tenuto innumerevoli conferenze su come si combatte a Gaza; ho parlato con soldati che sono tornati dall’ennesimo round di combattimenti; ho partecipato a panel sull’argomento, l’ultimo dei quali a fianco di Khalil Abu Yahia, residente a Gaza e attivista per la pace, ucciso la settimana scorsa da una bomba israeliana. Ho visto troppi episodi di violenza. Troppi morti. Una cosa mi è chiara: questo stato di cose non ha una soluzione militare.

Il sangue di tutti ribolle. Tutti conosciamo qualcuno che è stato ucciso, rapito, che è ancora scomparso. Molti parlano di vendetta. Opinionisti, politici, giornalisti dicono che Gaza dovrebbe essere cancellata, si riferiscono ai suoi residenti come a «2,5 milioni di terroristi», discutono di trasferimenti forzati.

Ma che cosa sta accadendo in realtà sul campo? Gaza è sottoposta a un bombardamento senza precedenti da oltre un mese a questa parte. Solo nelle prime due settimane l’aviazione israeliana ha sganciato più bombe su Gaza di quante gli Stati Uniti ne abbiano sganciate sull’Afghanistan in un anno intero. Una spiegazione è la reale necessità di Israele di eliminare le minacce alle forze di terra, ma questo non spiega completamente la portata dei bombardamenti o i loro obiettivi.

Il nostro lavoro si basa sulle testimonianze dei soldati. La raccolta e la verifica di queste testimonianze è un processo lungo e complesso e ci vorrà ancora del tempo prima di avere un quadro completo e accurato di ciò che sta accadendo sul campo. Tuttavia, le dichiarazioni degli alti ufficiali israeliani e l’entità delle distruzioni sollevano già il sospetto che l’esercito stia seguendo la stessa dottrina utilizzata nelle operazioni precedenti: la “Dottrina Dahiya”.

È stata formulata ai tempi della guerra del Libano del 2006. Il suo principio fondamentale era: attacchi sproporzionati, anche contro strutture e infrastrutture civili. Se la dottrina è davvero in gioco, come sembra, allora i massicci bombardamenti su Gaza delle ultime settimane sono deliberatamente mirati a danneggiare infrastrutture e proprietà appartenenti a civili innocenti.

I pesanti bombardamenti nella guerra del Libano del 2006 non hanno spazzato via Hezbollah o neutralizzato le sue capacità militari, né avrebbero dovuto farlo. Avevano lo scopo di creare deterrenza. Da allora, Hezbollah si è rafforzato e ora spara quotidianamente sui civili nel Nord di Israele. Anche in Libano abbiamo causato una distruzione massiccia a scapito dei civili per ottenere una calma temporanea e nulla più.

Israele ha utilizzato questa dottrina anche durante l’ultima invasione di terra di Gaza nel 2014. Dopo la guerra, i residenti di Gaza sono tornati nei quartieri che erano stati rasi al suolo. Giornalisti e soldati che hanno preso parte all’operazione hanno descritto i danni enormi. I politici e i membri dell’establishment della sicurezza hanno cantato vittoria, affermando di aver «marchiato a fuoco la coscienza palestinese», il che significa che ogni palestinese ricorderà esattamente chi comanda e non oserà opporre resistenza. L’ultimo mese ha dimostrato, ancora una volta, che questo approccio ci ha portato zero sicurezza.

Questa dottrina si basa sull’idea dei “round” di combattimento, come vengono chiamati in Israele. Non è pensato per essere decisivo, ma per rimandare e scoraggiare il prossimo, inevitabile, round. Sembra che il nostro governo stia scegliendo di ripetere, anche se con maggiore intensità, ciò che ha fatto senza successo nei round precedenti. Lo stesso portavoce delle Forze armate israeliane (Idf) ha affermato che «l’enfasi [durante questa operazione] è sul danno e non sulla precisione».

Questa dottrina è anche immorale, perché la “consapevolezza bruciante” si ottiene attraverso la distruzione diffusa dei civili. Decine di migliaia di case a Gaza sono state distrutte o danneggiate. Interi quartieri sono stati cancellati dalla mappa. Perché secondo la Dottrina Dahiya, il metodo è semplice: la potenza di fuoco deve essere usata in modo sproporzionato; ed è per questo che il risultato è sempre lo stesso: allontanare la sicurezza a lungo termine in favore di un senso di calma sul breve.

Israele è entrato in guerra a causa di un massacro criminale e orribile. Se in risposta continuiamo a distruggere in massa i civili, se continuiamo a fare del male a una popolazione che non ha fatto nulla di male, una popolazione che per oltre il 40% ha meno di quindici anni, il nostro unico risultato sarà quello di perpetuare il ciclo di violenza e spargimento di sangue. Il numero delle vittime è spaventoso: più di 1.400 israeliani e oltre 10.000 palestinesi. Non è stato versato abbastanza sangue?

E ancora: come sarà il giorno dopo la guerra? Come farà il nostro governo a garantire a tutti noi sicurezza e protezione? Sorprendentemente il nostro Gabinetto ha deciso di «non discutere il destino della Striscia di Gaza». È un lusso che non possiamo permetterci. Una cosa è certa: la risposta deve tenere conto di un futuro libero e sicuro per tutti, cittadini di Israele, residenti di Gaza e sì, anche residenti della Cisgiordania. Altrimenti, la prossima guerra è solo questione di tempo.

(*) Nadav Weiman è senior director della Ong Breaking the silence, che riunisce veterani delle forze militari israeliane che hanno prestato servizio nell’esercito a partire dalla seconda Intifada. È stata fondata nel 2004 per denunciare le violazioni compiute dai soldati in Cisgiordania. Raccoglie e pubblica testimonianze anonime di militari e organizza tour a Hebron per mostrare gli effetti dell’occupazione. Il testo, tradotto a cura della redazione, è tratto dall’ultima newsletter inviata il 13 novembre 2023


(Altreconomia, 15 novembre 2023)

di redazione Il Fatto quotidiano


L’economia è politica (192 pp, 16,50 euro, ed Fuoriscena) è il nuovo libro il primo in italiano di Clara E. Mattei, economista, professoressa alla New School for Social Research di NewYork. Questo ultimo lavoro ribalta il racconto consueto delleconomia da cui siamo intossicati e rivela, ripercorrendo una lunga storia che dal fascismo arriva fino ai giorni nostri, quanta e che politica si nasconde dietro le scelte economiche. I tempi sono ormai maturi per smascherare le falsità insite in questa visione. Questo libro, accompagnato dai commenti di tre importanti economisti internazionali Thomas Piketty, Branko Milanović e Adam Tooze introduce una nuova prospettiva emancipatrice, capace di rivelare la trama nascosta dietro le questioni economiche centrali nella discussione pubblica: dallausterità allinflazione, dalla disoccupazione alla crescita, dalla concorrenza al debito al rapporto tra Stato e mercato, e moltissimo altro. Con precisione e incisività lautrice spiega come il potere politico abbia costruito nel tempo un sistema profondamente antidemocratico, destinato scientemente ad arricchire pochi privilegiati, impoverendo per converso la maggioranza della popolazione e rendendo i cittadini sempre più sudditi. La conoscenza è il primo passo per immaginare un mondo diverso e per muoversi affinché esso diventi possibile.

Mattei – collaboratrice del Fatto Quotidiano – è autrice di The Capital Order, inserito dal Financial Times tra le dieci pubblicazioni più influenti dell’anno a tema economico, edito in Italia da Einaudi con il titolo di Operazione austerità ma con lo stesso sottotitolo: Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. Nell’ottobre 2023 ha ricevuto l’Herbert Baxter Adams Prize, conferitogli dalla American Historical Association. Qui sotto un estratto dell’introduzione del nuovo libro pubblicato da ilfattoquotidiano.it.


Siamo a Bruxelles, è l’autunno del 1920. Uomini politici ed economisti provenienti da tutta Europa si siedono attorno ai tavoli di lavoro, sono riuniti per la prima conferenza economica internazionale. I toni formali e gli abiti eleganti non riescono a mascherare la tensione che si respira nell’aria. Le loro dichiarazioni lasciano trapelare un senso di accerchiamento, addirittura di angoscia, per quello che considerano un disordine inaccettabile, un caos sociale che sta portando l’economia capitalistica sull’orlo del baratro. Mentre costruivano un pacchetto di provvedimenti improntati alla più dolorosa austerità, i tecnocrati riuniti a Bruxelles erano ben consapevoli del fatto che il vento tirasse da tutt’altra parte. Indurre i cittadini a piegarsi all’ordine del capitale era più facile a dirsi che a farsi. Lo choc della guerra mondiale aveva scatenato nello spirito della gente comune un senso di rivalsa rispetto alle ingiustizie. La Grande Guerra aveva sprigionato una consapevolezza nuova: era emerso chiaramente quanto i lavoratori fossero il motore della macchina economica. L’inflazione montante di quegli anni non faceva che infervorare gli animi e acuire quel senso diffuso di fallimento del vecchio sistema capitalistico.

Alla pari dei suoi colleghi, il professor Luigi Einaudi ne era terrorizzato, sapendo che, ben lungi dall’essere un problema esclusivamente economico, l’instabilità monetaria era una questione intrinsecamente politica. Non per nulla, egli definiva l’inflazione come ciò che «pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare alla rivoluzione sociale». Per di più, ne attribuiva la colpa proprio a quei lavoratori che, avendo ottenuto maggiori salari, erano incapaci di controllarsi e indulgevano in quel comportamento scialacquatore comprovato dagli «aumenti cospicui dei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti». Ecco denunciata l’immoralità alla base del disequilibrio tra domanda e offerta, che andava disciplinata a qualunque costo, anche quello di sostenere il regime fascista di Benito Mussolini. Fu infatti proprio il Duce a garantire una sufficiente dose di austerità economica, caratterizzata da tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari e incremento dei tassi di interesse, che gli consentì di guadagnarsi il plauso degli esperti economici di tutto il mondo, anche di liberali come lo stesso Einaudi. Oggi i loro discepoli non la vedono certo diversamente.

La storia si ripete. Balzo in avanti di cento anni, siamo a Washington DC nel marzo del 2022. L’economia globale è scossa da un’altra ondata di inflazione monetaria. Gli esperti della Federal Reserve (Fed) si riuniscono a porte chiuse per alzare i tassi di interesse. Li alzeranno per più di un anno. La maggioranza di noi sente queste notizie alla radio o alla tv con distrazione mista a rassegnazione. Ci paiono scenari lontani, decisioni “economiche”, quindi tecniche, che non ci riguardano direttamente e rispetto alle quali non possiamo fare granché. Ma è davvero così? Oppure questa capacità di “depoliticizzare” l’economia, ossia la capacità di allontanare la nostra partecipazione dalle decisioni economiche, è proprio la chiave del successo di un sistema che ci lega le mani e ci toglie la voce? Questo libro è animato anzitutto da un intento: provare ad abbattere quel diffuso luogo comune secondo il quale le decisioni delle istituzioni economiche (dalla Fed alla Banca Centrale Europea al Tesoro), cioè le scelte che danno forma alla nostra economia, siano “neutrali” o al servizio “del bene comune”.

La “naturalizzazione” del capitalismo e la nostra ormai acquisita abitudine di delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari sono espressione della perniciosa depoliticizzazione dell’economia. Gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico invece di spiegarlo. È ora di evadere da questa prigione. Mentre scrivo, ci sono moltissime donne e uomini che combattono per una società diversa, credendoci con tale abnegazione da rischiare la propria vita. Il mio è un minuscolo contributo, ed è l’esempio dei miei due prozii che continua a essere per me una fonte di ispirazione inesauribile.

In queste ultime righe introduttive voglio brevemente ricordare i fratelli di mio nonno Camillo, che intrapresero una risoluta battaglia contro l’oppressione fascista. Teresa Mattei, con il nome di battaglia di Chicci, fu la più giovane donna a sedere all’Assemblea costituente. Si deve a lei l’inserimento delle parole «di fatto» nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Spirito libero, Teresa non ebbe paura di allontanarsi dal Partito comunista quando esso tradì i suoi ideali, e di affrontare la violenza delle SS quando, durante la Resistenza, approfittarono del suo corpo mentre portava messaggi partigiani. Suo fratello, Gianfranco Mattei, giovane professore di Chimica e gappista, fu catturato il 1° febbraio 1944 mentre costruiva bombe contro i fascisti. Dopo due giorni di sevizie continue, Gianfranco si impiccò con la sua cintura pur di non tradire i suoi compagni. Le ultime parole del mio prozio, scritte sul retro di un assegno consegnato di nascosto al compagno di cella, sono state per i suoi genitori: «Siate forti, sapendo che lo sono stato anch’io». Per essere forti ci servono strumenti forti. E allora proviamoci.


(Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2023)


di Judy Maltz


Una delle fondatrici del movimento israelo-palestinese Women Wage Peace e di altre organizzazioni pacifiste; si pensava che Vivian Silver fosse stata rapita da Hamas e portata nella Striscia di Gaza.


È confermato che Vivian Silver, la veterana attivista per la pace che si pensava fosse tra i circa 240 civili e soldati israeliani rapiti da Hamas il 7 ottobre, è stata uccisa la mattina dell’attacco. Lunedì gli esperti forensi hanno informato la famiglia di aver identificato con certezza i suoi resti, più di cinque settimane dopo gli attacchi.

Appartenente di lunga data a Be’eri – uno dei kibbutz al confine con Gaza, invasi da decine di terroristi di Hamas il 7 ottobre – Silver per anni ha aiutato i residenti palestinesi di Gaza che necessitavano di assistenza medica in Israele. Rimasta vedova diversi anni fa, viveva da sola a Be’eri. Secondo il figlio Yonatan Zeigen, la donna è stata sentita per l’ultima volta sabato mattina alle 11:07. Prima aveva comunicato ad amici e parenti che si era nascosta dietro un armadio nella sua stanza di sicurezza.

«All’inizio ci siamo sentiti per telefono, ma poi, quando abbiamo sentito gli spari avvicinarsi, abbiamo deciso che era meglio passare ai messaggi di testo», ha raccontato ad Haaretz.

Zeigen ha raccontato che nel suo ultimo messaggio alla madre ha scritto «Sono con te». Lei ha risposto: «Ti sento».

Descrivendo sua madre come “una persona molto resistente”, ha raccontato che nella loro ultima conversazione telefonica ha scherzato sul fatto che non aveva portato con sé un coltello nella camera blindata. «Per noi è stato divertente, perché mia madre era una pacifista», ha detto.

Zeigen, che vive a Tel Aviv, aveva programmato di andare con la sua famiglia a Be’eri per il fine settimana, per trascorrere la festa ebraica di Simchat Torah con sua madre. «Nella nostra conversazione telefonica, ci siamo detti entrambi quanto fosse stata una fortuna che non fossi andato», ha raccontato. L’altro figlio, Chen, vive nel Connecticut.

La settantaquatrenne, nata a Winnipeg, è immigrata in Israele cinquant’anni fa con il movimento giovanile sionista socialista Habonim Dror. Era tra i giovani e le giovani nordamericane che hanno contribuito a fondare il Kibbutz Gezer, nel centro di Israele.

Silver ha quattro nipoti, si è trasferita da Gezer a Be’eri con la famiglia nel 1990 e da allora vive lì. È stata una delle fondatrici del movimento israelo-palestinese Women Wage Peace, nato alla fine del 2014 dopo l’ultima grande guerra a Gaza. Pochi giorni prima che il suo kibbutz fosse invaso dai terroristi, aveva partecipato alla marcia che Women Wage Peace organizza ogni anno durante la festività di Sukkot.

In un’intervista rilasciata ad Haaretz sei anni fa, dopo che l’ennesima serie di combattimenti tra Israele e Gaza si era conclusa con una tregua, ha dichiarato: «Con quello che sta succedendo ora, credo che il nostro messaggio sia più che mai attuale. L’unico modo per porre fine a questa violenza è negoziare un accordo di pace. Questo cessate il fuoco può durare qualche settimana o qualche mese, ma finché le due parti non si siederanno a parlare, non sarà finita».

Vivian Silver è stata particolarmente attiva nel promuovere l’uguaglianza per le comunità beduine del sud di Israele, situate non lontano dal suo kibbutz. È stata co-CEO – insieme ad Amal al-Sana – del Centro arabo-ebraico per l’uguaglianza, l’emancipazione e la cooperazione, che promuove la società condivisa tra ebrei e arabi in Israele e gli sforzi di pacificazione tra israeliani e palestinesi.

Tra le molte attività di volontariato che ha svolto nel corso degli anni, è stata un membro attivo di Road to Recovery, un’organizzazione che aiuta a trasportare i pazienti da Gaza negli ospedali in Israele, affinché possano ricevere cure mediche adeguate.

Aveva deciso di immigrare in Israele dopo aver trascorso il suo terzo anno all’estero presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Nel 1974, il giorno dopo aver discusso la tesi in Canada, si è imbarcata su un volo di sola andata per tornare in Israele.

Nel 1981, Silver aveva fondato un dipartimento per la promozione dell’uguaglianza di genere all’interno del movimento dei kibbutz e in seguito ha fatto parte del consiglio di amministrazione del New Israel Fund.

Nel 1998 è stata nominata direttrice esecutiva dell’Istituto Negev per le Strategie di Pace e Sviluppo a Beersheba. Fino allo scoppio della seconda intifada, all’inizio degli anni Duemila, si è recata spesso a Gaza per partecipare a varie iniziative di pace tra i popoli.Colette Avital, un’ex diplomatica, membro della Knesset e sua amica, ha dichiarato: «Ogni volta e ovunque la incontrassi, era sempre entusiasta per una nuova idea, si buttava in nuove iniziative, era sempre ottimista e pronta ad aiutare, aveva sempre il sorriso sulle labbra […] Non posso fare a meno di pensare, di cercare di immaginare quali devono essere stati i suoi ultimi pensieri, quando ha visto gli uomini per cui ha combattuto, gli uomini che ha aiutato, venire a strapparle brutalmente la vita. E non riesco a trattenere le lacrime. Per lei, per la pace».


(Haaretz, 14 novembre 2023, traduzione di Laura Colombo)

Una lettera aperta di scrittrici e scrittori ebrei


Tre scrittrici ebree statunitensi, Leah Abrams, Tavi Gevinson e Rebecca Zweig, hanno redatto questa lettera dopo aver visto un vecchio argomento riprendere nuova forza: l’affermazione che qualsiasi critica a Israele è antisemita. Hanno poi condiviso la lettera con amiche e amici, tra cui Judith Butler, Naomi Klein, Nan Goldin e altre femministe che ci sono care, chiedendo di farla circolare nelle loro reti per incoraggiare le persone ad aderire. La lettera “A dangerous conflation”, che ha raccolto in pochi giorni migliaia di adesioni, è uscita il 2 novembre 2023 sul sito n+1 dopo che diverse testate statunitensi, su consiglio dei loro legali, hanno rifiutato di pubblicarla. (Traduzione a cura di Redazione Erbacce. NdR)


Siamo scrittrici e scrittori, artiste e attivisti ebrei che desiderano sconfessare la narrazione diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori hanno a lungo usato questa tattica retorica per mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità, per dare copertura morale agli investimenti multimiliardari degli Stati Uniti a sostegno dell’esercito israeliano, per oscurare la realtà mortale dell’occupazione e per negare la sovranità palestinese. Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di parola viene utilizzato per giustificare i continui bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza e per mettere a tacere le critiche della comunità internazionale.

Noi condanniamo i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e piangiamo la straziante perdita di vite umane. Nel nostro lutto, proviamo orrore nel vedere la lotta all’antisemitismo usata come pretesto per crimini di guerra con dichiarato intento genocida.

L’antisemitismo è una parte dolorosa del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono sfuggite a guerre, vessazioni, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzione e violenza contro gli ebrei e prendiamo sul serio l’antisemitismo attuale che mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo. Lo scorso ottobre è stato il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: gli 11 fedeli nella sinagoga di Tree of Life – Or L’Simcha a Pittsburgh, uccisi da un uomo armato che sosteneva teorie complottiste che incolpavano gli ebrei per l’arrivo dei migranti centroamericani, disumanizzando così entrambi i gruppi. Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma sappiamo che, come ha scritto il giornalista Peter Beinart nel 2019, «l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita, e sostenere che lo sia sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese».

Riteniamo che questa tattica retorica sia antitetica ai valori ebraici, che ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi dagli oppressori. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese. Rifiutiamo la falsa alternativa tra la sicurezza degli ebrei e la libertà dei palestinesi, tra l’identità ebraica e la fine dell’oppressione dei palestinesi. Crediamo, infatti, che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascuno dei due popoli dipende dall’altro. Non siamo certamente i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che hanno dato forma a questa linea di pensiero pur in presenza di tanta violenza.

Sappiamo come l’antisemitismo e la critica a Israele o al sionismo sono stati con-fusi (conflated). Per anni, decine di paesi hanno sostenuto la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La maggior parte degli 11 esempi di antisemitismo in essa contenuti riguarda giudizi sullo Stato di Israele, alcuni dei quali possono essere interpretati in modo tale da limitare l’ambito della critica accettabile. Inoltre, la Lega Anti-Defamation classifica l’antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti. Queste definizioni hanno favorito l’intensificarsi delle relazioni del Governo israeliano con forze politiche di estrema destra e antisemite, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti e oltre, mettendo in pericolo gli ebrei della diaspora. Per contrastare queste definizioni generiche, nel 2020 un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato la Dichiarazione di Gerusalemme, che offre linee guida più specifiche per identificare l’antisemitismo e distinguerlo dalla critica e dal dibattito su Israele e sul sionismo.

Le accuse di antisemitismo di fronte alla minima obiezione alla politica israeliana hanno a lungo permesso a Israele di mantenere in vita un regime che gruppi per i diritti umanistudiosigiuristi e associazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse continuano a creare un effetto spaventoso sulla nostra politica. Ciò ha comportato la soppressione politica dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, dove il Governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei in tutto il mondo. Nella propaganda interna rivolta ai propri cittadini e in quella esterna rivolta all’Occidente, il Governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo. Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi. Nel frattempo, gli israeliani vengono arrestati o sospesi dal lavoro per post sui social media in difesa di Gaza e giornalisti israeliani temono conseguenze per aver criticato il loro governo.

Definire tutte le critiche a Israele come antisemite, inoltre, confonde Israele con il popolo ebraico, nell’immaginario collettivo. Nelle ultime due settimane negli Stati Uniti, abbiamo visto sia democratici che repubblicani difendere l’identità ebraica sulla base del sostegno a Israele. Una lettera vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ha riproposto il Presidente Biden come sostenitore del popolo ebraico sulla base del suo appoggio a Israele. La 92NY, nel rinviare un evento con l’autore Viet Thanh Nguyen, che aveva firmato una lettera in cui chiedeva la fine degli attacchi di Israele a Gaza, ha sottolineato la propria identità di “istituzione ebraica”. Come altri hanno osservato, i tentativi di contestualizzare gli attacchi del 7 ottobre sono visti come negazione della sofferenza ebraica piuttosto che come necessari strumenti per comprendere e porre fine alla violenza.

L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite diffonde la visione che palestinesi, arabi e musulmani siano intrinsecamente sospetti, agenti dell’antisemitismo finché non dichiarano esplicitamente il contrario. Dal 7 ottobre, i giornalisti palestinesi hanno dovuto affrontare una repressione senza precedenti. Un cittadino palestinese di Israele è stato licenziato dal lavoro in un ospedale israeliano per un post su Facebook del 2022 che citava il primo pilastro dell’Islam. I leader europei hanno vietato manifestazioni a favore della Palestina e criminalizzato l’esposizione della bandiera palestinese. A Londra, un ospedale ha recentemente tolto i disegni realizzati da bambini di Gaza dopo che un gruppo pro-Israele ha affermato che essi facevano sentire i pazienti ebrei «vulnerabili, molestati e vittimizzati». In questo modo, anche i disegni di bambini palestinesi sono stati associati a un’allucinazione di violenza.

I leader statunitensi hanno sfruttato l’occasione di confondere ulteriormente la tutela della sicurezza degli ebrei con il finanziamento militare incondizionato e costante a Israele, senza alcuna intenzione di fare la pace. Il 13 ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso una nota interna per esortare i funzionari a non utilizzare espressioni come “de-escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/spargimento di sangue” o “ripristino della calma”. Il 25 ottobre, Biden ha messo in dubbio il numero di morti palestinesi e lo ha definito il “prezzo” della guerra di Israele. Questa logica crudele continuerà a favorire l’antisemitismo e l’islamofobia. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale si sta preparando a fronteggiare un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che è già iniziato.

Per ciascuna e ciascuno di noi, l’identità ebraica non è un’arma da brandire nella lotta per il potere dello Stato, ma una fonte di saggezza che dice: “Giustizia, giustizia, perseguirai” (Tzedek, tzedek, tirdof). Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e al silenziamento dei nostri alleati.

Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi trattenuti a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele, e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. E ci rifiutiamo di permettere che tali urgenti e necessarie richieste vengano represse in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio.


2 novembre 2023


Leah Abrams, scrittrice; Tavi Gevinson, scrittrice e attrice; Rebecca Zweig, scrittrice e regista; Sarah Thankam Mathews, autrice; Marianne Dhenin, scrittrice; Nan Goldin, artista e attivista; Naomi Klein, scrittrice e attivista; Judith Butler, scrittrice; Tony Kushner, scrittore; Deborah Eisenberg, scrittrice; Sarah Schulman, scrittrice; Vivian Gornick, scrittrice e attivista; Annie Baker, drammaturga e regista; Hari Nef, attrice e scrittrice; seguono migliaia di adesioni.


(Erbacce, 13 novembre 2023)

di Marina Santini e Luciana Tavernini


Da anni facciamo parte di una Comunità di storia vivente, prima quella di Milano e dal 2019 di quella di SAMI (Savona-Milano). La storia vivente è un’invenzione simbolica di Marirì Martinengo la cui pratica prende avvio nel 2006 dopo la pubblicazione del suo libro La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta»[1] e il riconoscimento da parte di María-Milagros Rivera Garretas del suo portato innovativo per la storia.

La pratica della storia vivente mantiene elementi dell’autocoscienza che alcune di noi negli anni Settanta hanno praticato.

Come allora si svolge in un piccolo gruppo di donne che si incontra periodicamente e che mette al centro il partire da sé per l’espressione dell’esperienza di ciascuna. C’è il desiderio di interrogarsi a fondo, in relazione con le altre che ascoltano e pongono domande perché sentono risuonare in sé le tue parole. Sono le altre, in una circolarità di fiducia, che ti danno misura, aiutano a far emergere il tuo vissuto e a trovare le parole per raccontarlo. Con la pratica della storia vivente cresce la coscienza dell’energia che le relazioni duali portano nel gruppo. Quello che si indaga sono i nodi personali che ciascuna si porta dentro e di cui non ha mai parlato, che l’hanno imbrigliata perché l’interpretazione corrente era patriarcale, falsa e non corrispondente alla propria esperienza.

Per trovare un simbolico che la rappresenti cerchiamo di individuare nel nostro vissuto una “immagine guida”, cioè la visione di una situazione concreta in cui si è creato il groviglio. E ritornandoci in «un percorso a spirale, creiamo un doppio movimento: un’immersione profonda in sé che faccia affiorare una verità soggettiva e la offra alle altre che, riconoscendola e aiutando a illuminarla, permettono di renderla pubblica»[2].

È l’atto trasformativo che libera la singola e fa nascere una nuova storia. Se come si dice «tutta la storia è storia contemporanea» perché fa storia ciò che interessa al presente, la storia vivente non pone più al centro il potere e le dinamiche sociali, ma come scrive María-Milagros Rivera Garretas «fa la rivoluzione di dire e mostrare che ciò che interessa al presente, a ogni presente, è il sentire dei vissuti di donne e uomini che viviamo nel mondo e sono vissuti costitutivi dell’essere»[3]. Da quando i nostri vissuti non sono più deformati o annullati da interpretazioni ideologiche, camminiamo più leggere e incisive nel mondo.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 13 novembre 2023)


[1] Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna «sottratta, ECIG, Genova 2005

[2] Comunità di storia vivente diMilano (a curadi), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, p.126

[3] https://www.libreriadelledonne.it/approfondimenti/storia_vivente/storia_vivente_contributi/la-storia-vivente-lautocoscienza-e-laltra/

di Laura Iamurri*


Desiderata, invocata, da tempo attesa, la nuova edizione dei testi di Carla Lonzi ha finalmente preso avvio, e ha suscitato un’eco straordinaria. Il primo a tornare in libreria è, e non poteva essere altrimenti, Sputiamo su Hegel e altri scritti, uno dei testi fondativi del femminismo italiano, dirompente e urticante fin dal titolo; il volume esce a cura di Annarosa Buttarelli per “La tartaruga”, la collana della Nave di Teseo diretta da Claudia Durastanti che riprende nome e insegna della casa editrice di libri scritti da donne fondata da Laura Lepetit nel 1975: una collocazione particolarmente felice, che riannoda alcuni fili dispersi del movimento delle donne.

Altrettanto felice è la scelta del Violarosso di Carla Accardi in copertina, che “tradisce” il colore dei “Libretti verdi” di Rivolta Femminile, ma che appare anche come un festoso invito alla lettura. Perché la ripubblicazione dei testi di Lonzi è sempre una festa, lo è per tutto il pubblico delle lettrici e dei lettori ma in particolar modo per le persone più giovani che hanno avuto molte difficoltà, in questi ultimi anni, a reperirli e che si sono scambiate copie cartacee o file pdf. Se la necessità di questa nuova edizione emergeva già in maniera evidente dalle richieste di prestito delle biblioteche (Sputiamo su Hegel è il libro più richiesto in assoluto alla Biblioteca delle Donne di Bologna), l’esaurimento della prima tiratura in un tempo brevissimo ne ha dimostrato anche l’urgenza: uscito in libreria il 5 settembre, nei giorni immediatamente successivi il libro era già introvabile e già in ristampa.

Sputiamo su Hegel è il primo testo teorico nel quale Lonzi ha sviluppato le premesse esposte in maniera apodittica nel Manifesto di Rivolta Femminile scritto nei primi mesi del 1970. È anche il testo che, sempre nel 1970, ha inaugurato le pubblicazioni della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile. Qualche anno dopo, nel 1974, fu riedito insieme ad altri testi scritti dalla sola Lonzi (La donna clitoridea e la donna vaginale), o insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti (il Manifesto) o ancora elaborati con le compagne di Rivolta e firmati collettivamente (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschileSessualità femminile e aborto, entrambi 1971, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, 1972), ed è questa raccolta che viene ripubblicata ora. È in questi testi che si ritrova, insieme alla magnifica scrittura di Lonzi, tutta la spietata radicalità del suo pensiero, che scarta da ogni aspirazione paritaria (“l’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti”) a favore dell’affermazione della alterità delle donne, della non assimilabilità delle donne agli uomini e dunque della loro estraneità al patriarcato, alla sua storia e alla sua cultura. “La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia”, scrive Lonzi, e questa assenza è ciò che permette di osservare con crudele disincanto la realtà (“Abbiamo guardato per 4000 anni: adesso abbiamo visto!”, si legge nel Manifesto): dunque è l’intera struttura patriarcale ad apparire come uno strumento generalizzato di oppressione e assoggettamento. La cultura politica marxista assimilata in gioventù serve a Lonzi per capire che nessuna rivoluzione ha mai risolto la questione femminile: “il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale”; anche gli obiettivi di altri movimenti femministi – la contraccezione, il divorzio, l’aborto – sono interpretati non come strumenti di autodeterminazione femminile ma al contrario come sistemi di controllo al servizio e a conferma dell’ordinamento sociale patriarcale.

Scrive Lonzi nella Premessa a Sputiamo su Hegel e altri scritti che “il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici”: in effetti il suo pensiero negli anni successivi evolve, si modifica, per certi versi si radicalizza ulteriormente, ma questi testi restituiscono la prima fase, quella dello “sdegno” per l’inferiorizzazione delle donne a tutti i livelli e in tutti i contesti, della individuazione della sessualità come snodo cruciale, dell’attacco ad alzo zero alla cultura patriarcale con la sola, residuale, apertura agli artisti per una “affinità caratteriale” che sta “nella coincidenza immediata tra il fare e il senso del fare”. In questo credito agli artisti filtra naturalmente il passato di Lonzi, segnato prima dalla formazione storico-artistica con Roberto Longhi a Firenze, e poi soprattutto dagli anni di attività professionale come critica d’arte: anni importanti, nei quali era maturata una severa analisi politica sul ruolo e la funzione della critica. Alla metà degli anni sessanta, a fronte di un contesto artistico in rapido mutamento, Lonzi aveva presentato sulla rivista “marcatré” una forma inedita di critica, che abbandonava l’esercizio solitario del giudizio a favore di una attività da svolgere con l’artista, cioè di fatto una conversazione registrata e poi trascritta con cura, nel rispetto delle parole effettivamente pronunciate e degli argomenti – talvolta in apparenza marginali – trattati in quello che sulle pagine stampate appariva alla fine come un discorso a due più che come una intervista, e che inaugurava una sorta di critica d’arte in forma di colloquio, un dialogo alla pari. È questa orizzontalità della relazione, questa modalità all’insegna dell’ascolto reciproco, che Lonzi porta in seguito all’interno dei piccoli gruppi di autocoscienza, laboratorio imprescindibile del femminismo in Italia.

Il pensiero di Lonzi conserva intatto il suo carattere dirompente, la sua capacità di interrogare e mettere in crisi chi legge sul doppio piano della singolarità e delle relazioni; e tuttavia ovviamente mostra anche la sua distanza dalla nostra contemporaneità, non fosse altro per lo strenuo binarismo uomo/donna e per la risoluta messa da parte della questione di classe. Sono differenze importanti rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità, di inclusività, di messa in discussione del binarismo di genere.

Questo punto in particolare appare oggi cruciale, e ci si può chiedere se i testi di Lonzi non rischino di apparire anacronistici, ancorati come sono a una struttura delle definizioni e delle relazioni di genere divenuta ormai inattuale. E tuttavia la curiosità e l’entusiasmo che Lonzi suscita nelle giovani generazioni ci dicono qualcosa di diverso: il ruolo centrale che la sessualità, e la sessualità femminile in special modo, assume nel pensiero di Lonzi non cessa di essere un fatto politico perché lì si apre uno spazio di libertà, di consapevolezza e di rivendicazione del piacere che può essere diversamente interpretato in relazione alla propria singolare identità di genere.

La questione di genere non è del resto l’unico punto di possibile frizione rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità e di inclusività.

Per questa ragione la proposta di Annarosa Buttarelli di pubblicare Sputiamo su Hegel, e gli altri testi che seguiranno, senza accompagnamento critico ha suscitato qualche perplessità; mi è capitato di parlarne con artiste, giovani studiose, intellettuali di varia formazione, e io stessa mi sono interrogata sull’opportunità di questa scelta: in fondo, si potrebbe obiettare, una breve prefazione che permetta di contestualizzare il testo non è una lettura obbligatoria, chi non ha interesse può saltarla a piè pari e chi vuole invece avere qualche informazione in più la trova lì, nello stesso volume. E però l’argomento di Buttarelli non è eludibile: i testi di Lonzi sono tutti “testi di trasformazione”, sostiene la curatrice dell’intero progetto di riedizione nella sua brevissima nota, e come tali non sopportano “commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente”. Non c’è dubbio che ci sia una forza sorgiva nella radicalità di Lonzi capace di sradicare secoli di un ordine che appariva “naturale” solo perché non era mai stato davvero messo in discussione, e non c’è dubbio che questa forza sia capace di investire con tanta più energia quanto più arriva in maniera diretta e senza mediazioni. Esiste anche, oggi, una bibliografia ampia e diversificata su Lonzi, sul suo pensiero e sui suoi scritti che permette senz’altro di dotarsi di eccellenti strumenti di lettura, separati dalla materia prima e bruciante degli scritti.

La situazione è in effetti oggi molto diversa rispetto agli anni intorno al 2010, quando Sandro D’Alessandro, con la sua et al. edizioni, intraprese la prima ripubblicazione dei testi della critica d’arte e teorica femminista. Allora davvero Lonzi era una figura scivolata in una specie di semiclandestinità e i suoi testi, nella edizione originale di Rivolta Femminile, erano reperibili quasi solo presso la Libreria delle Donne di Milano. Tra 2010 e 2011 uscirono Sputiamo su Hegel e altri scrittiAutoritrattoVai pure e Taci, anzi parla, con l’aggiunta nel 2012 della corposa raccolta degli Scritti sull’arte, mai riuniti da Lonzi in vita ma rintracciati e radunati da Lara Conte e Vanessa Martini insieme a chi scrive. Nei prossimi mesi, saranno gli stessi libri a tornare in circolazione nella nuova bella edizione di “La tartaruga”, con l’aggiunta della raccolta postuma di poesie Scacco ragionato (uscito a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta per Scritti di Rivolta Femminile, nel 1985 e mai più ristampato) e con l’esclusione invece, almeno per il momento, degli Scritti sull’arte.

L’edizione dell’inizio degli anni dieci appare oggi tutto sommato dimenticata: la fine della casa editrice ha fatto sì che i testi andassero esauriti in poco tempo e che non ci fosse la possibilità di ristamparli, e così è capitato anche di leggere, nelle numerose recensioni che hanno celebrato il ritorno di Sputiamo su Hegel e altri scritti nelle librerie, della prima ripubblicazione di Lonzi dopo cinquant’anni. Dispiace, questa smemoratezza, non solo perché non rende giustizia a un editore coraggioso e impegnato quale è stato D’Alessandro, ma anche perché quella prima rimessa in circolazione dei testi ha reso possibile, negli anni immediatamente successivi, il moltiplicarsi di corsi universitari nelle diverse discipline della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte, che hanno a loro volta generato letture appassionate e studi approfonditi. Di fatto, quella sfortunata edizione è all’origine dell’attuale “Lonzi renaissance”, e delle traduzioni di alcuni suoi testi in varie lingue che ne sono una delle manifestazioni più evidenti; ed era davvero paradossale che, mentre diventavano disponibili in altri paesi, i testi di Lonzi non fossero più reperibili in Italia. Ora finalmente, con l’edizione dei “La tartaruga”, si apre una nuova stagione di letture e di studi, di riflessione e di politica. Carla Lonzi è tornata.


(L’Indice, n° 11/2023, 2 novembre 2023)


*Laura Iamurri insegna storia dell’arte contemporanea all’Università Roma 3 laura.iamurri@uniroma3.it


La pratica è a offerta libera, il ricavato andrà a sostegno della Libreria. E’ necessario prenotarsi, i posti sono limitati.

.

di Fabrizio Fasanella


Tutti, o quasi, almeno una volta nella vita hanno giocato a Monopoli in una fredda serata invernale. In pochi, però, sono a conoscenza della sua vera origine, che si discosta dalla ricostruzione realizzata dal game designer americano Charles Darrow e poi commercializzata nel 1935. Il precursore del Monopoli si chiama “The Landlord’s Game”, registrato all’ufficio brevetti statunitense dalla sua inventrice, l’imprenditrice Elizabeth Magie Phillips, nel 1903.

Quella versione, meno favorevole al monopolio e allo strapotere della ricchezza, era un vero e proprio strumento didattico in cui i giocatori potevano vincere unendo le forze, contrastando così la speculazione. Ma nell’immaginario collettivo la creazione del Monopoli è comunque attribuita a Charles Darrow, “smascherato” nel 1973 dal professore di economia Ralph Anspach. Questa storia è emblematica per due ragioni che si intrecciano tra loro. Da una parte conferma che, nonostante la cultura del profitto e della competizione, nelle grandi città può trionfare il senso di comunità. Dall’altra testimonia l’ingombrante presenza delle disuguaglianze di genere in tutti i campi culturali (ma non solo) del Novecento. 

Non è un caso che il quinto capitolo de Il senso delle donne per la città (Einaudi) – il nuovo libro di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di economia civile (Sec) – termini proprio con il racconto delle origini del Monopoli. Il cuore del testo, e del problema inquadrato nelle sue pagine, è tutto lì.

Il libro dell’architetta rivendica l’importanza della dimensione immateriale e sociale dell’architettura, che nel secolo scorso ha prodotto città a misura di banconota e non di essere vivente (uomini, animali, piante). Quel modello è stato cavalcato e abusato da professionisti uomini, perché le donne – è un dato di fatto – sono sempre state tenute ai margini dell’architettura: «Non potendo costruire hanno scritto. […] Sono state più giardiniere che progettiste, più pedagogiste che ingegnere», si legge nelle prime righe del volume. 

Ora che l’assetto urbano novecentesco è andato in crisi, stiamo sentendo la necessità di vivere in contesti capaci di dare più spazio alle relazioni, alla sicurezza, alla salute e alla creatività. Qui, spiega Elena Granata, entrano in gioco le donne, che per anni hanno sperimentato e praticato arti considerate (erroneamente) minori, ma essenziali per costruire la città del 2030 o del 2050, più resiliente alla crisi climatica e attenta ai diritti.

Il senso delle donne per la città è un libro che spiega argomenti complicati in modo accessibile ed equilibrato, con un approccio didattico ma anche intimo e personale. Un testo che, senza perdere il contatto con l’attualità, illumina le storie di quelle che la docente del Politecnico di Milano definisce «pensatrici non ortodosse» dell’architettura: da Lina Bo Bardi a Jane Jacobs, da Sarah Robinson a Majora Carter. Tutte architette, urbaniste, giornaliste, pedagogiste, professoresse e designer che hanno gettato le basi per realizzare i contesti urbani in cui – per ragioni climatiche, etiche e sociali – dovremo per forza vivere. Parlare di città con Elena Granata è uno straordinario esercizio di educazione alla complessità e alla pervasività delle sfide urbanistiche del futuro, e questa intervista ne è la conferma.

Siamo abituati ad associare l’architettura a risultati tangibili. Nell’introduzione del libro, però, scrivi che servono visioni che mettano al centro l’immateriale: «Dal dominio della forma alla forza dell’immateriale, dal primato dell’economia al primato dell’ecologia». Cosa intendi nello specifico con “immateriale”?

Gli architetti hanno costruito tantissimo, ma non hanno lasciato il segno dal punto di vista culturale. Questo è un problema per la nostra categoria, che tendenzialmente crede che le opere siano più importanti del pensiero. Abbiamo lasciato poco in termini di innovazione nel modo in cui abitiamo le città, tant’è vero che ancora oggi gran parte della bellezza sta nel passato e non nella contemporaneità. Nel libro mi soffermo sulle visioni e le relazioni. Sembrano cose astratte, e invece hanno a che fare con il muoversi con facilità e in sicurezza, la qualità della vita, il verde, gli spazi pubblici, i luoghi adatti all’apprendimento: è rimasto fuori tanto dalla produzione edilizia. Serve un pensiero pratico che parta però da bisogni, luoghi ed esperienze: ecco le tre parole che mi stanno a cuore.

Perché continuiamo a sottovalutare le dimensioni sociali e umanistiche dell’architettura?

Perché abbiamo avuto cinquant’anni di primato dell’economia, del funzionamento e della velocità: tutti valori che oggi possiamo ascrivere a quella viralità tossica che si è ritrovata anche nel campo urbano. Con la pandemia e la crisi climatica questo assetto urbano è andato in crisi.

È andato in crisi, ma in molti (forse troppi) casi è ancora praticato.

Sì, perché c’è un vuoto di immaginazione. Per questo chiamo in causa le donne. Essendo rimaste escluse dai campi delle decisioni, della gestione e del progetto, hanno avuto più tempo per dedicarsi a quelle cose ritenute meno essenziali: qualità di vita, interni, comfort, spazi pubblici, spazio del gioco, natura, fotografia. Nel libro chiamo in causa le migliori pensatrici del nostro tempo: sono quasi tutte donne contemporanee del tardo Novecento che avrebbero fatto da pilastri a una cultura più equilibrata sull’architettura. Ma sono state presto dimenticate.

Per esempio?

Pensa a Lina Bo Bardi, che in Brasile è considerata una madre della patria, ma in Italia è stata dimenticata a lungo (ha vinto il Leone d’Oro quasi trent’anni dopo la sua morte, ndr). Nel libro racconto anche la storia di Denise Scott Brown, co-autrice di un libro di architettura – “Imparare da Las Vegas” – studiato in tutto il mondo. Lei ebbe l’idea di portare gli studenti in giro per Las Vegas a guardare gli edifici, “sporcandosi le mani” e camminando per le strade. Quel libro, però, lo scrisse col marito (Robert Venturi, uno dei principali esponenti della corrente architettonica postmoderna, ndr) e un giovane collaboratore. E lei sparì quasi subito dall’immaginario collettivo.

C’è un capitolo, il sesto, intitolato “Quello che gli occhi non vedono – cogliere le relazioni tra i vari sensi”. Quali sono i sensi che rimangono nell’ombra all’interno delle nostre città?

Abbiamo costruito città incentrate sul vedere, l’architettura è instagrammabile. La città, però, interagisce con la materia di cui siamo fatti e scomoda tutti i sensi, come il tatto. Quest’ultimo, secondo me, è il senso più carente. La città è fatta per essere attraversata ma non toccata. Spesso, per esempio, non ci si può sedere, accomodare. La città di oggi è fatta per transitare e non per stare. Pensa alla materia di cui è fatto il suolo: l’asfalto e il cemento sono materiali duri che, secondo alcuni studi, incidono negativamente sul nostro processo di invecchiamento, mentre camminare sul selciato, sulle pietre o sul suolo imperfetto ci fa “invecchiare bene” perché rende le gambe più resistenti. Abbiamo sterilizzato l’esperienza urbana.

Perché la visione di una donna può fare la differenza nell’architettura? È corretto chiamare “gender gap” il fenomeno di cui parli nel libro?

Ho evitato in tutto il libro di dire che le donne – in quanto donne e portatrici di una loro visione del mondo – se fossero nei posti di comando farebbero diversamente. Mi sono guardata bene dal dire questa cosa, innanzitutto perché non è detto che sia vera. Ma le donne, essendo state sempre escluse, sono più vergini nello sguardo, entrano come straniere in un assetto condizionato dall’approccio maschile. Hanno l’originalità di chi arriva da fuori con un pensiero laterale, quindi portano innovazione. Ma quando le donne assumono lo sguardo del mainstream, allora si conformano e fanno un pessimo servizio, diventando insensibili alle migrazioni, ai bambini e alle fragilità.

C’è una forte differenza tra sicurezza e percezione della sicurezza: i reati calano, ma la paura aumenta. I dati ci dicono che il 75,8 per cento delle donne teme di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici di sera. In che modo l’architettura può rivelarsi un’alleata della sicurezza senza esercitare un controllo asfissiante e opprimente?

Il decalogo su come si fa uno spazio sicuro esiste dagli anni Cinquanta: buona illuminazione, evitare corridoi e punti ciechi, eccetera. Ce la caveremmo con un po’ di buon senso, ma perché non accade? Perché progettiamo luoghi con insensibilità rispetto al tema della sicurezza? La risposta è che nel campo dell’architettura prevale la funzionalità dello spazio sulle altre dimensioni: il comfort, la percezione del pericolo, l’illuminazione.

E come possiamo invertire la tendenza?

Citando i casi di Vienna e Varsavia, oggi bisogna coinvolgere le ragazze – ma parimenti anche i ragazzi – nelle fasi di progettazione, perché l’utente finale è quello che più facilmente riesce a spiegare come e dove intervenire. Il problema della sicurezza viene ancora considerato irrilevante: proviamo a risolverlo mettendo delle toppe tardive con un po’ più di polizia, un po’ più di presidi e gli orari ridotti. E questo non è un argomento di destra o di sinistra.

Anche perché nel tema della sicurezza rientra la violenza stradale.

Sì, e anche da questo punto di vista il tipo di progettazione fa la differenza. Quest’anno, il primo giorno di università, ho fatto un test ai miei studenti, chiedendo loro quale fosse l’emergenza collettiva più importante. Mi aspettavo dicessero la crisi climatica, la povertà o il lavoro, ma il primo tema emerso è stato quello della sicurezza, dell’incolumità.

Nel libro parli di una «crisi dell’immaginazione» nel mondo dell’architettura. È quella che manca per utilizzare sapientemente i sette milioni di edifici inutilizzati (Istat, 2017) al posto di continuare a costruire? Come dovremmo sfruttare questi spazi vuoti?

Com’è noto, la produzione edilizia non risponde a una relazione tra domanda e offerta, ma a una questione di ordine meramente fiscale e finanziario. Siamo il Paese che costruisce più vani per famiglie, ma viviamo un’emergenza abitativa trasversale. Siamo ancora molto bon ton, le amministrazioni non agiscono e il tema viene lasciato al mercato, che fa il suo gioco. Cosa c’entrano le donne in tutto questo? Le donne che si sono sempre occupate di case, di abitare e di design hanno anche oggi le capacità di sfoderare un progetto strategico utopico. Alle donne deve spettare sia la cura – come in passato – sia la curiosità, che è quel pensiero lungo, strategico e politico che rompe gli schemi. Abbiamo ereditato delle grandi utopie architettoniche dal Novecento, l’ultima è la Città dei 15 minuti di Moreno, e penso che oggi ci sia bisogno di un’utopia femminista che parta dalla realtà, credendo nella possibilità del cambiamento.

Nel libro dici che «non c’è domanda più bella per una studiosa di città che sentirsi dire come saranno le città del futuro». Un bell’assist per chiudere questa intervista…

È la domanda più bella perché di solito non viene fatta alle donne. Rubo al maschile quella leggerezza con la quale gli uomini raccontano il mondo che verrà. Ti dico quindi che, secondo me, le città del futuro saranno immerse nella natura. Saranno luoghi in cui il verde organizzerà gli spazi. La vicinanza con la natura deve far sì che in mezzo alle case ci siano spazi pubblici più importanti. Nella città del futuro ci si potrà muovere in sicurezza perché cammineremo e pedaleremo di più. E con l’intelligenza artificiale e il digitale potremo gestire meglio le città con strumenti che oggi appena appena ci servono per progettare. In conclusione, vorrei che le donne che leggono il mio libro trovassero il coraggio di prendere la parola. […]


(Linkiesta, 11 novembre 2023)

di Franca Fortunato


Fare i conti con la storia della propria madre e con la relazione con lei, cercando di sciogliere alcuni nodi dolorosi che si porta dentro dall’infanzia e dall’adolescenza, è quello che fa la giovane scrittrice italo-nigeriana Sabrina Efionayi con il suo libro autobiografico Addio, a domani edito da Einaudi. Scrive per raccontare per la prima volta della madre, di cui non aveva mai parlato a nessuno perché si vergognava di lei. Durante la scrittura si accorge di non riuscire a parlare in prima persona e dire “io” ma dice: lei-Sabrina, tale è il dolore. Parla con la madre e le ricorda episodi della loro vita insieme, le confessa sensazioni e sentimenti non detti, le dice quello che ha capito da figlia della sua storia e di sé stessa. Non lo fa con acredine o risentimento ma con gratitudine e comprensione. La storia di Gladys, la madre, è uguale a quella di tante giovani africane. Nigeriana, figlia di una famiglia povera, ha diciotto anni quando una donna si presenta al suo villaggio e se la porta via con la promessa di un lavoro “vero” e invece la prostituisce e la lega a sé con un debito che sembra non estinguersi mai. La figlia non la biasima per aver creduto che avrebbe «trovato un lavoro vero che non avesse lo scopo» di umiliarla e denigrarla. Le riconosce di aver «sempre lottato» per la sua dignità e «fino alle lacrime e al sangue per restare viva» e capisce che non avevano niente di cui vergognarsi, la madre era solo una vittima. Le confessa che quando a undici anni le ha raccontato la sua storia senza mai usare la parola “prostituzione” ma “sofferenze”, si è sentita “sporca” e ha temuto che un giorno sarebbe toccato anche a lei perché una volta ha sentito una persona dire che «tutte le nere fanno così perché a loro piace». Nata dall’amore per un ragazzo nigeriano da cui la madre si era sentita rispettata e amata e che scompare dopo la sua nascita, viene affidata dalla madre alla vicina di casa, Antonietta, che vive con la famiglia del fratello. «Libero mia figlia», le dice. Col tempo le due donne comprendono che «della bambina avrebbero potuto occuparsene insieme», in un rapporto di fiducia e gratitudine reciproca. Di questo Sabrina è grata a entrambe. Non si è mai sentita una bambina abbandonata e quando diceva di essere adottata la madre la riprendeva dicendole: «No, non dire così. Tu non sei adottata. È vero che hai due mamme, ma non sei una bambina adottata». Sabrina le confessa che a quel punto non aveva più le parole per dirsi. «Avevi detto che non dovevo dire di essere adottata, e allora le parole hanno iniziato a mancarmi. Non le avevo le parole giuste e tu non me le hai date». Di una cosa è sicura, dell’amore di entrambe le mamme e del suo per loro. Quando la madre si libera dalla prostituzione e si trasferisce a Firenze, chiede solo che sua figlia passi con lei i mesi estivi. Ogni volta chiede fiducia ad Antonietta che teme non gliela riporti più. Anche Sabrina lo teme, ma non lo dice. La porta più volte in Nigeria e lì la figlia sente l’appartenenza a quella identità a lungo rinnegata, «come qualcosa di cui vergognarsi». Ma, se in Nigeria le veniva detto che era «troppo italiana» per i suoi comportamenti, in Italia le veniva detto «di non esserlo abbastanza» per il colore della pelle. Alle medie scopre «di essere nera, nera davvero» e crescendo comprende con dolore cosa vuol dire non avere la cittadinanza italiana. Al primo anno di università si deve iscrivere come studentessa extracomunitaria. A un certo punto si ribella alla madre, si allontana da lei, tornata in Nigeria, sposatasi e divenuta madre di una bambina. La incontra un’ultima volta e non riesce «a dare un nome» a ciò che prova. Ha bisogno di tempo per capire (capirsi). Nell’attesa le dice addio, a domani.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 11 novembre 2023)