Una lettera aperta di scrittrici e scrittori ebrei
Tre scrittrici ebree statunitensi, Leah Abrams, Tavi Gevinson e Rebecca Zweig, hanno redatto questa lettera dopo aver visto un vecchio argomento riprendere nuova forza: l’affermazione che qualsiasi critica a Israele è antisemita. Hanno poi condiviso la lettera con amiche e amici, tra cui Judith Butler, Naomi Klein, Nan Goldin e altre femministe che ci sono care, chiedendo di farla circolare nelle loro reti per incoraggiare le persone ad aderire. La lettera “A dangerous conflation”, che ha raccolto in pochi giorni migliaia di adesioni, è uscita il 2 novembre 2023 sul sito n+1 dopo che diverse testate statunitensi, su consiglio dei loro legali, hanno rifiutato di pubblicarla. (Traduzione a cura di Redazione Erbacce. NdR)
Siamo scrittrici e scrittori, artiste e attivisti ebrei che desiderano sconfessare la narrazione diffusa secondo cui qualsiasi critica a Israele è intrinsecamente antisemita. Israele e i suoi difensori hanno a lungo usato questa tattica retorica per mettere Israele al riparo dalle sue responsabilità, per dare copertura morale agli investimenti multimiliardari degli Stati Uniti a sostegno dell’esercito israeliano, per oscurare la realtà mortale dell’occupazione e per negare la sovranità palestinese. Ora questo insidioso bavaglio alla libertà di parola viene utilizzato per giustificare i continui bombardamenti dell’esercito israeliano su Gaza e per mettere a tacere le critiche della comunità internazionale.
Noi condanniamo i recenti attacchi contro i civili israeliani e palestinesi e piangiamo la straziante perdita di vite umane. Nel nostro lutto, proviamo orrore nel vedere la lotta all’antisemitismo usata come pretesto per crimini di guerra con dichiarato intento genocida.
L’antisemitismo è una parte dolorosa del passato e del presente della nostra comunità. Le nostre famiglie sono sfuggite a guerre, vessazioni, pogrom e campi di concentramento. Abbiamo studiato la lunga storia di persecuzione e violenza contro gli ebrei e prendiamo sul serio l’antisemitismo attuale che mette a rischio la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo. Lo scorso ottobre è stato il quinto anniversario del peggior attacco antisemita mai commesso negli Stati Uniti: gli 11 fedeli nella sinagoga di Tree of Life – Or L’Simcha a Pittsburgh, uccisi da un uomo armato che sosteneva teorie complottiste che incolpavano gli ebrei per l’arrivo dei migranti centroamericani, disumanizzando così entrambi i gruppi. Rifiutiamo l’antisemitismo in tutte le sue forme, anche quando si maschera da critica al sionismo o alle politiche di Israele. Ma sappiamo che, come ha scritto il giornalista Peter Beinart nel 2019, «l’antisionismo non è intrinsecamente antisemita, e sostenere che lo sia sfrutta la sofferenza ebraica per cancellare l’esperienza palestinese».
Riteniamo che questa tattica retorica sia antitetica ai valori ebraici, che ci insegnano a riparare il mondo, a mettere in discussione l’autorità e a difendere gli oppressi dagli oppressori. È proprio a causa della dolorosa storia dell’antisemitismo e delle lezioni dei testi ebraici che sosteniamo la dignità e la sovranità del popolo palestinese. Rifiutiamo la falsa alternativa tra la sicurezza degli ebrei e la libertà dei palestinesi, tra l’identità ebraica e la fine dell’oppressione dei palestinesi. Crediamo, infatti, che i diritti degli ebrei e dei palestinesi vadano di pari passo. La sicurezza di ciascuno dei due popoli dipende dall’altro. Non siamo certamente i primi a dirlo, e ammiriamo coloro che hanno dato forma a questa linea di pensiero pur in presenza di tanta violenza.
Sappiamo come l’antisemitismo e la critica a Israele o al sionismo sono stati con-fusi (conflated). Per anni, decine di paesi hanno sostenuto la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance. La maggior parte degli 11 esempi di antisemitismo in essa contenuti riguarda giudizi sullo Stato di Israele, alcuni dei quali possono essere interpretati in modo tale da limitare l’ambito della critica accettabile. Inoltre, la Lega Anti-Defamation classifica l’antisionismo come antisemitismo, nonostante i dubbi di molti dei suoi stessi esperti. Queste definizioni hanno favorito l’intensificarsi delle relazioni del Governo israeliano con forze politiche di estrema destra e antisemite, dall’Ungheria alla Polonia agli Stati Uniti e oltre, mettendo in pericolo gli ebrei della diaspora. Per contrastare queste definizioni generiche, nel 2020 un gruppo di studiosi dell’antisemitismo ha pubblicato la Dichiarazione di Gerusalemme, che offre linee guida più specifiche per identificare l’antisemitismo e distinguerlo dalla critica e dal dibattito su Israele e sul sionismo.
Le accuse di antisemitismo di fronte alla minima obiezione alla politica israeliana hanno a lungo permesso a Israele di mantenere in vita un regime che gruppi per i diritti umani, studiosi, giuristi e associazioni palestinesi e israeliane hanno definito di apartheid. Queste accuse continuano a creare un effetto spaventoso sulla nostra politica. Ciò ha comportato la soppressione politica dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, dove il Governo israeliano confonde l’esistenza stessa del popolo palestinese con l’odio per gli ebrei in tutto il mondo. Nella propaganda interna rivolta ai propri cittadini e in quella esterna rivolta all’Occidente, il Governo israeliano afferma che le rivendicazioni dei palestinesi non riguardano la terra, la mobilità, i diritti o la libertà, ma piuttosto l’antisemitismo. Nelle ultime settimane, i leader israeliani hanno continuato a strumentalizzare la storia del trauma ebraico per disumanizzare i palestinesi. Nel frattempo, gli israeliani vengono arrestati o sospesi dal lavoro per post sui social media in difesa di Gaza e giornalisti israeliani temono conseguenze per aver criticato il loro governo.
Definire tutte le critiche a Israele come antisemite, inoltre, confonde Israele con il popolo ebraico, nell’immaginario collettivo. Nelle ultime due settimane negli Stati Uniti, abbiamo visto sia democratici che repubblicani difendere l’identità ebraica sulla base del sostegno a Israele. Una lettera vaga firmata da decine di personalità e pubblicata il 23 ottobre ha riproposto il Presidente Biden come sostenitore del popolo ebraico sulla base del suo appoggio a Israele. La 92NY, nel rinviare un evento con l’autore Viet Thanh Nguyen, che aveva firmato una lettera in cui chiedeva la fine degli attacchi di Israele a Gaza, ha sottolineato la propria identità di “istituzione ebraica”. Come altri hanno osservato, i tentativi di contestualizzare gli attacchi del 7 ottobre sono visti come negazione della sofferenza ebraica piuttosto che come necessari strumenti per comprendere e porre fine alla violenza.
L’idea che tutte le critiche a Israele siano antisemite diffonde la visione che palestinesi, arabi e musulmani siano intrinsecamente sospetti, agenti dell’antisemitismo finché non dichiarano esplicitamente il contrario. Dal 7 ottobre, i giornalisti palestinesi hanno dovuto affrontare una repressione senza precedenti. Un cittadino palestinese di Israele è stato licenziato dal lavoro in un ospedale israeliano per un post su Facebook del 2022 che citava il primo pilastro dell’Islam. I leader europei hanno vietato manifestazioni a favore della Palestina e criminalizzato l’esposizione della bandiera palestinese. A Londra, un ospedale ha recentemente tolto i disegni realizzati da bambini di Gaza dopo che un gruppo pro-Israele ha affermato che essi facevano sentire i pazienti ebrei «vulnerabili, molestati e vittimizzati». In questo modo, anche i disegni di bambini palestinesi sono stati associati a un’allucinazione di violenza.
I leader statunitensi hanno sfruttato l’occasione di confondere ulteriormente la tutela della sicurezza degli ebrei con il finanziamento militare incondizionato e costante a Israele, senza alcuna intenzione di fare la pace. Il 13 ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso una nota interna per esortare i funzionari a non utilizzare espressioni come “de-escalation/cessate il fuoco”, “fine della violenza/spargimento di sangue” o “ripristino della calma”. Il 25 ottobre, Biden ha messo in dubbio il numero di morti palestinesi e lo ha definito il “prezzo” della guerra di Israele. Questa logica crudele continuerà a favorire l’antisemitismo e l’islamofobia. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale si sta preparando a fronteggiare un aumento dei crimini d’odio contro ebrei e musulmani, che è già iniziato.
Per ciascuna e ciascuno di noi, l’identità ebraica non è un’arma da brandire nella lotta per il potere dello Stato, ma una fonte di saggezza che dice: “Giustizia, giustizia, perseguirai” (Tzedek, tzedek, tirdof). Ci opponiamo allo sfruttamento del nostro dolore e al silenziamento dei nostri alleati.
Chiediamo un cessate il fuoco a Gaza, una soluzione per il ritorno sicuro degli ostaggi trattenuti a Gaza e dei prigionieri palestinesi in Israele, e la fine dell’occupazione israeliana. Chiediamo inoltre ai governi e alla società civile negli Stati Uniti e in tutto l’Occidente di opporsi alla repressione del sostegno alla Palestina. E ci rifiutiamo di permettere che tali urgenti e necessarie richieste vengano represse in nostro nome. Quando diciamo “mai più”, lo diciamo sul serio.
2 novembre 2023
Leah Abrams, scrittrice; Tavi Gevinson, scrittrice e attrice; Rebecca Zweig, scrittrice e regista; Sarah Thankam Mathews, autrice; Marianne Dhenin, scrittrice; Nan Goldin, artista e attivista; Naomi Klein, scrittrice e attivista; Judith Butler, scrittrice; Tony Kushner, scrittore; Deborah Eisenberg, scrittrice; Sarah Schulman, scrittrice; Vivian Gornick, scrittrice e attivista; Annie Baker, drammaturga e regista; Hari Nef, attrice e scrittrice; seguono migliaia di adesioni.
(Erbacce, 13 novembre 2023)
di Laura Iamurri*
Desiderata, invocata, da tempo attesa, la nuova edizione dei testi di Carla Lonzi ha finalmente preso avvio, e ha suscitato un’eco straordinaria. Il primo a tornare in libreria è, e non poteva essere altrimenti, Sputiamo su Hegel e altri scritti, uno dei testi fondativi del femminismo italiano, dirompente e urticante fin dal titolo; il volume esce a cura di Annarosa Buttarelli per “La tartaruga”, la collana della Nave di Teseo diretta da Claudia Durastanti che riprende nome e insegna della casa editrice di libri scritti da donne fondata da Laura Lepetit nel 1975: una collocazione particolarmente felice, che riannoda alcuni fili dispersi del movimento delle donne.
Altrettanto felice è la scelta del Violarosso di Carla Accardi in copertina, che “tradisce” il colore dei “Libretti verdi” di Rivolta Femminile, ma che appare anche come un festoso invito alla lettura. Perché la ripubblicazione dei testi di Lonzi è sempre una festa, lo è per tutto il pubblico delle lettrici e dei lettori ma in particolar modo per le persone più giovani che hanno avuto molte difficoltà, in questi ultimi anni, a reperirli e che si sono scambiate copie cartacee o file pdf. Se la necessità di questa nuova edizione emergeva già in maniera evidente dalle richieste di prestito delle biblioteche (Sputiamo su Hegel è il libro più richiesto in assoluto alla Biblioteca delle Donne di Bologna), l’esaurimento della prima tiratura in un tempo brevissimo ne ha dimostrato anche l’urgenza: uscito in libreria il 5 settembre, nei giorni immediatamente successivi il libro era già introvabile e già in ristampa.
Sputiamo su Hegel è il primo testo teorico nel quale Lonzi ha sviluppato le premesse esposte in maniera apodittica nel Manifesto di Rivolta Femminile scritto nei primi mesi del 1970. È anche il testo che, sempre nel 1970, ha inaugurato le pubblicazioni della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile. Qualche anno dopo, nel 1974, fu riedito insieme ad altri testi scritti dalla sola Lonzi (La donna clitoridea e la donna vaginale), o insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti (il Manifesto) o ancora elaborati con le compagne di Rivolta e firmati collettivamente (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, Sessualità femminile e aborto, entrambi 1971, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, 1972), ed è questa raccolta che viene ripubblicata ora. È in questi testi che si ritrova, insieme alla magnifica scrittura di Lonzi, tutta la spietata radicalità del suo pensiero, che scarta da ogni aspirazione paritaria (“l’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti”) a favore dell’affermazione della alterità delle donne, della non assimilabilità delle donne agli uomini e dunque della loro estraneità al patriarcato, alla sua storia e alla sua cultura. “La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia”, scrive Lonzi, e questa assenza è ciò che permette di osservare con crudele disincanto la realtà (“Abbiamo guardato per 4000 anni: adesso abbiamo visto!”, si legge nel Manifesto): dunque è l’intera struttura patriarcale ad apparire come uno strumento generalizzato di oppressione e assoggettamento. La cultura politica marxista assimilata in gioventù serve a Lonzi per capire che nessuna rivoluzione ha mai risolto la questione femminile: “il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale”; anche gli obiettivi di altri movimenti femministi – la contraccezione, il divorzio, l’aborto – sono interpretati non come strumenti di autodeterminazione femminile ma al contrario come sistemi di controllo al servizio e a conferma dell’ordinamento sociale patriarcale.
Scrive Lonzi nella Premessa a Sputiamo su Hegel e altri scritti che “il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici”: in effetti il suo pensiero negli anni successivi evolve, si modifica, per certi versi si radicalizza ulteriormente, ma questi testi restituiscono la prima fase, quella dello “sdegno” per l’inferiorizzazione delle donne a tutti i livelli e in tutti i contesti, della individuazione della sessualità come snodo cruciale, dell’attacco ad alzo zero alla cultura patriarcale con la sola, residuale, apertura agli artisti per una “affinità caratteriale” che sta “nella coincidenza immediata tra il fare e il senso del fare”. In questo credito agli artisti filtra naturalmente il passato di Lonzi, segnato prima dalla formazione storico-artistica con Roberto Longhi a Firenze, e poi soprattutto dagli anni di attività professionale come critica d’arte: anni importanti, nei quali era maturata una severa analisi politica sul ruolo e la funzione della critica. Alla metà degli anni sessanta, a fronte di un contesto artistico in rapido mutamento, Lonzi aveva presentato sulla rivista “marcatré” una forma inedita di critica, che abbandonava l’esercizio solitario del giudizio a favore di una attività da svolgere con l’artista, cioè di fatto una conversazione registrata e poi trascritta con cura, nel rispetto delle parole effettivamente pronunciate e degli argomenti – talvolta in apparenza marginali – trattati in quello che sulle pagine stampate appariva alla fine come un discorso a due più che come una intervista, e che inaugurava una sorta di critica d’arte in forma di colloquio, un dialogo alla pari. È questa orizzontalità della relazione, questa modalità all’insegna dell’ascolto reciproco, che Lonzi porta in seguito all’interno dei piccoli gruppi di autocoscienza, laboratorio imprescindibile del femminismo in Italia.
Il pensiero di Lonzi conserva intatto il suo carattere dirompente, la sua capacità di interrogare e mettere in crisi chi legge sul doppio piano della singolarità e delle relazioni; e tuttavia ovviamente mostra anche la sua distanza dalla nostra contemporaneità, non fosse altro per lo strenuo binarismo uomo/donna e per la risoluta messa da parte della questione di classe. Sono differenze importanti rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità, di inclusività, di messa in discussione del binarismo di genere.
Questo punto in particolare appare oggi cruciale, e ci si può chiedere se i testi di Lonzi non rischino di apparire anacronistici, ancorati come sono a una struttura delle definizioni e delle relazioni di genere divenuta ormai inattuale. E tuttavia la curiosità e l’entusiasmo che Lonzi suscita nelle giovani generazioni ci dicono qualcosa di diverso: il ruolo centrale che la sessualità, e la sessualità femminile in special modo, assume nel pensiero di Lonzi non cessa di essere un fatto politico perché lì si apre uno spazio di libertà, di consapevolezza e di rivendicazione del piacere che può essere diversamente interpretato in relazione alla propria singolare identità di genere.
La questione di genere non è del resto l’unico punto di possibile frizione rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità e di inclusività.
Per questa ragione la proposta di Annarosa Buttarelli di pubblicare Sputiamo su Hegel, e gli altri testi che seguiranno, senza accompagnamento critico ha suscitato qualche perplessità; mi è capitato di parlarne con artiste, giovani studiose, intellettuali di varia formazione, e io stessa mi sono interrogata sull’opportunità di questa scelta: in fondo, si potrebbe obiettare, una breve prefazione che permetta di contestualizzare il testo non è una lettura obbligatoria, chi non ha interesse può saltarla a piè pari e chi vuole invece avere qualche informazione in più la trova lì, nello stesso volume. E però l’argomento di Buttarelli non è eludibile: i testi di Lonzi sono tutti “testi di trasformazione”, sostiene la curatrice dell’intero progetto di riedizione nella sua brevissima nota, e come tali non sopportano “commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente”. Non c’è dubbio che ci sia una forza sorgiva nella radicalità di Lonzi capace di sradicare secoli di un ordine che appariva “naturale” solo perché non era mai stato davvero messo in discussione, e non c’è dubbio che questa forza sia capace di investire con tanta più energia quanto più arriva in maniera diretta e senza mediazioni. Esiste anche, oggi, una bibliografia ampia e diversificata su Lonzi, sul suo pensiero e sui suoi scritti che permette senz’altro di dotarsi di eccellenti strumenti di lettura, separati dalla materia prima e bruciante degli scritti.
La situazione è in effetti oggi molto diversa rispetto agli anni intorno al 2010, quando Sandro D’Alessandro, con la sua et al. edizioni, intraprese la prima ripubblicazione dei testi della critica d’arte e teorica femminista. Allora davvero Lonzi era una figura scivolata in una specie di semiclandestinità e i suoi testi, nella edizione originale di Rivolta Femminile, erano reperibili quasi solo presso la Libreria delle Donne di Milano. Tra 2010 e 2011 uscirono Sputiamo su Hegel e altri scritti, Autoritratto, Vai pure e Taci, anzi parla, con l’aggiunta nel 2012 della corposa raccolta degli Scritti sull’arte, mai riuniti da Lonzi in vita ma rintracciati e radunati da Lara Conte e Vanessa Martini insieme a chi scrive. Nei prossimi mesi, saranno gli stessi libri a tornare in circolazione nella nuova bella edizione di “La tartaruga”, con l’aggiunta della raccolta postuma di poesie Scacco ragionato (uscito a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta per Scritti di Rivolta Femminile, nel 1985 e mai più ristampato) e con l’esclusione invece, almeno per il momento, degli Scritti sull’arte.
L’edizione dell’inizio degli anni dieci appare oggi tutto sommato dimenticata: la fine della casa editrice ha fatto sì che i testi andassero esauriti in poco tempo e che non ci fosse la possibilità di ristamparli, e così è capitato anche di leggere, nelle numerose recensioni che hanno celebrato il ritorno di Sputiamo su Hegel e altri scritti nelle librerie, della prima ripubblicazione di Lonzi dopo cinquant’anni. Dispiace, questa smemoratezza, non solo perché non rende giustizia a un editore coraggioso e impegnato quale è stato D’Alessandro, ma anche perché quella prima rimessa in circolazione dei testi ha reso possibile, negli anni immediatamente successivi, il moltiplicarsi di corsi universitari nelle diverse discipline della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte, che hanno a loro volta generato letture appassionate e studi approfonditi. Di fatto, quella sfortunata edizione è all’origine dell’attuale “Lonzi renaissance”, e delle traduzioni di alcuni suoi testi in varie lingue che ne sono una delle manifestazioni più evidenti; ed era davvero paradossale che, mentre diventavano disponibili in altri paesi, i testi di Lonzi non fossero più reperibili in Italia. Ora finalmente, con l’edizione dei “La tartaruga”, si apre una nuova stagione di letture e di studi, di riflessione e di politica. Carla Lonzi è tornata.
(L’Indice, n° 11/2023, 2 novembre 2023)
*Laura Iamurri insegna storia dell’arte contemporanea all’Università Roma 3 laura.iamurri@uniroma3.it
di Fabrizio Fasanella
Tutti, o quasi, almeno una volta nella vita hanno giocato a Monopoli in una fredda serata invernale. In pochi, però, sono a conoscenza della sua vera origine, che si discosta dalla ricostruzione realizzata dal game designer americano Charles Darrow e poi commercializzata nel 1935. Il precursore del Monopoli si chiama “The Landlord’s Game”, registrato all’ufficio brevetti statunitense dalla sua inventrice, l’imprenditrice Elizabeth Magie Phillips, nel 1903.
Quella versione, meno favorevole al monopolio e allo strapotere della ricchezza, era un vero e proprio strumento didattico in cui i giocatori potevano vincere unendo le forze, contrastando così la speculazione. Ma nell’immaginario collettivo la creazione del Monopoli è comunque attribuita a Charles Darrow, “smascherato” nel 1973 dal professore di economia Ralph Anspach. Questa storia è emblematica per due ragioni che si intrecciano tra loro. Da una parte conferma che, nonostante la cultura del profitto e della competizione, nelle grandi città può trionfare il senso di comunità. Dall’altra testimonia l’ingombrante presenza delle disuguaglianze di genere in tutti i campi culturali (ma non solo) del Novecento.
Non è un caso che il quinto capitolo de Il senso delle donne per la città (Einaudi) – il nuovo libro di Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di economia civile (Sec) – termini proprio con il racconto delle origini del Monopoli. Il cuore del testo, e del problema inquadrato nelle sue pagine, è tutto lì.
Il libro dell’architetta rivendica l’importanza della dimensione immateriale e sociale dell’architettura, che nel secolo scorso ha prodotto città a misura di banconota e non di essere vivente (uomini, animali, piante). Quel modello è stato cavalcato e abusato da professionisti uomini, perché le donne – è un dato di fatto – sono sempre state tenute ai margini dell’architettura: «Non potendo costruire hanno scritto. […] Sono state più giardiniere che progettiste, più pedagogiste che ingegnere», si legge nelle prime righe del volume.
Ora che l’assetto urbano novecentesco è andato in crisi, stiamo sentendo la necessità di vivere in contesti capaci di dare più spazio alle relazioni, alla sicurezza, alla salute e alla creatività. Qui, spiega Elena Granata, entrano in gioco le donne, che per anni hanno sperimentato e praticato arti considerate (erroneamente) minori, ma essenziali per costruire la città del 2030 o del 2050, più resiliente alla crisi climatica e attenta ai diritti.
Il senso delle donne per la città è un libro che spiega argomenti complicati in modo accessibile ed equilibrato, con un approccio didattico ma anche intimo e personale. Un testo che, senza perdere il contatto con l’attualità, illumina le storie di quelle che la docente del Politecnico di Milano definisce «pensatrici non ortodosse» dell’architettura: da Lina Bo Bardi a Jane Jacobs, da Sarah Robinson a Majora Carter. Tutte architette, urbaniste, giornaliste, pedagogiste, professoresse e designer che hanno gettato le basi per realizzare i contesti urbani in cui – per ragioni climatiche, etiche e sociali – dovremo per forza vivere. Parlare di città con Elena Granata è uno straordinario esercizio di educazione alla complessità e alla pervasività delle sfide urbanistiche del futuro, e questa intervista ne è la conferma.
Siamo abituati ad associare l’architettura a risultati tangibili. Nell’introduzione del libro, però, scrivi che servono visioni che mettano al centro l’immateriale: «Dal dominio della forma alla forza dell’immateriale, dal primato dell’economia al primato dell’ecologia». Cosa intendi nello specifico con “immateriale”?
Gli architetti hanno costruito tantissimo, ma non hanno lasciato il segno dal punto di vista culturale. Questo è un problema per la nostra categoria, che tendenzialmente crede che le opere siano più importanti del pensiero. Abbiamo lasciato poco in termini di innovazione nel modo in cui abitiamo le città, tant’è vero che ancora oggi gran parte della bellezza sta nel passato e non nella contemporaneità. Nel libro mi soffermo sulle visioni e le relazioni. Sembrano cose astratte, e invece hanno a che fare con il muoversi con facilità e in sicurezza, la qualità della vita, il verde, gli spazi pubblici, i luoghi adatti all’apprendimento: è rimasto fuori tanto dalla produzione edilizia. Serve un pensiero pratico che parta però da bisogni, luoghi ed esperienze: ecco le tre parole che mi stanno a cuore.
Perché continuiamo a sottovalutare le dimensioni sociali e umanistiche dell’architettura?
Perché abbiamo avuto cinquant’anni di primato dell’economia, del funzionamento e della velocità: tutti valori che oggi possiamo ascrivere a quella viralità tossica che si è ritrovata anche nel campo urbano. Con la pandemia e la crisi climatica questo assetto urbano è andato in crisi.
È andato in crisi, ma in molti (forse troppi) casi è ancora praticato.
Sì, perché c’è un vuoto di immaginazione. Per questo chiamo in causa le donne. Essendo rimaste escluse dai campi delle decisioni, della gestione e del progetto, hanno avuto più tempo per dedicarsi a quelle cose ritenute meno essenziali: qualità di vita, interni, comfort, spazi pubblici, spazio del gioco, natura, fotografia. Nel libro chiamo in causa le migliori pensatrici del nostro tempo: sono quasi tutte donne contemporanee del tardo Novecento che avrebbero fatto da pilastri a una cultura più equilibrata sull’architettura. Ma sono state presto dimenticate.
Per esempio?
Pensa a Lina Bo Bardi, che in Brasile è considerata una madre della patria, ma in Italia è stata dimenticata a lungo (ha vinto il Leone d’Oro quasi trent’anni dopo la sua morte, ndr). Nel libro racconto anche la storia di Denise Scott Brown, co-autrice di un libro di architettura – “Imparare da Las Vegas” – studiato in tutto il mondo. Lei ebbe l’idea di portare gli studenti in giro per Las Vegas a guardare gli edifici, “sporcandosi le mani” e camminando per le strade. Quel libro, però, lo scrisse col marito (Robert Venturi, uno dei principali esponenti della corrente architettonica postmoderna, ndr) e un giovane collaboratore. E lei sparì quasi subito dall’immaginario collettivo.
C’è un capitolo, il sesto, intitolato “Quello che gli occhi non vedono – cogliere le relazioni tra i vari sensi”. Quali sono i sensi che rimangono nell’ombra all’interno delle nostre città?
Abbiamo costruito città incentrate sul vedere, l’architettura è instagrammabile. La città, però, interagisce con la materia di cui siamo fatti e scomoda tutti i sensi, come il tatto. Quest’ultimo, secondo me, è il senso più carente. La città è fatta per essere attraversata ma non toccata. Spesso, per esempio, non ci si può sedere, accomodare. La città di oggi è fatta per transitare e non per stare. Pensa alla materia di cui è fatto il suolo: l’asfalto e il cemento sono materiali duri che, secondo alcuni studi, incidono negativamente sul nostro processo di invecchiamento, mentre camminare sul selciato, sulle pietre o sul suolo imperfetto ci fa “invecchiare bene” perché rende le gambe più resistenti. Abbiamo sterilizzato l’esperienza urbana.
Perché la visione di una donna può fare la differenza nell’architettura? È corretto chiamare “gender gap” il fenomeno di cui parli nel libro?
Ho evitato in tutto il libro di dire che le donne – in quanto donne e portatrici di una loro visione del mondo – se fossero nei posti di comando farebbero diversamente. Mi sono guardata bene dal dire questa cosa, innanzitutto perché non è detto che sia vera. Ma le donne, essendo state sempre escluse, sono più vergini nello sguardo, entrano come straniere in un assetto condizionato dall’approccio maschile. Hanno l’originalità di chi arriva da fuori con un pensiero laterale, quindi portano innovazione. Ma quando le donne assumono lo sguardo del mainstream, allora si conformano e fanno un pessimo servizio, diventando insensibili alle migrazioni, ai bambini e alle fragilità.
C’è una forte differenza tra sicurezza e percezione della sicurezza: i reati calano, ma la paura aumenta. I dati ci dicono che il 75,8 per cento delle donne teme di camminare per strada e di prendere i mezzi pubblici di sera. In che modo l’architettura può rivelarsi un’alleata della sicurezza senza esercitare un controllo asfissiante e opprimente?
Il decalogo su come si fa uno spazio sicuro esiste dagli anni Cinquanta: buona illuminazione, evitare corridoi e punti ciechi, eccetera. Ce la caveremmo con un po’ di buon senso, ma perché non accade? Perché progettiamo luoghi con insensibilità rispetto al tema della sicurezza? La risposta è che nel campo dell’architettura prevale la funzionalità dello spazio sulle altre dimensioni: il comfort, la percezione del pericolo, l’illuminazione.
E come possiamo invertire la tendenza?
Citando i casi di Vienna e Varsavia, oggi bisogna coinvolgere le ragazze – ma parimenti anche i ragazzi – nelle fasi di progettazione, perché l’utente finale è quello che più facilmente riesce a spiegare come e dove intervenire. Il problema della sicurezza viene ancora considerato irrilevante: proviamo a risolverlo mettendo delle toppe tardive con un po’ più di polizia, un po’ più di presidi e gli orari ridotti. E questo non è un argomento di destra o di sinistra.
Anche perché nel tema della sicurezza rientra la violenza stradale.
Sì, e anche da questo punto di vista il tipo di progettazione fa la differenza. Quest’anno, il primo giorno di università, ho fatto un test ai miei studenti, chiedendo loro quale fosse l’emergenza collettiva più importante. Mi aspettavo dicessero la crisi climatica, la povertà o il lavoro, ma il primo tema emerso è stato quello della sicurezza, dell’incolumità.
Nel libro parli di una «crisi dell’immaginazione» nel mondo dell’architettura. È quella che manca per utilizzare sapientemente i sette milioni di edifici inutilizzati (Istat, 2017) al posto di continuare a costruire? Come dovremmo sfruttare questi spazi vuoti?
Com’è noto, la produzione edilizia non risponde a una relazione tra domanda e offerta, ma a una questione di ordine meramente fiscale e finanziario. Siamo il Paese che costruisce più vani per famiglie, ma viviamo un’emergenza abitativa trasversale. Siamo ancora molto bon ton, le amministrazioni non agiscono e il tema viene lasciato al mercato, che fa il suo gioco. Cosa c’entrano le donne in tutto questo? Le donne che si sono sempre occupate di case, di abitare e di design hanno anche oggi le capacità di sfoderare un progetto strategico utopico. Alle donne deve spettare sia la cura – come in passato – sia la curiosità, che è quel pensiero lungo, strategico e politico che rompe gli schemi. Abbiamo ereditato delle grandi utopie architettoniche dal Novecento, l’ultima è la Città dei 15 minuti di Moreno, e penso che oggi ci sia bisogno di un’utopia femminista che parta dalla realtà, credendo nella possibilità del cambiamento.
Nel libro dici che «non c’è domanda più bella per una studiosa di città che sentirsi dire come saranno le città del futuro». Un bell’assist per chiudere questa intervista…
È la domanda più bella perché di solito non viene fatta alle donne. Rubo al maschile quella leggerezza con la quale gli uomini raccontano il mondo che verrà. Ti dico quindi che, secondo me, le città del futuro saranno immerse nella natura. Saranno luoghi in cui il verde organizzerà gli spazi. La vicinanza con la natura deve far sì che in mezzo alle case ci siano spazi pubblici più importanti. Nella città del futuro ci si potrà muovere in sicurezza perché cammineremo e pedaleremo di più. E con l’intelligenza artificiale e il digitale potremo gestire meglio le città con strumenti che oggi appena appena ci servono per progettare. In conclusione, vorrei che le donne che leggono il mio libro trovassero il coraggio di prendere la parola. […]
(Linkiesta, 11 novembre 2023)
di Franca Fortunato
Fare i conti con la storia della propria madre e con la relazione con lei, cercando di sciogliere alcuni nodi dolorosi che si porta dentro dall’infanzia e dall’adolescenza, è quello che fa la giovane scrittrice italo-nigeriana Sabrina Efionayi con il suo libro autobiografico Addio, a domani edito da Einaudi. Scrive per raccontare per la prima volta della madre, di cui non aveva mai parlato a nessuno perché si vergognava di lei. Durante la scrittura si accorge di non riuscire a parlare in prima persona e dire “io” ma dice: lei-Sabrina, tale è il dolore. Parla con la madre e le ricorda episodi della loro vita insieme, le confessa sensazioni e sentimenti non detti, le dice quello che ha capito da figlia della sua storia e di sé stessa. Non lo fa con acredine o risentimento ma con gratitudine e comprensione. La storia di Gladys, la madre, è uguale a quella di tante giovani africane. Nigeriana, figlia di una famiglia povera, ha diciotto anni quando una donna si presenta al suo villaggio e se la porta via con la promessa di un lavoro “vero” e invece la prostituisce e la lega a sé con un debito che sembra non estinguersi mai. La figlia non la biasima per aver creduto che avrebbe «trovato un lavoro vero che non avesse lo scopo» di umiliarla e denigrarla. Le riconosce di aver «sempre lottato» per la sua dignità e «fino alle lacrime e al sangue per restare viva» e capisce che non avevano niente di cui vergognarsi, la madre era solo una vittima. Le confessa che quando a undici anni le ha raccontato la sua storia senza mai usare la parola “prostituzione” ma “sofferenze”, si è sentita “sporca” e ha temuto che un giorno sarebbe toccato anche a lei perché una volta ha sentito una persona dire che «tutte le nere fanno così perché a loro piace». Nata dall’amore per un ragazzo nigeriano da cui la madre si era sentita rispettata e amata e che scompare dopo la sua nascita, viene affidata dalla madre alla vicina di casa, Antonietta, che vive con la famiglia del fratello. «Libero mia figlia», le dice. Col tempo le due donne comprendono che «della bambina avrebbero potuto occuparsene insieme», in un rapporto di fiducia e gratitudine reciproca. Di questo Sabrina è grata a entrambe. Non si è mai sentita una bambina abbandonata e quando diceva di essere adottata la madre la riprendeva dicendole: «No, non dire così. Tu non sei adottata. È vero che hai due mamme, ma non sei una bambina adottata». Sabrina le confessa che a quel punto non aveva più le parole per dirsi. «Avevi detto che non dovevo dire di essere adottata, e allora le parole hanno iniziato a mancarmi. Non le avevo le parole giuste e tu non me le hai date». Di una cosa è sicura, dell’amore di entrambe le mamme e del suo per loro. Quando la madre si libera dalla prostituzione e si trasferisce a Firenze, chiede solo che sua figlia passi con lei i mesi estivi. Ogni volta chiede fiducia ad Antonietta che teme non gliela riporti più. Anche Sabrina lo teme, ma non lo dice. La porta più volte in Nigeria e lì la figlia sente l’appartenenza a quella identità a lungo rinnegata, «come qualcosa di cui vergognarsi». Ma, se in Nigeria le veniva detto che era «troppo italiana» per i suoi comportamenti, in Italia le veniva detto «di non esserlo abbastanza» per il colore della pelle. Alle medie scopre «di essere nera, nera davvero» e crescendo comprende con dolore cosa vuol dire non avere la cittadinanza italiana. Al primo anno di università si deve iscrivere come studentessa extracomunitaria. A un certo punto si ribella alla madre, si allontana da lei, tornata in Nigeria, sposatasi e divenuta madre di una bambina. La incontra un’ultima volta e non riesce «a dare un nome» a ciò che prova. Ha bisogno di tempo per capire (capirsi). Nell’attesa le dice addio, a domani.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 11 novembre 2023)
a cura di Giulio Chinappi
Il 2 dicembre 1948, ventotto intellettuali ebrei, tra i quali Albert Einstein ed Hannah Arendt, inviarono una lettera alla redazione del New York Times per denunciare la deriva fascista imposta dal futuro primo ministro Menachem Begin alla natura dello Stato israeliano, fondato nel maggio dello stesso anno.
Agli editori del New York Times
Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut), un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti nazista e fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, un’organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin [1], capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. Parecchi americani con una reputazione nazionale hanno inviato il loro saluto. È inconcepibile che coloro che si oppongono al fascismo nel mondo, a meno che non siano opportunamente informati sulle azioni effettuate e sui progetti del Sig. Begin, possano aver aggiunto il proprio nome per sostenere il movimento da lui rappresentato.
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e antimperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
Attacco a un villaggio arabo
Un esempio scioccante è stato il loro comportamento nel villaggio arabo di Deir Yassin. Questo villaggio, fuori dalle strade di comunicazione e circondato da terre appartenenti agli ebrei, non aveva preso parte alla guerra, anzi aveva allontanato bande di arabi che lo volevano utilizzare come una loro base. Il 9 aprile, bande di terroristi attaccarono questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare, uccidendo la maggior parte dei suoi abitanti (240 tra uomini, donne e bambini) e trasportando alcuni di loro come trofei vivi in una parata per le strade di Gerusalemme. La maggior parte della comunità ebraica rimase terrificata dal gesto e l’Agenzia Ebraica mandò le proprie scuse al re Abdullah della Transgiordania. Ma i terroristi, invece di vergognarsi del loro atto, si vantarono del massacro, lo pubblicizzarono e invitarono tutti i corrispondenti stranieri presenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la totale devastazione a Deir Yassin.
L’accaduto di Deir Yassin esemplifica il carattere e le azioni del Partito della Libertà.
All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza antibritannica, i gruppi IZL [2] e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettavano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo. La gente del Partito della Libertà non ha avuto nessun ruolo nelle conquiste costruttive ottenute in Palestina. Non hanno reclamato la terra, non hanno costruito insediamenti ma solo diminuito le attività di difesa degli ebrei. I loro sforzi verso l’immigrazione erano tanto pubblicizzati quanto di poco peso e impegnati principalmente nel trasporto dei loro compatrioti fascisti.
Le discrepanze
La discrepanza tra le sfacciate affermazioni fatte ora da Begin e il suo partito, e il loro curriculum di azioni svolte nel passato in Palestina non portano il segno di alcun partito politico ordinario. Ciò è, senza ombra di dubbio, il marchio di un partito fascista per il quale il terrorismo (contro gli ebrei, gli arabi e gli inglesi) e le false dichiarazioni sono i mezzi e uno “stato leader” è l’obbiettivo.
Alla luce delle soprascritte considerazioni, è imperativo che la verità su Begin e il suo movimento sia resa nota a questo paese. È ancora più tragico che i più alti comandi del sionismo americano si siano rifiutati di condurre una campagna contro le attività di Begin, o addirittura di svelare ai suoi membri i pericoli che deriveranno a Israele sostenendo Begin. I sottoscritti infine usano questi mezzi per presentare pubblicamente alcuni fatti salienti che riguardano Begin e il suo partito, e per sollecitare tutti gli sforzi possibili per non sostenere quest’ultima manifestazione di fascismo.
Firmato:
Isidore Abramowitz, Hannah Arendt, Abraham Brick, rabbi Jessurun Cardozo, Albert Einstein, Herman Eisen, M.D., Hayim Fineman, M. Gallen, M.D., H.H. Harris, Zelig S. Harris, Sidney Hook, Fred Karush, Bruria Kaufman, Irma L. Lindheim, Nachman Maisel, Seymour Melman, Myer D. Mendelson, M.D., Harry M. Oslinsky, Samuel Pitlick, Fritz Rohrlich, Louis P. Rocker, Ruth Sagis, Itzhak Sankowsky, I.J. Shoenberg, Samuel Shuman, M. Singer, Irma Wolfe, Stefan Wolfe
New York, 2 dicembre 1948
NOTE
[1] Begin avrebbe ricoperto successivamente il ruolo di ministro tra il 1967 ed il 1970, poi di primo ministro di Israele dal 1977 al 1983, e nel 1978 fu addirittura insignito del Premio Nobel per la Pace. Nel 1973, aveva lasciato il Partito della Libertà per fondare il Likud, il partito attualmente al governo di Israele sotto la guida di Benjamin Netanyahu.
[2] Irgun Zvai Leumi, un gruppo paramilitare sionista, giudicato terrorista dal Regno Unito, che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina dal 1931 al 1948.
(World politics, blog di Giulio Chinappi, 2 aprile 2020)
di Antonella Mariani
Inutile. Dispendioso. Una dimostrazione di debolezza. È severo il giudizio dell’avvocata civilista Sindi Manushi, trentun anni, dalla scorsa estate sindaca di Pieve di Cadore, sull’accordo tra Tirana e Roma per la gestione dei migranti salvati in mare. Manushi è nata in Albania e nel Bellunese è arrivata a nove anni per ricongiungersi, con madre e fratello, al padre saldatore in fabbrica.
«No, non sono approdata con i barconi, come qualcuno ha scritto, ma con un traghetto», scherza la giovane sindaca, la prima in Italia di origini albanesi, a capo della lista civica “Pieve futura”. Per diventare italiana, però, Sindi Manushi ci ha messo quasi 3 lustri: la cittadinanza infatti è arrivata solo nel 2015, quando aveva ventitré anni ed era una brillante studentessa di Giurisprudenza.
Dunque sindaca, il suo Paese d’origine è chiamato a gestire 36mila migranti all’anno, salvati dall’Italia nel Mediterraneo. Cosa pensa di questo accordo?
Penso che sia inutile e dispendioso. E in quanto albanese emigrata, vivo qualche implicazione di carattere morale.
Partiamo dall’inutilità. Perché?
Perché l’accordo prevede che i migranti rimangano nel centro un mese, al termine del quale, svolti gli accertamenti, dovranno essere rimpatriati nel Paese di provenienza oppure trasferiti in Italia. Sappiamo che dall’Italia vengono rimpatriati pochi migranti all’anno. Quindi nell’ipotesi più probabile l’Albania sarà una sorta di “autogrill”, un’altra tappa verso l’Italia.
Dice che è dispendioso, perché?
Perché finanzieremo un Paese per un lavoro che potremmo svolgere in casa nostra, con minor spesa, minori problemi logistici e minori complicazioni di carattere diplomatico.
Arriviamo alle implicazioni morali. Quali sono?
Mi pare che trasferire i migranti salvati in mare in Albania anziché al porto più vicino sia infliggere loro una sofferenza ulteriore. Inoltre mi sembra che l’Italia, anziché esigere solidarietà dall’Europa, chiede un favore a un Paese di fatto in via di sviluppo. Avrebbe mai domandato alla Germania di cedere la sovranità su un pezzo di suo territorio? Ecco, da albanese emigrata mi sembra un atto di arroganza.
Non le sembra anche un messaggio all’Unione Europea, del tipo: voi non ci aiutate, ci arrangiamo noi con un accordo con un Paese terzo?
Se fosse così, è un messaggio che comunque dimostra una certa debolezza. L’Unione Europea ha molte colpe, ha lasciato sola l’Italia in diversi frangenti. Però l’Italia è uno dei Paesi fondatori della Ue e dovrebbe recuperare forza contrattuale per pretendere il rispetto che merita.
E infine: è anche un messaggio per i giovani africani. L’Italia, insomma si allontana ancora di più?
Questa è pura utopia. A una persona che fugge da una condizione difficile non interessa la destinazione momentanea. Saprà che l’Albania è un posto di passaggio, così come accade ora con la rotta balcanica.
C’è il rischio di xenofobia in Albania?
Siamo un popolo che emigra, non siamo abituati all’immigrazione. Quindi sì, il rischio xenofobia esiste, perché la situazione economica è precaria, il lavoro è sottopagato, i giovani che hanno studiato vanno all’estero ed è indubbio che in Albania c’è un substrato di rabbia sociale.
A Pieve di Cadore c’è un Cas, un Centro di accoglienza. Com’è la convivenza con i 3.600 abitanti?
Il Cas è di responsabilità della prefettura in collaborazione con il Patriarcato di Venezia, proprietario della struttura, ed è gestito da una cooperativa di Padova. Noi siamo territorio ospitante, siamo coinvolti con i corsi di italiano e un po’ di animazione. Per il momento la convivenza con la popolazione va bene, ma siamo sempre sul chi va là. Se arriva una nuova ondata migratoria, il governo potrebbe chiederci uno sforzo maggiore, non compatibile con i magri bilanci comunali.
La sua famiglia è stata ben accolta in Cadore?
C’è stato qualche problema all’inizio, perché eravamo la novità del paese. Superata la fase dei pregiudizi, ci siamo integrati in modo molto naturale. È il pregio di vivere in un paese piccolo: ci si conosce tutti. E quello che si conosce non si teme. E poi c’è un’ultima cosa che vorrei sottolineare.
Prego.
Questo accordo con l’Albania a me sembra un grande esca mediatica, un’arma di distrazione di massa. Non sposta le sorti né dell’Italia né dell’Albania né dei migranti, è stato siglato in estate e guarda caso è stato fatto uscire ora che si stava iniziando a ragionare su pensioni e di tutto quello che deriva dalla nuova manovra. Ecco, non vorrei che questa fosse una mossa studiata a tavolino.
(Avvenire, 10 novembre 2023)
di UDI Romana la Goccia e UDI Monteverde
Il 16 maggio scorso è stata presentata alla Corte Superiore di Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo “Un cuore che batte”. Propone di aggiungere all’articolo 14 della legge 194 del 1978 il comma 1-bis che così recita «Il medico che effettua la visita che precede l’interruzione volontaria di gravidanza ai sensi della presente legge, è obbligato a far vedere, tramite esami strumentali, alla donna intenzionata ad abortire, il nascituro che porta in grembo e a farle ascoltare il battito cardiaco dello stesso».
I promotori antiabortisti tra cui “Ora et Labora, in Difesa della Vita” scrivono di averla inviata tramite Pec a tutti i comuni italiani, dunque, è una proposta di legge nazionale. […]
Siamo indignate per questa ennesima provocazione, un tentativo di rimessa in discussione della nostra autodeterminazione, e riteniamo una grave scorrettezza istituzionale il fatto che Enti locali come il VI Municipio di Roma stiano facendo propaganda per la raccolta di firme su proprie pagine Facebook o altrove. Continueremo ad aprire spazi di confronto e ci auguriamo che non si raggiungano le 50mila firme necessarie. Nello stesso tempo vigileremo affinché nei comuni d’Italia non compaiano come propaganda e invito alla firma manifesti come quelli più volte in passato ritirati in quanto ritenuti offensivi della dignità di noi donne e della nostra libera scelta.
(ND/Noi donne, 10 novembre 2023)
di Franco Cardini e Marina Montesano
Pubblichiamo alcuni estratti da Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici (il Mulino) di Franco Cardini e Marina Montesano. Un incontro con miti, simboli, magie, archetipi che si muovono nei millenni e un succedersi di vicende e di figure femminili fuori dal comune.
Non c’è uomo, a parte Adamo, che non sia figlio di una donna: che non abbia albergato per mesi nel buio, caldo, sicuro ricettacolo del suo ventre; che non si sia attaccato ai suoi seni in cerca di vita; che – lo capisse, lo volesse o no – per tutta la sua esistenza non l’abbia poi cercata al fondo di tutte le donne che ha incontrato e che ha amato, o che ha finito per odiare, o che magari ha violentato e ucciso. Lei, il grande archetipo che Mircea Eliade e Carl Gustav Jung hanno cercato di farci comprendere. La Madre amata in tutti i modi possibili, da Edipo a Giovanni evangelista. Quella ch’è anche Sposa e Sorella, come l’amante edenica del Cantico dei Cantici: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! […] Tutta bella sei tu, amata mia – e in te non vi è difetto. Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata».
L’essere umano vive, caccia, si accoppia, si riproduce, soffre, ha paura, uccide e muore da molti millenni: anche se soltanto da sì e no sei o settemila anni ha imparato a narrare le sue gesta, o almeno a lasciar traccia cosciente di quel che è stato o che ha voluto essere o che ha desiderato di far credere ai suoi posteri di essere stato. E magari molto, troppo spesso, ha dovuto, potuto o perfino voluto far a meno di una figura paterna. Ma della madre, di quella no. Senza quel ventre, senza quel seno, senza quegli occhi che lo guardavano, senza quelle mani che lo proteggevano e lo accarezzavano, non sarebbe stato nulla. Altro che «riposo del guerriero», come vaneggiava il povero, troppo grande Nietzsche che non a caso finì anche lui toccato dalla follia al pari di Attis oppure come Agave, madre e dilaniatrice di Penteo. C’è sempre una madre, nel destino di ognuno. Anche i più terribili tiranni degli ultimi duecento anni, anche Napoleone, Adolf Hitler, Josif Stalin, magari hanno dimenticato o disprezzato oppure odiato il padre, ma hanno mantenuto un ricordo pieno di tenerezza e di timor filiale per la madre. Che almeno in un caso ha finito anche col diventare regina. Anzi addirittura imperatrice, Madame Mère.
È tempo di affrontare il cuore di questo grande archetipo, che nella cultura moderna «secolarizzata» continua a conservare i tratti che gli hanno prestato Sandro Botticelli e Raffaello Sanzio. Ma che conosce, a sua volta, qualche precedente: nella storia, nel mito, nell’intricato e fascinoso mondo dei simboli. Passeremo dalle dee-madri della preistoria e dell’antichità alle figlie del sole e della luna fino a giungere al «nodo» della bambina di Nazareth divenuta Stella Maris e Regina Angelorum: esamineremo quindi – in una sequenza che fatalmente introdurrà a continui confronti liberamente evocati fra tempi e spazi diversi – quelle «donne sacre» che sono (o sono state) tali in quanto interlocutrici di Dio, quelle in grado di parlare con i morti, le fate che si comportano come donne e le donne che si presentano come fate: e così via, fino alle martiri di una libertà ancora da conquistare e alle eroine di una libertà conquistata. Questa è una storia senza fine perché, per definizione, essa non finisce mai: dalla sacralità antica e premoderna alla sacralizzazione moderna e postmoderna, in una prospettiva alla quale non si può proporre né tanto meno imporre un fine. Rien que la Femme. […]
Non abbiamo cercato, nelle nostre protagoniste, solo il primato dell’eccellenza: ma qualcosa d’inesprimibile, un quid maius. Come quando, tra millanta bottiglie piene d’acqua, di zucchero e di acini d’uva spremuta, se ne stappa una in apparenza come le altre: e si scopre che è vino. Quella speciale caratteristica che ti commuove, ti turba, ti fa tremare dinanzi a un paesaggio boscoso, a un picco innevato, a un cielo pieno di stelle, a un mare in tempesta o arcanamente sereno, a qualcuno che parlandoti, o cantando, o guardandoti in silenzio, sa riempirti di fuoco e di ghiaccio. È questo il «sacro»: un luogo, un albero, un fiore, una pietra, un suono, un essere umano o qualcuno che gli somiglia ma c’è dell’altro… Il sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di «altro», rispetto all’umano; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche santo, quindi pros- simo al divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce. […]
Nella contemporaneità del Novecento e degli Anni zero (ossia i nostri) le donne hanno raggiunto nella società ruoli ch’erano in passato loro preclusi; oggi si discute persino di un sacerdozio femminile nella Chiesa, già una realtà in quella anglicana, nella quale dal 2019 le donne ordinate preti sono state più degli uomini, e aumentano anche i loro ruoli dirigenziali. Può darsi che questo abbia «normalizzato» le donne, che le abbia private di quell’aura di maghe, sacerdotesse, mistiche, veggenti che le ha circondate, o per meglio dire che ha circondato alcune fra loro. Peraltro nella società contemporanea, non solo in quella occidentale, cresce il ruolo delle donne; un ruolo che si esplica a diversi livelli della società e della cultura. Ovunque ci si volga, figure femminili appaiono ormai in ogni settore della vita civile: al punto da poter affermare che il carisma «laico» ha sostituito il sacro, o ne è la figura «mutante». Ma in uno stato di grazia, cioè d’accezione, non a causa di uno sviluppo «naturale». In termini sinteticamente weberiani, si potrebbe forse azzardare la formula della donna sacra ch’è tale, rispetto alla donna di pur segnalate e riconosciute qualità, allorché in lei si manifesti e da lei promani un carisma capace di battere decisamente le qualità dell’istituzione. […]
Insomma, l’ultimo secolo si tinge di rosa, si sarebbe detto un tempo: senonché il rosa non è più il colore d’eccezione per le donne, e persino Barbie diviene discusso simbolo dell’emancipazione. Eroine o comunque figure che definiscono molti dei cambiamenti della contemporaneità: sono loro a raccogliere, in un’epoca desacralizzata, l’eredità delle donne sacre?
(Avvenire 10 novembre 2023)
Per Daiara Tukano (São Paulo 1982, vive e lavora a Brasilia), artista e attivista indigena brasiliana, l’arte è lo strumento per riconnettersi con il suo popolo ma anche per riallacciare un legame con il padre Álvaro Fernandes Sampaio Tukano, uno dei più importanti leader politici del movimento in difesa dei diritti dei popoli indigeni. Nella sede romana della Richard Saltoun Gallery (fino al 22 dicembre) – prima personale in Europa – Daiara Tukano, erede spirituale di Feliciano Lana (1937-2020) tra i principali artisti indigeni brasiliani, presenta una nuova serie di opere su carta, visionaria esplorazione della mitologia e della spiritualità della comunità Tukano e del suo profondo legame con la natura.
Dopo il master in Diritti umani all’Università di Brasilia, cosa l’ha spinta a agire nel campo dell’arte?
Il mio rapporto con l’arte comincia dal nome che ho ricevuto dalla mia famiglia Daiara Hori Figueroa Sampaio Duhigó. «Hori» nella lingua Tukano indica ciò che è più vicino al significato di arte, l’espressione visiva della spiritualità ma anche colore, profumo, luce e «Duhigó» vuol dire primogenita. Mia madre mi ha chiamata anche «Daiara» che, in un’altra lingua, vuol dire «la mia piccola amica». Ho avuto il grande privilegio di nascere nella nazione indigena. Mio padre Álvaro Tukano è un leader storico del Movimento indigeno brasiliano che si è battuto per l’approvazione dei loro diritti, riconosciuti per la prima volta solo nel 1998. È stato perseguitato dalla dittatura militare e accusato di essere un ribelle. Fino al ’79, la popolazione indigena veniva considerata incapace di intendere e come i bambini era sotto la tutela legale dello stato. Non eravamo considerati cittadini. Non avevamo il diritto di avere un passaporto e per poter uscire dal paese bisognava avere l’autorizzazione dello stato. Eravamo gli ultimi della società ad avere accesso ai diritti civili. Questa è stata la lotta principale di mio padre come capo indigeno. São Paulo, dove sono nata, è un centro molto importante dal punto di vista politico e il movimento per i diritti civili delle popolazioni indigene è avvenuto soprattutto nelle sue università. Lì mia madre e mio padre si sono incontrati.
Durante l’infanzia ha studiato all’estero, quando ha cominciato ad avere rapporti diretti con il popolo Tukano?
Non ho avuto l’opportunità di nascere nel villaggio indigeno di Balaio nell’Alto Rio Negro, al confine tra Brasile, Colombia e Venezuela ma lì ho imparato a camminare e nuotare. La comunità indigena Tukano è tra le più grandi del paese e anche tra le meglio preservate, ma si trova veramente molto lontano. Ho trascorso l’infanzia in Colombia, paese di madre. Anche lei è attivista per i diritti delle popolazioni indigene, ricercatrice, antropologa ed è stata una delle principali organizzatrici del sistema sanitario pubblico per le popolazioni indigene. Quando si è trasferita a Parigi, per il suo master, ho potuto vivere lì frequentando la scuola pubblica francese. Ho studiato la storia, la storia dell’arte, la filosofia. Amo l’antichità greca e romana, egiziana, cinese, giapponese e in generale la mitologia, soprattutto quella indigena. A 15 anni, quando sono tornata in Brasile, mi sono riconnessa con mio padre. È stato duro venire a conoscenza di tutte quelle violenze subite dalla mia gente (sono perpetrate ancora oggi). Ho cominciato anche ad apprezzare la bellezza della complessità narrativa delle origini, della lingua. Mio padre proviene da una famiglia che custodisce la sapienza tradizionale. Nonostante la persecuzione, siamo una delle nazioni indigene che è ancora molto legata alle tradizioni, come quella medica conosciuta come «ayahuasca» di cui si parla nelle leggende della creazione. Nella nostra «biografia» c’è stato un momento di rottura con le tradizioni che coincide con l’arrivo della chiesa cattolica nella regione dell’Alto Rio Negro. La strategia dell’integrazione è stata prevalentemente condotta con un accordo tra lo stato del Brasile e la chiesa cattolica, attraverso la congregazione salesiana che e ha aperto i suoi collegi per educare gli studenti indigeni. Prima avevamo le nostre case comunitarie dove si viveva insieme e si celebravano i nostri riti: sono state distrutte per costruire chiese. I salesiani hanno condannato e demonizzato ogni tradizione. Nei loro collegi hanno fatto studiare i bambini indigeni a partire dai 4, 5 anni. Molti di loro, strappati alle famiglie di origine, sono morti. Era vietato parlare la lingua madre e sono stati obbligati a usare il portoghese. Mio padre è stato uno di quei bambini, vittima e testimone di ogni genere di tortura. Malgrado ciò, ha ereditato la tradizione da mio nonno e dal bisnonno. Da quando mio nonno è morto a 110 anni, all’inizio della pandemia di Covid-19, è mio padre a incarnare la figura del saggio. Quando finalmente ho capito veramente l’importanza di tutto ciò, ho cercato di fare qualcosa per il mio popolo attraverso il potere dell’arte. Dipingere per rivisitare la storia non è soltanto un modo per farla conoscere alle persone non indigene, m’interessa come attraverso le mie opere ci si possa ricollegare con il passato e la narrativa delle origini. È un’azione politica di resilienza e continuità culturale. Il modo di porre quest’arte in un modo diverso, non più demonizzata ma come cultura dal valore condivisibile, che può essere collocata in uno spazio di dignità e autonomia, permette di collaborare alla ricostruzione della memoria della cultura indigena.
La relazione con la natura che è così importante per gli indigeni lo è anche nel suo lavoro?
Per gli indigeni è tutto. Non abbiamo il dominio sulla natura, ne siamo parte. Tutta la nostra conoscenza proviene dalla natura, dal dialogo tra i diversi elementi. I Tukano – letteralmente «gente del tempo o della terra» – chiama «gente» (mahsã) qualsiasi cosa: «wai mahsã» la gente delle acque, i pesci; «yunku mahsã» la gente della foresta, i boschi; «nohkoa mahsã» la gente delle stelle; «owe mahsã» la gente dell’aria; «uhtà mahsã» la gente della pietra, le rocce… Sono tutte persone con le loro sapienze, la loro storia, i sentimenti e possono parlare con noi e noi con loro, instaurando un dialogo.
Quindi per voi non c’è gerarchia tra l’essere umano e la natura…
La gerarchia è una visione dei bianchi. La relazione che abbiamo con la natura è proprio all’opposto di quella occidentale ed è ciò che cerco di condividere attraverso il mio lavoro. Una stella nella mente limitata degli occidentali può essere bellissima e poetica, noi invece proviamo a immaginarla mentre si riflette e canta per tutto il tempo nella luminosità dell’universo. Le stelle possono raccontare storie antichissime perché vivono molto a lungo.
(il manifesto, 8 novembre 2023)
di Francesca Zanette
Tina era bella. Indiscutibile: lo si vede nei ritratti di Edward Easton a lei dedicati in cui appare abbandonata, oppure intensa e consapevole, o ancora adagiata in una malinconia sognante mentre guarda la strada dal balcone di una finestra. A confermarlo sono anche i tanti personaggi (scrittori, artisti, politici, rivoluzionari) che ne hanno subito l’influenza e testimoniano di lei un fascino ben oltre l’aspetto.
Il poeta Germán List Arzubide, esponente dell’estridentismo, un movimento messicano d’avanguardia degli anni Venti, fu tra i primi a riconoscere la sua attività di fotografa. Così ne scrive: «Non la definirei carina, ma bella. I suoi tratti erano molto italiani, voglio dire che c’era sempre una punta di tragico, di drammatico, nella sua espressione». E ancora Rafael Carrillo, membro del partito comunista: «Notai subito il suo grande interesse, la sua sete di sapere. […] Era straordinariamente bella, e tutti gli uomini – io non rappresento un’eccezione – si innamoravano di lei, nonostante non fosse affatto civetta, e non facesse niente per provocare queste reazioni. Aveva solo quella stupenda grazia naturale… La parola “innamorarsi” non è quella giusta; non c’era uno sfondo sessuale. Si sentiva solo il desiderio di starle vicini, di guardarla, di attirare la sua attenzione e di parlare con lei».
Tina. Il suo nome suona veloce e sottile, italiano ma non troppo: Tina affamata d’esperienze, Tina desiderante, pronta a continui slanci, ad affondare le mani nell’impasto dell’esistenza. Arte, amore e politica sono strumenti per afferrare la vita al massimo dell’intensità; sarà attrice teatrale e cinematografica, fotografa, attivista politica, combattente, animatrice del soccorso Rosso internazionale. Ha talento, impara veloce (le lingue, la recitazione, la tecnica fotografica, i modi per mettersi a servizio della causa), sa entrare in rapporto con gli altri, qualità che le consentono di inserirsi da protagonista nei circoli intellettuali, di “divenire nel mezzo” là dove la Storia brulica: Los Angeles, Città del Messico, Berlino, Mosca. La sua figura ricorda Marina Cvetaeva, che negli stessi anni, all’altro capo del mondo scrive: “Io voglio tutto, / con anima di zingaro / tra i canti andarmene brigante / per tutti soffrire al suono di un organo, / amazzone, lanciarmi alle battaglie” (da Poesie, trad. di Pietro Zveteremich). Entrambe sono donne autenticamente libere, tanto nel pensiero quanto nelle relazioni.
Insomma, c’è qualcosa che brilla, in Tina Modotti. Cosa? La mostra in programma a Palazzo Roverella di Rovigo (fino al 28 gennaio 2024; a cura di Riccardo Costantini) risponde: L’opera, con l’intento dichiarato di ribaltare la narrazione usuale incentrata sulla biografia anziché sul risultato artistico. Si tratta di una ricostruzione condivisibile se ammettiamo che tra lei e la sua fotografia non ci sia distanza: Tina è l’opera, l’opera è Tina. D’altra parte, l’impostazione curatoriale ne è un’inconscia conferma, poiché il materiale è organizzato per nuclei tematici (gli inizi, il rapporto col Messico e il folklore, i reportage, i ritratti, la fotografia politica) fatalmente corrispondenti a passaggi cruciali della vita dell’artista (gli uomini, i viaggi e alcuni eventi per lei determinanti), con l’effetto che lo spettatore ha la sensazione di salire insieme a Tina i gradini della sua evoluzione artistica.
Non deve essere stato facile maneggiare una fotografia vivente; ma l’operazione è riuscita e la mostra offre in effetti uno sguardo completo sull’artista: la qualità dell’allestimento, dei cartelli di sala e del catalogo dedicato (con saggi inediti e la traduzione di contributi già editi), la quantità di documenti a corredo (filmati, riviste, scritti, ritagli di quotidiani) riflettono un grande lavoro di ricerca, svolto in collaborazione con Cinemazero, culminato nella mappatura di oltre 500 fotografie attribuibili con certezza a Modotti, molte di più di quelle note finora.
Il primo tempo di questo racconto è dedicato al rapporto di Tina con Edward Weston. Vi sono i ritratti che lei si lascia scattare da lui; le immagini delle feste e dei luoghi condivisi; le foto che lei scatta a lui. Più che la relazione amorosa è interessante la loro reciproca dipendenza. In Messico, Tina rappresenta per lui l’accesso alla parola (Weston non sa lo spagnolo) e la possibilità di destreggiarsi in una società molto diversa da quella americana. Lui, di contro, non solo le insegna a usare la Graflex 4”x5” (macchina che finalmente libera il fotografo dal cavalletto e dal panno nero), ma la mette nelle condizioni di fare arte. Ancora una volta, si conferma quanto sostenuto da Linda Nochlin nel suo Perché non ci sono grandi artiste donne: “si possono in ogni caso rilevare delle caratteristiche comuni tra le artiste: tutte, quasi senza eccezione, erano o figlie di padri artisti o legate a una personalità artistica maschile più forte o dominante, specie tra XIX e XX secolo.”
D’altra parte, Tina è figlia del suo tempo. Weston in quel momento pratica la cosiddetta straight photography, ovvero una fotografia esatta e a fuoco, “pura” rappresentazione della realtà che ha molti seguaci in America ed Europa negli stessi anni. Tina fa propria questa impostazione e ne manterrà l’assunto concettuale lungo tutta la sua produzione, pur variando tecniche e soggetti: realizzare foto oneste, prive di artifici, essere semplicemente “fotografa”.
Sono di questa fase i close-up di fiori e piante, le nature morte, le foto di architetture ed elementi dell’ambiente circostante. Immagini che fanno risaltare la bellezza delle strutture, la sinuosità delle linee, sia che si tratti di due calle o di tetti abbacinati di sole. Oggi siamo assuefatti a questo tipo di estetica, ma negli anni Venti questo sguardo incarnava una precisa, radicale scelta modernista in rottura con il pittoricismo delle generazioni precedenti.
Un secondo capitolo corrisponde al viaggio che Tina e Weston intraprendono nel 1926 su incarico dell’antropologa Anita Brenner per documentare oggetti folkloristici in diverse regioni del Messico. I due si addentrano nella realtà socioculturale del luogo e raccolgono foto di statuette, cerimonie popolari, maschere e pupazzi; un lavoro a quattro mani che confluirà nel 1929 in un libro celebre: Idol behind altars. Modern Mexican Art and Its Cultural Roots. Oltre ad essere un precoce esempio di etnografia fotografica, le immagini del volume testimoniano il compimento di un nuovo sguardo: Tina è attratta dall’energia della strada, dal magico racchiuso negli oggetti, dall’eccesso della festa.
Dal 1923 al ’29 la sua produzione artistica si lega a doppio filo con il Messico e la mostra ne raccoglie una parte cospicua. La fotografia diventa per lei strumento di indagine della concreta realtà umana, della condizione sociale e del lavoro. Con personale sensibilità, le immagini rivelano la bellezza selvatica dei volti e la tenacia nella povertà: c’è in esse molto amore per il popolo e la vita di ciascuno. Un uomo che porta un grande carico di fieno sulle spalle sembra l’emblema della fatica accolta in quanto destino ineluttabile. Braccia conserte e busto leggermente piegato in avanti. Resiste. Lo sguardo è rivolto verso il basso mentre pensa, prega, o forse cerca di fare il vuoto nella sua testa per sopportare il peso e le corde che gli segano lo sterno. Un cappello messicano è fissato al covone; sta sopra la sua testa, come un crocifisso appeso alla parete.
Mani segnate, piedi luridi, gente distesa sulla strada: per Tina il corpo è denuncia politica. Un grido, le sette bare allineate di campesinos uccisi dai reazionari. Dietro, le famiglie sono una barricata. Tengono la posa di un ritratto di gruppo, guardano in camera e accettano di sospendere il dolore per il tempo dello scatto, perché la foto testimonierà l’ingiustizia di cui sono stati vittime i loro familiari.
L’interesse di Tina per l’umano è ribadito dalla sezione con le foto scattate durante il suo viaggio in solitaria nell’Istmo di Theuantepec. Resta abbagliata dalla fierezza delle donne tehuane che lavorano e prendono decisioni, godendo di libertà maggiori rispetto ad altri luoghi grazie a una società di stampo matriarcale. Da questa esperienza usciranno molti dei suoi scatti più famosi, tra tutti l’icona della ragazza che porta un cesto sulla testa, consapevole della sua bellezza e del suo ruolo nel mondo.
L’attenzione che Tina Modotti dedica alle donne fa di lei una femminista? Si sarebbe tentati di seguire l’interpretazione di Federica Muzzarelli che, nel suo contributo al catalogo scrive: “è femminista nel senso più pieno e aggiornato della parola, quello che ci permette di guardare alle fotografie verificando se siano state capaci di introdurre punti di vista nuovi, di suggerire immaginari trasgressivi, di proporre una visione differente e uno sguardo non omologato”. E ancora, “è l’attenzione focalizzata ai corpi, ai gesti, e alle persone, ai volti, all’umanità quello che sostanzia il suo essere stata una fotografa femminista”. Tuttavia, questa lettura mi pare ben poco avvalorata dalle immagini (militanza politica e denuncia sociale non sono in Modotti specificamente for feminism) e più che altro funzionale al dibattito suscitato da gender e feminist studies. D’altro canto, quali sono (se esistono) i tratti specifici di uno sguardo femminile che consentono l’attribuzione a priori di un’immagine a una donna? Non saranno invece quelli evocati da Muzzarelli caratteri comuni a tanta fotografia e cinema coevi (Walker Evans e Sergei Eizenštejn, su tutti), esaltati certo da un temperamento originale ma non per questo “di genere”?
Al centro del percorso espositivo si trova una “mostra nella mostra”, con la ricostruzione nella forma più completa mai realizzata (41 scatti dei 57/60 originali) della personale del 1929 presso l’Università Nazionale del Messico. La mostra rappresentò il pieno riconoscimento della fotografa e delle sue idee, espresse nell’introduzione a mo’ di manifesto di poetica. L’unica fotografia possibile per Tina è quella che si pone come mezzo per registrare il presente. Antiestetica e oggettiva. Senza pretese. Perché ogni qual volta la fotografia ricorre a imitazioni artistiche, rivela “una specie di complesso di inferiorità” dando l’impressione che “l’autore quasi si vergogni di fotografare la realtà”.
Il percorso della mostra di Rovigo prosegue con una selezione di ritratti che Tina scatta ad amici, colleghi artisti e che dimostra la varietà dei suoi contatti intellettuali, oltre a rievocare il fervore culturale dell’epoca. Da Majakovskij a Eizenštejn, Freeman, Vidali, Charlot, Beals e molti altri; sono immagini in cui la fotografa si concede una certa libertà, riuscendo, seppur nella linearità della composizione, ad aprire uno spiraglio sulla personalità del soggetto.
La fotografia di Tina evolve insieme al suo crescente impegno politico. Si iscrive al partito comunista messicano nel 1927 e da questo momento in poi porta avanti un’arte esplicitamente impegnata, conservando tuttavia una qualità estetica genuina e un intento documentaristico. Sono frequenti le fotografie delle masse di manifestanti, dei simboli rivoluzionari, dei partecipanti al dibattito, immagini che compaiono sui giornali, primo fra tutti “El machete”, ma anche la rivista tedesca “Aiz”, e il magazine “New Masses”.
Nel 1930 Tina raggiunge Berlino, espulsa dal Messico con la falsa accusa di avere avuto un ruolo nell’attentato contro il presidente Rubio. In Germania le viene proposto di lavorare come fotogiornalista, ma non riesce ad adattarsi ai nuovi formati e alla velocità che si stanno imponendo in Europa, con le Leica compatte capaci di 36 pose a rullino contro il caricamento singolo della Graflex. Di fatto, la sua carriera fotografica è conclusa. Lascia Berlino per Mosca, in seguito si reca a Parigi, di nuovo a Mosca, poi in Spagna durante la guerra civile, infine torna in Messico, dove morirà nel 1942 a soli 46 anni.
Al di là della biografia e della sua stessa opera, quali sono i motivi del fascino che Tina Modotti continua a emanare? Forse proprio il suo essere in perenne conflitto tra arte e vita, tra impegno e passione? In una lettera a Weston del 1925 –vale la pena citare per intero il passaggio – scrive: “E parlando di ‘me stessa’: io non posso – come tu una volta mi hai proposto – ‘risolvere il problema della vita col perdermi nel problema dell’arte’. Non solo io non passo farlo ma sento che il problema della vita ostacola il mio problema dell’arte. Ma cos’è ‘il mio problema della vita’? È principalmente uno sforzo per distaccarmi dalla vita e riuscire a dedicarmi completamente all’arte. E qui io so che tu risponderai: ‘L’arte non può esistere senza la vita’. Sì, lo ammetto, ma ci deve essere un giusto equilibrio tra i due elementi mentre nel mio caso la vita lotta continuamente per predominare e l’arte ne soffre. Per arte intendo una creazione di qualsiasi tipo. Potresti dirmi che siccome in me l’elemento della vita è più forte di quello dell’arte dovrei semplicemente rassegnarmi e trarne il meglio. Ma non posso accettare la vita così com’è – è troppo caotica – troppo inconscia – da qui deriva il mio resisterle – la mia guerra con essa – sono sempre in lotta per plasmare la mia vita secondo il mio temperamento e i miei bisogni – in altre parole metto troppa arte nella mia vita – troppa energia – e di conseguenza non mi resta molto da dare all’arte.” In fondo, nonostante la sua fama, meritata, Tina non è sicura di poter essere l’artista che desidera essere: la passione per il reale, per la vita al presente, è in lei troppo forte. L’arte non ne può essere che un riflesso, fascinoso ma insufficiente.
(Doppio zero, 8 Novembre 2023)
Nota della redazione del sito Libreria delle donne:
Il Comune di Milano ha intitolato una piazza in zona Rogoredo (accesso da via Pizzolpasso, angolo via Russolo) all’artista fotografa e attivista italiana Tina Modotti. La richiesta al Comune di intitolare una piazza milanese a una delle più grandi interpreti femminili dell’avanguardia artistica del secolo scorso è partita dalla Casa delle Donne e soprattutto dalla proposta della esperta d’arte e fotografia Biba Giacchetti: “Con l’Assessore alla Cultura del Comune di Milano, che ringrazio, abbiamo condiviso la necessità di intitolare luoghi pubblici a figure femminili di rilievo. E non potevamo non pensare a Tina Modotti. La sua fotografia, legata indissolubilmente al suo impegno politico, la grande importanza di questa donna come esempio di libertà e coerenza e il suo fascino come artista italiana fanno di lei una figura eccezionale”. L’intitolazione a Tina Modotti prosegue il percorso dell’Amministrazione comunale nella valorizzazione del contributo delle donne alla storia artistica, politica e sociale, e segue di pochi giorni l’inaugurazione del primo monumento pubblico dedicato a una donna, Cristina di Belgiojoso.
di Luciana Cimino
L’ideologia bellicista che si è diffusa in Italia ha già da tempo infiltrato la didattica. Dalla scuola primaria all’università, passando per la formazione scuola-lavoro (Pcto) nelle basi militari, le fondazioni di natura bellica, le forze armate e l’esercito hanno permeato in questi anni i processi educativi. «Una vera invasione di campo nell’ambito delle discipline scolastiche tesa a promuovere la carriera militare, presentare le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche che riguardano la società civile, diffondendo una ideologia bellicista che nulla ha a che vedere con la didattica e con i principi di pace di cui la scuola si dovrebbe fare portavoce» sostiene l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Promosso dallo scorso marzo da alcune sedi dei Cobas e delle rispettive sedi del centro studi Cesp, da associazioni antifasciste o cattoliche come Mosaico di Pace e Padre Alex Zanotelli, Pax Christi, dai settori scuola e università del sindacato Usb, tra gli altri, l’Osservatorio ha presentato ieri alla Camera, su iniziativa della deputata Elisabetta Piccolotti di Alternanza Verdi Sinistra (Avs), due iniziative per coinvolgere la società civile su questo tema e fare pressioni sugli atenei statali che fanno parte del comitato scientifico di Med-Or, la fondazione di Leonardo S.p.a. guidata dall’ex ministro Marco Minniti. Da statuto, questa fondazione dovrebbe «promuovere attività culturali, di ricerca e formazione» per «rafforzare i rapporti tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa, Mar Rosso e Medio ed Estremo Oriente».
La prima iniziativa, in corso dall’apertura dell’anno scolastico, è un vademecum operativo rivolto a insegnanti, famiglie e studenti per fare opposizione negli organi collegiali. «È uno strumento agile perché si possa fare obiezione di coscienza – ha spiegato Candida Di Franco dell’Osservatorio – i militari nelle scuole sono previsti da un protocollo del 2014, governo Renzi ma dal 2017 sono stati inseriti tra gli enti formatori e possono proporre direttamente alle scuole la loro offerta, è molto pericoloso». Di Franco ha sottolineato anche la propensione di questo governo a questo approccio: «come la creazione del comitato per la valorizzazione della cultura della Difesa, il presidente del Senato che propone la mini-naja, Salvini che parla di esercitazioni antiterrorismo nelle scuole».
Per Don Renato Sacco di Pax Christi, «l’esercito entra nella scuola in difficoltà dicendo “io sono il benefattore e con pochi soldi ti compro la fotocopiatrice, la carta igienica, il pulmino” e diventa il salvatore della patria». «Ma – nota ancora Don Sacco – c’è un linguaggio militaresco anche sulla stampa, mi ha colpito l’editoriale di Galli della Loggia sul Corriere, ora la cultura è: se riesci a vedere un nemico sei qualcuno sennò sei una schiappa».
La seconda iniziativa proposta dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università è una raccolta firme per chiedere le dimissioni da Med-Or di 13 rettori di altrettanti atenei italiani. «Riteniamo che la loro presenza all’interno della maggiore azienda italiana produttrice di armi, sia incompatibile con la funzione sociale e culturale delle Università», ha detto Giuseppe Curcio, amministrativo dell’Università di Bologna. Tra i primi 45 firmatari ci sono anche Tomaso Montanari, rettore dell’Università per Stranieri di Siena, il fisico Carlo Rovelli, Luca Mercalli, Vittorio Agnoletto. «È preoccupante la promiscuità di incarichi e relazioni tra alcuni rettori e società che producono armi – ha detto Elisabetta Piccolotti – mentre c’è un inasprirsi della retorica della guerra dentro le attività didattiche». «Insistiamo affinché il governo intervenga, blocchi questi processi e si separino i due mondi come è giusto che sia, perché i giovani vanno educati al rispetto delle differenze e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti».
(Il manifesto, 8 novembre 2023)
di Alfio Russo
Presentato il 3 novembre 2023 al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania il libro di Lia Cigarini in occasione dei trent’anni di vita del collettivo femminista catanese La Città Felice.
«È necessario un cambio di civiltà sulle libertà e sulle pratiche politiche delle donne». Ad auspicarlo è Lia Cigarini, pilastro del femminismo italiano e tra le iniziatrici della pratica di autocoscienza femminile che, proprio nei giorni scorsi, è intervenuta al Dipartimento di Scienze politiche e sociali per presentare La politica del desiderio, un romanzo di formazione con scritti che vanno dal 1974 al 1994 insieme con quelli elaborati tra il 1999 e il 2020.
La cofondatrice della Libreria delle donne di Milano, conversando con le intervenute in occasione dei trent’anni di vita del collettivo femminista catanese, ha ribadito con forza il concetto di “cambio di civiltà” smontando lo stato di cose esistenti di simbolica patriarcale, superando la pratica della “separatezza”.
«Superata la necessità del confronto tra donne quale spazio separato», la Cigarini ha esortato a «valorizzare le esperienze maschili quale quella del gruppo “Maschile plurale”, che inizia la pratica dell’autocoscienza». Si tratta sempre di considerare la distinzione tra politica e pratica politica ha precisato, sottolineando che «la teoria efficace deriva da una pratica attuata, messa in parola con l’autocoscienza», per cui esisterebbe un unico femminismo, con diverse, e spesso contrapposte, anime.
L’evento – organizzato da “La Città Felice” insieme con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali – è stato introdotto e moderato dalla dottoranda Giulia Caruso in Pensiero di genere al Dsps.
In apertura dei lavori la prof.ssa Pinella Di Gregorio, direttrice del dipartimento e ordinaria di Storia Contemporanea, ha ricordato come «il femminismo italiano degli anni ’60-’70 costituisca una pietra miliare per la storia delle donne».
«L’attualità del “partire da sé – ha rilevato – significa comprendere il proprio vissuto e confrontarlo con le altre donne allo scopo non di omologarsi al percorso maschile, quanto di mettere in parola la politica del desiderio. Fondamentale, in questo percorso, la contrattazione tra donne che permette loro di gestire e mantenere il proprio potenziale di differenza senza rivalità, in una prospettiva di libertà».
Anna Di Salvo, ex-docente e animatrice del collettivo, ha ripercorso il libro di Lia Cigarini evidenziandone la natura di «antologia della politica delle donne» che consta di due parti. La prima, pubblicata in precedenza, che raccoglie gli scritti dal 1974 al 1994, mentre la seconda, inedita, con gli scritti pubblicati dal 1994 al 2020.
Come cofondatrice di Città Futura, Anna Di Salvo ha ricordato anche le pratiche artistiche condotte dal Collettivo, insieme all’impegno civile e sociale.
Stefania Mazzone, ordinaria di Storia del pensiero politico e delegata all’Inclusione, pari opportunità e politiche di genere del Dsps, ha analizzato «gli anelli della catena generazionale dei femminismi, tra continuità e rotture» individuando «l’esigenza del confronto nella pratica tra le vecchie e le nuove generazioni, senza apriorismi e pregiudizi, nella comune visione di un femminile portatore di desideri corporei, piuttosto che detentore di virtù salvifiche».
Una risemantizzazione contemporanea della “madre simbolica” anche in vista di una critica alle attuali pratiche di ricaptazione del profitto del desiderio da parte del capitale. «Un ritorno alla stanza della tessitura che reinterpreta il mito di Penelope, colei che non aspetta Ulisse, ma intesse relazione con le donne ricreando nuovi spazi del politico», ha aggiunto la docente.
Laura Colombo, della Libreria delle donne di Milano, ha ricordato che «il cambio di civiltà resterebbe un concetto vuoto se le donne non cambiassero il rapporto con gli uomini».
Il libro sarebbe, dunque, una sorta di romanzo di formazione, con la funzione di narrazione delle relazioni di sé.
A seguire Mirella Clausi, docente universitaria di Città Futura, ha rinforzato il concetto di “cambio di civiltà”, anche alla luce degli «ostacoli di un patriarcato che implode sempre più, con l’aumento di femminicidi e guerre».
Teresa Consoli, ordinaria di Sociologia giuridica all’Università di Catania, ha sottolineato come «il testo consenta di ripensarsi, di riflettere sulla propria storia personale, di capire come restare nel mondo». «In quest’ottica – ha aggiunto – i processi neoliberisti di scarnificazione dello stato sociale vengono considerati analoghi alla scarsa attenzione ai desideri delle donne le quali, oggi, sono chiamate a rinominare e mantenere le conquiste raggiunte».
In chiusura Giusi Milazzo, sindacalista di Città Futura, ha evocato la necessità di una «manutenzione della vita», facendo riferimento al noto slogan “Vogliamo il pane, ma anche le rose”, delle lotte delle operaie, mentre Nunzia Scandurra, legale di Città Felice, ha fatto riferimento alla complessità del femminile in ambito giuridico. «La pratica della differenza sessuale, come già ha ricordato Stefania Mazzone, implica la richiesta di stare “sopra la legge”, depenalizzare, creare i vuoti da riempire con la vita», ha spiegato.
(UniCt Magazine, 7 novembre 2023)
di Alberto Leiss
«Parliamo, parliamo, parliamo; e la rete ci consente di farlo più che mai, come non mai. Con presunzione, con prepotenza. Ci illudiamo che le nostre parole abbiano un valore, un potere, ma in realtà non ne hanno. È questo che succede quando le parole scaturiscono dal rumore, anziché dal silenzio, e non risultino iscritte in un noi che le faccia respirare, che dia loro aria: succede che tutto passa, tutto è uguale, tutto è vano».
Una amica femminista mi ha regalato alcune copie (“così le dai ai tuoi amici”) di un libretto da cui è tratta la citazione: credo di aver capito che lei lo ha apprezzato perché vi ha scorto la riflessione di un uomo che giunge a conclusioni sul linguaggio, sulle relazioni e sulla politica vicine a certe scoperte e pratiche del femminismo. Ma seguendo una strada “sua”.
Il libretto, poco più di 80 pagine, è uscito recentemente da Mimesis, e ho scoperto che qui esiste una collana intitolata “Accademia del silenzio”. Il titolo riprende questa indicazione: Il silenzio del noi. L’autore, Niccolò Nisivoccia, che i lettori di questo giornale conoscono per suoi scritti su opere di poesia (lui stesso è anche poeta) parte da una citazione di Camus: «La tragedia non è essere soli. Ma non poter esserlo. A volte, darei tutto per non essere più in alcun modo legato al mondo degli uomini. Ma io sono parte di quel mondo e la scelta più coraggiosa è di accettarlo e di accettare contemporaneamente la tragedia».
Frase di acuta attualità. Di fronte agli orrori che ci circondano e ci attraversano la tentazione di ritrarsi, sottrarsi, esodare verso qualche altrove è ben presente. Qualcuno sostiene che proprio questa resta l’unica alternativa “politica” possibile. Viviamo in un momento in cui la politica – è il titolo di uno dei capitoletti – «ha smarrito la sua ragione d’essere».
C’è la traccia di una genealogia, maschile, perché ritorna l’evocazione di un “silenzio dei padri” che si accompagnava alla passione collettiva per una politica fatta di scambi e parole “vere”, non viziate e nullificate dall’affermazione di un “io” che insieme è la grande conquista della libertà soggettiva moderna ma anche l’involuzione di un individualismo che ha generato forme di idolatria. Qui ho avvertito il rischio di qualche luogo comune e un interrogativo sul significato di quel silenzio paterno che non fa parte della mia esperienza – forse un fatto generazionale? – e che quindi non rimpiango. È sulle parole e suoi comportamenti di mio padre, e qualche altro maschio che ha contato nella mia vita, che torno a riflettere.
Mi ha colpito altro. Il racconto del silenzio molto parlante nell’incontro imprevisto, vent’anni dopo, tra Marina Abramović e il suo vecchio compagno Ulay, in una performance dell’artista nel 2010, al MoMa di New York. E l’idea di un «impegno politico minimo… nella vita di tutti i giorni, senza distinzione fra pubblico e privato». Dimensione in cui il «privato diventa pubblico o, se si preferisce, nella quale il personale diventa collettivo». Un girare intorno al detto femminista “il personale è politico”: per distanziarsene o per arrivarci?
Il testo chiude con la prospettiva che la “cura” del silenzio e di parole più vere – la cura di sé e degli altri – possa costruire una “ideologia” più leggera, non – direi – un programma di partito di vecchio stampo, una rigida “visione del mondo”, ma un «pensiero accomunante, all’interno del quale il nostro io possa tornare a parlare in nome di un noi». Con la «visione di un’utopia… il sentimento di fraternità laica o, se si preferisce, di solidarietà umana e terrena».
Parole che avrebbero anch’esse bisogno di essere risignificate? Forse bisognerebbe provarci.
(Il manifesto, rubrica “In una parola”, 7 novembre 2023)
di Erin Mazursky
Le voci contro lo sterminio di massa non sono abbastanza forti. Abbiamo bisogno di una comunità ebraica diffusa che viva la consapevolezza che la liberazione della Palestina è strettamente legata alla nostra.
Nel 2004, nell’autunno del mio secondo anno di università e dopo essere stata attiva nelle comunità ebraiche fin dall’infanzia, ho silenziosamente rinunciato alla mia identità ebraica e ho cessato di partecipare alle attività ebraiche del mio campus. È accaduto dopo un anno di immersione e approfondimento della storia di Israele e dell’occupazione, quando sono arrivata alla conclusione che non ero in grado di conciliare quelli che ritenevo essere i miei valori ebraici e ciò che veniva fatto ai palestinesi in nome degli ebrei. Mi sono sentita tradita dalla mia educazione ebraica, condizionata e incapace di affrontare la complessità.
Per 18 anni me ne ero stata a guardare i rabbini che predicavano davanti alla bandiera americana e a quella israeliana, segno dell’incrollabile sostegno della comunità a un governo sempre più dispotico, intonando preghiere per Israele. Ho capito che non potevo più farlo. Ho pensato che mi fosse necessario lasciare la comunità.
Con il passare degli anni, gradualmente mi sono stancata di fingere di non avere un’appartenenza ebraica, di nascondere quella parte di me e rimanere in silenzio. Il mio ebraismo ha abbracciato il tikkun olam (il concetto ebraico di “riparare il mondo”). Ne ho fatto lo scopo della mia vita. Il mio ebraismo è profondamente legato alla storia ebraica e alle nostre traversie, ed è grazie a questo che sono fermamente contraria alla violenza e all’occupazione israeliana.
Quando nel 2014 è scoppiata la guerra di Gaza, dieci anni dopo il mio abbandono, non avevo più voglia di dire nulla e mi sentivo sola nel mio ebraismo. Ho scritto un’e-mail di “coming out” (per la seconda volta) alla mia comunità più ampia, ma questa volta denunciando la guerra in quanto ebrea con un credo politico che troppi ebrei definirebbero autolesionista, antisemita e vergognoso. Uno tra le persone amiche a cui quella e-mail era diretta si stava già muovendo per organizzarsi insieme a un gruppetto di altri ebrei che la pensavano allo stesso modo. Di colpo, non ero più sola.
Ho lavorato per mesi con questo gruppo, ospitando sessioni strategiche a casa mia, organizzando eventi e partecipando ad azioni. Questo lavoro ha portato alla fondazione di If Not Now (Se Non Ora), un movimento di giovani ebree ed ebrei americani che lavorano per porre fine al sostegno degli Stati Uniti all’occupazione. A ventinove anni ero considerata un’anziana nel gruppo. Quindi, pur essendo per me una base politica, non ho continuato a parteciparvi attivamente.
Qualche anno dopo, mia moglie e io siamo entrate nella congregazione di un’incredibile sinagoga non lontana dal nostro appartamento di Brooklyn, alla ricerca di una casa ebraica e di una comunità in cui crescere la nostra famiglia. La mia speranza era che, in questa sinagoga, mio figlio non dovesse sentirsi diviso tra la sua identità ebraica e la politica israeliana. Amiamo il rabbinato queer, i valori progressisti, le persone che abbiamo incontrato, soprattutto gli altri genitori queer. Ci piace che il clero parli apertamente di tutte le questioni che anche noi sentiamo con passione e che aiuti la comunità ad agire. Ma mi sto arrovellando per capire se posso davvero farne la mia casa.
Domenica 8 ottobre 2023, il giorno dopo i feroci, impensabili e disumani attacchi di Hamas contro migliaia di civili israeliani, la rabbina capo della nostra sinagoga ha parlato del conflitto in un’e-mail alla comunità. Ha espresso, come deve fare una leader religiosa, profondo lutto, panico, shock e tristezza per le orribili e indifendibili uccisioni e rapimenti. Ha giustamente deplorato Hamas. Ma in quel messaggio ha anche invitato a sostenere Israele in modo incondizionato. Proprio quella mancanza di riserve che vent’anni fa mi ha indotta ad accantonare una parte centrale di me.
Ho parenti e amici in Israele. So che nessuno è rimasto indenne dalle azioni violente di Hamas. Non c’è mai una scusa per il terrorismo. Ma che dire del terrore, della disumanizzazione sistematica che l’esercito e il governo israeliano hanno imposto ai palestinesi per decenni?
Non voglio, non posso stare dalla parte del governo autoritario e di destra di Israele, così come non potevo, non volevo stare dalla parte del governo statunitense nel 2003 durante le invasioni di Iraq e Afghanistan. Il mio attivismo non mi ha reso meno americana. Perché il mio attivismo contro le politiche disumane di Israele continua a mettere in discussione il mio ebraismo?
Siamo un popolo generoso, riflessivo e ricco di valori. Ma ora sto mettendo in dubbio la capacità di questa comunità di mantenere le distinzioni e di agire in base ai nostri valori. Sto mettendo in dubbio la sua capacità di accogliere persone come me, alla disperata ricerca di conforto e di una comunità in cui possiamo dire no alla morte di Israele, ma possiamo anche mettere in discussione e persino opporci alle azioni del governo israeliano, che commette atti di violenza in nome del popolo ebraico. Hamas è un’organizzazione terroristica. Mi aspetto che uccidano. Non rappresentano tutti i palestinesi. Mi aspetto di più dal mio popolo.
Siamo di fronte alla minaccia di una pulizia etnica a Gaza, mentre i carri armati si schierano pronti alla vendetta. Dove sono le nostre voci ora? I nostri valori ebraici non ci dicono che la violenza non dovrebbe generare violenza, che spianare Gaza non riporterà in vita i morti, non sconfiggerà Hamas né porterà la pace? L’unica cosa che porterà la pace è mettere al centro l’umanità dell’altro e, mentre il conflitto è complicato, questo alla fin fine è molto semplice. Oggi non saremmo a questo punto se avessimo costruito sistemi che riconoscessero l’umanità dei palestinesi invece di negarla.
Le azioni che Israele sta compiendo saranno una macchia sul nostro popolo per i secoli a venire.
Finora sembra che gran parte della comunità ebraica approvi questo omicidio di massa. E se non lo fa, di certo la sua voce non è abbastanza forte. La maggior parte di noi è stata messa a tacere da una comunità ebraica maggioritaria che sembra credere che possiamo trascurare i nostri valori quando si tratta di palestinesi. Quelli di noi che dissentono possono avere conversazioni a due, come ho fatto io questa settimana. Ma dove posso trovare una comunità che viva la convinzione che la liberazione della Palestina è pienamente legata alla nostra?
Sono grata per il lavoro che If Not Now continua a fare per opporsi alla violenza israeliana, e mi unisco alle loro azioni politiche come posso. Ma i suoi leader sono sempre più giovani mentre io, per fortuna, invecchio. Eppure sono ancora alla ricerca. Non voglio che il trauma collettivo del nostro popolo continui a essere una scusa per infliggere orrori e traumi ad altri. Non era questo lo scopo originario dell’esperimento sionista.
Voglio celebrare un lutto collettivo. Voglio costruire insieme spazi di guarigione. Voglio attivarmi attraverso la nostra tristezza e la nostra perdita. Voglio che il mio disaccordo con il governo israeliano non sia visto come una minaccia esistenziale per tutti gli ebrei. Possiamo parlare di come una complicità che non si fa domande sia per me un problema esistenziale? Possiamo vedere il male di Hamas e continuare a vedere l’umanità dei palestinesi? Possiamo non essere d’accordo con i sistemi di “difesa” messi in atto da Israele – occupazione, blocchi, apartheid, accaparramento delle terre – pur concordando sul fatto che gli israeliani hanno il diritto di essere al sicuro?
Ho scritto una versione simile di questo articolo in forma di e-mail al mio clero, chiedendo se ci fosse un posto per me nella loro sinagoga, dato che non posso rispondere all’appello della rabbina a “stare dalla parte di Israele” (anche se posso stare con gli israeliani, così come con i palestinesi). C’è spazio per affermare il mio ebraismo lì? Forse il mio io più maturo si rende conto che la cosa più responsabile che posso fare è rendere la mia comunità più forte, invece di scivolare nell’insignificanza. Come nove anni fa, forse questo spazio ha solo bisogno di essere creato, evoluto, ampliato per le persone di tutte le età.
Uno dei principi fondamentali dell’Ebraismo Riformato è quello di mantenere la complessità e di mettere in discussione. Non abbiamo definizioni ristrette di bene e male, paradiso o inferno. Rabbini e oracoli discutono le sfumature della condizione umana da millenni. È una dolorosa ipocrisia che proprio ciò che mi tiene ancorata alla mia fede – il permesso di fare domande, il comandamento di cercare la giustizia, il valore di riconoscere l’umanità nelle diverse sfumature – siano le stesse cose che in questo momento mi alienano.
In mezzo al caos in cui la comunità ebraica si è ritrovata in questa settimana e all’escalation di crimini d’odio antisemiti (e antipalestinesi) in tutto il Paese, la mia rabbina ha risposto rapidamente alla mia domanda sul mio posto nella comunità di cui è la guida. “Grazie per questa lettera incredibilmente sentita, bella e toccante”, mi ha scritto. “Non so se siamo d’accordo al 100%, ma siamo molto più vicine di quanto non sia sembrato questa settimana… So che qui c’è posto per te”. Le credo.
(Erbacce, 7 novembre 2023, traduzione di Margherita Giacobino. L’articolo è apparso su Waiging non violence il 17 ottobre 2023)
di Annalisa Camilli
Il regista mette in scena tutte le sfumature della disperazione femminile, ma anche la resa di un maschile senza salvezza. Partendo da due testi di Natalia Ginzburg
Molti conoscono quell’articolo sul “pozzo” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1948 sulla rivista Mercurio, diretta dalla sua amica, la scrittrice Alba de Céspedes. Quello in cui Ginzburg parlava della malinconia particolare in cui cadono di tanto in tanto le donne – tutte le donne – di qualsiasi origine e classe sociale. Quel pozzo che è la loro infelicità e che deriva da secoli di subalternità. Quel pozzo con cui devono fare i conti anche quelle più libere: la fatica e la sofferenza, cioè, di affrontare un mondo che non è stato fatto per loro e che non le prevede, se non in ruoli marginali.
«Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla», scriveva Ginzburg su Mercurio.
E ancora: «M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi induceva a commiserarle e che capivo molto bene, perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai».
A quel pozzo si pensa subito e continuamente, quando appaiono sulla scena Barbara, Tosca, Flaminia e Letizia, le quattro donne – di età e classi sociali diverse – che sono le protagoniste di Fragola e panna (Einaudi 2023), la commedia in due atti scritta da Ginzburg nel 1966 (prima della rivoluzione sessuale, del sessantotto, del referendum italiano sul divorzio) e portata in scena da Nanni Moretti nel suo Diari d’amore, insieme a un’altra opera della scrittrice, Dialogo, in questi giorni sul palco dell’Arena del sole di Bologna e poi in tournée in tutta Italia. Alla sua prima esperienza da regista teatrale, Moretti sceglie due testi di Ginzburg, una scrittrice a cui è molto legato. Fragola e panna non è mai stato messo in scena.
Quattro diverse infelicità
Le quattro donne di questa commedia sono tutte espressioni diverse di quell’infelicità. Flaminia, la padrona di casa, è la più ambigua, la più compromessa. È benestante, ha una bella villa in campagna, ma ha sposato un uomo che l’ha sempre tradita e con cui vive da separata in casa, in un isolamento e un’ipocrisia che risultano insopportabili anche alla domestica, Tosca, che ripete continuamente di volersene andare.
«Di Cesare ora non me ne importa più niente, ma prima di arrivare a questo distacco, ho sofferto, mi sono lacerata e straziata», confessa a un certo punto Flaminia mentre parla con Barbara, la giovanissima amante del marito, che è venuta a cercarlo a casa in un giorno di neve con un’enorme valigia, per sfuggire alla rabbia del suo di marito, che l’ha picchiata, dopo avere scoperto il tradimento.
Tra le due donne si crea subito un’intimità, si specchiano, per un attimo intuiscono il fondo di quel pozzo in cui entrambe sono precipitate. Ma poi ciascuna torna a recitare la sua parte: Flaminia dà dei soldi e da mangiare a Barbara, e poi la caccia di casa e la fa portare dalla sorella Letizia in un convento di suore. E quando torna Cesare, il marito, continua a recitare la parte della complice.
Anche se poi scopre un disagio nuovo di fronte al cinismo del marito, un malessere che è stata Barbara – la ragazza sprovveduta e disperata che le è piombata in casa – a scatenare. Flaminia è gelosa di Barbara, ma non di Cesare, per l’amore che Barbara è capace di provare e che lei invece non sa sentire più, se non in forma di disprezzo. «Lei è innamorata di te, chissà cosa vede in te e io invece so quello che sei, sei niente, un uomo di niente», dice a un certo punto al marito, che si è seduto sul divano del salotto, al centro della scena per tutto lo spettacolo.
Mentre Flaminia scende nel pozzo e scopre una nuova coscienza di sé, Cesare minimizza le sue responsabilità, prova a manipolare la moglie promettendole una crociera e dipinge Barbara come una persona malata e marginale. «Sapete cosa fa a quest’ora? Gira la città da un caffè all’altro, mangiando gelati. La sua passione sono i gelati di fragola con panna. È capace di mangiarne dieci in un solo pomeriggio. Ha lo stomaco di un rinoceronte», dice con freddezza, per mettere a tacere la moglie e la cognata che sono preoccupate per la sorte della ragazza.
Cesare è interpretato da uno dei più importanti attori teatrali italiani, Valerio Binasco, che veste i panni di un uomo, vile e cinico, con molto calore. L’effetto è un personaggio senza salvezza, che tuttavia sembra consapevole della sua meschinità. Quello di Cesare è un maschile che alza le mani e si consegna: mostra la radice marcia che lo ha prodotto. Ma non chiede perdono.
Colpisce la scelta di avere affidato a due attori di grande esperienza e spessore dei ruoli secondari. Binasco è Cesare, mentre Daria Deflorian, altro nome di spicco della scena teatrale italiana, veste i panni della governante Tosca. Il personaggio di estrazione più bassa, eppure il più moderno della pièce. Madre single e lavoratrice, la domestica Tosca è l’unica che ascolta la ragazza, l’unica che da subito empatizza con lei, pur non capendo esattamente a che titolo stia bussando alla porta della casa in cui lavora.
Tosca ripete continuamente che sta per andarsene, perché la casa è troppo isolata, non le piace la campagna, c’è troppo silenzio e in sostanza si respira troppa infelicità: «Non sarebbero cattivi, però non danno grande soddisfazione. Mangiano e non dicono è buono, è cattivo. Niente. Non ti dicono mai niente».
Incontrarsi da un’altra parte
Quando le hanno proposto di fare il provino per il ruolo di Tosca, Daria Deflorian stava lavorando a un altro progetto suo, che ha dovuto rimandare, ma non le è costato fatica. Voleva partecipare all’esordio teatrale di Moretti, che l’aveva già diretta nel film Tre piani. «Non credo di avere fatto un buon provino, non credo di sapere fare provini. C’era un grande imbarazzo tra me e Nanni», racconta Deflorian il giorno dopo il debutto di Diari d’amore a Bologna.
«Per me è stato molto importante provare che potevo recitare senza scegliere nulla, provare a fare quello che dice Jorge Luis Borges in uno dei suoi libri, riscrivere il Don Chisciotte senza cambiare una virgola. È un lavoro che a livello attoriale mi sta confortando: eseguo e basta. Altrimenti il ventaglio dei personaggi che si possono interpretare nel corso di una vita diventa limitato», spiega Deflorian, che è anche autrice e regista.
«Per me interpretare Tosca ha significato interpretare un personaggio senza indossare la maschera, cioè la possibilità d’incontrarmi da un’altra parte, in un testo del passato, scritto da Ginzburg, che non mi appartiene affatto. È stata la possibilità di non abituarsi a interpretare solo quello che ci assomiglia, stare solo dentro al simile. Stare in scena è un piccolo allenamento a metterci nei panni dell’altro», continua a spiegare l’attrice.
«Per esempio all’inizio avevo messo nel personaggio di Tosca una mia idea di classe: cioè l’idea che la domestica fosse più in gamba del lavoro che faceva, che meritasse molto di più. Invece Moretti mi ha detto: “No, lei è molto orgogliosa del lavoro che fa”. Queste poche parole da subito mi hanno guidato nel lavoro», racconta Deflorian, che da ragazza ha dovuto lavorare come domestica per guadagnarsi da vivere. «Pensavo che l’altro da me fosse interpretare una donna borghese annoiata, come il personaggio che ho fatto in L’origine del mondo di Lucia Calamaro. E invece uscire da me ha significato interpretare una domestica orgogliosa del suo lavoro», spiega.
«Una cosa che mi piace molto di Tosca è che dalla cucina ascolta tutto, c’è anche quando non è in scena. Ogni tanto quel personaggio mi ha fatto pensare alle badanti di mia madre, che stavano così lontano dai loro figli, dalla loro famiglia. Donne che hanno fatto scelte “dannate”, ma che in queste decisioni di migrare per lavorare interpretano il desiderio di stare in vita, di proseguire la vita».
Moretti ha deciso che la messa in scena delle commedie fosse molto rispettosa del testo di Ginzburg, interpretato anche dagli attori in maniera scrupolosa. «Ci ha chiesto anzi di calcare le parole che non si usano più e che ci riportano indietro nel tempo», racconta Deflorian.
Questo anche per esaltare le caratteristiche del linguaggio della scrittrice piemontese, che da qualche anno vive una riscoperta, dovuta anche al successo delle traduzioni in inglese dei suoi romanzi fatte dalla famosa traduttrice statunitense Ann Goldstein (la stessa che ha portato negli Stati Uniti la trilogia di Elena Ferrante). “Ginzburgmania” l’ha definita Davide Coppo in un lungo articolo su Rivista Studio, in cui ha intervistato anche il curatore italiano delle opere di Ginzburg per Einaudi, Domenico Scarpa.
«Ci ritroviamo tutti, alla fine di un burnout lavorativo, di un amore finito, di un altro anno portato avanti senza certezze, a pensare come la povera Barbara di Fragola e panna: “Ma come farò, tutta la vita? Sarà tutta la vita così?”», conclude Coppo, che ricorda la passione di una scrittrice contemporanea come Sally Rooney per Ginzburg. Uno dei motivi della modernità dei testi di Ginzburg, del suo continuare a parlarci oltre il tempo, sta nella lingua: piana, precisa, sobria, vicina al parlato.
«La lingua di Ginzburg è bella da leggere, ma è ancora più bella da recitare. Prima di lavorare a questo spettacolo non ero un’appassionata dei suoi libri, ma ho scoperto nei suoi testi questa capacità di prendere posizione anche nell’incertezza. La sua forza è che non può fare mai a meno dell’altro. Il suo femminile non vuole rinunciare, per esempio, al dialogo con il maschile, anche se lo spazio di libertà è minimo», racconta Deflorian.
La domestica, Tosca, nel suo rivendicare il suo disagio, dicendo che se ne vuole andare, «parla in fondo della necessità che ci siano gli altri, esprime il desiderio di relazione, di comunicazione, che non trova nella villa, in quella coppia borghese che si regge sull’ipocrisia».
Secondo l’attrice, quello che funziona dei dialoghi di Ginzburg è che c’è sempre «qualcosa che non torna, c’è come un desiderio di un abbraccio, ma questa ricomposizione non arriva mai».
(L’Essenziale, 6 novembre 2023)
di Lia Tagliacozzo
Ecco, ci risiamo, come una sorta di riflesso pavloviano con la guerra tra Israele e Hamas, ancora una volta, gli indicatori dell’antisemitismo salgono. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e il suo Osservatorio antisemitismo lo evidenziano: «L’incremento è enorme – spiega il direttore Gadi Luzzatto Voghera –. Solo in queste ultime tre settimane abbiamo ricevute oltre 70 segnalazioni anche off line», dove off line sta per minacce dirette, malversazioni, scritte intimidatorie che travasano dal mondo virtuale per entrare nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nelle nostre università. A darne conto è anche la stampa: le pietre di inciampo vandalizzate a Trastevere, in pieno centro capitolino, una casa segnata con la stella di Davide di una donna ebrea a Milano, insulti e minacce telefoniche che si concludono con “Palestina libera”, abitazioni private segnate con la stella ebraica a Parigi, molotov contro una sinagoga di Berlino. «La provenienza è difficile da stabilire – prosegue Luzzatto Voghera – vengono utilizzati i simboli classici dell’ostilità antiebraica: svastiche, Hitler non ha finito il lavoro o, viceversa, siete peggio di Hitler».
Quando crescono le tensioni in Medio Oriente i venti di guerra arrivano anche qui, narrazioni tossiche inquinano la discussione pubblica. Nel frattempo, in Italia (e non solo), la percezione di solitudine si diffonde presso molti ebrei, soprattutto di sinistra, qualsiasi cosa «essere di sinistra» voglia dire. Molta destra è antisemita e razzista, la solidarietà a Israele strumentale all’incitamento dell’islamofobia e del razzismo volti a criminalizzare l’immigrazione: di questo il manifesto si è spesso occupato con firme importanti e autorevoli. Ma c’è dell’altro, qualcosa che una parte del mondo della sinistra non vuole proprio sentirsi dire: che esistono al suo interno narrazioni che ricalcano stereotipi antisemiti della matrice più classica accompagnata da un uso ridondante di avversative. Una sorte di afasia impedisce di dire che l’attacco del 7 ottobre compiuto da Hamas nel sud di Israele è un atto di terrorismo compiuto «not in our names», le affermazioni di condanna sono spesso seguite da un «ma» o un «però» che ne comprime, inevitabilmente, la portata. Arturo Marzano insegna all’Università di Pisa e si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele e del conflitto israelo-palestinese: «Anche io – spiega – sono tra coloro che usano gli avversativi. Condanno l’attacco di Hamas inequivocabilmente ma dico pure che, se dobbiamo condannare quanto avvenuto in Israele il 7 ottobre, dobbiamo anche inserire quanto accaduto nel suo contesto, che è quello dell’occupazione dei territori palestinesi, che dura dal 1967. Eppure sono in difficoltà, perché non voglio contribuire alla sensazione di isolamento che molti ebrei italiani e molta sinistra israeliana provano in questo momento. Per questa ragione, propongo una narrazione che comprenda la condanna dell’attacco di Hamas e la solidarietà per le vittime israeliane, la condanna per quanto le forze armate israeliane stanno facendo a Gaza e la solidarietà per le vittime palestinesi, e sia capace di denunciare insieme l’antisemitismo e l’islamofobia dilaganti».
A dare voce all’isolamento nei giorni scorsi c’è stato anche un appello di intellettuali israeliani – promotori Eva Illouz, sociologa e scrittrice; Aviad Kleinberg, storico, presidente del Ruppin Academic Center e lo scrittore David Grossman. Seguono firme di attivisti progressisti «impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani». «In questo momento – riporta il documento – più che mai, abbiamo bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra globale, sotto forma di un appello inequivocabile contro la violenza indiscriminata contro i civili da entrambe le parti». E concludono: «Insistiamo: non c’è contraddizione tra l’opporsi fermamente alla sottomissione dei palestinesi da parte di Israele e la condanna inequivocabile dei brutali atti di violenza contro civili innocenti. In effetti, qualsiasi uomo di sinistra coerente deve mantenere entrambe le posizioni contemporaneamente». La riflessione che la distanza dalla guerra possa quindi offrire la possibilità di uno sguardo terzo, non per questo neutro, necessario per restituire spazio alla politica sembra non avere senso e facoltà di parola o di ascolto.
Dove Marzano sottolinea la necessità di non perdere di vista il contesto dell’occupazione israeliana per comprendere quanto accaduto il 7 ottobre, Luzzatto Voghera osserva invece un’incapacità di declinare la complessità di quel conflitto: «Se nella sinistra istituzionale osservo grande cautela, quello che mi colpisce in maniera negativa è la percezione di qualcosa che cova nella sinistra intorno alle università e ai luoghi di produzione culturale: circolano volantini in cui magari non si nomina Hamas ma si strilla o si scrive ‘morte ai sionisti’, il ricorso frequente alla parola ‘genocidio’ con riferimento al popolo palestinese che ha valore oltre il suo contesto specifico perché funziona da attivatore della memoria della Shoah, a farne richiamo o comparazione».
«Nel linguaggio della sinistra italiana – prosegue a distanza Marzano – esiste ed è radicata l’endiadi Resistenza-Palestina che dura ancora dagli anni ’70: il rischio è che si finisca per giustificare qualsiasi cosa facciano i palestinesi mentre è necessario distinguere tra il diritto alla resistenza palestinese, che è legittima e va sostenuta, e gli atti di terrorismo come quello del 7 ottobre, che sono ingiustificabili e vanno condannati. «Ma – continua, aggiungendo una congiunzione avversativa dopo aver vissuto tre anni nei Territori dell’autonomia palestinese – bisogna sottolineare come l’ideologia di Hamas sia infarcita di antisemitismo, così come riconoscere che ne è pieno l’intero mondo arabo. La triade Stati Uniti, Israele, ebrei è molto spesso presentata facendo ricorso a retoriche cospirazioniste antisemite. Il che non vuol dire però che non si possano criticare le politiche del governo israeliano o essere antisionisti senza essere antisemiti. L’antisionismo non coincide tout court con l’antisemitismo». Luzzatto Voghera controbatte a distanza: «Il problema serissimo che nasce dopo il 7 ottobre è che i terroristi di Hamas hanno ucciso i sionisti ebrei: lo si sente in tutti i filmati. Ci si deve rendere conto che esiste una moderna ideologia islamista, attenzione non islamica piuttosto una distorsione contemporanea della teologia islamica utilizzata con lo scopo di prendere il potere, per questo è incomprensibile l’appiattimento sulla retorica di Hamas. Abbiamo visto ragazzi e ragazze urlare slogan che sono chiaramente antisemiti, Palestine will be free from the river to the sea: significa che Israele non deve esistere e questo è antisemitismo. Lasciando il beneficio del dubbio sul fatto che non abbiano capito gli slogan in arabo che incitavano ad aprire case e confini per uccidere gli ebrei».
Luzzatto Voghera prosegue sottolineando come il 7 ottobre sia un punto di non ritorno: «La prima ragione è che i primi 1.400 morti di questo conflitto – i ragazzi del rave e la gente dei kibbuzim – sono gli stessi che hanno marciato contro Benjamin Netanyahu, eppure i terroristi sono andati a colpire proprio loro, non quelli che potrebbero essere i loro nemici politici, sono andati a colpire gli israeliani che lavoravano per la pace, eppure questo non lo si è quasi letto. Il secondo elemento gigantesco è che Israele si è rivelato niente affatto invincibile, i grandi servizi segreti e il grande esercito di una certa retorica è stato nei fatti messo nel sacco e mostrato un’enorme vulnerabilità. Alla fine della guerra in Israele su questo dovranno fare i conti. Il terzo elemento di novità rispetto ad altri momenti di quel conflitto è che, con ogni evidenza, sia in Israele che tra i palestinesi ci sono leadership estremiste e inadeguate. Amos Oz diceva che, al termine di tutto, è con i nemici che bisogna fare la pace. Ma alla fine, con questi personaggi al potere, ci sarà qualcuno al quale interessi davvero fare la pace?».
Scrive Yuval Noah Harari, storico e protagonista del movimento democratico israeliano: «Coloro che in Europa hanno il privilegio di non patire direttamente il dolore, di non vivere sotto i missili e le bombe, di non sentirsi fragili […] hanno il dovere di tenere alta la bandiera della saggezza e della ragione». Un privilegio trasformabile in responsabilità.
(il manifesto, 5 novembre 2023)
di Vincenza Bufacchi
In Francia, dove l’aborto è legale dal 1975, il presidente Emmanuel Macron ha promesso di inserire il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza nella Costituzione. Ha detto: «Nel 2024 la libertà delle donne di abortire sarà irreversibile». La priorità è metterlo al riparo. Ancora oggi l’aborto continua a essere terreno di scontro tra progressisti e conservatori. Ma perché accade? La mia tesi è che c’entri poco o niente l’amore per la vita e che, invece, ciò abbia molto a che fare con l’antichissimo, ancestrale tentativo di dominare le donne, di controllare le donne, la loro sessualità, la procreazione. Idee, seppur non così esplicitamente declamate, ancora in voga tra le forze conservatrici.
Questo dominio ha due facce, una individuale (il rapporto di un singolo uomo con una donna, il femminicidio come risoluzione estrema di un conflitto) e una sociale: lo Stato che controlla la capacità procreativa come una leva di politica demografica. In entrambi i casi si assume che il corpo della donna non sia della donna, non le appartenga. Nella Storia antica e recente non mancano gli esempi: lo ius primae noctis, il diritto del signore feudale a trascorrere la prima notte di nozze con la moglie del servo della gleba, sul cui effettivo esercizio persiste un profondo disaccordo tra gli storici, ma questo poco o nulla interessa, perché è comunque espressione di un ordine simbolico: non era una pratica sessuale, ma piuttosto l’affermazione del potere politico sulla capacità di procreare delle donne, la procreazione doveva essere compatibile con l’ordinamento sociale e con le risorse di quell’ordinamento.
Più di recente, il regime fascista aveva istituito la tassa sulla infecondità, cioè fare figli non atteneva alla scelta delle persone e in primo luogo delle donne, ma era una prerogativa dello Stato. Si potrebbero fare tanti altri esempi che non riguardano la procreazione, ma la sessualità delle donne: l’istituzione della figura giuridica del delitto d’onore o del matrimonio riparatore. Insomma, teorie, pratiche, reati tutti tendenti a limitare la libertà delle donne, a considerare il loro corpo come un “contenitore” che lo Stato decide come “usare”. Si torna alla necessità di comprimere il potere delle donne di generare, un potere ben maggiore di quel potere di vitae et necis prerogativa esclusiva del sovrano che non aveva il potere di dare la vita, ma di risparmiare la vita non dando la morte.
La crociata in corso ormai da anni negli Stati Uniti sull’aborto, e non solo negli Stati Uniti, conferma che la posta in gioco è sempre la stessa. Come vedremo Stato e Chiese sono spesso alleati in queste battaglie. Siamo nel 2019, Trump è stato eletto nel 2017 e sarà presidente fino al 2021. L’aborto è consentito in tutti i 50 Stati dalla storica sentenza del 1973 Roe vs. Wade, con la quale la Corte aveva riconosciuto ad una donna texana, Norma Mc Corvey, il diritto di interrompere la gravidanza. Nell’emettere questa sentenza la Corte si era appellata al IV emendamento della Costituzione americana che protegge corpo, casa, proprietà dall’ingerenza dell’autorità. Nessuno Stato americano però inserisce questo diritto nelle Costituzioni che a quel tempo vietavano l’aborto o legifera in materia perché la sentenza federale rende l’aborto legale in tutti gli Stati.
Nel 2019 le campagne dei movimenti pro-life e no-choice trovano sponda in alcuni Stati, Alabama, Kentucky, Ohio, che adottano la legge del “battito cardiaco” limitando l’aborto alla sesta settimana di vita del feto. In Alabama si tenta di approvare una legge che non consente l’aborto nemmeno nei casi di stupro o incesto. In Georgia viene attribuita personalità giuridica al feto, perciò l’aborto è a tutti gli effetti un omicidio, punibile al rientro nello Stato anche quando la donna lo praticasse all’estero. Ci sono ovviamente anche Stati progressisti che legiferano diversamente come New York, Illinois, Massachusetts.
Sempre nel 2019 il 58% degli americani e delle americane pensa che l’aborto dovrebbe essere consentito sempre o quasi sempre, il 37% che invece dovrebbe essere vietato sempre o quasi sempre, solo il 15% sempre, quindi anche in caso di stupro o incesto. Alleati dei no-choice e pro-life sono i nuovi movimenti protestanti come gli evangelici, non i movimenti storici protestanti come gli episcopaliani e i metodisti, più tolleranti. Dove la politica si salda alla religione?
Trump promette agli evangelici, il primo gruppo religioso americano, suoi sostenitori, di nominare alla Corte Suprema americana nuovi giudici antiabortisti. Così avviene tra il 2017 e il 2020, con Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett (quest’ultima al posto di Ruth Bader Ginsburg, femminista). Come previsto, il 24 giugno 2022 la Corte Suprema americana ha abolito la storica sentenza del 1973. Da quel momento gli Stati sono di fatto liberi di legiferare in materia. Ora l’aborto è consentito in 14 Stati americani – California, Colorado, Connecticut, Delaware, Hawaii, Illinois, Maine, Maryland, Massachusetts, New Jersey, New Mexico, New York, Oregon, Vermont, Washington – e nel Distretto della Columbia. In altri 16 Stati l’aborto è vietato o fortemente limitato. In questi Stati l’aborto è legale solo in caso di pericolo di vita per la madre o di gravi malformazioni fetali. Infine, in 20 Stati l’aborto è illegale o quasi illegale. In questi Stati l’aborto è vietato in qualsiasi momento della gravidanza, con eccezioni molto limitate. In 11 di questi ultimi 20 Stati l’aborto è vietato anche in caso di stupro o incesto.
Intanto Trump, incurante dei sondaggi e ignaro del referendum italiano del 1981, ha perso le elezioni del 2021. A determinare la sua caduta è stata decisiva la sua posizione sull’aborto e soprattutto le conseguenze politiche delle nomine di giudici antiabortisti alla Corte Suprema con tutto quel che ne è conseguito nelle legislazioni sull’aborto degli Stati. La legislazione più o meno tollerante sull’aborto coincide con la divisione tra Stati democratici-progressisti e Stati repubblicani-conservatori. È facile, quasi ovvio, rilevare che tutto questo a poco o niente a che fare con la donna, la gravidanza, la vita, l’amore per la vita. Non per caso l’Alabama, che è uno degli Stati più oltranzisti, ha il più alto tasso di mortalità infantile, il più alto tasso di mortalità durante il parto, il più basso tasso di assistenza alle donne incinte e alle neomamme. E, invece, ha molto a che fare con i sistemi conservatori e autoritari di controllare la procreazione a fini politici, ha a che fare con la limitazione, il controllo ancestrale della capacità di generare, un potere assoluto ben maggiore di qualsiasi potere.
(27esimaora.corriere.it, 4 novembre 2023 – Letture)
Catania. In occasione dei trent’anni del gruppo femminista “La Città Felice” Lia Cigarini ha presentato, nell’aula magna del dipartimento di Scienze Politiche di Catania, la nuova edizione del suo testo La politica del desiderio (Orthotes editore) che presenta gli scritti che vanno dal 1974 al 1994 arricchiti da quelli pubblicati tra il 1999 e il 2020. Un libro che è una sorta di “romanzo di formazione”, di “antologia della politica delle donne” e del femminismo di cui ripercorre sia il pensiero e le tematiche fondamentali – quali la libertà femminile, il desiderio, la rappresentanza, il lavoro, il diritto e l’aborto – sia le pratiche politiche inventante e sperimentate dalle donne, dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio, del partire da sé, della differenza con gli uomini e delle relazioni duali tra donne. Temi discussi dalle docenti Pinella Di Gregorio, Stefania Mazzone e Teresa Consoli e dalle femministe Laura Colombo della Libreria delle donne di Milano e Anna Di Salvo, Mirella Clausi, Giusi Milazzo e Nunzia Scandurra de La Città Felice.
Per Lia Cigarini – avvocata, giurista e una delle principali protagoniste del femminismo italiano – “l’orizzonte della politica delle donne era, ed è, un cambio di civiltà” da realizzare attraverso la pratica della differenza femminile, uno degli apporti italiani più innovativi e studiati dal femminismo internazionale. Le donne – sostiene – anche con la loro entrata dirompente nel mondo del lavoro, hanno scosso le fondamenta del patriarcato, l’hanno svuotato dal di dentro perché non gli danno più consenso, vanno da un’altra parte in una sorta di esodo. Questo, da una parte, ha portato al fatto che anche gli uomini accettino i concetti e i diritti di parità – peraltro già sanciti dall’art.3 della Costituzione che però incasella le donne, che sono maggioranza, tra le minoranze, come quelle etniche, linguistiche e di religione – ma, allo stesso tempo, i maschi si sentono profondamente disturbati perché vedono che le donne vanno avanti – conquistando posizioni apicali, nelle istituzioni, nella politica e nelle aziende – mentre loro sono bloccati. Le donne non sono più dipendenti da loro, in loro possesso e, peraltro, troncano le relazioni sentimentali, li abbandonano. Abbandono che per i maschi – che lo vivono come l’abbandono della madre cui sono profondamente legati – è intollerabile. Di qui l’incremento esponenziale dei femminicidi, espressione distorta della conquistata libertà delle donne.
Le femministe sottolineano che l’obiettivo della loro lotta non è la parità, ma la possibilità di esprimere e affermare la propria differenza, i propri desideri, la propria libertà che è possibilità di costruire il senso di sé trovato di volta in volta nel rapporto con gli altri. “La libertà – dice Lia Cigarini – è un’esperienza che si guadagna con l’autocoscienza, la psicoanalisi, la pratica delle relazioni. È l’esperienza personale, insieme alle relazioni con le altre e gli altri, a modificare la realtà, non le leggi che sono un modo di delegare al potere, un modo di dare il potere di risolvere i problemi al Governo e a una maggioranza parlamentare, tra l’altro entrambi espressioni di una parte della popolazione. Un approccio che è il contrario della politica femminista secondo cui è con la pratica delle relazioni e con l’autonomia che si risolvono i problemi, non con la legge”. Per questo le femministe degli anni Settanta dicevano di essere sopra la legge e chiedevano – ma furono sconfitte – la depenalizzazione dell’aborto anziché una legge che lo regolasse, legge che pure oggi difendono dai ripetuti attacchi.
Ed è per questo che Lia Cigarini e le femministe della differenza sono convinte che il cambio di civiltà passi anche attraverso nuovi tipi di relazioni delle donne con gli uomini, quelli che – come i partecipanti all’esperienza di “Maschile plurale” – stanno facendo propria la pratica delle donne dell’interrogarsi e del partire da sé. Gli uomini che ripudiano la guerra, che s’inseriscono nella lunga tradizione del pacifismo, che sono consapevoli che la violenza contro le donne, quella che chiamiamo “questione femminile”, è in realtà una “questione maschile” perché c’è una radice antropologica nella violenza, quella della guerra come quella contro le donne. Ed è su questo nodo che devono interrogarsi per superarlo, trasformarlo. Uomini che devono riflettere sulla propria differenza – superando la propria percezione di sé, maschile, come se fosse universale – ed elaborare un proprio linguaggio. Tanto più necessario in questo periodo storico in cui anche il lavoro delle nuove generazioni è “femminile”, nel senso che è frutto della messa a profitto del desiderio dal momento che si fa plusvalore sui desideri e sulle relazioni, per quanto pilotate e distorte, cioè sul femminile.
Di qui l’invito ad aprire un dialogo con gli uomini, questi uomini, e a ricordare che il movimento delle donne non ha una posizione univoca. “Il femminismo non è unico: è conflittuale, è un terreno di lotta.”
(La Sicilia, 3 novembre 2023)
di Pino Corrias
La cosa più sensata (finalmente) l’ho ascoltata l’altra mattina a Radio 3, una ascoltatrice di Prima pagina che a proposito del mattatoio in corso da quasi un secolo sulle sciagurate sabbie del Medioriente, ha detto: «Se ci fossero le donne al potere da una e dall’altra parte, tutto questo non sarebbe mai successo». È vero. Siamo tutti in balia – e non solo in questo corto circuito geografico, religioso, politico – di plotoni di maschi addestrati alla violenza e alla guerra che perseguono come indiscutibile diritto e santa missione, secondo i precetti stabiliti per sempre dal rispettivo potere supremo: il dio maschile che abita dentro ai cinque libri della Torah e il suo corrispettivo narrato nei 114 capitoli del Corano. Tutti e due figli della parola scritta, il libro sacro, per tramite di gerarchie sacerdotali maschili, gerarchie politiche maschili, che per secoli hanno seminato non solo identità androcentrica, ma anche l’odio tra una religione e l’altra, a fondamento di un potere che da allora regna sulla seconda metà del mondo, quella femminile, sempre ornamentale, ridotta a silenziosa sudditanza, a vittima senza diritti, per comandare indisturbato sotto l’intero cielo del mondo. Provate a scorrere le immagini viste in questi notti e giorni di sterminio, quelle interne ai due poteri in campo: i tagliagole a capo di Hamas; gli sterminatori a capo di Israele. Tutti maschi con sguardi armati e facce cariche di un solo sentimento, la violenza. Il volto annerito dalla barba di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas e dei suoi vice, che dai divani di Doha chiamano alla guerra santa le plebi usate come scudi, indifferenti al martirio del proprio popolo ridotto a masticare polvere e a morire. E poi quella liscia e glabra di Benjamin Netanyahu, ladro di democrazia e di ogni altra decenza, circondato dai suoi ministri che da anni fomentano l’odio contro i palestinesi, sigillano con il filo spinato e con le armi il campo di concentramento di Gaza, armano i coloni che moltiplicano gli insediamenti illegali in Cisgiordania, indifferenti alla deriva sanguinosa che tanta ingiustizia avrebbe prima o poi innescato nel popolo dei prigionieri. Sono tutte e due autentiche gang di inferociti maschi al potere. Capaci di usare un milione di parole per dirne solo una, ripetuta tre volte “Vendetta, vendetta, vendetta!”, e poi moltiplicata altre mille, dall’unico desiderio della distruzione reciproca, della immediata cancellazione del nemico, imprigionati nello stesso specchio. I primi a vendicare i 56 anni «di soffocante occupazione israeliana» che controlla ogni serratura della vita dei palestinesi imprigionati, ogni rubinetto dell’acqua potabile, ogni allacciamento dell’elettricità, ogni medicina che entra. I secondi per lavare il sangue del pogrom del 7 ottobre scorso, «vecchi, donne e bambini macellati» con una velocità, una crudeltà e una euforia che viene dai secoli lontani, nutrita e propagata dal veleno religioso e politico, fino all’apocalisse nazista della Shoah, accaduta appena ieri. «Sono animali, distruggeremo Hamas fino all’ultimo uomo», tuona Tel Aviv. «Resisteremo fino all’ultimo ebreo vivo», rispondono i comandanti di Hamas. Non è impossibile risalire ai torti e alle ragioni. È vano. Perché ogni volta un fiume di sangue e di parole, di promesse e di inganni, di atrocità e di vendette, irromperanno a smentire i torti degli uni e a negare le ragioni degli altri. È una cronologia inondata dal dolore. Un labirinto più lungo dei 400 chilometri di tunnel scavati da Hamas, più vasto degli arsenali accumulati nei depositi dell’armata israeliana.
Ma fateci caso, in queste ore di crudeltà reciproca, di ostaggi esibiti come trofei di guerra senza regole, di bombardamenti a tappeto. È una donna, Yocheved Lifshitz, 85 anni, che un attimo prima di essere rilasciata fa quello che nessun maschio avrebbe mai fatto. Si volta, tende la mano al suo guardiano, dice shalom, “pace”. È la strada che resta, quella che solo le madri, le figlie, le donne saprebbero immaginare.
(Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2023)
«Costruire categorie e modelli è di per sé un’operazione parziale». Questa affermazione costituisce una lente critica per valutare la conoscenza dell’Occidente. Si trova nel libro di Nastassja Cipriani e Edwige Pezzulli, dal titolo Oltre Marie (le plurali, pp. 160, euro 18). Si tratta di un testo di epistemologia femminista che presenta in modo semplice, ma non semplicistico, il problema dell’accesso alle professioni scientifiche da parte delle donne. Ma c’è di più. Consentire alle donne di ricoprire posizioni apicali nella scienza non è sufficiente di per sé all’obiettivo di ripensare in modo pluralista e situato il senso delle scienze. È questa la vera posta in gioco.
Quando Timnit Gebru fu assunta da Google per dimostrare la volontà di evitare la discriminazione di genere e l’apertura a identità multietniche in maniera intersezionale, sembrò il segno che la multinazionale fosse determinata a esercitare politiche inclusive nel reclutamento. Ma non appena la sua diversità culturale si manifestò, firmando – in qualità di componente del team di etica dell’intelligenza artificiale – un articolo critico sui risultati dei sistemi di produzione testuale artificiali (noti come Large Language Models), le fu intimato di ritirare la firma o dimettersi, cosa che avvenne a fine 2020. Assumere una scienziata di origine eritrea non significava che in azienda fossero preparati ad accogliere il suo posizionamento alternativo.
Gli ostacoli all’inclusione delle donne nella scienza sono molteplici. Alcuni hanno a che fare con pregiudizi individuali e una cultura che continua a immaginare lo scienziato come un genio solitario coniugato al maschile, altri con la tendenza a introiettare meccanismi pregiudiziali inconsci (biases) che intervengono nelle decisioni senza esserne consapevoli. Ma ci sono anche vincoli culturali sociali che invitano le ragazze a orientarsi verso altre attività fin da piccole, oppure, se perseguono carriere scientifiche, le donne sono tormentate dalla sindrome dell’impostore, generata anche dal senso di esclusione e inadeguatezza che provano in luoghi di lavoro coniugati al maschile.
Ci sono le molestie che spingono i colleghi a minimizzarne le capacità con osservazioni legate alla loro fisicità, o i giornalisti a porre questioni personali e intime invece di intervistarle sulle loro ricerche. Anche quando le donne fanno parte dei dipartimenti scientifici sono sovraccaricate di incarichi burocratici e di insegnamento e, nonostante le molte ore lavorative, finiscono per avere meno tempo per la ricerca, che, però, è l’unico metro di valutazione per la carriera. Spesso le scienziate di successo negano di avere dovuto lavorare più degli uomini e prendono posizioni prestazionali, simili ai colleghi.
Persino Margaret Thatcher prese lezione per abbassare il tono della voce, rendendola più grave e autorevole. Senza un modello alternativo di scienziate cui ispirarsi, la strategia migliore è mimetizzarsi.
Ma il nodo centrale del volume sta nell’ultimo capitolo che si apre dopo che le autrici sono uscite allo scoperto partendo da sé: assegniste di ricerca in dipartimenti scientifici con un lungo precariato alle spalle e di fronte a loro. È da quel momento che nel libro si discute delle questioni più calde e controverse. La conoscenza è sempre situata – altro che view from nowhere – è sempre interessata, parziale e mai universale, non è mai neutrale. Non basta far entrare le donne nella scienza, bisogna cambiare la cultura delle scienze: immaginare che lo scienziato e la scienziata siano parte integrante del processo di ricerca, come del resto ci ha insegnato la fisica quantistica all’inizio del ’900. Dobbiamo abbandonare la visione secondo la quale la conoscenza scientifica si conquista ponendosi all’esterno come osservatori impenetrabili.
Gli scienziati e le scienziate portano il proprio punto di vista, il loro posizionamento intersezionale di genere, di classe, di origine, di cultura della lingua materna, delle condizioni di salute, dell’età che vivono. Solo conciliando tutto, dialogando da prospettive molteplici, riconoscendo la parzialità delle diverse soggettività è possibile avere uno sguardo più giusto e più rispettoso sui fenomeni che ci interessa comprendere. È importante indagare le nostre metafore, la cultura che le ha generate, esaminare le domande prescientifiche che muovono le nostre curiosità.
Le epistemologie femministe ci aiutano a immaginare un mondo culturale e politico plurale. Solo così potremo andare oltre lo stereotipo dello scienziato pazzo à la Einstein, usato anche nelle pubblicità, ma anche oltre Marie Curie, verso una dimensione molteplice, diversa, inclusiva, dinamica delle nostre ricerche.
(Il manifesto, 2 novembre 2023)