di Redazione Meduza


È nato un movimento dal nome “La strada di casa” che si sta diffondendo in tutta la Federazione russa. Le donne denunciano la drammatica condizione di un paese in cui in nome della stabilità e della sicurezza tanti giovani non fanno più ritorno a casa. Si sentono beffate dalla propaganda di regime che ha annunciato il 2024 come “anno dedicato alla famiglia”. Quale famiglia si può festeggiare se i padri, i fratelli, i figli, i nipoti non tornano?


Podcast del 15 novembre 2023 sul sito del quotidiano Meduza in lingua russa, con sede a Riga in Lettonia.


(Laura Minguzzi)


Come combattono le mogli e le madri dei coscritti russi per il ritorno a casa dei loro cari? E questo movimento può essere considerato contro la guerra?


«Il 7 novembre, diverse decine di mogli di mobilitati per la guerra in Ucraina hanno organizzato un presidio chiedendo il ritorno a casa dei loro mariti. Successivamente, proteste simili sono state organizzate in tutto il paese. Ora in diverse regioni della Russia le mogli dei mobilitati si trovano ad affrontare la pressione delle forze di sicurezza, scrive “Storie importanti” (rubrica della rivista Verstka). Al momento, è noto che nella regione di Kemerovo e nel territorio di Krasnoyarsk la polizia si reca dalle famiglie dei mobilitati o le convoca [per diffidarle].

In precedenza, nel luglio 2023, il “Consiglio delle madri e delle mogli”, organizzato dalle parenti dei mobilitati e dei coscritti, aveva cessato l’attività. Pochi mesi prima, le autorità avevano iscritto la fondatrice dell’organizzazione, Olga Tsukanova, e lo stesso “Consiglio delle madri e delle mogli” nel registro degli “agenti stranieri”. Le partecipanti al “Consiglio” avevano chiesto al comando militare della Federazione Russa di risolvere i problemi dell’equipaggiamento dei mobilitati* e della coscrizione illegale**. Inoltre, avevano cercato di ottenere un incontro con Putin. Il Cremlino al contrario ha organizzato un incontro con donne rappresentanti del governo».

Nel podcast si parla di come le donne in Russia cerchino di riportare a casa dal fronte i loro mariti e figli e di coloro che le contrastano.

Ospiti della trasmissione sono Anna Ryzhkova e Daria Kucherenko, giornaliste della testata Verstka.

(*) I soldati mandati al fronte non vengono forniti di uniformi, armi e attrezzature, ma sono costretti a comprarsele di tasca propria [Ndr].

(**) Vengono arruolati come soldati e mandati illegalmente al fronte anche uomini che fanno parte di categorie protette che secondo la stessa legge russa non possono essere mandate in combattimento [Ndr].


Qui il podcast in lingua originale del 15 novembre 2023. Durata: 45 minuti


https://meduza.io/episodes/2023/11/16/kak-zheny-i-materi-rossiyskih-mobilizovannyh-boryutsya-za-to-chtoby-ih-blizkih-vernuli-domoy-i-mozhno-li-schitat-eto-dvizhenie-antivoennym


(Quotidiano in lingua russa Meduza, https://meduza.io/,16 novembre 2023)

di Graziella Balestrieri


Intervista di Graziella Balestrieri a Maria Luisa Boccia pubblicata su “L’Unità” del 25/11/2023.


Il femminicidio di Giulia ha innescato una rivolta da parte delle giovani e dei giovani, che chiedono una risposta politica e culturale profonda. Al contrario, i media non accolgono le istanze del discorso femminista e la sinistra si limita a soluzioni normative senza proporre linguaggi o rappresentazioni diverse della società.

Dopo il femminicidio di Giulia sono aumentate le chiamate al 1522, qualcosa sta cambiando?

Questo femminicidio ha provocato una reazione forte e diffusa tra le giovani e i giovani, credo anche per la posizione forte e molto efficace della sorella Elena, che è una di loro, una di quelle generazioni, e che ha detto delle cose decisive e fondamentali ovvero che l’assassino, Filippo, è un uomo normale, il figlio sano del patriarcato. E questo, secondo me, in qualche modo ha provocato quella reazione, di rottura, di ribellione molto forte: non più il silenzio ma fare rumore, i versi «se domani sono io, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima», che significano dire basta. Una reazione politica di rivolta – per usare un termine forte del femminismo delle origini, di Carla Lonzi – che è quell’atto di presa di coscienza individuale che poi diventa collettiva e questo si esprime anche con l’atto della denuncia. Anche la denuncia è un segno di questa rivolta, se trova terreno politico su cui si motiva e si trova anche la volontà di reagire. Non sono così convinta che si abbia fiducia nella capacità di risposta alla denuncia da parte delle istituzioni, di chi deve poi appunto intervenire rispetto alla denuncia. Spesso si continua a pensare che il problema sia il vuoto normativo quando invece il problema è il vuoto operativo cioè: delle norme poi cosa facciamo? Come le applichiamo? C’è la sensibilità alla preparazione, gli strumenti, il rapporto con la rete, per esempio, delle operatrici che rendono effettive anche le norme oppure no? È lì che bisognerebbe intervenire per dare una risposta, invece mi pare che di questo non si parli proprio.

Figlio sano del patriarcato: chi è nella società di oggi?

Sono gli uomini, non c’è da costruire l’identikit del criminale o del patologico, come spesso si fa. No, è la normalità, la violenza anche nelle sue forme estreme più efferate come sono molti femminicidi, anche questo di Giulia lo è, via via che emergono i dettagli è sempre più terrificante il comportamento del femminicida. È una normalità, sono uomini che diventano violenti, perché è nella loro identità maschile, nella sessualità maschile è iscritto il possesso del corpo della donna, che segna la storia millenaria dei rapporti tra i sessi. E si trovano di fronte all’imprevisto della libertà femminile, di una donna che non si adegua, non consente quella modalità. Questo è ciò che è avvenuto, il fatto nuovo, l’evento imprevisto è la libertà femminile che prende le forme più diverse. E non parlo di diritti, parlo proprio dell’attitudine e della predisposizione della donna a seguire sé stessa, a non adattarsi, a non adeguarsi a quello che è previsto, alla normalità cosiddetta dei rapporti tra i sessi, il rapporto affettivo, sessuale… Questo ha messo in crisi non solo le strutture, le culture, ma dall’interno ha messo in crisi i singoli uomini e questo produce diffondersi anche di violenza. È la crisi del patriarcato, è il disordine che produce il di più di violenza.

Perché l’uomo ha paura di una donna libera?

La sua identità è costruita sul possesso. Carla Lonzi parla di patologia possessiva, la donna come primo oggetto del possesso, e la riconosce proprio nella modalità della pulsione e del coito, della forma di realizzazione del piacere, penetrare è possedere e queste sono strutture profonde radicate nell’inconscio. Poi l’immaginario, la rappresentazione, ma ancora di più il discorso pubblico che tendono a ribadire che la famiglia è solo una cosa, che le identità sono quelle, che l’uomo deve corrispondere a quei canoni e la donna a quegli altri. Nelle relazioni sociali, politiche, economiche, sessuali, personali non viene acquisito un principio fondamentale che è quello della differenza, di rivolgersi all’altro e all’altra come differente, prestando attenzione e ascolto a quello che è differente. Quando si scompagina l’ordine che presumiamo naturale si producono anche queste forme di violenza, per questo per affrontarle ci vuole una capacità di lavorare sul terreno politico e culturale, sul terreno del linguaggio, dell’immaginario, delle rappresentazioni, del simbolico prima che su quello delle leggi, tanto più se vengono intese nella dimensione securitaria e punitiva. Gli uomini non sanno come rapportarsi, certo non tutti arrivano alla violenza o all’uccisione però…

Molti danno responsabilità alla scuola…

Stiamo parlando di una questione molto complessa che ha varie facce e coinvolge i rapporti tra generazioni in tutte le dimensioni. Se vogliamo cominciare da quelle fondamentali, sono la famiglia e la scuola. Però prima di mettere l’una contro l’altra dovremmo fornire sia alle famiglie, sia agli educatori degli strumenti, dei materiali. Se i libri di testo rimangono quelli che sono, la storia che studio, la letteratura, le scienze rimangono quelle che sono, l’educazione affettiva è come una goccia nel mare. Dovremmo intervenire, ma non è cosa che si fa in un giorno.

La figura della Presidente Meloni…

La Meloni sul piano pubblico si conforma al maschile, sul piano personale, privato «io sono una donna, sono una madre, sono italiana» ho una famiglia tutta femminile, risponde alla femminilità in pieno. Quindi femminile dove è previsto che devi essere femminile, tradizionale al 100%, quindi nel privato, uniformata al sistema maschile nel pubblico. L’ideologia Dio, Patria e famiglia è un’ideologia di restaurazione. C’è una spinta regressiva a ritornare ad un ordine tradizionale, i cui pilastri sono appunto Dio, Patria e famiglia.

E i social?

Colpire con le parole, con le immagini oggi è molto più diffuso. Però insisto: anche lì, una cosa sono le forme di controllo, ma altra cosa invece è intervenire per una maggiore consapevolezza, investire sul linguaggio dell’immaginario e del simbolico. È più complicato però è più efficace, c’è tanta produzione di un linguaggio differente da parte delle donne e non solo, tante soggettività, perché non raccoglierle? Perché nel mainstream non si dà spazio a queste presenze, queste voci? Ne vede di femministe che hanno pensato, elaborato, scritto nel mainstream? Nei media, nei giornali, poche… Eppure questa presenza migliorerebbe la qualità dei rapporti di tutti. Il femminismo vuole restituire le relazioni alle soggettività, differenti e plurali.

La sinistra invece?

La sinistra italiana è completamente afona su questo. Non sanno far altro che pensare a qualche norma, perché diciamolo: la sinistra dove è che si impegna a produrre, a creare nella società una cultura, un linguaggio, una rappresentazione diversa? A costruire un proprio discorso culturale? non lo fa più. Non ha più gli strumenti, non ha i luoghi. Non c’è una stampa funzionale a questo, una produzione di libri, anche proprio quell’attività che si faceva nella società, nella costruzione dei rapporti, della presenza dei soggetti politici nella società. Se dovessi dire quale sarebbe il punto di vista della sinistra non strettamente politico, ma su quale rappresentazione di una società di uomini e donne libere e differenti hanno, io non saprei con chi confrontarmi, non le so dare un riferimento di un testo, di un convegno, io non ce l’ho tutto questo da parte della sinistra.

Il 25 novembre in piazza cosa si aspetta?

Potrebbe esserci una maggiore presenza dei giovani e delle giovani, e questa è una cosa molto positiva e mi auguro anche che siano presenti più uomini in modalità di attenzione e rispetto per la presenza e il mondo femminile.


(crs.it, 30 novembre 2023)

Testo di Ida Dominijanni

Disegni di Pat Carra


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Erbacce, 28 novembre 2023


Leggi Il campo di battaglia del patriarcato vacillante di Ida Dominijanni qui.

di Elsa Fornero


«Siamo libere, e nessuno può toglierci questa libertà, nessuno può pensare che siamo nel loro possesso», ha postato Giorgia Meloni a proposito della tragica morte di Giulia per mano del giovane che pretendeva di amarla. Più poeticamente, Charlotte Brontë, nata nella brughiera dello Yorkshire da un severo pastore protestante e da una mamma morta al sesto parto, fa dire a Jane Eyre: «Non sono caduta in nessuna rete; sono un essere libero, con una volontà indipendente». Giorgia ha acquisito la sua libertà non soltanto con la forza della volontà ma anche impegnandosi in politica, e ricevendone un reddito. Charlotte l’ha conquistata scrivendo libri e racconti, anch’essa ricavandone introiti. Giulia, decisa e consapevole, aveva intrapreso un duro percorso di studio per ottenerla. Ha pagato il prezzo più alto.

Gli esempi sono moltissimi, la conclusione è una sola: la libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro. Senza l’indipendenza economica femminile, gli uomini mantengono potere sulle donne, limitandone – poco o tanto, secondo la loro educazione e la loro indole – i gradi di libertà. Che si tratti di padre, marito, compagno, fratello, è ancora troppo spesso un uomo a decidere – o a pretendere di decidere – per una donna, relitto di un passato in cui la forza fisica faceva premio sulle capacità intellettuali e dove il dominio maschile era accettato (o subito) in cambio di protezione, arrivando a giustificare la violenza in caso di “rottura” del “contratto implicito” da parte della donna e perciò di offesa all’onore maschile. Una maschera, in realtà, della paura maschile di essere inadeguati, di non saper gestire una relazione paritaria. Spesso dimentichiamo le battaglie del passato troppo presi dai rigurgiti violenti dell’incultura della superiorità maschile, della (presunta) “inadeguatezza” delle donne a decidere in libertà della loro vita. E ricordiamo allora Angela Bottari, prima firmataria nel 1981 della legge che abrogò il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, da poco scomparsa.

Oggi le donne reclamano il principio costituzionale di uguaglianza, nei rapporti affettivi nella famiglia, nelle istituzioni, nella società. Ma quante donne possono oggi dire di avere quell’indipendenza economica che è il presupposto della loro libertà? Certo, nell’istruzione – che è la premessa per l’occupazione – le donne hanno, pian piano, conquistato il primato (ci sono più laureate che laureati e con voti mediamente più elevati); la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi. Questi percorsi formativi, però, sono più avari di posti di lavoro, soprattutto di quelli ben remunerati. L’occupazione femminile in Italia è in drammatico ritardo rispetto ad altri paesi europei e con forti divisioni interne e, nonostante le norme a presidio della parità salariale, i dati confermano la persistenza del divario salariale di genere, a dimostrare che le norme non bastano se poi non seguono i comportamenti.

Il mondo del lavoro è stracolmo di sottili discriminazioni nei confronti delle donne, magari esercitati dietro una patina di gentilezza come quando, in occasione di una competizione per un incarico lavorativo o una promozione, dopo che la scelta è caduta su un uomo, alla donna sconfitta viene detta la frase “in fondo, tu sei moglie e madre”. Come se l’ambito familiare debba essere il luogo di massima aspirazione femminile, per il quale vale la pena sacrificare l’autonomia di una carriera di lavoro. In moltissime occupazioni, la gestione delle risorse umane o anche semplicemente la stratificazione gerarchica si traducono in differenziazione delle opportunità ed è quasi “normale” che una donna, pur svolgendo sostanzialmente gli stessi compiti di un uomo, magari sotto l’etichetta solo formalmente diversa, sia meno retribuita del collega.

Un’opinione deleteria ancora molto diffusa è che l’occupazione delle donne vada a scapito di quella maschile. Vi sono due obiezioni a questa tesi. La prima è di logica economica: non vi è alcuna ragione per la quale il mondo del lavoro debba funzionare a numero fisso di posti. Piuttosto ci si deve chiedere quale configurazione del mercato del lavoro e dei suoi rapporti con il mondo dell’istruzione e della formazione professionale e quali norme, quali servizi pubblici possano favorire, anziché ostacolare, l’obiettivo della piena occupazione. Non è possibile continuare a considerare le donne in generale (e i giovani) segmenti deboli del nostro mercato del lavoro. La debolezza non è loro, ma della società che nutre tali concezioni e che, paternalisticamente, offre spesso compensazioni a posteriori (vedasi pensione di reversibilità un tempo assai generose) per discriminazioni a priori.

La seconda ragione è empirica: là dove il tasso di occupazione femminile è più alto, è più elevato anche quello degli uomini. Lo dimostrano i dati dei paesi del Nord Europa, caratterizzati da una visione inclusiva e non sostitutiva del lavoro femminile; da noi, la stessa correlazione positiva si ritrova nelle regioni/province (tipicamente nel Nord-Est del paese) nelle quali le politiche attive funzionano meglio.

È possibile, infatti, una visione del mondo del lavoro diversa, dove i giovani, le donne e, anche le persone meno giovani, alle quali pensiamo spesso soltanto in termini di pensionamento anticipato, possano trovare occasioni di lavoro dignitoso, adeguatamente retribuito. Si tratta di cambiare paradigma, di cambiare la nostra visione del mondo del lavoro; di affermare concretamente il principio costituzionale del diritto al lavoro e, attraverso di esso, il valore sociale, oltre che individuale, dell’indipendenza economica delle donne, come base di un’eguaglianza più grande. Non è facile, ma ci si deve provare. L’occasione offerta dal Pnrr, sotto questo profilo, non va mancata, Giorgia.


(La Stampa, 27 novembre 2023)

di Pinella Leocata


Catania. Una passeggiata lungo i luoghi delle varie realtà femministe che, nel corso di cinquant’anni, hanno segnato il tessuto e la realtà cittadina con il loro pensiero e le loro pratiche improntante all’autocoscienza, al partire da sé, dal proprio corpo, dai propri bisogni e desideri. Pratiche che hanno sfumature diverse – e proprio per questo sono ulteriore espressione di ricchezza – e che hanno contribuito e contribuiscono a un cambio di cultura segnato dai valori dell’uguaglianza, del rispetto delle differenze e della libertà, della centralità delle relazioni di cura. Una cultura che si contrappone a quella segnata dalla violenza e dalla sopraffazione in tutti gli aspetti della vita, economici, lavorativi, istituzionali, privati, amorosi. Perché “Il privato è politico”. È la cultura delle donne, delle femministe. Una cultura che prelude e tende a un cambio di civiltà cui, adesso, sono chiamati a concorrere anche gli uomini.

Un 25 novembre insolito, quello di ieri, dedicato all’iniziativa promossa dalle femministe de La Città Felice e La Ragna-Tela ed estesa alle altre realtà femministe cittadine e al coordinamento donna della Cgil. Una passeggiata alla riscoperta dei luoghi, ormai storici, del femminismo catanese, quelli del passato e quelli attivi ancora oggi. Un modo per contrapporre «alla violenza maschile e a quella istituzionale, la bellezza e la pienezza dei luoghi cui hanno abitato e abitano le pratiche e le politiche femministe che continuano a trasformare la città». «Pratiche – sottolinea Anna Di Salvo che guida la passeggiata – che hanno contribuito a un reale cambiamento della città cui hanno impresso un sentire da donna, anche nel pensare l’urbanistica, l’abitare, la convivenza con gli uomini».

Si parte da via Santa Maddalena 59, in un antico palazzo di fronte uno degli ingressi della Villa Bellini, dove aveva sede – a pochi passi dalla vecchia sede della facoltà di Scienze Politiche – il collettivo “Differenza Donna”, uno dei primi gruppi di autocoscienza e uno dei primi a porsi il problema delle politiche femministe in una prospettiva diversa da quella dell’MLD (Movimento di liberazione della donna) che si poneva soprattutto il problema del corpo e dell’aborto. «Qui – ricorda Emma Baeri Parisi che era una delle animatrici di “Differenza Donna” – praticavamo nuovi pensieri e nuove pratiche, dall’autocoscienza al parlare a partire da sé. Ci incontravamo tutti i giovedì, mentre il venerdì questo spazio era aperto a tutte le donne».

Seconda tappa in via dei Crociferi 40, sede della Cgil, dove si apre il “Centro donna Elvira Colosi”, un centro di ascolto delle problematiche delle donne, dalla violenza allo stalking, alle discriminazioni sui luoghi di lavoro. Ci sono consulenti esperti ed è collegato a una rete di associazioni, servizi sociali e al centro antiviolenza. È aperto martedì, dalle 9,30 alle 12,30, e venerdì, dalle 16,30 alle 18,30, tel. 095/7198111. Qui la femminista Carmina Daniele ha letto alcune pagine struggenti del testo “Ferite a morte” di Serena Dandini. 

Ulteriore tappa in via Caff 21 dove hanno sede La Ragna-Tela e La Città Felice, nata nel 1993 dal precedente gruppo Le Lune. Realtà femministe che attingono alle pratiche della Libreria delle donne di Milano e della comunità filosofica Diotima di Verona improntate all’autocoscienza, all’inconscio e al partire da sé. Qui è in corso anche una ricca attività di confronto e di scambio con alcuni uomini che rifiutano la cultura patriarcale e la violenza cui è improntata e che vogliono percorrere insieme il cammino verso un cambio di civiltà. La sede, che è anche un luogo d’arte dove ci si confronta su libri e argomenti d’attualità, è aperta ogni martedì alle 17.

E ancora il ricordo dei luoghi del femminismo delle origini. Piazza Spirito Santo 4, dove dal 1980 al 1985 aveva sede il “Coordinamento autocoscienza donna” che cominciò a elaborare il pensiero femminista. E poi via Corridoni 24/b, di fronte al cinema Odeon, dove nel 1987 c’era la sede del “Se-No” del collettivo Le Lune dove le donne – eterosessuali e lesbiche – s’interrogavano sulla complessità portando avanti la pratica del separatismo. Ma la mappa dei luoghi femministi include tanti altri luoghi che saranno oggetto di ulteriori passeggiate che seguiranno, così come un convegno su questo tema dove sarà possibile leggere e conoscere molti documenti elaborati nei primi anni del femminismo catanese.


(La Sicilia, 26 novembre 2023)

di Alessandra Sarchi


Il 3 ottobre 2020 inaugurò alla National Gallery di Londra un’imponente mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1653 circa) a cura di Letizia Treves; era la prima monografica mai dedicata a un’artista donna dalla prestigiosa istituzione londinese. Non era peraltro isolata, numerose altre nel corso degli ultimi trent’anni si erano susseguite e altre ne sarebbero venute, sparse per i musei europei, come ad esempio quella da poco aperta al Palazzo Ducale di Genova a cura di Costantino D’Orazio.


La crescente fortuna critica di questa pittrice che nel 1916, quando Roberto Longhi le dedicò un articolo insieme al padre, il ben più noto Orazio Gentileschi, contava un catalogo che non superava la decina di dipinti, mentre oggi è quasi decuplicato (come il loro prezzo peraltro), è intrecciata a doppio filo a quella del romanzo a lei dedicato da Anna Banti, uscito nel 1947 e ora ripubblicato da Mondadori per la cura di Daniela Brogi che firma un’introduzione e un saggio finale accompagnato da immagini di alcune opere pittoriche, impegnandosi in un corpo a corpo con le due facce di quest’erma bifronte: la biografia romanzata di una pittrice e l’invenzione-rivelazione della scrittrice Anna Banti, nata Lucia Lopresti, coniugata Longhi (Firenze, 1895 – Massa, 1985).

Fin dall’incipit – «Non piangere» – le due voci sono infatti sovrapposte: quel tu poetico che interpella il lettore si rivolge tanto alla scrittrice Anna Banti, che ha perso il primo manoscritto del romanzo nei bombardamenti su Firenze, fra il 3 e il 4 agosto 1944, quanto alla ragazzina di grandissimo talento che nel 1612 dovette sostenere un processo per lo stupro subito da Agostino Tassi, il pittore al quale il padre Orazio l’aveva affidata per migliorare la sua arte.

L’alternanza fra queste due voci, il loro frammentario parlarsi in controcanto fino a fondersi talvolta, insieme alla temporalità mai lineare sempre tesa fra presente e passato, costituiscono alcuni elementi con cui Banti costruisce un romanzo che a pieno titolo Brogi definisce modernista e anticipatore di molti dispositivi narrativi in cui l’io si parcellizza e si sdoppia, nelle acrobazie della biofiction o autofiction che tanto successo hanno goduto in tempi recenti.

«Artemisia è il nome di una pittrice, dunque; è il titolo di un libro; è il simbolo di battaglie contro la violenza sulle donne; è, infine, il nome di una finzione romanzesca. Artemisia però non è un saggio, né un romanzo storico e nemmeno una biografia classica, ma un testo di invenzione in cui si rielaborano documenti d’archivio studiati direttamente, intrecciandoli a competenze storiche, letterarie e critiche», scrive Brogi con una sintesi che è già strumento di lettura tanto del romanzo quanto della figura di Banti, ingiustamente lasciata ai margini del canone letterario. Artemisia non fu un esordio per Banti, ma il romanzo in cui sigillò quella che divenne poi la sua cifra peculiare: «Scrivere di quello che la Storia tace a sé stessa». Utilizzare tutto il bagaglio della sua formazione storico-artistica per attraversare il tempo, restituire voce a una pittrice poco conosciuta come Artemisia o ai garibaldini della spedizione dei Mille in Noi credevamo (1967).

Quanto debba essere stato faticoso e ostile il passaggio dalla storia dell’arte, e dal ruolo di moglie del celebre Roberto Longhi, a quello di scrittrice in proprio si capisce dall’ultimo libro di Banti, Un grido lacerante (1981). Ma è proprio la consapevolezza di come il genere sia decisivo per una donna, nella lotta per l’affermazione di un linguaggio proprio e di una carriera artistica, ciò che Banti trasferisce dalla sua esperienza a quella di Artemisia, rendendola viva ai nostri occhi. E se è vero, come ricorda Brogi, che la vicenda dello stupro viene fornita fin da subito nell’avvertenza al lettore: «Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro», scrive Banti, è altrettanto vero che la scrittrice decide con una efficacissima ellissi di non raccontare nei dettagli stupro e processo, pur avendone lei stessa trascritto le carte nel 1939. Felice scelta stilistica, tanto più apprezzabile se confrontata con la centralità voyeuristica e distorta data alla vicenda nella versione cinematografica di Agnès Merlet, Artemisia. Passione estrema (1997) o nel romanzo di Susan Vreeland, La passione di Artemisia (2002).

Banti muove, viceversa, dalla precisa intenzione di dare una forma al destino e alla vocazione della pittrice che non fosse schiacciata dalla violenza patita: Artemisia infatti non se ne fece schiacciare, ma seppe attraversarla e rielaborarla, e non dovette essere facile per una giovane donna marchiata dalla vergogna e dalla riprovazione sociale. Il dipinto, ora a Pommersfelden, Susanna e i vecchioni, un tema su cui la pittrice tornò più volte, le due versioni della Giuditta e Oloferne, ora agli Uffizi e a Capodimonte, esprimono questo attraversamento della violenza, subita in prima persona e incistata in una società in cui, a quattro secoli di distanza – commenta Brogi – «il paradigma storico culturale e simbolico che equipara prepotenza e virilità è ancora in piedi». Un confronto con i medesimi soggetti trattati da artisti uomini, Caravaggio ad esempio, ci dà la misura di quanto lo sguardo maschile sfumi i contorni della violenza, idealizzando il corpo femminile, mentre Artemisia fa vibrare il sangue, la ripulsa, la paura; nella sua pittura le storie delle eroine bibliche diventano storie quotidiane delle donne.

Banti con acuta cognizione di causa rifugge la prosa d’arte e le descrizioni ecfrastiche, viceversa ricostruisce il lavorio incessante dello sguardo pittorico di Artemisia in brani come questo: «Una bella occasione, questa lucerna, recata a mano da una donna bianca e bionda, che a ogni passo forma un’ombra bizzarra: un’occasione da studiarci allo specchio per esercizio di quella pittura che oggi tanto incontra, di Gherardo Fiammingo». E ci mostra l’asperità di comporre un racconto non risolvibile in dicotomie scontate (il genio e il trauma, la vittima e la riscossa), con mosse metanarrative che mettono in campo l’autrice, spiazzano, e suggeriscono una ricerca di verità superiore: «Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che l’affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante».

Artemisia troneggia, ora, fra i pittori caravaggeschi; è tempo di riportare anche Anna Banti al posto che le spetta.


(Corriere della Sera, La lettura, 26 novembre 2023)

Morta o ammazzata? Le parole contano. Nella narrazione dei femminicidi nei media e non solo. La costruzione di una frase svela le nostre intenzioni comunicative. La lingua che usiamo può rafforzare stereotipi e celare responsabilità, oppure al contrario generare cultura. Nuovo simbolico. Daniela Santoro dialoga con Chiara Zanchi, docente di Glottologia all’Università di Paviae Sara Gemelli, dottoranda in scienze linguistiche all’Università di Bergamo. Anna AlaimoMichela Spera e Loretta Tani presentano Generiamo cultura, una campagna nazionale su molestie e violenza che si sta svolgendo nelle aziende metalmeccaniche.

di firmatarie e firmatari


Noi, ricercatori ucraini, artisti, attivisti politici e sindacali, membri della società civile, siamo solidali con il popolo palestinese che per 75 anni è stato sottoposto e ha resistito all’occupazione militare israeliana, alla segregazione, alla violenza coloniale dei coloni, alla pulizia etnica, all’espropriazione delle terre e all’apartheid. Scriviamo questa lettera da persone ad altre persone. Il discorso dominante a livello governativo e anche tra i gruppi di solidarietà che sostengono le lotte di ucraini e palestinesi spesso genera divisioni. Con questa lettera vogliamo rifiutare queste divisioni e affermare la nostra solidarietà con tutti coloro che sono oppressi e lottano per la libertà.

Come attivisti impegnati per la libertà, i diritti umani, la democrazia e la giustizia sociale, e pur riconoscendo pienamente le differenze di potere, condanniamo fermamente gli attacchi contro le popolazioni civili – siano essi israeliani attaccati da Hamas o palestinesi attaccati dalle forze di occupazione israeliane e dalle bande di coloni armati. Prendere di mira deliberatamente i civili è un crimine di guerra. Eppure questa non è una giustificazione per la punizione collettiva del popolo palestinese, che identifica tutti i residenti di Gaza con Hamas, né per l’uso indiscriminato del termine “terrorismo” applicato all’intera resistenza palestinese. Né questa è una giustificazione per la continuazione dell’occupazione in corso. Facendo eco a molteplici risoluzioni delle Nazioni Unite, sappiamo che non ci sarà pace duratura senza giustizia per il popolo palestinese.

Il 7 ottobre siamo stati testimoni della violenza di Hamas contro i civili in Israele, un evento che ora viene indicato da molti per demonizzare e disumanizzare del tutto la resistenza palestinese. Hamas, un’organizzazione islamica reazionaria, deve essere vista in un contesto storico più ampio e alla luce di decenni di invasione israeliana del territorio palestinese, cominciata molto prima che questa organizzazione venisse fondata alla fine degli anni ’80. Durante la Nakba (“catastrofe”) del 1948, più di 700.000 palestinesi furono brutalmente sfollati dalle loro case, con interi villaggi massacrati e distrutti. Dalla sua creazione Israele non ha mai smesso di perseguire la sua espansione coloniale. I palestinesi furono costretti all’esilio, dispersi sotto amministrazioni di regimi diversi. Alcuni di loro sono cittadini israeliani colpiti da discriminazione strutturale e razzismo. Coloro che vivono nella Cisgiordania occupata sono soggetti a un regime di apartheid, sotto decenni di controllo militare israeliano. La popolazione della Striscia di Gaza soffre del blocco imposto da Israele dal 2006, che limita la circolazione delle persone e delle merci, con conseguente aumento di povertà e privazioni.

Dal 7 ottobre e al momento in cui scriviamo il bilancio delle vittime nella Striscia di Gaza è di oltre 8.500 persone. Donne e bambini rappresentano oltre il 62% delle vittime, mentre più di 21.048 persone sono rimaste ferite. Nei giorni scorsi Israele ha bombardato scuole, quartieri residenziali, la chiesa greco-ortodossa e diversi ospedali. Israele ha anche tagliato tutta la fornitura di acqua, elettricità e carburante nella Striscia di Gaza. C’è una grave carenza di cibo e medicine, che causa il collasso totale del sistema sanitario.

La maggior parte dei media occidentali e israeliani giustifica queste morti come meri danni collaterali alla lotta contro Hamas, ma tace quando si tratta di civili palestinesi presi di mira e uccisi nella Cisgiordania occupata. Solo dall’inizio del 2023, e prima del 7 ottobre, il bilancio delle vittime da parte palestinese aveva già raggiunto 227. Dal 7 ottobre, 121 civili palestinesi sono stati uccisi nella Cisgiordania occupata. Più di 10.000 prigionieri politici palestinesi sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Pace e giustizia durature sono possibili solo con la fine dell’occupazione in corso. I palestinesi hanno il diritto all’autodeterminazione e alla resistenza contro l’occupazione israeliana, proprio come gli ucraini hanno il diritto di resistere all’invasione russa.

La nostra solidarietà viene da un luogo di rabbia per l’ingiustizia e da un luogo di profondo dolore per la conoscenza degli impatti devastanti dell’occupazione, del bombardamento delle infrastrutture civili e del blocco umanitario derivanti dalle esperienze nella nostra patria. Parti dell’Ucraina sono occupate dal 2014 e la comunità internazionale non è riuscita a fermare l’aggressione russa, ignorando la natura imperiale e coloniale della violenza armata, che di conseguenza è aumentata il 24 febbraio 2022. I civili in Ucraina vengono bombardati quotidianamente, nelle loro nelle case, negli ospedali, alle fermate degli autobus, nelle code per il pane. A causa dell’occupazione russa, migliaia di persone in Ucraina vivono senza accesso all’acqua, all’elettricità o al riscaldamento, e sono i gruppi più vulnerabili a essere maggiormente colpiti dalla distruzione delle infrastrutture critiche. Nei mesi dell’assedio e dei pesanti bombardamenti di Mariupol non esisteva alcun corridoio umanitario. Di fronte agli attacchi israeliani contro infrastrutture civili di Gaza, il blocco umanitario e l’occupazione della terra da parte di Israele risuonano in modo particolarmente doloroso con la nostra esperienza. Da questo luogo di dolore, esperienza e solidarietà, invitiamo i nostri connazionali ucraini a livello globale e tutto il popolo ad alzare la voce a sostegno del popolo palestinese e a condannare la pulizia etnica di massa israeliana in corso.

Respingiamo le dichiarazioni del governo ucraino che esprimono sostegno incondizionato alle azioni militari di Israele e consideriamo tardivi e insufficienti gli appelli del Ministero degli Affari Esteri ucraino a evitare vittime civili. Questa posizione rappresenta un passo indietro rispetto al sostegno dei diritti dei palestinesi e dalla condanna dell’occupazione israeliana, che l’Ucraina persegue da decenni, anche con il voto alle Nazioni Unite. Consapevoli del pragmatico ragionamento geopolitico dietro la decisione dell’Ucraina di fare eco agli alleati occidentali, dai quali dipendiamo per la nostra sopravvivenza, vediamo l’attuale sostegno di Israele e il rifiuto del diritto palestinese all’autodeterminazione come contraddittori con l’impegno dell’Ucraina nei confronti dei diritti umani e della lotta per la nostra terra e la nostra libertà. Noi ucraini dovremmo essere solidali non con gli oppressori, ma con coloro che sperimentano e resistono all’oppressione.

Ci opponiamo fermamente all’equiparazione degli aiuti militari occidentali all’Ucraina e a Israele da parte di alcuni politici. L’Ucraina non occupa i territori di altri popoli, ma combatte contro l’occupazione russa, e quindi l’aiuto internazionale serve a una giusta causa e alla protezione del diritto internazionale. Israele ha occupato e annesso territori palestinesi e siriani, e gli aiuti occidentali confermano un ordine ingiusto e dimostrano doppi standard in relazione al diritto internazionale.

Ci opponiamo alla nuova ondata di islamofobia, come il brutale omicidio di un bambino palestinese americano di sei anni e l’aggressione alla sua famiglia nell’Illinois, negli Stati Uniti, e all’equiparazione di qualsiasi critica nei confronti di Israele all’antisemitismo. Allo stesso tempo, ci opponiamo anche a ritenere tutti gli ebrei del mondo responsabili della politica dello Stato di Israele e condanniamo la violenza antisemita, come l’attacco della folla all’aereo in Daghestan, in Russia. Rifiutiamo inoltre la rinascita della retorica della “guerra al terrorismo” utilizzata da Stati Uniti e UE per giustificare crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale che hanno minato il sistema di sicurezza internazionale, causato innumerevoli morti e sono state prese in prestito da altri stati, inclusa la Russia, per la guerra in Cecenia, e la Cina per il genocidio degli uiguri. Ora Israele lo sta usando per effettuare la pulizia etnica.


Appello all’azione

– Sollecitiamo l’attuazione dell’appello al cessate il fuoco, avanzato dalla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

– Chiediamo al governo israeliano di fermare immediatamente gli attacchi contro i civili e di fornire aiuti umanitari; insistiamo su una revoca immediata e indefinita dell’assedio di Gaza e su un’operazione di soccorso urgente per ripristinare le infrastrutture civili. Chiediamo inoltre al governo israeliano di porre fine all’occupazione e di riconoscere il diritto degli sfollati palestinesi a tornare nelle loro terre.

– Chiediamo al governo ucraino di condannare l’uso del terrorismo sancito dallo stato e del blocco umanitario contro la popolazione civile di Gaza e di riaffermare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Chiediamo inoltre al governo ucraino di condannare gli attacchi deliberati contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata.

– Chiediamo ai media internazionali di smettere di contrapporre palestinesi e ucraini gli uni agli altri, dove le gerarchie della sofferenza perpetuano la retorica razzista e disumanizzano coloro che sono sotto attacco.

– Abbiamo visto il mondo unirsi nella solidarietà per il popolo ucraino e invitiamo tutti a fare lo stesso per il popolo palestinese.


(il manifesto, 24 novembre 2023, in calce all’articolo di Francesco Brusa)

di Ida Dominijanni


Ci sono due buone notizie nello shock di massa provocato dall’efferato femminicidio n. 106 di Giulia Cecchettin (già diventato il penultimo: l’ultimo, il n. 107 è quello di Rita Talamelli, 66 anni, Fano, strangolata dal marito di 70 che poi ha provato a suicidarsi senza riuscirci). La prima buona notizia è la reazione di Elena, la sorella di Giulia, seguita da quella del corpo studentesco di Padova e di tutta Italia. Con la lucidità che solo il dolore riesce talvolta a dare, Elena ha lanciato quattro messaggi lapidari: che il suo non è un lutto privato ma pubblico e politico, che l’assassino della sorella non è un mostro ma un ragazzo mostruosamente normale (“il vostro bravo ragazzo”), che gli uomini tutti devono mettersi una mano sulla coscienza perché questi ragazzi normali li produce una società di uomini che non rispettano e non sanno amare le donne, che l’unico modo per onorare la morte di Giulia non è piangere in silenzio ma parlare e “bruciare tutto”. Le/gli studenti l’hanno capita al volo, ribaltando il minuto di silenzio programmato dall’alto in memoria di Giulia in un minuto di rumore autogestito dal basso e corredato dallo slogan “vento corri con me”. Basta con i minuti di silenzio, basta con le fiaccolate sommesse, basta pure con le scarpette rosse e le giornate di stato contro la violenza di genere. Ribellarsi è giusto, bruciare tutto, quantomeno metaforicamente, è sacrosanto. Finalmente.

La questione è maschile

La seconda buona notizia è che stavolta un po’ di uomini hanno finalmente provato a dire, o quantomeno a balbettare, qualcosa di sé. Lo ripetiamo da anni scontrandoci contro un muro di silenzio lesionato solo da poche eccezioni: la violenza contro le donne è una questione maschile; devono risolverla i carnefici, non le vittime. Stavolta il muro s’è rotto, fra scrittori, artisti, attori, uomini di sport, intellettuali, attivisti di sinistra. Contiamo di riscontrarne presto i risultati nelle loro opere e nelle loro pratiche, personali e politiche.

Passiamo alle notizie cattive. Che come sempre vengono dalla televisione, dai giornali mainstream e dalla scena istituzionale, il solito circolo mediatico-politico sempre uguale a sé stesso dove anche le tragedie si volgono immancabilmente in farsa. Qui la parola maschile perde ogni barlume di autocoscienza e ritrova il piglio fastidioso e molesto del mansplaining: uomini che pretendono di spiegarci tutto anche di cose di cui non sanno nulla. Esempio, il patriarcato, su cui fior di opinionisti hanno preso a sproloquiare a vanvera. Abituati come sono a fare da trent’anni i ventriloqui della narrativa occidentale dello scontro di civiltà, si erano convinti che il patriarcato è un arcaismo da paesi islamici o da autocrazie orientali, e che noi democratici occidentali ce lo siamo lasciato alle spalle da quel dì. Senonché nei paesi occidentali le donne continuano a essere massacrate, e in paesi più moderni e paritari del nostro tipo la Svezia ancor più che nel nostro. Il che significa evidentemente che certe strutture patriarcali permangono, o non si dissolvono d’incanto, anche nelle democrazie occidentali più avanzate; ma i nostri mansplainer preferiscono dedurne che i femminicidi non c’entrano niente col patriarcato. Altri, da destra, la fanno più breve: i femminicidi non hanno niente a che fare con il contesto sociale, culturale e politico né tantomeno con ventilate responsabilità o complicità dell’umanità maschile, sono gesti inconsulti ed episodici di criminali da sbattere in galera buttando la chiave, punto e basta. Quanto al patriarcato, è morto e sepolto dal giorno in cui c’è una donna a capo del governo, per giunta, come lei stessa ama sottolineare, nata e cresciuta in una famiglia di donne: e poco importa se guida un partito da lei battezzato Fratelli d’Italia, se si fa chiamare “il presidente”, se ha un piglio fallico da fare invidia ai suoi compagni di ventura e se governa in nome della patriarcalissima triade Dio patria e famiglia. 

Fra struttura e storia

Tocca ribadire qualche nozione di base, e provare a ragionare. Il patriarcato è una struttura socio-simbolica (cioè un ordine sociale sorretto dall’ordine simbolico e viceversa) basata sulla legge e sul cognome del padre, sul dominio degli uomini, sull’oppressione e sul consenso delle donne. È una struttura transculturale (cioè radicata in tutte le culture), trasversale (cioè né di destra né di sinistra), trans-storica (cioè resistente al cambiamento d’epoca). Il che non significa però né che sia dappertutto uguale né che sia immodificabile o invincibile. Avere a che fare con la cultura patriarcale che permane nelle democrazie occidentali è certamente preferibile a dover lottare contro uno stato patriarcale islamico strappandosi il burqa o il velo di dosso e rischiando la galera o la lapidazione. Tuttavia la parità di genere e i diritti democratici occidentali di per sé non salvano le donne né dalla misoginia né dalla violenza maschili, che del patriarcato sono ingredienti fondamentali, e se ne infischiano sia della parità che dei diritti, come le statistiche europee sui femminicidi per l’appunto dimostrano. Giulia e decine di donne come lei non sono state uccise perché non avevano diritti; sono state uccise, nonostante li avessero, perché hanno detto “no” a un uomo.

Il “no” che uccide

Quel “no”, che agli assassini sembra evidentemente un capriccio (esattamente come il “no” a un rapporto sessuale non desiderato sembra agli stupratori un mezzo sì), condensa la libertà e l’indipendenza dal desiderio e dalle imposizioni maschili che da un secolo a questa parte le donne stanno conquistando in tutto il mondo, ivi compresi quei pezzi di mondo dove alle donne i diritti non sono concessi, come dimostra il caso dell’Iran. Ed è quel no che gli uomini-killer, e non solo loro, letteralmente non sopportano: perché non ne va solo dell’inappropriabilità e dell’inaddomesticabilità dell’altra, ma della percezione di sé, di un sé evidentemente ancora talmente ingabbiato in un’identità maschile tradizionale, fuori tempo massimo, da non trovare ragioni d’esistenza fuori da quella gabbia. Non è un caso che al femminicidio faccia seguito tanto spesso un suicidio: come se privato del possesso di una donna, un uomo non solo si sentisse autorizzato a sopprimerla, ma non potesse sopravviverle. Attenzione, perché è qui che interviene l’appello di Elena agli uomini, tutti, perché si mettano una mano sulla coscienza: perché di femminicidi ce n’è “solo” uno ogni tre giorni, ma di relazioni fra un uomo e una donna che vanno a male perché lei finisce annichilita e lui auto-amputato ce ne sono migliaia al giorno. Non c’è donna che, a qualunque età e a qualunque latitudine, non abbia avuto a che fare con un uomo incapace di rapportarsi al di lei desiderio senza distruggerla e senza autodistruggersi.

Senza il credito femminile

Ma se il dominio maschile ha bisogno di queste dosi massicce di violenza per confermarsi, e se le donne non sono più addomesticabili, di quale patriarcato stiamo parlando? «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito», recitava già più di vent’anni fa un testo della Libreria delle donne di Milano intitolato “È accaduto non per caso”. Quel testo fece scandalo, perché il patriarcato appariva allora, come appare ancora oggi, pieno di risorse. Invece era un testo profetico, perché vedeva che, con la rivoluzione novecentesca della libertà femminile, per l’ordine patriarcale era cominciato il declino, ne gioiva ma contemporaneamente ammoniva che quel declino avrebbe avuto dei costi molto salati. I femminicidi di oggi sono uno, il più terribile, di questi costi. La libertà femminile e la fine del consenso femminile al dominio maschile hanno inferto una ferita insanabile al patriarcato, che proprio perché è ferito e destabilizzato reagisce con maggiore violenza: finché le donne erano addomesticabili e sopportavano in silenzio, lo mostra bene il film di Paola Cortellesi che non a caso di questi tempi riempie le sale, non c’era bisogno di sopprimerle, bastava un ceffone di prima mattina per tenerle in riga. Oggi siamo più a rischio non perché siamo più oppresse, ma perché siamo più libere.

La legge del padre non fa più ordine

Ma il patriarcato vacilla anche per altre ragioni, e sotto spinte di tutt’altro segno. Lungo tutto il corso della modernità la legge del padre, che non è solo dominio ma anche principio di autorità e dispositivo simbolico garante del rapporto fra desiderio e legge, ha funzionato come presupposto e collante di un ordine sociale che procedeva dalla famiglia alla fabbrica allo stato subordinando le pulsioni individuali e collettive a fini superiori e condivisi. Ma oggi, e non da oggi, questa coerente sequenza è saltata e la legge del padre non fa più ordine né nella sfera privata né nella sfera pubblica. E non solo perché, come tutti sono pronti a riconoscere non senza nostalgie sospette, la famiglia patriarcale si è disfatta, i ruoli di genere sono cambiati e la trasmissione generazionale si è inceppata. Bensì perché il “discorso del capitalista”, come lo chiamava Jacques Lacan, ha soppiantato la legge del padre, imponendo un’economia psichica e un ordine – o un disordine – sociale basati sul principio di prestazione e sul godimento immediato dell’oggetto e dell’altro ridotto a oggetto, che non tollerano il differimento del desiderio, la frustrazione della mancanza e la smentita di un “no”. Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego così insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme: “i nostri bravi ragazzi”, insospettabili fino a un attimo prima di estrarre un coltello dallo zaino.

Il fuoco amico che viene da destra

Senonché questo impero indiscusso della merce e del mercato, della prestazione e del possesso compulsivi, non è privo di nemici interni, e prospera sotto il rischio costante del fuoco amico. Il libertarismo senza padri e senza autorità, senza mancanza e senza limiti del “discorso del capitalista” non poteva non produrre il suo doppio speculare e reazionario e infatti l’ha prodotto, nella sagoma dell’autoritarismo neo-patriarcale e sovranista che il rapporto con l’altro lo risolve innalzando muri e fili spinati e armando fino ai denti le nazioni, i popoli e gli individui (maschi) sotto la già citata formula “Dio patria e famiglia” riesumata dal cimitero della storia. E qui a doversi mettere la mano sulla coscienza sono le destre oggi ovunque dilaganti, perché se il romanzo di formazione maschile torna a essere un romanzo militarista e violento osannato nella sfera pubblica non ci si può poi scandalizzare delle sue ricadute nella vita personale e nei rapporti con l’altro sesso. Nella cascata di commenti sui fatti di Vigonovo brilla l’assenza di qualunque riferimento al contesto di guerra permanente in cui le giovani generazioni maschili si stanno formando. Eppure qualcuno il nesso lo vede eccome: «Contro la deriva del neomatriarcato serve appellarsi ad Abramo», titola un pezzo del Foglio del 23 novembre, e così fra Vigonovo e la tragedia israelo-palestinese il cerchio della violenza si chiude.

I femminicidi non sono un fatto nuovo nella lunga storia del patriarcato. Ma ne sono, di tempo in tempo, un sintomo. Quelli di oggi parlano di un patriarcato ferito e vacillante, sottoposto alle spinte contrapposte della libertà femminile da un lato e della macchina capitalistica dall’altro, e oggetto di pericolosi desideri di restaurazione e di revanche da parte dei nostalgici dell’ordine perduto. Il patriarcato non è un relitto del passato e non è un destino che ritorna sempre uguale: è un campo di battaglia di cui è nelle nostre mani decidere le sorti. Nostre, cioè di noi donne e degli uomini che sapranno e vorranno fare la differenza dal “maschile come valore dominante”, come titolava un testo inaugurale del femminismo di fine anni sessanta, e dalle maschere con cui non smette di ripresentarsi. Nei falò accesi in memoria di Giulia si riaccende la miccia di un desiderio politico ormai antico e sempre nuovo.


(Internazionale, 24 novembre 2023)

di Ingeborg Bachmann


Non varcare le nostre labbra, parola che semini il drago.

È vero, l’aria è soffocante,

la luce schiuma di acidi e fermenti,

sulla palude nereggia un velo di zanzare.

Ama le bicchierate la cicuta.

È in mostra una pelle di gatto:

la serpe s’avventa soffiando, lo scorpione inizia la danza.   

Non raggiungere le nostre orecchie,

fama dell’altrui colpa:

parola, muori nella palude

da cui la pozzanghera sgorga.  

Parola, stai al nostro fianco

tenera di pazienza e d’impazienza.

Bisogna

che questa semina abbia fine! 

Non domerà la bestia colui che ne imita il verso.  

Chi rivela segreti d’alcova, rinunzia per sempre all’amore.

La parola bastarda serve al frizzo per immolare uno stolto.

Chi ti richiede un giudizio su questo straniero? 

Se non richiesto lo formuli, prosegui tu il suo cammino

da una nottata all’altra con le sue piaghe ai piedi: va’! e non ritornare.

Parola, sii nostra, libera, chiara, bella.

Certo, dovrà avere fine ogni cautela. 

(Il gambero si ritrae,

L’ala talpa dorme troppo,

l’acqua dolce dissolve

la calce, che pietre ha filato).

Vieni, benevolenza fatta di voci e d’aliti,

questa bocca fortifica

quando la sua fralezza

si inorridisce e inceppa.

Vieni e non ti negare.

poiché in conflitto siamo con tanto male.

Prima che sangue di drago protegga l’avversario

questa mano cadrà dentro il fuoco.

O mia parola, salvami!


(1953)


(in Poesie, di Ingeborg Bachmann, a cura di Teresa Mandalari, Guanda 1978)

di Marina Terragni


Marco Deriu è sociologo e insegna all’Università di Parma. Da più di trent’anni si occupa di violenza degli uomini, è stato tra i fondatori di Maschile Plurale e ha promosso moltissime iniziative su questo tema.

«Oggi», dice, «in Italia ci sono almeno una trentina di gruppi di uomini che lavorano sottotraccia sulla faccenda. Riflessioni che tra alti e bassi hanno contribuito a mettere a fuoco il fatto che la violenza subita dalle donne è una questione maschile».

Sembra che sia diventato l’approccio mainstream… 

«Sì, ormai è difficile svicolare. Ma va anche detto che il contesto è cambiato: serve una visione dinamica quando ragioni su questo tema. Ci sono forme di violenza patriarcale che vengono supportate o perfino ordinate e regolate da alcune culture: per esempio nei matrimoni forzati, come abbiamo visto nel caso della ragazza pachistana Saman. Nella vicenda di Giulia invece anche la famiglia di Filippo Turetta appare travolta dalla tragedia».

Però il padre di lui ha minimizzato alcuni dettagli rivelatori: la gelosia ossessiva, il fatto che controllasse il cellulare della ragazza.

«Senz’altro resistono elementi della cultura patriarcale, però c’è stata una trasformazione. Il più oggi si gioca all’interno della relazione. Gli uomini sono sempre stati dipendenti dalle donne della loro vita ma il peso di questa dipendenza veniva contenuto dal contesto e dal racconto patriarcale. Oggi non soltanto le donne sono più libere, ma gli uomini sono meno supportati dal contesto. La partner non può più essere percepita come inferiore e dipendente perché è quasi sempre più equilibrata, più risolta, più forte. Le relazioni dovrebbero essere paritarie, nessuno prova più a dire il contrario, ma tanti uomini non ci stanno dentro».

E quindi?

«Quindi bisogna portare l’attenzione sulle dinamiche relazionali vive, si deve riflettere su questo».

Gli uomini non lo fanno volentieri. Ogni donna lo sa.

«Gli uomini fanno molta fatica a parlare dei loro vissuti. La rabbia e il passaggio all’atto violento dipendono da questa incapacità di fare i conti con la propria interiorità. E poi quasi sempre le situazioni di crisi sentimentale vengono vissute in estrema solitudine. Le donne sono più abituate a condividere tra loro mentre l’intimità tra uomini è pressoché inesistente».

Anche gli uomini che in questi giorni prendono pubblicamente la parola sulla violenza maschile non partono dai propri vissuti. Parlano solo degli altri.

«Sì, intervengono a difendere le donne dalla violenza altrui. Ogni uomo ha esperienza della propria vulnerabilità di fronte alla violenza, sa di poterla agire o di averla agita, ma si difende dietro il paternalismo protettivo. E quando proietti la colpa della violenza sugli altri paradossalmente sei più esposto al rischio di essere violento».

È così difficile ammettere di essere parte del problema?

«È una consapevolezza che genera profonda angoscia. Devi essere molto motivato per ragionare a partire da te, devi avere in vista un guadagno che questa angoscia la compensi. E il guadagno non può che essere poter attingere a un vissuto più ricco di sé come uomini e poter vivere relazioni meno misere, liberate dall’ossessione del potere e del controllo».

Servono a qualcosa i centri di recupero dei violenti?

«Possono essere una risorsa, ma in un contesto di interventi più ampio. Anche perché intercettano solo una minima parte del problema».

E invece i “corsi di affettività” nelle scuole? Oggi li chiedono tutti come una panacea.

«Si tratta di capire di che cosa stiamo parlando. Se l’idea è l’ora di affettività – e non vedo che cos’altro possa essere – non mi pare un’innovazione decisiva. Anche perché poi abbiamo il problema di chi educa gli educatori».

Se è vero che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?

«Quella con la madre onnipotente è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».


(Il Foglio, 23 novembre 2023)

di Luciana Cimino


È stato il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara a dare, suo malgrado, un indirizzo alla grande mobilitazione collettiva nata nelle scuole a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin. Valditara aveva lanciato l’invito «a tutte le scuole italiane a rispettare un minuto di silenzio nella giornata di martedì in onore di Giulia e di tutte le donne abusate e vittime di violenze».

Mentre ieri il ministro lo ha osservato in un istituto nel quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli, le studentesse e gli studenti di tutta Italia hanno fatto l’opposto: rumore. E continueranno nei prossimi giorni. Una risposta dal basso, solo parzialmente guidata dalle associazioni studentesche, nata spontaneamente da Nord a Sud, anche per rispondere al preciso appello di Elena Cecchettin, sorella della studentessa uccisa dall’ex fidanzato.

«In maniera autonoma un sacco di studenti e studentesse hanno deciso che non era opportuno seguire la direttiva ministeriale ma, al contrario, leggere, discutere, fare casino», ha spiegato Camilla Velotta della Rete degli Studenti Medi. Anche ieri è arrivata «la notizia dell’ennesimo femminicidio nel nostro Paese, stavolta a Fano – continua Velotta – bisognava infrangere il minuto di silenzio trasformandolo in un minuto di rumore per le 106 donne uccise quest’anno dagli uomini».

A Roma, Milano, Palermo, Napoli in migliaia di cortili di scuole e atenei, alle 11 in punto di ieri, sono partite le proteste del corpo studentesco e diversi sono anche i docenti che hanno solidarizzato. Racconta A., 15 anni, studentessa del Liceo Augusto della Capitale: «eravamo tutti e tutte consapevoli di quello che era successo, ne avevamo parlato nei giorni scorsi in classe con i professori e tra di noi, quindi alle 11 ho cominciato, come gli altri, a fare rumore con quello che avevo in mano, è sembrato che la scuola cadesse!».

Per M., insegnante di lingue in un liceo di Bologna, «è stato molto bello vedere i miei studenti cominciare spontaneamente a fare rumore quando l’altoparlante ha lanciato il minuto di silenzio».

«Hanno anche proposto un dibattito dopo la visione del film di Cortellesi da fare domani», dice ancora l’insegnante. «Io ho cercato di mediare – racconta invece L, anche lei docente in un istituto superiore di Bologna – la dirigente ha proposto il minuto di silenzio ma poi ho avviato un dibattito nella mia classe».

L’appello del ministro ha quindi paradossalmente fatto riuscire una specie di flash mob nazionale improvvisato, con le parole d’ordine «Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce». Nelle scuole e nelle università c’è stato tutto fuorché il silenzio: al Liceo Vittorini di Milano è stata letta in ogni classe la poesia “Se domani” di Cristina Torres Cáceres mentre al Tenca studenti e studentesse hanno intonato cori “Giulia Giulia” e alzato cartelli per ricordarla. Al Carducci, sempre a Milano, gli studenti hanno proposto un contrappello: «una morte ogni 72 ore è inaccettabile, parlatene in classe, con gli amici e i parenti, discutete sull’argomento, non state in silenzio. Vogliamo giustizia, vogliamo decostruzione, vogliamo rumore».

Un minuto di rumore anche nei licei di Lecce e a Palermo dove i ragazzi del Liceo Classico Vittorio Emanuele al suono della campanella hanno iniziato a battere le mani e gridare. A Napoli le donne sono scese in strada agitando campanelli e con uno striscione con scritto “Basta!”, in una manifestazione promossa dall’Udi.

«Siamo stanche di avere paura di morire per strada, di rischiare di non tornare più a casa – hanno detto – noi siamo qui insieme soprattutto per le donne più giovani perché possano avere un futuro libero e senza paura». “Per Giulia facciamo casino”, dicono anche gli studenti e le studentesse di Fisica, in occupazione alla Sapienza di Roma, scagliandosi contro la strumentalizzazione dei femminicidi mentre i colleghi delle altre facoltà sono scesi nel pomeriggio per le vie della città universitaria, in un corteo aperto dallo striscione «se domani non torno brucia tutto». E le proteste si sentiranno forte anche nei prossimi giorni, in vista delle manifestazioni del 25 novembre: oggi gli studenti di Osa e dall’associazione Donne de Borgata si riuniranno in presidio a Roma «contro il minuto di silenzio» mentre i collettivi della Statale di Milano faranno un «flash mob per ricordare Giulia, per dare forza alla sorella Elena e a tutte le persone a loro care».

«Invitiamo il mondo della formazione a partecipare – scrivono – con un oggetto rumoroso e con un cartello». Un sit-in è in programma per giovedì prossimo anche nell’Università della Calabria, a Rende, per «richiamare l’attenzione alla necessità di una rivoluzione culturale, nel ricordare Giulia Cecchettin, ennesima vittima di femminicidio in Italia, chiederemo un risveglio collettivo e istituzionale che segni la fine della società patriarcale».


(Il manifesto, 22 novembre 2023)

Laura BoellaLe imperdonabili, Mimesis 2013. Ultimo dei cinque incontri con Laura Boella dedicati a cinque grandi figure femminili del Novecento che hanno scelto la poesia e la scrittura come mezzo espressivo e modo di vivere il proprio tempo. Milena Jesenská, Hetty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo sono imperdonabili perché l’invisibilità o l’eccessiva fama, spesso creatrice di leggende di facile consumo, rende impossibile classificarle, perché non contemporanee, avanti e indietro rispetto al loro tempo, consumate da passioni assolute, innanzitutto quella della scrittura. Presenta Elena Petrassi.

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di Marina Terragni


Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, dopo l’ennesimo caso, sono gli uomini che devono risalire alla radice della loro violenza. Non basta più dire «io non c’entro»


C’è sempre un momento in cui le cose che si ripetono uguali da tanto tempo, quelle 120 donne ammazzate ogni anno da mariti, fidanzati, compagni ed ex – come se si trattasse di una brutta cosa che però va registrata come un fatto di natura – smettono di essere uguali e assumono un altro aspetto. In tutte le case del paese abbiamo atteso notizie su Giulia Cecchettin che è stata da subito la ragazza Giulia sulla rampa di lancio con la sua tesi pronta da discutere e la sua laurea da festeggiare. Dopo quarantott’ore la notizia ce l’avevamo già, chi mai si poteva fare illusioni, eppure ce le siamo fatte fino all’ultimo. Ci siamo trattenute a sperare perché sentivamo che stavolta le cose uguali non sarebbero più state uguali, sapevamo che da quel momento in poi sarebbe diventato chiaro che le risposte non si possono più pretendere da noi donne, caso del tutto unico in cui alle vittime si chiede di spiegare il comportamento del carnefice. Siamo diventate tutte esperte di quella violenza maschile e non “di genere”, smettiamola di edulcorare che abbiamo subito o rischiamo di subire in ogni giorno della nostra vita. La questione è stata sviscerata, analizzata, decodificata, interpretata in ogni modo possibile. Si è tentato di tutto, anche in perfetta autogestione: dal sostegno e dall’accoglienza per quelle che avevano bisogno di nascondersi dai loro aguzzini ai manuali di valutazione del rischio, dalla richiesta di inasprimento delle pene ai centri di rieducazione per i violenti che in cambio di qualche vantaggio accettano di sottoporsi a terapia per qualcosa che malattia non è.

Ebbene: queste risorse si sono esaurite, la discontinuità del dopo-Giulia sta qui. Adesso, non si scappa, tocca agli uomini sviscerare, analizzare, decodificare, interpretare. Sono loro a doverci spiegare la “perversione del dominio di un sesso sull’altro” (Joseph Ratzinger), a dover ragionare per tutte e tutti su un’identità che continua a strutturarsi nel controllo e nel possesso, che chiede a ogni uomo fin dalla tenerissima età di dimenticare la madre per rimettersi al mondo in un patto tra uomini, una seconda nascita simbolica lontana dall’“abbietto materno” (Julia Kristeva). Si tratta di arrivare per questa strada fino alla radice della violenza.

La gran parte dei maschi di queste faccende non parla. Qualche uomo di buona volontà ci prova ma le buone intenzioni si perdono quasi sempre in commossi sociologismi di maniera. Le donne sono state capaci di rivoltare il mondo, forse l’unica rivoluzione senza spargimenti di sangue, ma l’hanno fatto a partire da sé. Il primo passo è stata la coscienza di sé ed è proprio questo che manca nelle parole maschili sulla violenza. Perché “io no” non può bastare anche se tu sei un uomo che non ha mai ferito, umiliato, violentato una donna. Si tratta di riconoscere anche in sé la presenza di quel dispositivo che nel caso degli uomini non violenti fortunatamente non si attiva, ma sta alla base di quello che ti viene richiesto di essere se hai avuto l’avventura di nascere uomo. Si tratta di passare dal “ma io no” al “me too” e di trovare il coraggio di fare i conti giusti.


(Il Foglio, 20 novembre 2023)

di Jennifer Guerra


La sorella di Giulia Cecchettin, Elena, ha detto che l’uomo che ha ucciso Giulia è figlio della cultura dello stupro e del patriarcato. I due concetti sono collegati, e cercano di spiegare perché la violenza di genere sia così pervasiva. Nel caso di Cecchettin, l’indifferenza di fronte a certi comportamenti è stata la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


Il femminicidio di Giulia Cecchettin, studentessa della provincia di Venezia uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta, è uno di quei casi che difficilmente dimenticheremo e che sta causando proteste e manifestazioni in tutta Italia. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera ha scritto che Turetta non è un mostro né un malato, ma un «figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro». Sin dalle prime ore dopo il ritrovamento del corpo di Cecchettin, la sorella si è mobilitata per spiegare che il suo omicidio non è un caso isolato né una questione privata, ma un crimine che si inserisce in una cornice culturale più ampia che avvalla, normalizza se non addirittura incoraggia la violenza di genere.

L’espressione “cultura dello stupro” si è diffusa negli ambienti femministi negli anni 2000 per alludere a tutti quei processi culturali che considerano lo stupro e la violenza sulle donne come qualcosa di normale e inevitabile. Quando si dice che gli uomini e le donne crescono in una “cultura dello stupro” non si intende che i genitori educhino volutamente gli uomini a commettere abusi sulle donne, ma che diverse manifestazioni culturali contribuiscono a radicare l’idea che essi siano qualcosa che fa parte del modo in cui stanno le cose. Questo sistema ha conseguenze gravi per tutti i soggetti coinvolti: gli uomini crescono con un senso di impunità nei confronti della violenza di genere e le donne tendono a non riconoscerla o a minimizzarla quando la subiscono.

In un articolo sullo storico giornale femminista off our backs, Alyn Pearson spiega la cultura dello stupro attraverso la metafora del tifo e dell’influenza stagionale. Siamo abituati a pensare che lo stupro sia come il tifo: una malattia improvvisa ed epidemica che colpisce una popolazione a causa di comportamenti sbagliati. In realtà, lo stupro somiglia più all’influenza stagionale, una malattia non epidemica ma endemica, ovvero che ormai è entrata a far parte dell’ambiente che ci circonda. Proprio perché così comune, l’influenza è oggetto di miti e saggezza popolare (“Se prendi freddo, ti viene l’influenza”) e tutti si aspettano di esserne affetti prima o poi nella vita. L’influenza si diffonde perché le persone la sottovalutano, starnutiscono senza mettersi la mano davanti al naso o vanno in giro anche se hanno la febbre. Ma come è possibile vaccinarsi per l’influenza, così anche per la cultura dello stupro.

La “cultura dello stupro” non è l’unica teoria possibile per spiegare la pervasività della violenza di genere, un fenomeno che stando ai dati dell’Istat (in linea con quelli globali raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità) colpisce una donna su tre. Prima dell’avvento del movimento femminista, la violenza di genere era considerata un problema morale, dove la singola persona che abusava di una donna diventava rappresentante di una società depravata o senza valori. Negli anni ’70, la teorica femminista Susan Brownmiller suggerì invece che lo stupro non è una questione di desiderio sessuale o di perversione, ma un esercizio di potere. La violenza di genere diventa così un meccanismo di controllo che serve a tenere a bada le donne e a costringerle a vivere nella paura.

Nei decenni successivi le studiose femministe aggiunsero altri elementi al quadro: secondo alcune teoriche radicali, anche la pornografia ha un ruolo nell’incoraggiare la violenza di genere, mentre altre suggerirono la teoria del “cultural spillover”, ovvero che la responsabilità dello stupro non va ricondotta soltanto a credenze e comportamenti che condonano esplicitamente la violenza di genere, ma a tutto un sistema che la legittima in maniera indiretta, come le punizioni corporali, la violenza istituzionale e dei mass media, eccetera. Tutte queste teorie hanno una base in comune, ovvero l’idea che la gerarchia fra i sessi, chiamata anche “patriarcato”, stia alla radice della violenza di genere. Questa premessa è accettata anche da numerose leggi e provvedimenti, come la Convenzione di Istanbul, che ricorda nei suoi preamboli che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione» e che essa ha una “natura strutturale”.

Dire che la violenza di genere ha una natura strutturale è un’affermazione che ha importanti conseguenze: la prima è che la violenza non è innata negli uomini, non è dettata da meccanismi biologici o da istinti ingovernabili; la seconda è che essendo una questione culturale e legata alle strutture di potere, si può sconfiggere. Il patriarcato infatti non è una caratteristica intrinseca maschile né una specie di associazione segreta in cui gli uomini si mettono d’accordo per sottomettere le donne. Il termine è stato usato inizialmente da sociologi e antropologi per descrivere una società in cui la figura del padre è al vertice della catena di comando della comunità. Le pensatrici femministe hanno poi adottato questa espressione per indicare più in generale un sistema in cui il genere è il principio organizzatore. Mentre le femministe radicali come Kate Millett credono che il patriarcato si manifesti innanzitutto attraverso la sessualità, le femministe marxiste hanno proposto una teoria che collega il patriarcato all’esclusione delle donne dai processi produttivi e al loro confinamento nella sfera domestica.

Oggi quando si parla di patriarcato si allude a entrambe le cose: patriarcali sono tanto la cultura quanto la struttura sociale ed economica. Ciò ha un’altra, importante conseguenza, ovvero che anche le donne sono immerse e partecipano alla società patriarcale, interiorizzandone gli schemi di pensiero e le prescrizioni comportamentali. La differenza sostanziale è che il movimento femminista ha permesso a molte donne di riconoscere e liberarsi da queste richieste, impegnandole a costruire un modo diverso di pensarsi e vivere le loro vite. Per gli uomini, eccetto quelli che si avvicinano al pensiero femminista, questo processo deve ancora in larga parte avvenire. Parlare di cultura patriarcale e di cultura dello stupro non significa cancellare le responsabilità individuali o addossare la colpa a “tutti gli uomini”, ma sottolineare che tutti, a prescindere dal genere, siamo compartecipi di quella cultura.

Gli uomini però sono investiti da una responsabilità ulteriore, che è quella di prendere coscienza di questa partecipazione e provare a smantellare molte delle manifestazioni della cultura dello stupro che avvengono fra pari. Dalle dichiarazioni di conoscenti e familiari di Filippo Turetta, pian piano emerge che molti erano consapevoli dei suoi comportamenti asfissianti nei confronti di Giulia Cecchettin e del suo disagio psichico. Oggi abbiamo il dovere di domandarci cosa sarebbe successo se, anziché stare tutti in silenzio e considerare i suoi i tipici comportamenti di uno “un po’ geloso” o di un “bravo ragazzo”, qualcuno fosse intervenuto. Quel silenzio, quell’indifferenza, quella convinzione che fosse tutto nella norma sono la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


(Fanpage.it, 20 novembre 2023)

di Pat Carra


Rilanciamo parte dell’intervista di Pat Carra a Marisa Guarneri, illustrata da Marilena Nardi e pubblicata su Erbacce in giugno 2023. Marisa è co-fondatrice e presidente onoraria di Cadmi, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, primo centro antiviolenza italiano aperto nel 1986 e associato a Donne in Rete contro la violenza.


Chi uccide una donna è spesso definito “un mostro”.

Definirli “mostri” li tira fuori dalla normalità della violenza, una violenza che le donne vivono tutti i giorni. Gli uomini che ammazzano le donne, centinaia ogni anno, non sono mostri, hanno problemi ma sono lucidi, sanno quello che fanno e perseguono in modo determinato i loro obiettivi.

Credi che le istituzioni siano davvero interessate a fermare questa guerra contro le donne?

Dagli anni ’80 osservo i comportamenti istituzionali. I centri antiviolenza hanno fatto molta fatica ad affermarsi come luogo di competenza, e se ci siamo riuscite non è certo grazie ai progetti governativi, tanto che ancora oggi mancano i finanziamenti necessari. Non si tratta solo di problemi burocratici o di posizioni ideologiche. Da 15 anni credo, e lo ripeto, che ci sia una non-volontà di eliminare la violenza dalla vita delle donne. Bisogna cambiare i comportamenti degli uomini rispetto alle donne, e anche, in certi casi, delle donne rispetto agli uomini. Intendo dire che la mancanza di rispetto, la gelosia ossessiva, il controllo, l’isolamento dalle altre figure familiari è una costante di tutte le situazioni di maltrattamento. Ci sono elementi chiari per intervenire prima che succeda l’irreparabile, per aiutare le donne ad andarsene quando vogliono, anche con i bambini, quando è una questione di difesa personale.

Come mai non succede?

Se ancora non si è fatto un lavoro endemico su tutte le situazioni a rischio di violenza, è perché in fondo non è un interesse prioritario per la politica, non lo è mai stato. Che ci siano donne che subiscono, donne in difficoltà, donne che non fanno attività politica, fa comodo a tutti. Che le donne stiano al loro posto fa comodo a tutti.

Le istituzioni, anche finanziariamente, intervengono quando succede qualcosa di grosso, se ammazzano una donna al giorno, quando c’è una scossa nell’opinione pubblica come adesso. Allora spuntano progetti e finanziamenti, ma appena la situazione sociale si calma, riprende il tran tran burocratico, sempre lungo e difficile. Io non ci credo, non ho nessuna fiducia in queste dichiarazioni delle istituzioni, tanto meno quando vengono fatte enfatizzando questioni di sicurezza e inasprimenti legislativi. E soprattutto quando prescindono dal rapporto con le donne e dal loro consenso, e dai rapporti con i luoghi di accoglienza come i centri antiviolenza e le associazioni di donne che se ne occupano da anni. Si tratta di provvedimenti di emergenza, non di veri incontri, tutto è calato dall’alto. Ma una donna che viene picchiata per anni, o stuprata, o perseguitata da uno stalker, non può essere ingaggiata nell’esercito della repubblica e rispondere “ok, agli ordini!”. Bisogna tener conto della sua situazione morale, psicologica, fisica, familiare e del contesto in cui si è mossa. Bisogna capire le complicità che a poco a poco emergono, perché nei casi di maltrattamento non si tratta di bravi ragazzi da cui non ci si poteva aspettare niente di male, quasi sempre non è così. E la violenza maschile è trasversale, a tutti i livelli economici e culturali. Non c’è niente che la fermi.

Lappello al cambiamento culturale come via duscita dalla violenza può essere una trappola?

È un discorso che va capito bene. Si dice che bisogna partire dalle scuole, ma nelle aule entra chiunque tranne le persone che possono essere di grande aiuto per insegnare, dall’asilo in poi, il rispetto per tutte e tutti. Questa sarebbe un’azione concreta. Si parla di superamento del patriarcato e di cambiamento culturale, senza capire cosa si sta dicendo. Ci si riempie la bocca di cose che una volta erano state scoperte e approfondite nell’esperienza dei centri antiviolenza, ma che ormai sono diventate parole vuote. Per costruire relazioni con le donne maltrattate, ci si deve coinvolgere in prima persona, le loro problematiche devono diventare una priorità per chi le segue.

Come valuti i progetti e i corsi per uomini maltrattanti?

Dopo circa vent’anni dalla nascita dei centri antiviolenza creati dal femminismo, dagli anni 2000 le istituzioni hanno importata da altri paesi una serie di contenuti sul tema della violenza maschile. Non mi meraviglio che a questo punto i governi siano stati molto disponibili a finanziare progetti di sostegno per uomini maltrattanti, luoghi di accoglienza, case, corsi. A favorirli ci sono lobby come quella dei padri separati, che contestano le statistiche sostenendo che gli uomini maltrattati sono più numerosi. Poi le lobby degli specialisti, quelli che intervengono nei tribunali, gli psichiatri, gli avvocati, uomini e anche donne. L’unica cosa positiva, molto importante perché è un dato simbolico, è che finalmente la violenza è vista come un problema degli uomini. È il risultato di 50 anni di lotte delle donne, una conquista.

Quali vantaggi concreti ci sono per i maltrattanti?

Agli uomini che sono sotto accusa o già in carcere, la partecipazione a questi progetti fornisce riduzione delle pene o dei trattamenti. È un elemento molto utilizzato all’interno dei processi. Ci sono interessi molteplici e di lobby, e un dato psicologico fortissimo: fare qualcosa nel carcere o fuori, a Milano per esempio c’è un centro comunale, abbatte il discorso “tutti gli uomini sono cattivi” e apre alla possibilità del cambiamento. Su questo aprirei un bel dibattito: quanto e come può cambiare chi ha ucciso? Io mi incazzo quando vedo che i fondi destinati ai centri antiviolenza non arrivano e invece si aprono i centri per uomini maltrattanti. Non ho le cifre, ma a livello burocratico ottengono tutto con meno fatica e più rapidità. CADMI non riceve da anni finanziamenti dalla Regione Lombardia, tanto per dirne una. C’è una complicità fondante e chi muove i finanziamenti ha le sue priorità.

Nel caso delle donne maltrattate, i ritardi e gli inceppi dipendono dal fatto che vengono considerate donne a perdere, donne che non ce la faranno mai. I centri antiviolenza si occupano di percorsi di uscita dalle case rifugio, di inserimento lavorativo, di corsi di aggiornamento, affrontando queste difficoltà. Questo non mi sembra giusto. Sono di parte, ho sempre scelto di essere di parte, sto dalla parte delle donne.


Leggi l’intervista integrale qui


(Erbacce, 20 novembre 2023)

di Giusi Fasano


Roia dice la verità: tutte le ragazze, le donne che decidono di rompere una relazione senza l’accettazione dell’altro devono considerarsi a rischio


Fabio Roia è il presidente vicario del Tribunale di Milano ed è un magistrato da sempre molto attento alla violenza di genere.

Dottor Roia, sono anni che parliamo di donne che subiscono violenze. Leggi, convegni, dibattiti, interventi nelle scuole, nelle aziende, nelle istituzioni, manifestazioni, appelli, l’attenzione dei media. Poi arriva la cronaca e sembra sia stato tutto inutile.

«Eh… lo so. Pensavamo che con il passare del tempo sarebbe svanito il modello dell’uomo legato a generazioni meno giovani, cioè quello tradizionalmente patriarcale, padrone della famiglia e della donna. Pensavamo che quel modello sarebbe svanito e si sarebbero costruite nuove relazioni. E invece permane ed è radicata l’idea del maschio che incentra la relazione sul rapporto padronale di possesso e controllo».

Secondo lei perché?

«Evidentemente in parte gli stessi modelli vengono tramandati in famiglia, soprattutto dai genitori, e quindi si acquisiscono per trasmissione. E poi quel che di positivo può arrivare dalla scuola, dalla comunicazione che adesso è trasformata dai social, non riesce a fare breccia nella mentalità dei giovani».

Giovani, appunto. Colpisce la giovane età nel caso di Filippo e Giulia.

«Nei ragazzi non si riesce a far passare il messaggio del rispetto e della libertà della donna di scegliere la propria vita. A conferma di questo le anticipo un dato significativo della rilevazione annuale del nostro tribunale: quest’anno il 40% dei reati di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale è stato commesso da giovani fra i 18 e i 35 anni».

Trova tutto questo scoraggiante?

«In parte sì. Ma ci sono anche dati positivi.»

Per esempio quali?

«La legislazione ha fatto molti passi avanti, c’è più formazione fra chi tratta questi argomenti. E poi le giovani donne denunciano prima. Come età, intendo. Non stanno a soffrire per anni come facevano le donne della mia generazione sperando di cambiare l’uomo violento che avevano accanto. A un certo punto rompono la relazione».

Esattamente come ha fatto Giulia con Filippo. Poi, però, lui ha contato sulla sua sensibilità per riagganciarla e tenerla in qualche modo legata alla sua vita.

«Questo meccanismo è noto, purtroppo. Attenzione, come dico sempre, a non colpevolizzare lei se accetta un altro appuntamento, se non vede o sottovaluta i segnali della violenza. So che il concetto è un po’ forte ma la verità è che tutte le ragazze/donne che decidono di rompere unilateralmente una relazione senza l’accettazione dell’altro devono considerarsi a rischio di un’escalation di violenza».

Cosa manca all’antiviolenza?

«La condanna sociale nella quotidianità, cioè nel terreno dove germoglia la violenza: con battute sessiste, per esempio. O col ritenere la donna ancora un oggetto, una preda sessuale, nel giustificare l’uomo predatore che ha “esigenze sessuali”».

Cosa dire alle Giulie che oggi sono nell’ombra?

«Parlatene, parlatene, parlatene. Non dico denunciate se non ve la sentite, ma i centri antiviolenza sanno come ascoltarvi, aiutarvi, indirizzarvi. E vorrei fare una preghiera anche alle amiche, ai parenti di queste ragazze. A chi sa. Siate sentinelle sociali, convincetele a farsi aiutare. Da sole non se ne esce».


(Corriere della Sera, 19 Novembre 2023)

di Elena Cecchettin


Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità.

E invece la responsabilità c’è. I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro.

La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.

Viene spesso detto «non tutti gli uomini». Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini.

Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio.

Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge.

Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.


(Corriere della Sera, 19 Novembre 2023)

di Gabriella Galzio


Lo sguardo alto sul divenire delle civiltà è stato coltivato a lungo dalla studiosa tedesca delle civiltà, nonché filosofa teoretica, Heide Göttner Abendroth che nella seconda metà del ’900 ha fondato i Moderni Studi Matriarcali, portando alla luce intere civiltà, sepolte sotto la dicitura “Preistoria”, e restituendole a pieno titolo alla Storia, che dunque si amplia del suo tratto paleolitico e neolitico rimosso. Queste civiltà matriarcali rimosse sono di natura sostanzialmente diversa dalla nostra che definiamo universale o classica, ma che in realtà è anch’essa relativa e, con la definizione di “patriarcale”, storicamente databile a partire dal 2600 a.e.c (almeno per quanto riguarda l’area mesopotamica e mediterranea). Finalmente, gli studi poderosi di questa ricercatrice giungono in Italia grazie alle Edizioni Mimesis (2023) con il titolo Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (traduzione di Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi). L’opera è di tale dirompente innovatività sul piano storiografico da costituire una pietra miliare nel panorama degli studi storici e da meritare di essere adottata come libro di testo nelle scuole superiori e nelle università. L’approccio scientifico, il rigore logico e metodologico che attraversa tutte le 583 pagine del libro ne fanno, infatti, un solido e affidabile strumento didattico. L’autrice stessa, del resto, ha fondato nel 1986 l’International Academy HAGIA che dirige ancora oggi. Il libro, peraltro, scritto con stile limpido, si presta anche alla divulgazione presso un più ampio pubblico e ci apre a un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente, per costruire – con le parole della teologa Mary Daly – un “futuro arcaico”. Le società matriarcali (“In principio le madri”), infatti, estranee a ogni idea di dominio, erano impostate su valori materni, sul rispetto della diversità e sulla reciprocità, erano società pacifiche ed egualitarie tra i generi e le generazioni.

Va detto che, per ricostruire le fattezze di queste società matriarcali, la studiosa ha condotto la sua quarantennale ricerca muovendosi continuamente tra due piani. Su un piano sincronico antropologico, andando alla ricerca di tutte le società matriarcali sopravvissute, ancora oggi sparse nel mondo (paradigmatico il caso dei Moso della Cina), laddove il frutto di questo studio ampio e diversificato è stato già pubblicato in Italia per i tipi della Venexia con il titolo Le società matriacali. Studi sulle culture indigene del mondo. Su un piano diacronico storico la ricercatrice ha ricostruito la lunga storia delle civiltà matriarcali dal paleolitico all’età del ferro nell’Asia occidentale e in Europa, confluita in quest’ultima recentissima sua opera – Storia delle società matriarcali e nascita del patriarcato – e che costituisce quanto di più all’avanguardia vi sia in questo campo di ricerche. Ora, ciò che risulta prezioso da questi studi approfonditi lungo il duplice asse sincronico diacronico, è che Göttner-Abendroth ha potuto finalmente individuare le caratteristiche fondamentali peculiari delle civiltà matriarcali pur nelle loro molteplici coniugazioni nel tempo e nello spazio.

Economicamente la società matriarcale è una società di compensazione o società in equilibrio (Ausgleichsgesellschaft) in cui le donne amministrano i beni necessari alla vita come terra, case e generi alimentari e attraverso la distribuzione hanno continuamente cura a che vi sia un equilibrio economico. Questa economia non è di accumulazione, bensì di distribuzione, è nello spirito una “economia del dono”; socialmente poggia su strutture di parentela (Verwandtschaftsgesellschaft), entità claniche o tribali caratterizzate da matrilinearità (parentela in linea materna) e matrilocalità (residenza presso la madre), dove vige uguale valore dei generi (egalitarismo di genere); politicamente è una società basata sul consenso, laddove le case dei clan costituiscono la base reale della politica, con una delegazione di uomini inviati come portavoce delle loro tribù presso assemblee più grandi all’esterno; costoro hanno qui la propria sfera d’azione e dignità con vincolo di mandato. Nella maggior parte dei casi ciò sortisce non solo una società egalitaria tra i generi, ma una società egalitaria nel suo complesso; culturalmente poggia su una cultura di tipo sacrale che possiede sistemi religiosi e di visione del mondo complessi, laddove fondamentale nella concezione della vita sulla terra e del cosmo è la fede nella rinascita. Nelle culture matriarcali, infatti, la morte è vissuta come parte di un flusso continuo metamorfico di morte-rinascita e dunque connessa alla vita. Non esistono dei maschili astratti e staccati dalla realtà, ma è una divinità femminile, nelle sue molte apparizioni, a permeare l’immagine del mondo; divinità che viene intesa come immanente e operante nel mondo.

«Oggi – scrive la studiosa nell’introduzione alla sua opera storica – le forme di repressione e di sfruttamento del patriarcato non colpiscono soltanto le donne e i bambini, ma, seppur in modo diverso, anche la maggior parte degli uomini. Molti movimenti internazionali che lottano per un cambiamento radicale e per una società migliore ne contano tanti tra le loro fila. […] La nostra ricerca fornisce allo stesso tempo un importante sostegno alle lotte dei popoli indigeni che rivendicano la propria identità culturale, opponendo una strenua resistenza al colonialismo insito nel patriarcato». Candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace, Heide Göttner-Abendroth ci consegna con questo trattato storico le prove che la guerra non è connaturata all’essere umano, quanto piuttosto è un prodotto storico, affacciatosi con la fase patriarcale dell’umanità, insieme agli stati e ai loro apparati di coercizione. Che dunque come è cominciata, può anche finire.

Alla luce di questo ampliato quadro storiografico, possiamo anche rintracciare la matrice prima dello scontro brutale tra Israele e Hamas che può essere fatta risalire alla lontanissima Età del bronzo, epoca delle ondate di patriarcalizzazione indoeuropee (già teorizzate da Marija Gimbutas) succedutesi nel Levante, rendendo possibile rintracciare le radici matriarcali dei palestinesi che affondano nella Terra di Canaan (tra Palestina, Libano e Siria), dal momento che i cananei immigrati, pur essendo patrilineari, si erano mescolati alle popolazioni locali matrilineari adottando gran parte della loro cultura. Le popolazioni matriarcali del Levante, situate tra Palestina, Libano e Siria, riuscirono dunque ancora ad assorbire una prima ondata di immigrazione cananea patrilineare, analogamente a quanto accadde in seguito nel Mediterraneo, dove i minoici matriarcali di Creta assorbirono la prima ondata patriarcale achea, dando vita alla cultura minoico-micenea. Ma, come a Creta giunse una seconda e più virulenta ondata achea, l’invasione dorica, così nel Lavante, «il secondo spartiacque si ebbe con l’invasione della Terra di Canaan da parte degli Israeliti. Anche loro erano pastori semiti nomadi, giunti in diverse ondate dai deserti meridionali (metà del II millennio). Aggressivi come gli Accadi di Sumer, si stabilirono nella parte meridionale di Canaan (Antica Palestina)» (p. 419). Guidati da Mosè al fine di raggiungere la “terra promessa”, dall’Egitto portarono con sé una forma di religione monoteistica che imposero alle popolazioni autoctone. «Le donne, in particolare, oppresse e totalmente prive di diritti, erano profondamente devote alla dea Asherah e al culto di Anat e Ba’al. Zelanti verso il loro unico e solo dio, i profeti consideravano “meretricio” il comportamento delle donne e intrapresero contro di loro una lunga e aspra lotta» (p. 420).

Oggi, sotto il monoteismo islamico, apparso storicamente dopo quello ebraico, le donne continuano a gridare “Donna, Vita, Libertà”, pur avendo perso memoria della dea Asherah e delle altre divinità femminili del Vicino e del Medio Oriente. […] Riportare alla memoria 3000 anni di storia avrà un senso se le donne in primis saranno liberate, e si lascerà loro l’opera di mediazione per costruire un percorso di pace tra i popoli, affinché possano condividere pacificamente un territorio comune nel rispetto delle proprie identità culturali e religiose.


Heide Göttner Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa, Mimesis 2023, pagg. 583 euro 28


(Odissea, 19 novembre 2023, pubblicato con il titolo “Il conflitto israelo-palestinese” sul blog: ODISSEA (libertariam.blogspot.com))

L’Associazione Lucrezia Marinelli presenta Women Talking di Sarah Polley (USA, 2022, 104’), Oscar 2023 Miglior Sceneggiatura. “Quello che segue è un atto di immaginazione femminile”: con queste parole la regista inizia il suo racconto. Al centro della scena – una comunità mennonita con orribili casi di stupro (fatti realmente accaduti) – un gruppo di donne si incontra per riflettere e decidere il che fare. È la potenza trasformativa della presa di parola a dare a quelle donne la consapevolezza dell’oppressione e l’incontenibile desiderio di immaginare e progettare un futuro di libertà per sé e per figlie/i. Introduce Silvana Ferrari.