di Ingeborg Bachmann


Non varcare le nostre labbra, parola che semini il drago.

È vero, l’aria è soffocante,

la luce schiuma di acidi e fermenti,

sulla palude nereggia un velo di zanzare.

Ama le bicchierate la cicuta.

È in mostra una pelle di gatto:

la serpe s’avventa soffiando, lo scorpione inizia la danza.   

Non raggiungere le nostre orecchie,

fama dell’altrui colpa:

parola, muori nella palude

da cui la pozzanghera sgorga.  

Parola, stai al nostro fianco

tenera di pazienza e d’impazienza.

Bisogna

che questa semina abbia fine! 

Non domerà la bestia colui che ne imita il verso.  

Chi rivela segreti d’alcova, rinunzia per sempre all’amore.

La parola bastarda serve al frizzo per immolare uno stolto.

Chi ti richiede un giudizio su questo straniero? 

Se non richiesto lo formuli, prosegui tu il suo cammino

da una nottata all’altra con le sue piaghe ai piedi: va’! e non ritornare.

Parola, sii nostra, libera, chiara, bella.

Certo, dovrà avere fine ogni cautela. 

(Il gambero si ritrae,

L’ala talpa dorme troppo,

l’acqua dolce dissolve

la calce, che pietre ha filato).

Vieni, benevolenza fatta di voci e d’aliti,

questa bocca fortifica

quando la sua fralezza

si inorridisce e inceppa.

Vieni e non ti negare.

poiché in conflitto siamo con tanto male.

Prima che sangue di drago protegga l’avversario

questa mano cadrà dentro il fuoco.

O mia parola, salvami!


(1953)


(in Poesie, di Ingeborg Bachmann, a cura di Teresa Mandalari, Guanda 1978)

di Marina Terragni


Marco Deriu è sociologo e insegna all’Università di Parma. Da più di trent’anni si occupa di violenza degli uomini, è stato tra i fondatori di Maschile Plurale e ha promosso moltissime iniziative su questo tema.

«Oggi», dice, «in Italia ci sono almeno una trentina di gruppi di uomini che lavorano sottotraccia sulla faccenda. Riflessioni che tra alti e bassi hanno contribuito a mettere a fuoco il fatto che la violenza subita dalle donne è una questione maschile».

Sembra che sia diventato l’approccio mainstream… 

«Sì, ormai è difficile svicolare. Ma va anche detto che il contesto è cambiato: serve una visione dinamica quando ragioni su questo tema. Ci sono forme di violenza patriarcale che vengono supportate o perfino ordinate e regolate da alcune culture: per esempio nei matrimoni forzati, come abbiamo visto nel caso della ragazza pachistana Saman. Nella vicenda di Giulia invece anche la famiglia di Filippo Turetta appare travolta dalla tragedia».

Però il padre di lui ha minimizzato alcuni dettagli rivelatori: la gelosia ossessiva, il fatto che controllasse il cellulare della ragazza.

«Senz’altro resistono elementi della cultura patriarcale, però c’è stata una trasformazione. Il più oggi si gioca all’interno della relazione. Gli uomini sono sempre stati dipendenti dalle donne della loro vita ma il peso di questa dipendenza veniva contenuto dal contesto e dal racconto patriarcale. Oggi non soltanto le donne sono più libere, ma gli uomini sono meno supportati dal contesto. La partner non può più essere percepita come inferiore e dipendente perché è quasi sempre più equilibrata, più risolta, più forte. Le relazioni dovrebbero essere paritarie, nessuno prova più a dire il contrario, ma tanti uomini non ci stanno dentro».

E quindi?

«Quindi bisogna portare l’attenzione sulle dinamiche relazionali vive, si deve riflettere su questo».

Gli uomini non lo fanno volentieri. Ogni donna lo sa.

«Gli uomini fanno molta fatica a parlare dei loro vissuti. La rabbia e il passaggio all’atto violento dipendono da questa incapacità di fare i conti con la propria interiorità. E poi quasi sempre le situazioni di crisi sentimentale vengono vissute in estrema solitudine. Le donne sono più abituate a condividere tra loro mentre l’intimità tra uomini è pressoché inesistente».

Anche gli uomini che in questi giorni prendono pubblicamente la parola sulla violenza maschile non partono dai propri vissuti. Parlano solo degli altri.

«Sì, intervengono a difendere le donne dalla violenza altrui. Ogni uomo ha esperienza della propria vulnerabilità di fronte alla violenza, sa di poterla agire o di averla agita, ma si difende dietro il paternalismo protettivo. E quando proietti la colpa della violenza sugli altri paradossalmente sei più esposto al rischio di essere violento».

È così difficile ammettere di essere parte del problema?

«È una consapevolezza che genera profonda angoscia. Devi essere molto motivato per ragionare a partire da te, devi avere in vista un guadagno che questa angoscia la compensi. E il guadagno non può che essere poter attingere a un vissuto più ricco di sé come uomini e poter vivere relazioni meno misere, liberate dall’ossessione del potere e del controllo».

Servono a qualcosa i centri di recupero dei violenti?

«Possono essere una risorsa, ma in un contesto di interventi più ampio. Anche perché intercettano solo una minima parte del problema».

E invece i “corsi di affettività” nelle scuole? Oggi li chiedono tutti come una panacea.

«Si tratta di capire di che cosa stiamo parlando. Se l’idea è l’ora di affettività – e non vedo che cos’altro possa essere – non mi pare un’innovazione decisiva. Anche perché poi abbiamo il problema di chi educa gli educatori».

Se è vero che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?

«Quella con la madre onnipotente è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».


(Il Foglio, 23 novembre 2023)

di Luciana Cimino


È stato il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara a dare, suo malgrado, un indirizzo alla grande mobilitazione collettiva nata nelle scuole a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin. Valditara aveva lanciato l’invito «a tutte le scuole italiane a rispettare un minuto di silenzio nella giornata di martedì in onore di Giulia e di tutte le donne abusate e vittime di violenze».

Mentre ieri il ministro lo ha osservato in un istituto nel quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli, le studentesse e gli studenti di tutta Italia hanno fatto l’opposto: rumore. E continueranno nei prossimi giorni. Una risposta dal basso, solo parzialmente guidata dalle associazioni studentesche, nata spontaneamente da Nord a Sud, anche per rispondere al preciso appello di Elena Cecchettin, sorella della studentessa uccisa dall’ex fidanzato.

«In maniera autonoma un sacco di studenti e studentesse hanno deciso che non era opportuno seguire la direttiva ministeriale ma, al contrario, leggere, discutere, fare casino», ha spiegato Camilla Velotta della Rete degli Studenti Medi. Anche ieri è arrivata «la notizia dell’ennesimo femminicidio nel nostro Paese, stavolta a Fano – continua Velotta – bisognava infrangere il minuto di silenzio trasformandolo in un minuto di rumore per le 106 donne uccise quest’anno dagli uomini».

A Roma, Milano, Palermo, Napoli in migliaia di cortili di scuole e atenei, alle 11 in punto di ieri, sono partite le proteste del corpo studentesco e diversi sono anche i docenti che hanno solidarizzato. Racconta A., 15 anni, studentessa del Liceo Augusto della Capitale: «eravamo tutti e tutte consapevoli di quello che era successo, ne avevamo parlato nei giorni scorsi in classe con i professori e tra di noi, quindi alle 11 ho cominciato, come gli altri, a fare rumore con quello che avevo in mano, è sembrato che la scuola cadesse!».

Per M., insegnante di lingue in un liceo di Bologna, «è stato molto bello vedere i miei studenti cominciare spontaneamente a fare rumore quando l’altoparlante ha lanciato il minuto di silenzio».

«Hanno anche proposto un dibattito dopo la visione del film di Cortellesi da fare domani», dice ancora l’insegnante. «Io ho cercato di mediare – racconta invece L, anche lei docente in un istituto superiore di Bologna – la dirigente ha proposto il minuto di silenzio ma poi ho avviato un dibattito nella mia classe».

L’appello del ministro ha quindi paradossalmente fatto riuscire una specie di flash mob nazionale improvvisato, con le parole d’ordine «Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce». Nelle scuole e nelle università c’è stato tutto fuorché il silenzio: al Liceo Vittorini di Milano è stata letta in ogni classe la poesia “Se domani” di Cristina Torres Cáceres mentre al Tenca studenti e studentesse hanno intonato cori “Giulia Giulia” e alzato cartelli per ricordarla. Al Carducci, sempre a Milano, gli studenti hanno proposto un contrappello: «una morte ogni 72 ore è inaccettabile, parlatene in classe, con gli amici e i parenti, discutete sull’argomento, non state in silenzio. Vogliamo giustizia, vogliamo decostruzione, vogliamo rumore».

Un minuto di rumore anche nei licei di Lecce e a Palermo dove i ragazzi del Liceo Classico Vittorio Emanuele al suono della campanella hanno iniziato a battere le mani e gridare. A Napoli le donne sono scese in strada agitando campanelli e con uno striscione con scritto “Basta!”, in una manifestazione promossa dall’Udi.

«Siamo stanche di avere paura di morire per strada, di rischiare di non tornare più a casa – hanno detto – noi siamo qui insieme soprattutto per le donne più giovani perché possano avere un futuro libero e senza paura». “Per Giulia facciamo casino”, dicono anche gli studenti e le studentesse di Fisica, in occupazione alla Sapienza di Roma, scagliandosi contro la strumentalizzazione dei femminicidi mentre i colleghi delle altre facoltà sono scesi nel pomeriggio per le vie della città universitaria, in un corteo aperto dallo striscione «se domani non torno brucia tutto». E le proteste si sentiranno forte anche nei prossimi giorni, in vista delle manifestazioni del 25 novembre: oggi gli studenti di Osa e dall’associazione Donne de Borgata si riuniranno in presidio a Roma «contro il minuto di silenzio» mentre i collettivi della Statale di Milano faranno un «flash mob per ricordare Giulia, per dare forza alla sorella Elena e a tutte le persone a loro care».

«Invitiamo il mondo della formazione a partecipare – scrivono – con un oggetto rumoroso e con un cartello». Un sit-in è in programma per giovedì prossimo anche nell’Università della Calabria, a Rende, per «richiamare l’attenzione alla necessità di una rivoluzione culturale, nel ricordare Giulia Cecchettin, ennesima vittima di femminicidio in Italia, chiederemo un risveglio collettivo e istituzionale che segni la fine della società patriarcale».


(Il manifesto, 22 novembre 2023)

di Pat Carra


Rilanciamo parte dell’intervista di Pat Carra a Marisa Guarneri, illustrata da Marilena Nardi e pubblicata su Erbacce in giugno 2023. Marisa è co-fondatrice e presidente onoraria di Cadmi, Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, primo centro antiviolenza italiano aperto nel 1986 e associato a Donne in Rete contro la violenza.


Chi uccide una donna è spesso definito “un mostro”.

Definirli “mostri” li tira fuori dalla normalità della violenza, una violenza che le donne vivono tutti i giorni. Gli uomini che ammazzano le donne, centinaia ogni anno, non sono mostri, hanno problemi ma sono lucidi, sanno quello che fanno e perseguono in modo determinato i loro obiettivi.

Credi che le istituzioni siano davvero interessate a fermare questa guerra contro le donne?

Dagli anni ’80 osservo i comportamenti istituzionali. I centri antiviolenza hanno fatto molta fatica ad affermarsi come luogo di competenza, e se ci siamo riuscite non è certo grazie ai progetti governativi, tanto che ancora oggi mancano i finanziamenti necessari. Non si tratta solo di problemi burocratici o di posizioni ideologiche. Da 15 anni credo, e lo ripeto, che ci sia una non-volontà di eliminare la violenza dalla vita delle donne. Bisogna cambiare i comportamenti degli uomini rispetto alle donne, e anche, in certi casi, delle donne rispetto agli uomini. Intendo dire che la mancanza di rispetto, la gelosia ossessiva, il controllo, l’isolamento dalle altre figure familiari è una costante di tutte le situazioni di maltrattamento. Ci sono elementi chiari per intervenire prima che succeda l’irreparabile, per aiutare le donne ad andarsene quando vogliono, anche con i bambini, quando è una questione di difesa personale.

Come mai non succede?

Se ancora non si è fatto un lavoro endemico su tutte le situazioni a rischio di violenza, è perché in fondo non è un interesse prioritario per la politica, non lo è mai stato. Che ci siano donne che subiscono, donne in difficoltà, donne che non fanno attività politica, fa comodo a tutti. Che le donne stiano al loro posto fa comodo a tutti.

Le istituzioni, anche finanziariamente, intervengono quando succede qualcosa di grosso, se ammazzano una donna al giorno, quando c’è una scossa nell’opinione pubblica come adesso. Allora spuntano progetti e finanziamenti, ma appena la situazione sociale si calma, riprende il tran tran burocratico, sempre lungo e difficile. Io non ci credo, non ho nessuna fiducia in queste dichiarazioni delle istituzioni, tanto meno quando vengono fatte enfatizzando questioni di sicurezza e inasprimenti legislativi. E soprattutto quando prescindono dal rapporto con le donne e dal loro consenso, e dai rapporti con i luoghi di accoglienza come i centri antiviolenza e le associazioni di donne che se ne occupano da anni. Si tratta di provvedimenti di emergenza, non di veri incontri, tutto è calato dall’alto. Ma una donna che viene picchiata per anni, o stuprata, o perseguitata da uno stalker, non può essere ingaggiata nell’esercito della repubblica e rispondere “ok, agli ordini!”. Bisogna tener conto della sua situazione morale, psicologica, fisica, familiare e del contesto in cui si è mossa. Bisogna capire le complicità che a poco a poco emergono, perché nei casi di maltrattamento non si tratta di bravi ragazzi da cui non ci si poteva aspettare niente di male, quasi sempre non è così. E la violenza maschile è trasversale, a tutti i livelli economici e culturali. Non c’è niente che la fermi.

Lappello al cambiamento culturale come via duscita dalla violenza può essere una trappola?

È un discorso che va capito bene. Si dice che bisogna partire dalle scuole, ma nelle aule entra chiunque tranne le persone che possono essere di grande aiuto per insegnare, dall’asilo in poi, il rispetto per tutte e tutti. Questa sarebbe un’azione concreta. Si parla di superamento del patriarcato e di cambiamento culturale, senza capire cosa si sta dicendo. Ci si riempie la bocca di cose che una volta erano state scoperte e approfondite nell’esperienza dei centri antiviolenza, ma che ormai sono diventate parole vuote. Per costruire relazioni con le donne maltrattate, ci si deve coinvolgere in prima persona, le loro problematiche devono diventare una priorità per chi le segue.

Come valuti i progetti e i corsi per uomini maltrattanti?

Dopo circa vent’anni dalla nascita dei centri antiviolenza creati dal femminismo, dagli anni 2000 le istituzioni hanno importata da altri paesi una serie di contenuti sul tema della violenza maschile. Non mi meraviglio che a questo punto i governi siano stati molto disponibili a finanziare progetti di sostegno per uomini maltrattanti, luoghi di accoglienza, case, corsi. A favorirli ci sono lobby come quella dei padri separati, che contestano le statistiche sostenendo che gli uomini maltrattati sono più numerosi. Poi le lobby degli specialisti, quelli che intervengono nei tribunali, gli psichiatri, gli avvocati, uomini e anche donne. L’unica cosa positiva, molto importante perché è un dato simbolico, è che finalmente la violenza è vista come un problema degli uomini. È il risultato di 50 anni di lotte delle donne, una conquista.

Quali vantaggi concreti ci sono per i maltrattanti?

Agli uomini che sono sotto accusa o già in carcere, la partecipazione a questi progetti fornisce riduzione delle pene o dei trattamenti. È un elemento molto utilizzato all’interno dei processi. Ci sono interessi molteplici e di lobby, e un dato psicologico fortissimo: fare qualcosa nel carcere o fuori, a Milano per esempio c’è un centro comunale, abbatte il discorso “tutti gli uomini sono cattivi” e apre alla possibilità del cambiamento. Su questo aprirei un bel dibattito: quanto e come può cambiare chi ha ucciso? Io mi incazzo quando vedo che i fondi destinati ai centri antiviolenza non arrivano e invece si aprono i centri per uomini maltrattanti. Non ho le cifre, ma a livello burocratico ottengono tutto con meno fatica e più rapidità. CADMI non riceve da anni finanziamenti dalla Regione Lombardia, tanto per dirne una. C’è una complicità fondante e chi muove i finanziamenti ha le sue priorità.

Nel caso delle donne maltrattate, i ritardi e gli inceppi dipendono dal fatto che vengono considerate donne a perdere, donne che non ce la faranno mai. I centri antiviolenza si occupano di percorsi di uscita dalle case rifugio, di inserimento lavorativo, di corsi di aggiornamento, affrontando queste difficoltà. Questo non mi sembra giusto. Sono di parte, ho sempre scelto di essere di parte, sto dalla parte delle donne.


Leggi l’intervista integrale qui


(Erbacce, 20 novembre 2023)

di Marina Terragni


Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, dopo l’ennesimo caso, sono gli uomini che devono risalire alla radice della loro violenza. Non basta più dire «io non c’entro»


C’è sempre un momento in cui le cose che si ripetono uguali da tanto tempo, quelle 120 donne ammazzate ogni anno da mariti, fidanzati, compagni ed ex – come se si trattasse di una brutta cosa che però va registrata come un fatto di natura – smettono di essere uguali e assumono un altro aspetto. In tutte le case del paese abbiamo atteso notizie su Giulia Cecchettin che è stata da subito la ragazza Giulia sulla rampa di lancio con la sua tesi pronta da discutere e la sua laurea da festeggiare. Dopo quarantott’ore la notizia ce l’avevamo già, chi mai si poteva fare illusioni, eppure ce le siamo fatte fino all’ultimo. Ci siamo trattenute a sperare perché sentivamo che stavolta le cose uguali non sarebbero più state uguali, sapevamo che da quel momento in poi sarebbe diventato chiaro che le risposte non si possono più pretendere da noi donne, caso del tutto unico in cui alle vittime si chiede di spiegare il comportamento del carnefice. Siamo diventate tutte esperte di quella violenza maschile e non “di genere”, smettiamola di edulcorare che abbiamo subito o rischiamo di subire in ogni giorno della nostra vita. La questione è stata sviscerata, analizzata, decodificata, interpretata in ogni modo possibile. Si è tentato di tutto, anche in perfetta autogestione: dal sostegno e dall’accoglienza per quelle che avevano bisogno di nascondersi dai loro aguzzini ai manuali di valutazione del rischio, dalla richiesta di inasprimento delle pene ai centri di rieducazione per i violenti che in cambio di qualche vantaggio accettano di sottoporsi a terapia per qualcosa che malattia non è.

Ebbene: queste risorse si sono esaurite, la discontinuità del dopo-Giulia sta qui. Adesso, non si scappa, tocca agli uomini sviscerare, analizzare, decodificare, interpretare. Sono loro a doverci spiegare la “perversione del dominio di un sesso sull’altro” (Joseph Ratzinger), a dover ragionare per tutte e tutti su un’identità che continua a strutturarsi nel controllo e nel possesso, che chiede a ogni uomo fin dalla tenerissima età di dimenticare la madre per rimettersi al mondo in un patto tra uomini, una seconda nascita simbolica lontana dall’“abbietto materno” (Julia Kristeva). Si tratta di arrivare per questa strada fino alla radice della violenza.

La gran parte dei maschi di queste faccende non parla. Qualche uomo di buona volontà ci prova ma le buone intenzioni si perdono quasi sempre in commossi sociologismi di maniera. Le donne sono state capaci di rivoltare il mondo, forse l’unica rivoluzione senza spargimenti di sangue, ma l’hanno fatto a partire da sé. Il primo passo è stata la coscienza di sé ed è proprio questo che manca nelle parole maschili sulla violenza. Perché “io no” non può bastare anche se tu sei un uomo che non ha mai ferito, umiliato, violentato una donna. Si tratta di riconoscere anche in sé la presenza di quel dispositivo che nel caso degli uomini non violenti fortunatamente non si attiva, ma sta alla base di quello che ti viene richiesto di essere se hai avuto l’avventura di nascere uomo. Si tratta di passare dal “ma io no” al “me too” e di trovare il coraggio di fare i conti giusti.


(Il Foglio, 20 novembre 2023)

di Jennifer Guerra


La sorella di Giulia Cecchettin, Elena, ha detto che l’uomo che ha ucciso Giulia è figlio della cultura dello stupro e del patriarcato. I due concetti sono collegati, e cercano di spiegare perché la violenza di genere sia così pervasiva. Nel caso di Cecchettin, l’indifferenza di fronte a certi comportamenti è stata la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


Il femminicidio di Giulia Cecchettin, studentessa della provincia di Venezia uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta, è uno di quei casi che difficilmente dimenticheremo e che sta causando proteste e manifestazioni in tutta Italia. Elena Cecchettin, sorella di Giulia, in una lettera al Corriere della Sera ha scritto che Turetta non è un mostro né un malato, ma un «figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro». Sin dalle prime ore dopo il ritrovamento del corpo di Cecchettin, la sorella si è mobilitata per spiegare che il suo omicidio non è un caso isolato né una questione privata, ma un crimine che si inserisce in una cornice culturale più ampia che avvalla, normalizza se non addirittura incoraggia la violenza di genere.

L’espressione “cultura dello stupro” si è diffusa negli ambienti femministi negli anni 2000 per alludere a tutti quei processi culturali che considerano lo stupro e la violenza sulle donne come qualcosa di normale e inevitabile. Quando si dice che gli uomini e le donne crescono in una “cultura dello stupro” non si intende che i genitori educhino volutamente gli uomini a commettere abusi sulle donne, ma che diverse manifestazioni culturali contribuiscono a radicare l’idea che essi siano qualcosa che fa parte del modo in cui stanno le cose. Questo sistema ha conseguenze gravi per tutti i soggetti coinvolti: gli uomini crescono con un senso di impunità nei confronti della violenza di genere e le donne tendono a non riconoscerla o a minimizzarla quando la subiscono.

In un articolo sullo storico giornale femminista off our backs, Alyn Pearson spiega la cultura dello stupro attraverso la metafora del tifo e dell’influenza stagionale. Siamo abituati a pensare che lo stupro sia come il tifo: una malattia improvvisa ed epidemica che colpisce una popolazione a causa di comportamenti sbagliati. In realtà, lo stupro somiglia più all’influenza stagionale, una malattia non epidemica ma endemica, ovvero che ormai è entrata a far parte dell’ambiente che ci circonda. Proprio perché così comune, l’influenza è oggetto di miti e saggezza popolare (“Se prendi freddo, ti viene l’influenza”) e tutti si aspettano di esserne affetti prima o poi nella vita. L’influenza si diffonde perché le persone la sottovalutano, starnutiscono senza mettersi la mano davanti al naso o vanno in giro anche se hanno la febbre. Ma come è possibile vaccinarsi per l’influenza, così anche per la cultura dello stupro.

La “cultura dello stupro” non è l’unica teoria possibile per spiegare la pervasività della violenza di genere, un fenomeno che stando ai dati dell’Istat (in linea con quelli globali raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità) colpisce una donna su tre. Prima dell’avvento del movimento femminista, la violenza di genere era considerata un problema morale, dove la singola persona che abusava di una donna diventava rappresentante di una società depravata o senza valori. Negli anni ’70, la teorica femminista Susan Brownmiller suggerì invece che lo stupro non è una questione di desiderio sessuale o di perversione, ma un esercizio di potere. La violenza di genere diventa così un meccanismo di controllo che serve a tenere a bada le donne e a costringerle a vivere nella paura.

Nei decenni successivi le studiose femministe aggiunsero altri elementi al quadro: secondo alcune teoriche radicali, anche la pornografia ha un ruolo nell’incoraggiare la violenza di genere, mentre altre suggerirono la teoria del “cultural spillover”, ovvero che la responsabilità dello stupro non va ricondotta soltanto a credenze e comportamenti che condonano esplicitamente la violenza di genere, ma a tutto un sistema che la legittima in maniera indiretta, come le punizioni corporali, la violenza istituzionale e dei mass media, eccetera. Tutte queste teorie hanno una base in comune, ovvero l’idea che la gerarchia fra i sessi, chiamata anche “patriarcato”, stia alla radice della violenza di genere. Questa premessa è accettata anche da numerose leggi e provvedimenti, come la Convenzione di Istanbul, che ricorda nei suoi preamboli che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione» e che essa ha una “natura strutturale”.

Dire che la violenza di genere ha una natura strutturale è un’affermazione che ha importanti conseguenze: la prima è che la violenza non è innata negli uomini, non è dettata da meccanismi biologici o da istinti ingovernabili; la seconda è che essendo una questione culturale e legata alle strutture di potere, si può sconfiggere. Il patriarcato infatti non è una caratteristica intrinseca maschile né una specie di associazione segreta in cui gli uomini si mettono d’accordo per sottomettere le donne. Il termine è stato usato inizialmente da sociologi e antropologi per descrivere una società in cui la figura del padre è al vertice della catena di comando della comunità. Le pensatrici femministe hanno poi adottato questa espressione per indicare più in generale un sistema in cui il genere è il principio organizzatore. Mentre le femministe radicali come Kate Millett credono che il patriarcato si manifesti innanzitutto attraverso la sessualità, le femministe marxiste hanno proposto una teoria che collega il patriarcato all’esclusione delle donne dai processi produttivi e al loro confinamento nella sfera domestica.

Oggi quando si parla di patriarcato si allude a entrambe le cose: patriarcali sono tanto la cultura quanto la struttura sociale ed economica. Ciò ha un’altra, importante conseguenza, ovvero che anche le donne sono immerse e partecipano alla società patriarcale, interiorizzandone gli schemi di pensiero e le prescrizioni comportamentali. La differenza sostanziale è che il movimento femminista ha permesso a molte donne di riconoscere e liberarsi da queste richieste, impegnandole a costruire un modo diverso di pensarsi e vivere le loro vite. Per gli uomini, eccetto quelli che si avvicinano al pensiero femminista, questo processo deve ancora in larga parte avvenire. Parlare di cultura patriarcale e di cultura dello stupro non significa cancellare le responsabilità individuali o addossare la colpa a “tutti gli uomini”, ma sottolineare che tutti, a prescindere dal genere, siamo compartecipi di quella cultura.

Gli uomini però sono investiti da una responsabilità ulteriore, che è quella di prendere coscienza di questa partecipazione e provare a smantellare molte delle manifestazioni della cultura dello stupro che avvengono fra pari. Dalle dichiarazioni di conoscenti e familiari di Filippo Turetta, pian piano emerge che molti erano consapevoli dei suoi comportamenti asfissianti nei confronti di Giulia Cecchettin e del suo disagio psichico. Oggi abbiamo il dovere di domandarci cosa sarebbe successo se, anziché stare tutti in silenzio e considerare i suoi i tipici comportamenti di uno “un po’ geloso” o di un “bravo ragazzo”, qualcuno fosse intervenuto. Quel silenzio, quell’indifferenza, quella convinzione che fosse tutto nella norma sono la più chiara manifestazione della cultura patriarcale.


(Fanpage.it, 20 novembre 2023)

di Giusi Fasano


Roia dice la verità: tutte le ragazze, le donne che decidono di rompere una relazione senza l’accettazione dell’altro devono considerarsi a rischio


Fabio Roia è il presidente vicario del Tribunale di Milano ed è un magistrato da sempre molto attento alla violenza di genere.

Dottor Roia, sono anni che parliamo di donne che subiscono violenze. Leggi, convegni, dibattiti, interventi nelle scuole, nelle aziende, nelle istituzioni, manifestazioni, appelli, l’attenzione dei media. Poi arriva la cronaca e sembra sia stato tutto inutile.

«Eh… lo so. Pensavamo che con il passare del tempo sarebbe svanito il modello dell’uomo legato a generazioni meno giovani, cioè quello tradizionalmente patriarcale, padrone della famiglia e della donna. Pensavamo che quel modello sarebbe svanito e si sarebbero costruite nuove relazioni. E invece permane ed è radicata l’idea del maschio che incentra la relazione sul rapporto padronale di possesso e controllo».

Secondo lei perché?

«Evidentemente in parte gli stessi modelli vengono tramandati in famiglia, soprattutto dai genitori, e quindi si acquisiscono per trasmissione. E poi quel che di positivo può arrivare dalla scuola, dalla comunicazione che adesso è trasformata dai social, non riesce a fare breccia nella mentalità dei giovani».

Giovani, appunto. Colpisce la giovane età nel caso di Filippo e Giulia.

«Nei ragazzi non si riesce a far passare il messaggio del rispetto e della libertà della donna di scegliere la propria vita. A conferma di questo le anticipo un dato significativo della rilevazione annuale del nostro tribunale: quest’anno il 40% dei reati di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale è stato commesso da giovani fra i 18 e i 35 anni».

Trova tutto questo scoraggiante?

«In parte sì. Ma ci sono anche dati positivi.»

Per esempio quali?

«La legislazione ha fatto molti passi avanti, c’è più formazione fra chi tratta questi argomenti. E poi le giovani donne denunciano prima. Come età, intendo. Non stanno a soffrire per anni come facevano le donne della mia generazione sperando di cambiare l’uomo violento che avevano accanto. A un certo punto rompono la relazione».

Esattamente come ha fatto Giulia con Filippo. Poi, però, lui ha contato sulla sua sensibilità per riagganciarla e tenerla in qualche modo legata alla sua vita.

«Questo meccanismo è noto, purtroppo. Attenzione, come dico sempre, a non colpevolizzare lei se accetta un altro appuntamento, se non vede o sottovaluta i segnali della violenza. So che il concetto è un po’ forte ma la verità è che tutte le ragazze/donne che decidono di rompere unilateralmente una relazione senza l’accettazione dell’altro devono considerarsi a rischio di un’escalation di violenza».

Cosa manca all’antiviolenza?

«La condanna sociale nella quotidianità, cioè nel terreno dove germoglia la violenza: con battute sessiste, per esempio. O col ritenere la donna ancora un oggetto, una preda sessuale, nel giustificare l’uomo predatore che ha “esigenze sessuali”».

Cosa dire alle Giulie che oggi sono nell’ombra?

«Parlatene, parlatene, parlatene. Non dico denunciate se non ve la sentite, ma i centri antiviolenza sanno come ascoltarvi, aiutarvi, indirizzarvi. E vorrei fare una preghiera anche alle amiche, ai parenti di queste ragazze. A chi sa. Siate sentinelle sociali, convincetele a farsi aiutare. Da sole non se ne esce».


(Corriere della Sera, 19 Novembre 2023)

di Elena Cecchettin


Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità.

E invece la responsabilità c’è. I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro.

La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.

Viene spesso detto «non tutti gli uomini». Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini.

Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio.

Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge.

Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.


(Corriere della Sera, 19 Novembre 2023)

di Gabriella Galzio


Lo sguardo alto sul divenire delle civiltà è stato coltivato a lungo dalla studiosa tedesca delle civiltà, nonché filosofa teoretica, Heide Göttner Abendroth che nella seconda metà del ’900 ha fondato i Moderni Studi Matriarcali, portando alla luce intere civiltà, sepolte sotto la dicitura “Preistoria”, e restituendole a pieno titolo alla Storia, che dunque si amplia del suo tratto paleolitico e neolitico rimosso. Queste civiltà matriarcali rimosse sono di natura sostanzialmente diversa dalla nostra che definiamo universale o classica, ma che in realtà è anch’essa relativa e, con la definizione di “patriarcale”, storicamente databile a partire dal 2600 a.e.c (almeno per quanto riguarda l’area mesopotamica e mediterranea). Finalmente, gli studi poderosi di questa ricercatrice giungono in Italia grazie alle Edizioni Mimesis (2023) con il titolo Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (traduzione di Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi). L’opera è di tale dirompente innovatività sul piano storiografico da costituire una pietra miliare nel panorama degli studi storici e da meritare di essere adottata come libro di testo nelle scuole superiori e nelle università. L’approccio scientifico, il rigore logico e metodologico che attraversa tutte le 583 pagine del libro ne fanno, infatti, un solido e affidabile strumento didattico. L’autrice stessa, del resto, ha fondato nel 1986 l’International Academy HAGIA che dirige ancora oggi. Il libro, peraltro, scritto con stile limpido, si presta anche alla divulgazione presso un più ampio pubblico e ci apre a un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente, per costruire – con le parole della teologa Mary Daly – un “futuro arcaico”. Le società matriarcali (“In principio le madri”), infatti, estranee a ogni idea di dominio, erano impostate su valori materni, sul rispetto della diversità e sulla reciprocità, erano società pacifiche ed egualitarie tra i generi e le generazioni.

Va detto che, per ricostruire le fattezze di queste società matriarcali, la studiosa ha condotto la sua quarantennale ricerca muovendosi continuamente tra due piani. Su un piano sincronico antropologico, andando alla ricerca di tutte le società matriarcali sopravvissute, ancora oggi sparse nel mondo (paradigmatico il caso dei Moso della Cina), laddove il frutto di questo studio ampio e diversificato è stato già pubblicato in Italia per i tipi della Venexia con il titolo Le società matriacali. Studi sulle culture indigene del mondo. Su un piano diacronico storico la ricercatrice ha ricostruito la lunga storia delle civiltà matriarcali dal paleolitico all’età del ferro nell’Asia occidentale e in Europa, confluita in quest’ultima recentissima sua opera – Storia delle società matriarcali e nascita del patriarcato – e che costituisce quanto di più all’avanguardia vi sia in questo campo di ricerche. Ora, ciò che risulta prezioso da questi studi approfonditi lungo il duplice asse sincronico diacronico, è che Göttner-Abendroth ha potuto finalmente individuare le caratteristiche fondamentali peculiari delle civiltà matriarcali pur nelle loro molteplici coniugazioni nel tempo e nello spazio.

Economicamente la società matriarcale è una società di compensazione o società in equilibrio (Ausgleichsgesellschaft) in cui le donne amministrano i beni necessari alla vita come terra, case e generi alimentari e attraverso la distribuzione hanno continuamente cura a che vi sia un equilibrio economico. Questa economia non è di accumulazione, bensì di distribuzione, è nello spirito una “economia del dono”; socialmente poggia su strutture di parentela (Verwandtschaftsgesellschaft), entità claniche o tribali caratterizzate da matrilinearità (parentela in linea materna) e matrilocalità (residenza presso la madre), dove vige uguale valore dei generi (egalitarismo di genere); politicamente è una società basata sul consenso, laddove le case dei clan costituiscono la base reale della politica, con una delegazione di uomini inviati come portavoce delle loro tribù presso assemblee più grandi all’esterno; costoro hanno qui la propria sfera d’azione e dignità con vincolo di mandato. Nella maggior parte dei casi ciò sortisce non solo una società egalitaria tra i generi, ma una società egalitaria nel suo complesso; culturalmente poggia su una cultura di tipo sacrale che possiede sistemi religiosi e di visione del mondo complessi, laddove fondamentale nella concezione della vita sulla terra e del cosmo è la fede nella rinascita. Nelle culture matriarcali, infatti, la morte è vissuta come parte di un flusso continuo metamorfico di morte-rinascita e dunque connessa alla vita. Non esistono dei maschili astratti e staccati dalla realtà, ma è una divinità femminile, nelle sue molte apparizioni, a permeare l’immagine del mondo; divinità che viene intesa come immanente e operante nel mondo.

«Oggi – scrive la studiosa nell’introduzione alla sua opera storica – le forme di repressione e di sfruttamento del patriarcato non colpiscono soltanto le donne e i bambini, ma, seppur in modo diverso, anche la maggior parte degli uomini. Molti movimenti internazionali che lottano per un cambiamento radicale e per una società migliore ne contano tanti tra le loro fila. […] La nostra ricerca fornisce allo stesso tempo un importante sostegno alle lotte dei popoli indigeni che rivendicano la propria identità culturale, opponendo una strenua resistenza al colonialismo insito nel patriarcato». Candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace, Heide Göttner-Abendroth ci consegna con questo trattato storico le prove che la guerra non è connaturata all’essere umano, quanto piuttosto è un prodotto storico, affacciatosi con la fase patriarcale dell’umanità, insieme agli stati e ai loro apparati di coercizione. Che dunque come è cominciata, può anche finire.

Alla luce di questo ampliato quadro storiografico, possiamo anche rintracciare la matrice prima dello scontro brutale tra Israele e Hamas che può essere fatta risalire alla lontanissima Età del bronzo, epoca delle ondate di patriarcalizzazione indoeuropee (già teorizzate da Marija Gimbutas) succedutesi nel Levante, rendendo possibile rintracciare le radici matriarcali dei palestinesi che affondano nella Terra di Canaan (tra Palestina, Libano e Siria), dal momento che i cananei immigrati, pur essendo patrilineari, si erano mescolati alle popolazioni locali matrilineari adottando gran parte della loro cultura. Le popolazioni matriarcali del Levante, situate tra Palestina, Libano e Siria, riuscirono dunque ancora ad assorbire una prima ondata di immigrazione cananea patrilineare, analogamente a quanto accadde in seguito nel Mediterraneo, dove i minoici matriarcali di Creta assorbirono la prima ondata patriarcale achea, dando vita alla cultura minoico-micenea. Ma, come a Creta giunse una seconda e più virulenta ondata achea, l’invasione dorica, così nel Lavante, «il secondo spartiacque si ebbe con l’invasione della Terra di Canaan da parte degli Israeliti. Anche loro erano pastori semiti nomadi, giunti in diverse ondate dai deserti meridionali (metà del II millennio). Aggressivi come gli Accadi di Sumer, si stabilirono nella parte meridionale di Canaan (Antica Palestina)» (p. 419). Guidati da Mosè al fine di raggiungere la “terra promessa”, dall’Egitto portarono con sé una forma di religione monoteistica che imposero alle popolazioni autoctone. «Le donne, in particolare, oppresse e totalmente prive di diritti, erano profondamente devote alla dea Asherah e al culto di Anat e Ba’al. Zelanti verso il loro unico e solo dio, i profeti consideravano “meretricio” il comportamento delle donne e intrapresero contro di loro una lunga e aspra lotta» (p. 420).

Oggi, sotto il monoteismo islamico, apparso storicamente dopo quello ebraico, le donne continuano a gridare “Donna, Vita, Libertà”, pur avendo perso memoria della dea Asherah e delle altre divinità femminili del Vicino e del Medio Oriente. […] Riportare alla memoria 3000 anni di storia avrà un senso se le donne in primis saranno liberate, e si lascerà loro l’opera di mediazione per costruire un percorso di pace tra i popoli, affinché possano condividere pacificamente un territorio comune nel rispetto delle proprie identità culturali e religiose.


Heide Göttner Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa, Mimesis 2023, pagg. 583 euro 28


(Odissea, 19 novembre 2023, pubblicato con il titolo “Il conflitto israelo-palestinese” sul blog: ODISSEA (libertariam.blogspot.com))

di Francesca Borrelli


Morta a ottantasette anni la scrittrice e critica letteraria inglese, aveva vinto il Booker Prize nel 1990 con «Possessione». Ripubblichiamo l’intervista che Francesca Borrelli le fece in occasione del festival di Mantova il 3 settembre del 2003, incontrando l’autrice, notoriamente schiva, a Torino


La scrittrice britannica A.S. Byatt, che vinse il Booker Prize nel 1990 col suo romanzo «Possessione» (pubblicato in Italia da Einaudi, come gli altri suoi romanzi), è morta all’età di 87 anni. Lo ha annunciato il suo editore Penguin Random House. Nata nella città inglese di Sheffield nel 1936 e formatasi all’Università di Cambridge, Byatt ha insegnato alla Central School of Art and Design e allo University College di Londra tra il 1972 e il 1984. Fra i suoi libri (in Italia con Einaudi), «Possessione» – da cui nel 2002 è stato tratto un film con Gwyneth Paltrow -, «Tre storie fantastiche», «Angeli e insetti», «La torre di Babele», «Le storie di Matisse», «La vergine nel giardino», «Natura morta», «Una donna che fischia», «La Cosa nella foresta», «Il libro dei bambini», «Ragnarök», «Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris».

Forse non è governato da un principio razionale il progetto di pubblicare in Italia i libri che compongono la tetralogia ideata da Antonia Byatt in un ordine diverso da quello da lei predisposto. Infatti, la prima volta che ci imbattemmo nella protagonista, Frederica Potter, buona parte delle sue esperienze formative le stavano già alle spalle, e tutto ignoravamo dei suoi trascorsi giovanili, che occupavano circa ottocento pagine di due libri precedenti, ma solo successivamente tradotti. Tuttavia, non c’è dubbio che dopo l’incredibile successo di Possessione, la scommessa di attirare il lettore nella nuova, immane trama che la Byatt andava tessendo si giocasse tutta nella Torre di Babele, il romanzo tradotto per primo, nonostante formasse il terzo quadro della tetralogia: perché è tra quelle pagine che i personaggi acquistano una vivacità e un carattere tali da indurre il desiderio di non abbandonarli più. Nel volume inaugurale, la Vergine nel giardino, dedicato al figlio perduto in un incidente stradale, la scrittura di Antonia Byatt era ancora affaticata dalla sua vocazione saggistica, da una erudizione insufficientemente mascherata, dal bagaglio mai deposto delle troppe reminiscenze letterarie che affollavano la pagina, dove il gusto dell’intreccio e la vitalità dei personaggi guadagnavano a fatica il respiro di una autentica felicità narrativa. Ora che il secondo movimento del quartetto ci viene restituito con il titolo Natura morta (sempre grazie alla appassionata traduzione di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi) la consolazione di potere proiettare sulle figure ancora indistinte che lo popolano la luce di cui saranno investiti nel libro seguente – La Torre di Babele, appunto – ci aiuta a motivare la nostra partecipazione alle loro vicende.

Della famiglia Potter, riguardata dalla proverbiale vocazione inglese a sdrammatizzare le avversità della vita, tra le pagine di Natura morta seguiamo soprattutto i tre figli: la materna Stephanie, sposata al pastore di scarsa fede Daniel Orton, è senz’altro la più attraente dei tre, sebbene anche su di lei Antonia Byatt proietti una cerebralità che, tanto per dirne una, la fa «odiare alla maniera di George Eliot» e amare con le riserve di una vocazione intellettuale sacrificata alle incombenze familiari. Il fratello Marcus è un ragazzo disturbato, ma non tanto da staccarsi narrativamente dallo sfondo, se non grazie a quegli impacci ben descritti, di cui cade vittima a fronte di richieste emotivamente troppo cariche. Ma la vera protagonista, qui come in tutta la tetralogia, è Frederica, adolescente per lo più ritratta nell’ambiente del college dove studia, e dove consuma le sue prime, scriteriate avventure sessuali. Se non fosse per una irredimibile povertà di inventiva, Frederica si darebbe alla tessitura di romanzi. Il suo passato l’ha vista calcare le scene del teatro, il presente è ancora filtrato da una ambizione sufficiente a giustificarle l’epiteto di «squalo intellettuale», e il suo futuro reclama uno status sociale per il quale ci vuole un marito: lo individuerà nel bel personaggio di Nigel Reiver, un filibustiere dal quale sarà impegnata a separarsi violentemente nel corso del libro successivo. Studenti e professori di Cambridge ruotano sullo sfondo a animare debolmente il contesto, tra loro il solo dotato di un profilo originale è Raphael Faber, ebreo tedesco umorale e tendenzialmente misantropo le cui barriere difensive Frederica cercherà invano di sfondare. Così va la vita, o quel che di essa filtra tra le mura di un college, mentre la Storia si prepara di lì a poco a registrare la crisi di Suez e l’invasione dell’Ungheria. Finché il capitolo finale del libro, di gran lunga il migliore, spezzerà l’incantesimo investendo anche gli interni della famiglia Potter di una assurda tragedia.

Antonia Byatt è una scrittrice notoriamente schiva, è restia alle interviste e paventa i bagni di folla. Perciò decide di dosare gli impegni e chiede di andarla a incontrare a Torino, dove ieri era di passaggio prima di approdare al Festival di Mantova, che oggi inaugura con lei i suoi appuntamenti letterari.

Proviamo a sorvolare rapidamente lintera architettura di questa sua tetralogia, cominciata venticinque anni fa e appena conclusa con il romanzo titolato The whistling woman (La donna che fischia), uscito questa estate in Inghilterra. Come si è assestato il suo progetto narrativo via via che prendeva corpo, e qual è il bilancio di questa sua fatica distribuita in circa 2000 pagine?

Fin dall’inizio avevo intenzione di scrivere un lungo libro, al quale mi sarei dedicata a piccole dosi, nei ritagli di tempo che mi lasciavano i miei figli, allora molto piccoli. Lo immaginavo come un romanzo destinato a scorrere lungo la mia vita come un fiume, costruito tramite una architettura aperta. E pensavo sarebbe stato un libro sulla contemporaneità. Infatti, il prologo della Vergine nel giardino è ambientato nel `68, ma poi la narrazione torna indietro ai primi anni `50. Quando ho terminato l’ultimo romanzo avevamo passato la soglia del 2000, perciò questa tetralogia ha finito per diventare «storica»: ecco la differenza più importante rispetto al progetto iniziale. La stampa inglese insiste nel domandarsi come mai i nostri scrittori non si occupino del presente. Io avevo intenzione di farlo, ma tutto sommato l’avere composto un grande romanzo storico ora mi sembra un fatto positivo. Un altro elemento stabilito dall’inizio riguarda il contrasto tra scienza e religione. Fin da subito sapevo che alla fine dell’ultimo romanzo avrei inserito una conferenza sui rapporti tra mente e corpo, sollevando domande che oggi sono di estrema attualità. Tutto questo mi è costato un grandissimo lavoro, ho studiato molto, ho scambiato una corrispondenza interessante con alcuni scienziati attenti agli aspetti metaforici del linguaggio e preoccupati dal dibattito sulle analogie tra mente e computer. Avrei preferito che questa tetralogia fosse ancora più lunga, perché – come diceva Tolkien – qualcosa finisce sempre col restare fuori. Quando Henry James cominciò a scrivere Le ali della colomba, disse che nel dare inizio a un romanzo si ha sempre l’ambizione di catturare il mondo intero. A dire il vero, io volevo raccontare solo frammenti di realtà, e forse per questo ho inframezzato la scrittura di alcuni racconti; perché implicano una prospettiva parziale, che permette, tra l’altro, di dedicarsi con più gusto alla scrittura.

Il lettore che segue i libri organizzati intorno alla vita di Frederica Potter si accorge con sollievo che le tentazioni saggistiche dellautrice cedono via via alla sua attitudine narrativa. Fin qui, tra le pagine di Natura morta, Frederica impara di più dalla letteratura che dalla vita. Ma già nella Torre di Babele il rapporto si capovolge, e finalmente le emozioni guadagnano spazio. È daccordo?

Sono d’accordo, più si va avanti, più le passioni prendono il sopravvento sulle idee mutuate dalla letteratura. Frederica risente di una educazione limitante, com’è stata quella della mia generazione. Anch’io mi sono formata prevalentemente sulla letteratura, e quasi solo sugli autori inglesi. Imparavamo interi poemi a memoria, e questo ci insegnava a coltivare l’amore delle parole, mentre ora i giovani preferiscono occuparsi di teoria della critica. Io nasco come saggista, sono vissuta in una enorme soggezione per i nostri grandi scrittori, e poi col tempo ho perso interesse per la teoria letteraria, mentre è cresciuta in me la narratrice. Ora mi sento pienamente realizzata come autrice di romanzi.

Tra le pagine di Natura morta i personaggi si presentano ancora come figure indistinte, debolmente caratterizzate. Mi domando se è voluto, ossia se essendo ancora molto giovani devono scontare lincertezza di una identità non ancora acquista; o se la sua abilità descrittiva sia cresciuta nel tempo, come il frutto di un apprendistato al romanzo maturato via via.

Una parte del progetto prevedeva, in effetti, di accordare il carattere dei personaggi alla loro età, ed è ovvio che la giovinezza comporti identità ancora sul vago. Certo, nella Torre di Babele gli stessi caratteri saranno precisati meglio, anche perché il libro è investito da una vena satirica e questo aiuta a definire i profili. Inoltre, la mia idea prevedeva di presentare gruppi di persone accomunate da uno stesso modo di parlare, dotate di un linguaggio condiviso, e anche questo elemento contribuisce a disegnare le fisonomie con più precisione. Ma c’è anche un diverso aspetto del mio progetto secondo cui Natura morta avrebbe dovuto essere il mio libro biologico, al centro del quale stanno il sesso, la nascita, la morte. Per descrivere tutto questo mi ero proposta di evitare l’uso di metafore, di figure retoriche. Volevo nominare le cose stesse così come si presentano alla percezione. Ma era una pretesa impossibile da realizzare, infatti non ci sono riuscita.

In effetti, specialmente Natura morta risente di una tentazione fenomenologica…

È vero, ma più ancora – dati i miei interessi scientifici – mi è stato maestro Wittgenstein, e soprattutto il poeta americano William Carlos Williams: nessuna idea se non nelle cose – diceva. Inoltre, io sono stata allevata nella letteratura inglese, le cui virtù stanno nella concretezza, nel creare cose piuttosto che astrazioni.

In molti dei suoi libri è evidente come lei si senta a casa non solo nella letteratura, ma anche nella pittura. In Natura morta la narrazione è intervallata da frequenti osservazioni su Van Gogh, nonché da brani delle sue lettere al fratello Theo. Dal suo racconto Zucchero abbiamo appreso che lei passò un lungo periodo di tempo a Amsterdam, mentre suo padre era ricoverato in ospedale, e nel tempo libero andava spesso al museo Van Gogh. Per questo il pittore olandese ha un ruolo protagonista nel suo libro?

No, c’è una ragione che riguarda la struttura del romanzo e poi ce n’è una istintuale; ma i ricordi autobiografici non c’entrano. L’aspetto istintuale sta nel fatto che quando cominciai a scrivere Natura morta vedevo questo romanzo colorato di viola scuro. Allora pensai che mi sarebbe stato necessario un colore complementare, non potevo andare avanti a scrivere un libro investito di una tonalità così buia. E mentre riflettevo sul colore di cui avevo bisogno, vidi davanti a me La sedia gialla di Van Gogh. Era proprio lui il pittore che faceva al mio caso, perché non cerca di connettere religiosamente la pittura ai concetti, va diritto alle cose come appaiono. Anch’io cerco di procedere così nel libro, volevo fosse un romanzo domestico, fatto di sedie, oggetti, interni di case, bambini, e volevo guardasse alla natura fattuale di quel che accade: come fa Van Gogh, e questa è la ragione strutturale per cui l’ho scelto.

Torniamo ai personaggi, e parliamo di due figure che si fanno strada lentamente, per poi acquistare una speciale vivacità narrativa: il pastore Daniel Orton, che piomberà nella tragedia dopo la morte di sua moglie Stephanie; e Nigel Reiver, il violento marito di Frederica. Non trova che siano tra i comprimari più interessanti?

In effetti ho la tendenza a creare personaggi maschili positivi. Fin dall’inizio della tetralogia intendevo dipingere Daniel Orton come un uomo buono. Non era ancora interessante nella Vergine nel giardino, ma lo diventa qui, in Natura morta, anche se la disperazione per la morte di Stephanie lo rende un cattivo padre. Se la caverà meglio nel libro successivo, La Torre di Babele, quando il suo nuovo lavoro consisterà nel prestare soccorso telefonico. Per un uomo provato come lui è più facile essere d’aiuto se le persone che glielo chiedono gli sono estranee. Quanto a Nigel Reiver, in un romanzo strettamente femminista dovrebbe essere un uomo del tutto negativo. Ma a me piace, ha una influenza positiva su Frederica, ha ragione di pretendere da lei più di quel che lei gli dà, la aiuta a trasformarsi in una persona responsabile, così come il figlio l’aveva trasformata nella madre in cui stentava a riconoscersi. E quando firmeranno il divorzio, tutto questo le impedirà di sentirsi una vittima. Il motivo per cui Frederica sceglie Nigel sta nel fatto che, diversamente dagli altri uomini con cui era andata a letto negli anni di Cambridge, lui ha una fisicità spontanea, è l’unico che ci sa fare col sesso. E lei, che è l’incarnazione del conflitto tra le ragioni del corpo e quelle della mente, fa lo sbaglio di pensare che risolverà i problemi del corpo… col corpo.

In non pochi passaggi la voce narrante irrompe nellintreccio. È un espediente usato da molti scrittori, ma soprattutto qui, in Natura morta, linterruzione arriva spesso in modo brusco, a esplicitare intenzioni poi abbandonate, o cambiamenti di idee dellautore. Tanto che viene da chiedersi non solo se lei intenda prendere le distanze dai suoi personaggi, o ricordare che siamo allinterno di una finzione, ma se lei desideri scoraggiare, almeno a tratti, ogni possibile meccanismo di identificazione…

Questa domanda implica una risposta sincera, che mi è particolarmente difficile dare. Perché quando ero una giovane narratrice quel che desideravo era proprio creare un incidente tecnico che comportasse nel lettore lo stesso shock di un incidente reale. Tra il momento in cui concepii questa idea e il tempo che mi ci volle a realizzarla, mio figlio venne investito per la strada e morì. Talvolta non riuscivo a scrivere affatto, ma quando ce la facevo la condizione era che ricordassi a me stessa di essere all’interno di un artificio. Anche il fatto di inventare un incidente capitato a uno dei miei personaggi, dal momento che sapevo cosa significava nella realtà, mi sembrava una impresa insormontabile. Così introdussi questa voce narrante, per tenere me stessa a distanza da quella disgrazia. Per scusarmi di avere scritto un libro e tenermelo lontano, attribuendolo a un altro narratore.

Cosa dobbiamo aspettarci dal romanzo conclusivo della tetralogia?

La protagonista, che è sempre Frederica, riuscirà a conciliare in sé la donna che si permette di fischiettare, che è capace di svolgere il suo ruolo di madre e che mette su una famiglia: a modo suo naturalmente, ossia in maniera un po’ improbabile. La volevo protagonista di una commedia di stampo shakespeariano, non di un dramma. Ora il mio editore francese è preoccupato, ha una idea molto elevata di Frederica e pensa che se una donna fischia questo la rende volgare. Crede che il titolo rimandi a qualcosa di comico, infatti ha ragione, è proprio così. E ci sarà un happy ending, per Frederica come per tutti i personaggi, salvo la figura di un religioso visionario al quale farò fare una fine tragica.


(Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Jacopo Agostini


L’arte in fuga. Dopo l’invasione dell’Ucraina, parecchie migliaia di russi hanno lasciato il paese, tra questi numerosi intellettuali e artisti in cerca di un futuro sicuro.

Chi era già in possesso di un visto europeo è fuggito in Finlandia o altrove in Europa. Gli altri si sono diretti verso paesi come la Turchia, il Dubai, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Tagikistan, la Serbia, la Bulgaria, l’America Latina e la Thailandia. C’è anche chi ha trovato rifugio in Georgia e Armenia (due paesi che non richiedono il visto per i russi), nei Balcani e in Lettonia, dove le comunità russe sono particolarmente attive.

Chi è fuggito si pone molte domande sul futuro. Ne parliamo con alcuni artisti, alcuni dei quali per motivi di sicurezza mantengono l’anonimato. Valeria Lemeshevskaya, che si sta ricostruendo una vita nella capitale del Kirghizistan, è stata pittrice, ora è regista sperimentale, organizza cineclub, proiezioni di film e conferenze sul cinema a Biškek. Ha lasciato la Bielorussia – suo paese di origine – poco dopo l’inizio della rivoluzione delle ciabatte del 2020 per andare a studiare alla Saint Petersburg School of New Cinema. Gli eventi recenti l’hanno segnata nel profondo. «Ero a casa e mi nascondevo sotto il tavolo quando la porta è stata sfondata dalla polizia antisommossa, durante le manifestazioni di protesta scappavo dalle granate stordenti lanciate indiscriminatamente sulla folla e ho visto i miei amici uscire traumatizzati dalle carceri. Non appena è iniziata la guerra in Ucraina ho preso la decisione di andarmene. Sapevo che se fossi stata tagliata fuori dal mondo sarei precipitata in una profonda depressione» racconta.

L’esodo per molti giovani è stato anche un’emigrazione morale: ha rappresentato un atto di coraggio, di resistenza culturale e di dissenso nei confronti delle attuali politiche del governo. Davanti a questi pericoli ognuno ha dovuto scontrarsi con le proprie paure.

Lo ha postulato Kirill, fotografo e regista che si occupa di cinema sperimentale e documentaristico, secondo cui «L’azione libera dalla paura». Dopo che nel novembre 2021 il cosiddetto Archivio Saveliev è arrivato sul web mostrando filmati di torture e stupri di prigionieri nelle colonie russe, il terrore di trovarsi in un ambiente chiuso e sotto tortura lo ha travolto completamente. Per superare questa paura ha realizzato un breve lavoro sull’argomento. «L’atto e l’azione di una persona spinta dal bisogno di “creare” può davvero essere un’opportunità per cambiare sé stessi (solo se stessi, non gli altri, altrimenti cesserebbe di essere pura). Ciò che serve in questo caso è coraggio e precisione» racconta Kirill.

La paura di cui invece ci parla Vladimir (nome d’invenzione), attore e regista di teatro classico, riguarda la realtà della guerra e le conseguenze che ha avuto nel popolo russo.

Vladimir aveva paura di uscire a protestare e di essere in prima linea assieme ai compagni non addestrati, impreparati e spesso ignari del pericolo che li spetta. L’attore parla di concorsi di disegni per bambini con orpelli e fotografie militariste, di educatori che mettono i bambini in ginocchio a forma di lettera Z (simbolo militarista usato nella propaganda russa e dai civili russi come segno di sostegno all’invasione) e che scattano foto a sostegno di Putin e della guerra per poi pubblicarle online. Tutto questo mentre le tombe nei cimiteri stanno aumentando. Vladimir si è trasferito a Biškek dopo che la direzione del teatro per cui lavorava è stata licenziata per essersi opposta all’invasione in Ucraina. Lavora come insegnante di recitazione, attore e regista in un teatro classico da 700 posti, in un teatro più piccolo con una black box da circa 40 posti e collabora con artisti locali per creare performance, happening e masterclass, oltreché letture di drammi contemporanei contro la guerra.

Come fa notare ulia (anche questo è un nome fittizio), il filone principale della cultura russa è la sofferenza. Lo si può rintracciare da Dostoevskij all’arte moderna. Yulia è una DoP e una regista di film e di videoarte. Al momento si sta concentrando sui lungometraggi, in particolare sui film drammatici d’autore. Il suo stile risente delle influenze di Marina Abramović, Yoko Ono e Rebecca Horn, nelle sue opere lavora molto con il linguaggio del corpo.

«Per me fare arte in Russia significa dover attraversare il dolore. Non solo il dolore personale, ma anche quello del proprio popolo. Si tratta di cercare il punto più dolente e di esaltarlo. Quando si vive in Russia e si riflette sulla vita di un artista, si può capire il modo molto specifico in cui i russi si sentono, pensano e affrontano le ferite dell’anima» ci racconta.

Molti russi non vogliono «permettere che una guerra venga condotta in loro nome», per questo abbandonano il paese, incrementando così la fuga di cervelli e la perdita di capitale umano che da diversi anni contraddistingue la Russia. «Non appena ho lasciato il territorio russo ho trovato la forza di fare volontariato. Ho insegnato in una scuola di animazione online per bambini provenienti dalla Bielorussia, Russia e Ucraina che si trovavano senza un’istruzione. Mi ha aiutato ad affrontare l’orrore di ciò che stava accadendo, ho smesso di sentirmi impotente e lasciando la Russia mi sono liberata della mia paura» racconta Valeria.

Nonostante l’esodo verso l’estero, gli emigrati russi mantengono un forte legame con la madrepatria. Il sogno di Yulia è tornare nella Russia libera. È convinta che dopo la caduta del regime totalitario, l’arte e la cultura di chi è sopravvissuto alla guerra costituirà terreno fertile per la futura generazione. «Spero un giorno di poter costruire un nuovo paese, come è avvenuto nel ’900 dopo il crollo dell’Unione Sovietica» ci spiega l’artista.

Ma com’è la vita nei nuovi paesi? Esistono anche qui la censura e la violazione della libertà di parola. «Pure in Kirghizistan sussiste lo stesso problema con le autorità e la polizia. Recentemente alcuni attivisti russi sono stati arrestati per un’azione a sostegno dell’Ucraina – ammette Kirill – Tuttavia il totalitarismo provoca resistenza, energia e confronto. Per noi è importante alimentare questo senso di resistenza». Essere un artista in questi paesi solitamente significa vivere dentro un dilemma morale e trovare dei compromessi: mantenere la distanza dalle controversie politiche e non criticare apertamente il governo mentre si esprimono le proprie idee.

Yulia, emigrata in Georgia, ha trovato un paese tradizionale e conservatore dove la Chiesa ortodossa ha una grande influenza. E come nel suo paese d’origine anche qui esistono problemi di omofobia e corruzione. Nonostante queste somiglianze, «gli artisti possono esporre le loro opere in pubblico in qualsiasi modo, possono proiettare i loro film nei cinema ed esporre le loro opere in qualsiasi galleria senza temere la persecuzione politica» ci spiega l’artista.

«Fare arte in Russia, Bielorussia e Kirghizistan significa non avere alcun sostegno da parte dello Stato, doversi confrontare costantemente con la svalutazione di ciò che si sta facendo e avere paura di parlare apertamente di argomenti che ci stanno a cuore» racconta Valeria. Chi fa trasparire le proprie idee, i propri sentimenti e l’orrore della guerra nelle proprie opere è oscurato e preso di mira dall’apparato di controllo sociale. «Sono a Biškek da quasi un anno e vedo molti problemi simili con la Russia e la Bielorussia, tra cui la censura, la libertà di parola, l’ecologia, la corruzione, etc. Ma il fatto di trovarmi nel territorio di un Paese che non è un aggressore in un conflitto militare mi rassicura» sottolinea la regista. L’arte fuori dalla guerra e contro la guerra.


(Alias – Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Franca Fortunato


Se è vero che la guerra, con le dovute eccezioni, non ha un volto di donna, come scrive la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, è certo, invece, che la lotta e la resistenza ha il volto di tante donne. Donne libere e consapevoli, unite contro il dominio e la violenza degli uomini sul loro corpo. Sono (siamo) le figlie e le nipoti di Delia, la protagonista del film geniale di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Un domani che, grazie alle femministe, per noi donne è divenuto il nostro oggi, un tempo di libertà femminile ma non di libertà maschile per tutti quegli uomini, troppi, che non accettano di perdere il dominio e il controllo sul corpo e la vita delle donne. Da qui il loro odio verso le donne e la paura della libertà femminile che generano violenza, stupri, molestie fino al femminicidio. Loro sono gli eredi di Ivano, il marito di Delia, che, figlio degno di suo padre, sin dalla prima scena del film dà alla moglie, che lo saluta a letto, un sonoro ceffone in faccia perché si è svegliata tardi. Donne libere e consapevoli sono le afghane. È di loro che voglio parlare, dopo aver letto il libro Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani, tre giornaliste dell’“Avvenire” che raccolgono le lettere al giornale inviate da Kabul e le testimonianze e interviste a donne che, fuggite dopo il ritorno dei talebani, vivono in esilio. Tutte chiedono alla comunità internazionale, ai mass media e a tutte/i noi di non dimenticarle, di non lasciarle sole e di accogliere «quante/i fuggono dal Paese perché non possono più rimanere», come quelle/i fatti morire nel naufragio di Cutro. Si sentono “tradite”, in particolare dagli Stati Uniti. È per non dimenticarle che nasce il libro e io ne scrivo. Chi è fuggita parla con nostalgia del suo Paese dove sogna un giorno di tornare. Chi è rimasta parla con rabbia e indignazione dei divieti imposti dai talebani, ma non rinuncia ai sogni, alla volontà di vivere, di lottare e resistere. «Prima ci hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar e fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima riservate a noi. È proibito cantare. Ridere è un peccato. Non ci ammazzano tutte perché serviamo per partorire. Naturalmente figli maschi. Una donna se esce deve essere accompagnata da un maschio, mai da sola.» Ma loro sono donne resilienti. C’è chi, espulsa dall’università, continua a studiare online e insegna di nascosto alle altre ragazze. L’associazione di donne Rawa, col ritorno dei talebani, è tornata con le scuole segrete. «Insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a fare sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e fingere di stare leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi (sarta)». C’è chi con la figlia prepara in casa biscotti e torte di compleanno e le vende on line perché «c’è ancora chi festeggia, e chi viene festeggiato, nelle città. Di nascosto», e intanto sogna il giorno in cui avrà un suo negozio e «ci saranno negozi ovunque, donne ovunque che lavorano, libere». C’è chi sogna ancora di diventare pilota e chi «durante la notte, in segreto, continua a scrivere canzoni perché l’arte non può essere repressa e soffocata». Fuori «si vedono solo maschi», città senza donne. Dopo le manifestazioni contro i divieti, represse con la forza, le donne hanno fatto della casa un luogo di libertà, di lotta e di resistenza, e parlano. Altro che “stai zitta”. Per loro, c’è da credere, “C’è ancora un domani”. Non dimentichiamole.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 18 novembre 2023)

di Andrea Engheben


Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida. Tutti, fidanzati, ex, padri, mariti, figli, potenzialmente, potremmo diventarlo. Anche il sottoscritto che scrive. Nessuno è escluso.


Ieri, 15 novembre, Vanity Fair ha pubblicato un articolo a firma di Valeria Fonte, divulgatrice e attivista contro le narrazioni misogine, dal titolo: Tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida.

Nel testo, Fonte riporta alcune riflessioni scaturite da un colloquio che ha avuto con un femminicida che ha ucciso la compagna e ha scontato dodici anni di carcere, senza mezzi termini, com’è il suo stile, affermando che «Non conta solo l’azione. Conta la potenzialità dell’azione e la reazione sociale a quelle azioni. Gli uomini possono scegliere o non scegliere di compiere degli abusi, ma questo è paradossalmente irrilevante se nessuno educherà e rieducherà i maschi in ottica femminista. Lì si capisce che nessuno è assolto e che sì, tutti pensano come pensa un femminicida».

Come si può immaginare, l’articolo è stato accolto con entusiasmo da un lato e con un rifiuto netto dall’altro, in particolare dai lettori maschili che si sono esibiti in esempi di not all men” da manuale.

È una reazione istintiva e parlando da uomo ne comprendo bene anche le origini. A nessuno piace essere accusato di qualcosa su cui pensa non avere alcuna responsabilità, men che meno se si tratta di cose gravissime come violenze e femminicidi.

Mettersi sulla difensiva è quindi comprensibile, ma più ci si barrica dietro la propria presunta innocenza, più sale il dubbio che sia in difesa di un’enorme coda di paglia.

C’è chi punta tutto sulla logica, pretendendo dall’autrice di turno un trattato dettagliato sul perché mai “io che non ho mai fatto male a una mosca” dovrei ritenermi responsabile di tali violenze; e poi c’è chi invece la rigira sottomettendosi alla “palese superiorità” della donna, verso la quale mai potrebbe nutrire pensieri “da femminicida”.

I più, però, reagiscono con la cara e vecchia cattiveria da social, insultando, aggredendo e contraddicendo in poche parole la loro stessa tesi di non essere dei violenti.

Il punto è che ci possiamo arrabbiare quanto vogliamo, possiamo protestare fino a far cambiare i titoli, possiamo insultare e sbavare sulle tastiere, ma la verità non cambia: ha ragione Fonte, tutti gli uomini pensano come pensa un femminicida. Tutti, fidanzati, ex, padri, mariti, figli, potenzialmente, potremmo diventarlo. Anche il sottoscritto che scrive, nessuno è escluso, ed è un’affermazione forte da pronunciare, lo so, e lo è ancora di più se per professione ci si occupa di femminismo tutti i giorni, ma forte è anche la consapevolezza di cui dovremmo finalmente farci carico.

Perché, parafrasando Faber, potremo dichiararci assolti quanto vogliamo, ma saremo sempre coinvolti. E c’è un motivo.

Fonte nel suo articolo lo spiega meglio di quanto potrei fare io, ma dopotutto in una società patriarcale come la nostra, dove moltissimi degli “step maschilisti” che precedono l’eventuale epilogo femminicida vengono non solo tollerati, ma a volte persino esaltati, l’eccezione sarebbe un uomo che pensa femminista (sì, uso il termine come contrario del “pensare da femminicida”, se la cosa vi turba chiedetevi il perché).

«Nessuno nasce cattivo, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce maschilista, nemmeno un femminicida. Nessuno nasce con l’intenzione di ucciderci, nemmeno un femminicida. Non è genetica. È cultura».

Scrive Fonte, e ha ragione, purtroppo però sganciarsi da una cultura è un’operazione difficoltosa, ancor di più se si tratta di una cultura che (apparentemente) ci avvantaggia. La cultura dello stupro pone infatti noi uomini in una posizione di potere, al quale, senza scomodare Orwell, si capisce bene facciamo fatica a rinunciare.

Che poi tale potere sia mantenuto al costo di un’instabilità perenne, dove viviamo in costante competizione, dove non possiamo mai mostrarci fragili, esprimere emozioni e dove abbiamo sempre paura di perdere quello “status di maschio”, così difficile da guadagnare e facile da perdere, poco ci importa. Anche se dovrebbe importarci tantissimo, ma aver costruito una cultura che ci rende paurosi della paura stessa, mal si concilia con l’abbracciare sane preoccupazioni.

Un mezzo che abbiamo trovato per gestire questa fragilità sotterranea è mantenere il controllo su coloro che sono mediamente più soggette alla nostra forza fisica, che nei secoli si è poi diramata in altre forme di padronanza, da quella psicologica a quella economica, ma anche a forme ancora più subdole nella loro apparente natura innocua, come il corteggiamento cavalleresco che “tratta le donne come regine”, ma al contempo le conquista come terre da depredare; come la gelosia esaltata a prova d’amore; come romanticizzare il «tu sei mia» sussurrato nell’intimità, e molte altre piccole applicazioni di quello che altro non è che il patriarcato, il “pensare da femminicida”.

E quando le situazioni sfuggono al nostro controllo, quanto ci rendiamo conto di essere superflui, come scrive Fonte, di fronte a chi credevamo essere “nostro”, ecco che allora torniamo alle origini, a quella forma di controllo primordiale che si esercita attraverso la forza bruta, la violenza.

È vero, non tutti retrocederemo fino a tal punto, c’è chi si “fermerà” a uno schiaffone, chi urlerà e basta, chi seguirà e spierà l’ex, chi per vendicarsi la chiamerà “t***a” con gli amici, chi si limiterà solo a pensarle queste cose… Non tutti diventeremo femminicidi, ma le basi per diventarlo sono già tutte lì.

E quanti, a fronte di questi pensieri e comportamenti, sarebbero ancora, con onestà, pronti a urlare “not all men”?

Fonte si rivolge poi alle donne, consigliando loro modi per “cambiare la narrazione”, ma cosa possiamo fare invece noi uomini? Perché se è vero che la cultura in cui siamo immersi non ci aiuta ad affrancarci da questa forma mentis, è vero che la stragrande maggioranza di noi non vuole essere femminicida.

È un’ovvietà, ma se non facciamo nulla, limitandoci al silenzio (o a recriminare che le donne “osano accusarci”) il nostro desiderio pacifista rimarrà sempre vano.

Dobbiamo impegnarci, metterci in discussione, ascoltare le donne e ascoltarle davvero, sempre, senza pensare di non avere più nulla di tossico da decostruire. Imparare a non avere paura di perdere la nostra mascolinità e iniziare a fregarcene del giudizio degli altri uomini. Dobbiamo mollare la mania di controllo che ci assale, dobbiamo sperimentare la libertà fuori dagli stereotipi di genere ed evitare le persone che ci impongono di rispettarli, fossero anche donne. Dobbiamo trovare un modo di “essere uomini” che non sia ciò che ci è stato insegnato fino a ora.

Comprendo che siano suggerimenti che richiedono tempo e forza di volontà per essere messi in pratica, anche perché siamo soli in questo percorso, senza istituzioni che facciano davvero qualcosa, ma il primo passo per affrancarci da questi “pensieri da femminicida” è ammettere che li abbiamo. Sapere che potrei essere un femminicida, che la cultura mi ha fornito tutti gli strumenti in tal senso, non mi renderà tale, anzi: è l’unico modo per iniziare a essere davvero sicuro di non diventarlo mai.


(Roba da donne, rubrica “Uomini che amano le donne”, 16 novembre 2023)

di Letizia Rittatore Vonwiller


La sua opera I monologhi della vagina del 1996, rappresentata nei teatri di più di 140 Paesi e tradotta in 48 lingue, è stata la scintilla che l’ha spinta a promuovere progetti a favore delle donne e delle bambine abusate: come il V-Day, organizzazione mondiale che raccoglie fondi per associazioni in assistenza alle donne che subiscono violenza e One Billion Rising, manifestazioni nelle piazze di Paesi per ballare insieme in segno di protesta. Eve Ensler sarà in Italia dal 24 al 26 novembre per presentare il suo libro «Io sono un’esplosione». Le date: venerdì 24 novembre, ore 20.30, al Teatro Niccolini di Firenze. Domenica 26 novembre, ore 11, al Piccolo Teatro Grassi di Milano.


Ora V (Eve Ensler), settant’anni, drammaturga, una delle «150 donne che hanno cambiato il mondo» secondo Newsweek, ha dato alle stampe Io sono unesplosione. Una vita di lotta e di speranza (Il Saggiatore): racconto dei suoi quarantacinque anni di vita come artista e attivista attraverso poesie, lettere, saggi e appunti dai suoi diari che affrontano temi personali e sociali, come il suo tumore all’utero, le continue atrocità nei confronti delle donne in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Repubblica democratica del Congo, la crisi climatica, le storture del capitalismo.

Nelle pagine ricorre anche il dramma degli abusi paterni, esperienza raccontata nel libro Chiedimi scusa (2019), in cui ha deciso di scrivere lei le scuse che aveva bisogno di sentire da suo padre, anche dopo la sua morte, avvenuta trentuno anni prima. In questa intervista ci spiega il motivo che l’ha spinta ad assumere una lettera, la V, come nome e perché dovremmo impegnarci tutte per un cambiamento della cultura patriarcale dall’impronta distruttiva.

Perché ha deciso di chiamarsi V?

«Quando ho scritto Chiedimi scusa, le immaginarie scuse di mio padre per i suoi abusi nei miei confronti, ho scavato profondamente dentro me stessa. Ho avuto la sensazione che finalmente se ne fosse andato, ho anche capito che non nutrivo più rabbia perché quella persona non esisteva più. Così non ho più voluto il nome che mi aveva dato. V è una bella lettera nella mia vita, vagina, vittoria, e ha una forma straordinaria».

Che significato ha la parola esplosione del titolo del nuovo libro?

«L’ho presa da una mia poesia, ha tanti significati: riguarda l’arte, il teatro, il dire la verità, il fare i conti. Purtroppo è una parola che ha anche a che fare con quello che stiamo vivendo ora con la guerra in Israele e Palestina. Ovviamente il mio cuore è spezzato e soffre per tutte le persone che muoiono e che sono state prese in ostaggio e per quello che succede in Gaza. Il mio pensiero va anche alle palestinesi. Sono stata in West Bank, e ho visto una cultura patriarcale che ritiene la donna un oggetto di possesso, che si può ucciderla per privarla della libertà, per impedirle l’autodeterminazione. Bisogna guardare dentro questa violenza, affrontare la questione, aprire la mente a qualcosa di diverso. Insomma, fare i conti è molto difficile, ma è la sola cosa che si può fare».

In una poesia scrive che a trentanove anni è riuscita a dire a sua madre che suo padre laveva violentata. Lei non aveva sospettato niente?

«Non l’ho fatto prima perché pensavo che non mi avrebbe creduto, non trovavo le parole per dirlo. Mio padre mi adorava ma non era in grado di esprimere il suo amore. Quando mia madre ha cominciato a capire, lui ha iniziato a picchiarmi. La sua sensazione patriarcale di privilegio, combinata con l’alcol, è stata distruttiva e io ne sono stata la vittima».

Abusi di questo genere lasciano effetti psicologici devastanti, oggi può dire di esserne uscita?

«Penso di sì, il mio scopo era di non sentirmi più parte della narrativa di mio padre. E più lavoro su di me, più provo sensazioni di libertà. Ho avuto un marito e un compagno per quindici anni, ora sono sola, ma con tanti amici, ed è il mio periodo migliore. Finalmente ho guadagnato in autonomia e indipendenza. Ho imparato attraverso la terapia, la scrittura e l’attivismo, che potevo indirizzare i miei sentimenti intensi su progetti per determinare un cambiamento positivo per me e le altre persone e dare voce a quelle emozioni creando bellezza e spettacoli. L’empatia sarà il fulcro della nostra sopravvivenza».

Lei dice che la cultura patriarcale è alla base della violenza contro le donne. Come cambiarla?

«Finché gli uomini non capiscono che il paradigma patriarcale è pericoloso anche per loro, sarà difficile che succeda. Basta guardare la situazione di oggi, continuiamo a distruggere aria, acqua, mari e siamo incapaci di nutrire milioni di persone. Patriarcato e capitalismo hanno raggiunto il massimo della devastazione. Abbiamo bisogno disperatamente di un altro paradigma, diverso da quello maschile che è oppressione e dominazione. La nuova cultura dovrebbe iniziare con la fine del patriarcato e con la promozione di una cultura di cooperazione, in cui l’arte è centrale, che rispetta i sentimenti e che punta su uguaglianza, inclusione, diversità e ricchezza condivisa».

Ma si può modificare la mentalità maschile?

«Ho sempre cercato di dialogare con gli uomini per creare un nuovo mondo, oggi non lo faccio più. Però mi domando: come fa un uomo che ha madre, moglie e figlia che ama ad abusarne o a permettere che vengano maltrattate? Non lo capisco. L’unica ragione forse è che ribellarsi al metodo patriarcale della violenza vuol dire per lui rinunciare al potere e a una situazione di superiorità. L’unica cosa che possiamo fare noi donne è cercare di cambiare, oltre che il sistema di trattare noi stesse, anche il mondo in modo che diventi attraente».


(Corriere della Sera, 27esima ora, 16 novembre 2023)

di Elettra Raffaela Melucci


Federmeccanica, Assistal, Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil promuovono, su proposta della Commissione Nazionale per le Pari Opportunità (organismo paritetico della categoria), il progetto Generiamo cultura, finalizzato al contrasto della violenza di genere e della prevenzione delle molestie nei luoghi di lavoro del settore metalmeccanico. Le aziende, che aderiscono a Generiamo cultura – tra cui Fincantieri, ABB, Aero Avio, Leonardo S.p.A., Engie Italia S.p.A e molte altre sparse nel territorio nazionale – intendono avviare sul tema un percorso di evoluzione culturale indispensabile per abbattere gli stereotipi e proiettare l’immagine della donna verso una dimensione di maggiore libertà, dignità e affermazione di sé. Ne parla in questa intervista per Il diario del lavoro Michela Spera della Fiom-Cgil, promotrice del progetto.


Qual è il contesto di partenza?

Ci abbiamo lavorato molto e questo progetto inaugura un nuovo percorso. All’inizio dal territorio c’era “cautela”, sia tra le strutture sindacali che le strutture territoriali che le aziende. È chiaro che affrontare in azienda un tema con questi contenuti preoccupa chiunque ed è giusto che sia così, perché denota serietà, anche perché nessuno pensa di avere gli strumenti per poter fare una cosa di questo genere su una platea di lavoratori e lavoratrici. Quindi abbiamo riscontrato preoccupazione e un po’ di cautela. Oggi vediamo che in parte alcuni stanno già iniziando ad avviare il programma, mentre altri ancora stanno a vedere come andrà altrove. Questo non per insensibilità, ma perché è difficile gestire una cosa del genere in un settore produttivo come quello metalmeccanico.

Il settore metalmeccanico include un ampio spettro di lavorazioni. Qual è la percentuale di donne impiegate nel settore?

Si aggira intorno al 20%, ma la nostra idea è che su questo argomento della violenza di genere e delle molestie bisogna lavorare in particolare sugli uomini.

Qual è il percorso che vi ha portato alla realizzazione di questo progetto?

Nel 2021 abbiamo fatto il contratto dove abbiamo introdotto una serie di norme e tutele per le donne vittime di violenze, una serie di impegni da parte delle aziende a tutela delle lavoratrici vittime di violenza. L’iniziativa di oggi, quindi, nasce su un terreno che è stato in parte già affrontato attraverso l’esperienza per noi più alta, che è il rinnovo del contratto nazionale. C’è la Commissione Nazionale per le pari opportunità – composta da Federmeccanica, Assistal, Fim-Fiom-Uilm e rappresentanti delle associazioni territoriali, delle aziende e delle organizzazioni sindacali – che esiste da molti anni ma viene attivata dopo il contratto del 2016, e con il contratto del 2021 si introducono queste norme. Il contratto assegna alla Commissione il compito di lavorare alla prevenzione di forme di molestie sessuali nei luoghi di lavoro, anche attraverso ricerche sulla diffusione e le caratteristiche del fenomeno. A tal fine si promuovono inoltre iniziative di sensibilizzazione finalizzata allo sviluppo della cultura del rispetto della dignità della donna e su questo sono state fatte molte cose dal 2021 ad oggi. La stessa cosa vale per le commissioni territoriali. In più, il contratto prevede, in un capitolo specifico, delle azioni per la prevenzione di molestie e violenze nei luoghi di lavoro allo scopo di perseguire l’obiettivo di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nell’ambiente di lavoro quale luogo in cui ogni azione contraria deve essere considerata inaccettabile. Le aziende sono tenute ad adottare la dichiarazione sottoscritta da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil il 25 gennaio 2016 al fine di promuovere comportamenti consoni, favorire relazioni interpersonali improntate al rispetto della correttezza reciproca, e si attiveranno per sensibilizzare i lavoratori e le lavoratrici sul tema e migliorare il livello di consapevolezza con iniziative formative e informative mirate anche sulla base dell’indicazione elaborata dalla Commissione Nazionale per le pari opportunità nell’ambito della propria attività di promozione. Il nostro contratto, quindi, ha tanti elementi di tutela e si rivolge a tutta la platea di lavoratori e lavoratrici. La seconda parte, invece, contiene forme di tutela per le donne vittime di violenza, tra cui l’estensione della banca ore solidale, tre mesi di permessi retribuiti (che si sommano ai tre mesi dell’aspettativa già previsti dall’Inps con la legge del 2005, che riconosce a tutte a tutte le lavoratrici vittime di violenza il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al percorso di protezione). Inoltre, le donne vittime di violenza hanno anche diritto alla trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo parziale o comunque a forme di flessibilità oraria nel momento in cui sono in questo percorso di tutela. E poi, dove è possibile, perché le aziende hanno più di una sede, le donne hanno diritto a chiedere il trasferimento in un’altra sede lavorativa.

Generiamo Cultura. In cosa consiste questo progetto?

Come Fim, Fiom e Uilm abbiamo mandato una lettera a tutte le strutture territoriali, sindacali e datoriali di Federmeccanica e Assistal, contenente le indicazioni per l’organizzazione di iniziative formative e informative nelle aziende contro la violenza di genere finalizzata allo sviluppo della cultura, del rispetto della dignità della donna. Le aziende sono chiamate a organizzare sul tema in oggetto nel mese di novembre un evento finalizzato di sensibilizzazione e formativo sul tema, e promuoviamo una campagna nazionale proprio su questo. La durata di ciascuna iniziativa, in orario di lavoro, è di un’ora e mezza-due. La commissione ha messo a disposizione di ogni struttura delle indicazioni e del materiale, ma siamo rispettosi del fatto che le aziende e le RSU decideranno in autonomia con quali modalità e con quali contenuti, anche nel rapporto con le istituzioni locali, con i centri antiviolenza, con gli esperti aziendali. Inoltre, per queste iniziative possono essere usate le ore di formazione obbligatoria. Destinatari sono lavoratori e lavoratrici che devono essere messi in condizione di partecipare e quindi utilizzare sia la presenza che il collegamento, o farlo su più turni. Le aziende della Commissione – che sono Fincantieri, ABB, Aero Avio, Sicme, Alstom e Schneider – da subito si sono dichiarate disponibili all’iniziativa. Sono state quindi le singole aziende a costruire gli eventi, nei contenuti, nelle date e nelle modalità che hanno ritenuto opportuno.

Quali sono gli strumenti di contrasto alla violenza di genere che avete messo a disposizione delle aziende?

In particolare per le piccole e medie aziende, ma non solo, abbiamo messo a disposizione del materiale proprio per aiutarle nell’organizzazione, come i tre video che abbiamo realizzato all’Università La Sapienza di Roma l’anno scorso. In ogni video c’è l’intervento di una figura che offre un contributo che potrà essere utilizzato a seconda del contesto aziendale; quello di Patrizia Romito, professoressa associata presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Trieste, che ragiona sul ruolo fondamentale che i contratti nazionali rivestono nell’affrontare questi temi, come messaggio che si dà all’intera popolazione che lavora, uomini e donne, dando valore a questa sensibilizzazione e questa tutela delle donne maltrattate. C’è poi l’intervento del Direttore Centrale Anticrimine della Polizia di Stato, Francesco Messina, che ha spiegato quali potevano essere le tutele che le donne possono attivare prima di arrivare a una denuncia. Il terzo, infine, è quello di Antonella Veltri, ricercatrice Cnr e Presidente di D.i.RE, la rete nazionale dei centri antiviolenza, che spiega cosa sono i centri antiviolenza e quale la loro esperienza, ragionando anche sul fatto che non è scontato che le donne denuncino e bisogna quindi capire le loro ragioni. Abbiamo realizzato un video sul consenso, con delle frasi iconiche pronunciate dai nostri segretari generali Michele De Palma, Rocco Palombella e Roberto Benaglia, oltre che i componenti e le componenti della commissione, e abbiamo preparato un piccolo glossario, prendendo le definizioni europee dei termini sulla violenza da quella economica a quella di genere. Infine, ci sono i flyer della rete DiRE che illustrano “i nove cuori”, i nove segnali di quando una relazione diventa violenta. Ovviamente abbiamo cercato di coprire i vari i vari aspetti che potevano essere affrontati in ogni singola realtà.

Voi siete quindi la bussola attraverso la quale le aziende possono orientarsi nell’organizzazione di queste giornate.

Le aziende stanno organizzando molte iniziative in connessione anche con i territori – le università, le scuole, i centri antiviolenza, le case rifugio, associazioni del terzo settore, le consigliere di parità – chiamando a intervenire numerosi profili esperti in materia, tra cui anche autorità cittadine. Se si riesce a organizzare eventi strutturati il territorio comincerà a parlarne, trascinando anche altre aziende, e si favorisce in questo modo l’apertura di una discussione. Gli eventi si stanno praticamente moltiplicando.

Nelle indicazioni ai territori per l’organizzazione di queste iniziative si precisa di non limitarsi al solo 25 novembre per parlare del tema. Non sarebbe più efficace un programma che sia più capillare su tutto l’anno?

Noi abbiamo indicato il 25 novembre perché bisogna anche fare i conti con i tempi della normale vita aziendale. Già il fatto di essere partiti con questo impegno sul mese di novembre è stato un segnale importante, poi sicuramente si creeranno altre condizioni per proseguire. Abbiamo detto subito che non è necessario programmare iniziative solo nel mese di novembre, per cui altre verranno messe in campo e se il progetto avrà continuità lo vedremo nei fatti concreti. Quindi nella pratica abbiamo bisogno di capire se siamo efficaci o meno e dai segnali che abbiamo credo lo saremo. Da questo dipende la continuità. Noi abbiamo dato degli strumenti, ma il mondo metalmeccanico è un mondo vivo fatto di rappresentanze sindacali e delle imprese e sono convinta che avrà gambe proprie e si amplierà oltre quello che noi oggi possiamo vedere. Al di là delle spettacolarizzazioni del governo, ad esempio su Caivano, c’è un impegno della società civile sul tema e quindi ci sarà anche una sensibilità del mondo del lavoro che lo fa non solo come denuncia o come solidarietà, ma come azione concreta. Gli strumenti adesso ci sono per poterlo fare. È chiaro che bisogna punire il crimine e punire è quello che fa la politica, quando la violenza è già avvenuta, il problema è prevenirla. Quante martiri ancora dobbiamo avere? Per quel che ci riguarda noi non abbiamo compiti pedagogici come può avere la scuola, sicuramente però dal punto di vista della educazione civica tanto possiamo fare.

Si insiste molto su come le donne debbano difendersi dalle molestie e dalla violenza. Quali sono invece gli strumenti da agire sugli uomini?

La libertà femminile non viene accettata perché c’è il concetto di possesso da parte dell’uomo. Adesso gli uomini violenti sono gli uomini più fragili, quelli che non riescono a fare i conti con la fine del patriarcato e che non riescono ad avere una propria identità che non sia legata al possesso. Abbiamo realizzato un video sul consenso, di cui ho già parlato, in cui sono i nostri segretari generali e metterci la faccia. Abbiamo realizzato anche dei materiali sulle molestie e sono rivolti direttamente agli uomini perché le donne sanno perfettamente cosa sono. Inoltre, abbiamo il glossario su alcune voci che vanno da “atti persecutori”, “informatici”, “generici”, cosa vuol dire “dignità”, quali sono le discriminazioni dirette e indirette; c’è anche la voce sul matrimonio forzato, perché abbiamo tanti lavoratori stranieri; le mutilazioni genitali, la parità di genere, il patriarcato, la segregazione di genere, la segregazione professionale di genere, gli stereotipi. E poi ancora il revenge porn, la violenza domestica contro le donne in senso generico, la violenza economica, la violenza informatica contro donne e bambini. Abbiamo creato anche un prospetto con i numeri di sicurezza a cui rivolgersi, che ogni singola azienda o RSU può completare con i numeri del territorio. Essere a conoscenza di queste informazioni a volte mette nelle condizioni di salvarsi o aiutare un collega o una collega che attraversano momenti di difficoltà. In pratica abbiamo realizzato una rete di informazioni.

La violenza non è solo fisica, ma è anche privazione del diritto. Questo fa parte del vostro programma?

Noi lavoriamo su tutti i tipi di violenza, sulle discriminazioni dirette e sulle discriminazioni indirette. C’è la segregazione di genere e la segregazione professionale di genere. La punta dell’iceberg sono i femminicidi, ma nel sommerso c’è davvero molto.

Qual è stato il contributo della rappresentanza maschile nell’ideazione del programma?

È stato molto importante. Per esempio i nostri segretari generali sono venuti a presentare questa campagna al Tempo delle Donne a settembre, evento organizzato dalle donne del Corriere della Sera, mettendo in gioco sé stessi, così come nei video presentati nel corso dell’iniziativa alla Sapienza. Bisogna cambiare e far vedere che si mettono in gioco anche gli uomini su questo, perché la violenza sulle donne è un problema loro. Noi come donne paghiamo un prezzo altissimo, ma è la società tutta che ci rimette.

Quali le prospettive pratiche? Come si svilupperà il programma?

In questo momento starei a vedere che cosa produce e osservare cosa viene messo in campo. Quando l’anno scorso abbiamo realizzato l’iniziativa alla Sapienza non avevamo in mente questa cosa, ma ragionando su come era andata abbiamo azzardato questo progetto. Dico azzardo perché non c’è nessuno che lo fa. Abbiamo deciso di osare, di andare nei luoghi di lavoro e vedere se ci fosse qualcuno disposto a seguirci. Adesso siamo a un buon inizio, sarà interessante capire gli effetti e in particolare i benefici che si avranno territorialmente, perché comunque si è aperta una discussione. In alcune realtà, ad esempio, non erano ancora stati definiti gli eventi, ma intanto l’Associazione industriale manda il materiale a tutte le proprie associate e questo fa la differenza nella valorizzazione del tema. Certo incrocerà qualche sensibilità e incrocerà qualche donna manager o qualche delegata sindacale o qualche uomo manager, piuttosto che qualche delegato sindacale che ritiene ci siano le condizioni per fare questo progetto. Secondo me questo accadrà sicuramente. La Commissione nell’immediato ha anche altri obiettivi, a partire dall’approfondimento con un gruppo di esperti sulla direttiva europea sulla applicazione del principio di parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Adesso dobbiamo realizzare questo ed è un buon auspicio.


(Il diario del lavoro. Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali, 15 novembre 2023)

di redazione Il Fatto quotidiano


L’economia è politica (192 pp, 16,50 euro, ed Fuoriscena) è il nuovo libro il primo in italiano di Clara E. Mattei, economista, professoressa alla New School for Social Research di NewYork. Questo ultimo lavoro ribalta il racconto consueto delleconomia da cui siamo intossicati e rivela, ripercorrendo una lunga storia che dal fascismo arriva fino ai giorni nostri, quanta e che politica si nasconde dietro le scelte economiche. I tempi sono ormai maturi per smascherare le falsità insite in questa visione. Questo libro, accompagnato dai commenti di tre importanti economisti internazionali Thomas Piketty, Branko Milanović e Adam Tooze introduce una nuova prospettiva emancipatrice, capace di rivelare la trama nascosta dietro le questioni economiche centrali nella discussione pubblica: dallausterità allinflazione, dalla disoccupazione alla crescita, dalla concorrenza al debito al rapporto tra Stato e mercato, e moltissimo altro. Con precisione e incisività lautrice spiega come il potere politico abbia costruito nel tempo un sistema profondamente antidemocratico, destinato scientemente ad arricchire pochi privilegiati, impoverendo per converso la maggioranza della popolazione e rendendo i cittadini sempre più sudditi. La conoscenza è il primo passo per immaginare un mondo diverso e per muoversi affinché esso diventi possibile.

Mattei – collaboratrice del Fatto Quotidiano – è autrice di The Capital Order, inserito dal Financial Times tra le dieci pubblicazioni più influenti dell’anno a tema economico, edito in Italia da Einaudi con il titolo di Operazione austerità ma con lo stesso sottotitolo: Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. Nell’ottobre 2023 ha ricevuto l’Herbert Baxter Adams Prize, conferitogli dalla American Historical Association. Qui sotto un estratto dell’introduzione del nuovo libro pubblicato da ilfattoquotidiano.it.


Siamo a Bruxelles, è l’autunno del 1920. Uomini politici ed economisti provenienti da tutta Europa si siedono attorno ai tavoli di lavoro, sono riuniti per la prima conferenza economica internazionale. I toni formali e gli abiti eleganti non riescono a mascherare la tensione che si respira nell’aria. Le loro dichiarazioni lasciano trapelare un senso di accerchiamento, addirittura di angoscia, per quello che considerano un disordine inaccettabile, un caos sociale che sta portando l’economia capitalistica sull’orlo del baratro. Mentre costruivano un pacchetto di provvedimenti improntati alla più dolorosa austerità, i tecnocrati riuniti a Bruxelles erano ben consapevoli del fatto che il vento tirasse da tutt’altra parte. Indurre i cittadini a piegarsi all’ordine del capitale era più facile a dirsi che a farsi. Lo choc della guerra mondiale aveva scatenato nello spirito della gente comune un senso di rivalsa rispetto alle ingiustizie. La Grande Guerra aveva sprigionato una consapevolezza nuova: era emerso chiaramente quanto i lavoratori fossero il motore della macchina economica. L’inflazione montante di quegli anni non faceva che infervorare gli animi e acuire quel senso diffuso di fallimento del vecchio sistema capitalistico.

Alla pari dei suoi colleghi, il professor Luigi Einaudi ne era terrorizzato, sapendo che, ben lungi dall’essere un problema esclusivamente economico, l’instabilità monetaria era una questione intrinsecamente politica. Non per nulla, egli definiva l’inflazione come ciò che «pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare alla rivoluzione sociale». Per di più, ne attribuiva la colpa proprio a quei lavoratori che, avendo ottenuto maggiori salari, erano incapaci di controllarsi e indulgevano in quel comportamento scialacquatore comprovato dagli «aumenti cospicui dei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti». Ecco denunciata l’immoralità alla base del disequilibrio tra domanda e offerta, che andava disciplinata a qualunque costo, anche quello di sostenere il regime fascista di Benito Mussolini. Fu infatti proprio il Duce a garantire una sufficiente dose di austerità economica, caratterizzata da tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari e incremento dei tassi di interesse, che gli consentì di guadagnarsi il plauso degli esperti economici di tutto il mondo, anche di liberali come lo stesso Einaudi. Oggi i loro discepoli non la vedono certo diversamente.

La storia si ripete. Balzo in avanti di cento anni, siamo a Washington DC nel marzo del 2022. L’economia globale è scossa da un’altra ondata di inflazione monetaria. Gli esperti della Federal Reserve (Fed) si riuniscono a porte chiuse per alzare i tassi di interesse. Li alzeranno per più di un anno. La maggioranza di noi sente queste notizie alla radio o alla tv con distrazione mista a rassegnazione. Ci paiono scenari lontani, decisioni “economiche”, quindi tecniche, che non ci riguardano direttamente e rispetto alle quali non possiamo fare granché. Ma è davvero così? Oppure questa capacità di “depoliticizzare” l’economia, ossia la capacità di allontanare la nostra partecipazione dalle decisioni economiche, è proprio la chiave del successo di un sistema che ci lega le mani e ci toglie la voce? Questo libro è animato anzitutto da un intento: provare ad abbattere quel diffuso luogo comune secondo il quale le decisioni delle istituzioni economiche (dalla Fed alla Banca Centrale Europea al Tesoro), cioè le scelte che danno forma alla nostra economia, siano “neutrali” o al servizio “del bene comune”.

La “naturalizzazione” del capitalismo e la nostra ormai acquisita abitudine di delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari sono espressione della perniciosa depoliticizzazione dell’economia. Gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico invece di spiegarlo. È ora di evadere da questa prigione. Mentre scrivo, ci sono moltissime donne e uomini che combattono per una società diversa, credendoci con tale abnegazione da rischiare la propria vita. Il mio è un minuscolo contributo, ed è l’esempio dei miei due prozii che continua a essere per me una fonte di ispirazione inesauribile.

In queste ultime righe introduttive voglio brevemente ricordare i fratelli di mio nonno Camillo, che intrapresero una risoluta battaglia contro l’oppressione fascista. Teresa Mattei, con il nome di battaglia di Chicci, fu la più giovane donna a sedere all’Assemblea costituente. Si deve a lei l’inserimento delle parole «di fatto» nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Spirito libero, Teresa non ebbe paura di allontanarsi dal Partito comunista quando esso tradì i suoi ideali, e di affrontare la violenza delle SS quando, durante la Resistenza, approfittarono del suo corpo mentre portava messaggi partigiani. Suo fratello, Gianfranco Mattei, giovane professore di Chimica e gappista, fu catturato il 1° febbraio 1944 mentre costruiva bombe contro i fascisti. Dopo due giorni di sevizie continue, Gianfranco si impiccò con la sua cintura pur di non tradire i suoi compagni. Le ultime parole del mio prozio, scritte sul retro di un assegno consegnato di nascosto al compagno di cella, sono state per i suoi genitori: «Siate forti, sapendo che lo sono stato anch’io». Per essere forti ci servono strumenti forti. E allora proviamoci.


(Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2023)

di Alessandra Pigliaru


È un volume che raccoglie conversazioni con Lea Melandri, Luisa Muraro, Adriana Cavarero e saggi di Rossana Rossanda quello curato da Elvira Roncalli dal titolo Il futuro è aperto. Storia e prospettive del femminismo italiano (Prospero editore, pp. 312, euro 18). Il progetto editoriale, pubblicato in lingua inglese circa un anno fa da Roncalli, docente di filosofa negli Stati Uniti al Carroll College, Helena, Montana, viene ora reso disponibile anche qui. Comprensibile l’intenzione, più che legittima da parte di Roncalli che in altre sedi si è occupata di filosofia europea novecentesca e contemporanea, di apparecchiare un testo che sia di ragionamento e soprattutto stimolo. Ne risulta un libro utile nella sua agilità, per certi versi audace nella vicinanza di femministe e teoriche diverse fra loro che mostra tuttavia quanto sia stato articolato il movimento delle donne in Italia, la rivoluzione che è stata il femminismo e le sue pratiche politiche, i fili inscindibili che – anche chi femminista non è stata – ha intessuto.

Infine quanto, pur nella eterogeneità, si possa considerare viva e orientante nella sua parzialità la mappa che Il futuro è aperto contiene e intende consegnare, nelle mani di chi desideri leggere ciò che hanno avuto da dire quattro protagoniste, a diversi livelli, della discussione pubblica. Esplorare la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, prende consistenza intorno allo squasso diventato un taglio che in quegli anni si andava determinando, con pratiche politiche diverse a partire dalla esperienza, che non è parola neutra perché il femminismo, a meno che non sia una gabbia teorica, scintillante eppure disabitata, è una esperienza che anzitutto si incontra e che chi è arrivata prima di noi ha attraversato. Di questo danno conto anzitutto le tre intervistate che hanno fatto germinare scoperte e scelte in un momento storico tanto complesso quanto propizio: il movimento studentesco e il Sessantotto, la nascita dei primi collettivi, il separatismo, l’università, puntellando di ricerche, libri (utile prima delle interviste, raccolte singolarmente e in momenti diversi, è la breve nota bio-bibliografica dedicata a ciascuna), contaminazioni soprattutto nella relazione con altre donne.

Il volume si apre a partire dalla memoria del corpo con cui esordisce Melandri in risposta alla prima domanda di Roncalli; la differenza sessuale come verità soggettiva, intorno a cui si concentra Muraro; l’unicità incarnata materialmente relazionale, con cui risponde Cavarero. Nell’ultima parte del libro vengono ospitati tre scritti di Rossana Rossanda, i primi due sono del 1987, uno contenuto nella rivista Memoria e l’altro sul manifesto, così come il terzo che nel 1996 sempre su questo giornale. Sono tre testi che sigillano e illuminano il volume, e che intercettano qualche momento del rapporto di Rossana Rossanda con il femminismo, segnato da confronti inaggirabili.

Nel libro di Elvira Roncalli a essere presente è anche il suo sguardo, anche lei cioè – che insieme a Silvia Benso ha di recente curato il volume Contemporary Italian Women Philosophers: Stretching the Art of Thinking – dice come sia arrivata al femminismo. In molti passaggi viene convocata Carla Lonzi, per esempio. Ma la sensazione più intensa dopo averlo letto è che il futuro è stato davvero aperto. E lo può essere ancora.


(il manifesto, 15 novembre 2023)

di Nadav Weiman*


Una delle prime cose che abbiamo fatto in quella terribile mattina del 7 ottobre, non appena ci siamo resi conto di ciò che stava accadendo, è stata quella di contattare i nostri amici e tutti coloro che conoscevamo nell’area di Gaza. Alcuni di loro a oggi non hanno ancora risposto.

Come soldato della Brigata Nahal ho combattuto a Gaza nel 2008, prima dell’operazione “Piombo fuso”. Uno dei ricordi principali che mi è rimasto impresso di quel periodo è l’enorme quantità di potenza di fuoco che usavamo a Gaza, mentre a pochi metri di distanza i palestinesi conducevano la routine della loro vita quotidiana. Da allora non sono più riuscito a staccarmi da Gaza. Nel decennio successivo ho dedicato tutte le mie energie alla ricerca sui nostri sistemi di controllo militare nella Striscia assediata. Ho tenuto innumerevoli conferenze su come si combatte a Gaza; ho parlato con soldati che sono tornati dall’ennesimo round di combattimenti; ho partecipato a panel sull’argomento, l’ultimo dei quali a fianco di Khalil Abu Yahia, residente a Gaza e attivista per la pace, ucciso la settimana scorsa da una bomba israeliana. Ho visto troppi episodi di violenza. Troppi morti. Una cosa mi è chiara: questo stato di cose non ha una soluzione militare.

Il sangue di tutti ribolle. Tutti conosciamo qualcuno che è stato ucciso, rapito, che è ancora scomparso. Molti parlano di vendetta. Opinionisti, politici, giornalisti dicono che Gaza dovrebbe essere cancellata, si riferiscono ai suoi residenti come a «2,5 milioni di terroristi», discutono di trasferimenti forzati.

Ma che cosa sta accadendo in realtà sul campo? Gaza è sottoposta a un bombardamento senza precedenti da oltre un mese a questa parte. Solo nelle prime due settimane l’aviazione israeliana ha sganciato più bombe su Gaza di quante gli Stati Uniti ne abbiano sganciate sull’Afghanistan in un anno intero. Una spiegazione è la reale necessità di Israele di eliminare le minacce alle forze di terra, ma questo non spiega completamente la portata dei bombardamenti o i loro obiettivi.

Il nostro lavoro si basa sulle testimonianze dei soldati. La raccolta e la verifica di queste testimonianze è un processo lungo e complesso e ci vorrà ancora del tempo prima di avere un quadro completo e accurato di ciò che sta accadendo sul campo. Tuttavia, le dichiarazioni degli alti ufficiali israeliani e l’entità delle distruzioni sollevano già il sospetto che l’esercito stia seguendo la stessa dottrina utilizzata nelle operazioni precedenti: la “Dottrina Dahiya”.

È stata formulata ai tempi della guerra del Libano del 2006. Il suo principio fondamentale era: attacchi sproporzionati, anche contro strutture e infrastrutture civili. Se la dottrina è davvero in gioco, come sembra, allora i massicci bombardamenti su Gaza delle ultime settimane sono deliberatamente mirati a danneggiare infrastrutture e proprietà appartenenti a civili innocenti.

I pesanti bombardamenti nella guerra del Libano del 2006 non hanno spazzato via Hezbollah o neutralizzato le sue capacità militari, né avrebbero dovuto farlo. Avevano lo scopo di creare deterrenza. Da allora, Hezbollah si è rafforzato e ora spara quotidianamente sui civili nel Nord di Israele. Anche in Libano abbiamo causato una distruzione massiccia a scapito dei civili per ottenere una calma temporanea e nulla più.

Israele ha utilizzato questa dottrina anche durante l’ultima invasione di terra di Gaza nel 2014. Dopo la guerra, i residenti di Gaza sono tornati nei quartieri che erano stati rasi al suolo. Giornalisti e soldati che hanno preso parte all’operazione hanno descritto i danni enormi. I politici e i membri dell’establishment della sicurezza hanno cantato vittoria, affermando di aver «marchiato a fuoco la coscienza palestinese», il che significa che ogni palestinese ricorderà esattamente chi comanda e non oserà opporre resistenza. L’ultimo mese ha dimostrato, ancora una volta, che questo approccio ci ha portato zero sicurezza.

Questa dottrina si basa sull’idea dei “round” di combattimento, come vengono chiamati in Israele. Non è pensato per essere decisivo, ma per rimandare e scoraggiare il prossimo, inevitabile, round. Sembra che il nostro governo stia scegliendo di ripetere, anche se con maggiore intensità, ciò che ha fatto senza successo nei round precedenti. Lo stesso portavoce delle Forze armate israeliane (Idf) ha affermato che «l’enfasi [durante questa operazione] è sul danno e non sulla precisione».

Questa dottrina è anche immorale, perché la “consapevolezza bruciante” si ottiene attraverso la distruzione diffusa dei civili. Decine di migliaia di case a Gaza sono state distrutte o danneggiate. Interi quartieri sono stati cancellati dalla mappa. Perché secondo la Dottrina Dahiya, il metodo è semplice: la potenza di fuoco deve essere usata in modo sproporzionato; ed è per questo che il risultato è sempre lo stesso: allontanare la sicurezza a lungo termine in favore di un senso di calma sul breve.

Israele è entrato in guerra a causa di un massacro criminale e orribile. Se in risposta continuiamo a distruggere in massa i civili, se continuiamo a fare del male a una popolazione che non ha fatto nulla di male, una popolazione che per oltre il 40% ha meno di quindici anni, il nostro unico risultato sarà quello di perpetuare il ciclo di violenza e spargimento di sangue. Il numero delle vittime è spaventoso: più di 1.400 israeliani e oltre 10.000 palestinesi. Non è stato versato abbastanza sangue?

E ancora: come sarà il giorno dopo la guerra? Come farà il nostro governo a garantire a tutti noi sicurezza e protezione? Sorprendentemente il nostro Gabinetto ha deciso di «non discutere il destino della Striscia di Gaza». È un lusso che non possiamo permetterci. Una cosa è certa: la risposta deve tenere conto di un futuro libero e sicuro per tutti, cittadini di Israele, residenti di Gaza e sì, anche residenti della Cisgiordania. Altrimenti, la prossima guerra è solo questione di tempo.

(*) Nadav Weiman è senior director della Ong Breaking the silence, che riunisce veterani delle forze militari israeliane che hanno prestato servizio nell’esercito a partire dalla seconda Intifada. È stata fondata nel 2004 per denunciare le violazioni compiute dai soldati in Cisgiordania. Raccoglie e pubblica testimonianze anonime di militari e organizza tour a Hebron per mostrare gli effetti dell’occupazione. Il testo, tradotto a cura della redazione, è tratto dall’ultima newsletter inviata il 13 novembre 2023


(Altreconomia, 15 novembre 2023)

di Anna Zafesova


«Non c’è nulla da commentare. Nulla da chiedere. Non ha senso cercare giustizia: la giustizia è stata rinchiusa in una cella di punizione per aver screditato il potere». Le parole dei figli e dei colleghi di Anna Politkovskaja sono piene di una amarezza gelida e disillusa, in un mondo ribaltato in cui loro e gli assassini della loro madre e collega godono della stessa libertà. Anzi, no: la Novaja Gazeta, giornale per il quale scriveva la giornalista uccisa nel 2006, è stato chiuso dalle autorità russe, e la versione della testata pubblicata in esilio, in Europa, è stata proclamata una “organizzazione indesiderata”, la collaborazione con la quale può costare a un cittadino russo il carcere. L’uomo che è stato condannato per il suo assassinio, Sergej Khadzhikurbanov, invece non solo è uscito dal carcere, ottenendo la grazia e tornando in libertà, ma ha anche ottenuto la promozione a comandante di battaglione, «una carriera da Rambo», commenta una fonte del giornale online russo Baza, che ha rivelato la notizia.

Non è il primo, e sicuramente non è l’ultimo dei criminali e assassini graziati dal Cremlino in cambio dell’arruolamento sul fronte ucraino. Soltanto pochi giorni fa aveva fatto scalpore la notizia della liberazione di Vladislav Kanjus, autore di uno dei femminicidi più efferati degli ultimi anni: aveva ricevuto diciassette anni per aver torturato per tre ore la sua ex fidanzata, prima di strangolarla, ma l’arruolamento nel gruppo Wagner gli ha permesso di «espiare la sua colpa con il sangue», come ha spiegato il portavoce della presidenza Dmitrij Peskov.

Sono mesi che città e villaggi russi vivono un’impennata di violenza per mano dei criminali liberati dal carcere e mandati a uccidere ucraini: dopo sei mesi, se sopravvivono in trincea, tornano liberi, ottengono la grazia e ricominciano una nuova vita con tutti gli onori militari. Ma il caso di Khadzhikurbanov è speciale, e lui non è un delinquente comune: è stato condannato a vent’anni per aver organizzato uno degli omicidi politici più clamorosi, quello di Anna Politkovskaja. La giornalista aveva denunciato i crimini dei militari russi in Cecenia, ed era stata uccisa a sangue freddo sotto casa sua, a Mosca, nel giorno del compleanno del presidente russo. Stava per consegnare alla redazione un articolo sulle torture e gli abusi compiuti in Cecenia dal suo leader Ramzán Kadýrov. Per molti, la sua morte, il 7 ottobre 2006, ha segnato un punto di non ritorno nell’instaurazione della dittatura putiniana. E in Russia la grazia viene concessa da una sola persona, dal presidente.

Diciassette anni dopo la morte di Politkovskaya, il suo Paese ha messo a tacere o costretto all’esilio praticamente tutti i giornalisti liberi, mentre invece ha bisogno di “Rambo” per una nuova guerra ancora più sanguinosa. «Mentre il regime condanna a venticinque anni di carcere per le idee, grazia gli assassini che servono allo Stato», scrivono Ilja e Vera Politkovskaja, che denunciano una «grazia che non testimonia l’espiazione e il pentimento di un assassino, bensì un atto mostruoso di ingiustizia e abuso, una profanazione della memoria di una persona uccisa per aver fatto il proprio lavoro». Per riuscire a condannare Khadzhikurbanov e i suoi complici, ci sono voluti anni di processi chiusi, cancellati e poi riaperti, di appelli e revisioni, di pressioni dell’opinione pubblica internazionale e di coraggiose inchieste giornalistiche dei colleghi di Politkovskaja, nella consapevolezza che gli uomini sul banco degli imputati erano soltanto gli esecutori materiali di un omicidio che aveva mandanti altolocati rimasti sconosciuti. Per graziarlo, è bastato farlo uscire dalla prigione e inviarlo al fronte, dove si sarebbe mostrato talmente efficiente da venire promosso, e aver firmato, secondo il suo avvocato, un contratto per rimanere a combattere anche da uomo libero.

Una storia che avrebbe potuto uscire dalla penna della stessa Politkovskaja, che già vent’anni fa aveva raccontato la guerra in Cecenia come prova generale di quella che oggi devasta l’Ucraina: stessa crudeltà, stesse torture dei civili e bombardamenti indiscriminati, stessi soldati gettati nel tritacarne con indifferenza da generali senza pietà. Khadzhikurbanov avrebbe dovuto uscire dalla prigione soltanto nel 2034: come ex membro dei corpi speciali, ed ex poliziotto della squadra anti-criminalità organizzata (già licenziato e incarcerato per collusione con bande criminali), era stato assoldato per organizzare la logistica dell’omicidio di Politkovskaja, anche se non ha mai ammesso la sua colpevolezza. Il suo complice ceceno Lom-Alí Gaitukaev è morto in carcere, il killer Rustam Makhmudov sta scontando l’ergastolo, i suoi due fratelli sono stati condannati rispettivamente a dodici e quattordici anni. O almeno è quello che si sa ufficialmente: potrebbero anche loro essere in procinto di “espiare con il sangue” e di tornare liberi. Come scrivono i familiari e i colleghi della giornalista uccisa, liberi «di fare quello che sono abituati a fare, umiliando le vittime i loro parenti e amici, i testimoni e i giudici, la legge e lo Stato, talmente debole da dover chiedere loro soccorso e dare loro clemenza».


(La Stampa, 15 novembre 2023)

di Judy Maltz


Una delle fondatrici del movimento israelo-palestinese Women Wage Peace e di altre organizzazioni pacifiste; si pensava che Vivian Silver fosse stata rapita da Hamas e portata nella Striscia di Gaza.


È confermato che Vivian Silver, la veterana attivista per la pace che si pensava fosse tra i circa 240 civili e soldati israeliani rapiti da Hamas il 7 ottobre, è stata uccisa la mattina dell’attacco. Lunedì gli esperti forensi hanno informato la famiglia di aver identificato con certezza i suoi resti, più di cinque settimane dopo gli attacchi.

Appartenente di lunga data a Be’eri – uno dei kibbutz al confine con Gaza, invasi da decine di terroristi di Hamas il 7 ottobre – Silver per anni ha aiutato i residenti palestinesi di Gaza che necessitavano di assistenza medica in Israele. Rimasta vedova diversi anni fa, viveva da sola a Be’eri. Secondo il figlio Yonatan Zeigen, la donna è stata sentita per l’ultima volta sabato mattina alle 11:07. Prima aveva comunicato ad amici e parenti che si era nascosta dietro un armadio nella sua stanza di sicurezza.

«All’inizio ci siamo sentiti per telefono, ma poi, quando abbiamo sentito gli spari avvicinarsi, abbiamo deciso che era meglio passare ai messaggi di testo», ha raccontato ad Haaretz.

Zeigen ha raccontato che nel suo ultimo messaggio alla madre ha scritto «Sono con te». Lei ha risposto: «Ti sento».

Descrivendo sua madre come “una persona molto resistente”, ha raccontato che nella loro ultima conversazione telefonica ha scherzato sul fatto che non aveva portato con sé un coltello nella camera blindata. «Per noi è stato divertente, perché mia madre era una pacifista», ha detto.

Zeigen, che vive a Tel Aviv, aveva programmato di andare con la sua famiglia a Be’eri per il fine settimana, per trascorrere la festa ebraica di Simchat Torah con sua madre. «Nella nostra conversazione telefonica, ci siamo detti entrambi quanto fosse stata una fortuna che non fossi andato», ha raccontato. L’altro figlio, Chen, vive nel Connecticut.

La settantaquatrenne, nata a Winnipeg, è immigrata in Israele cinquant’anni fa con il movimento giovanile sionista socialista Habonim Dror. Era tra i giovani e le giovani nordamericane che hanno contribuito a fondare il Kibbutz Gezer, nel centro di Israele.

Silver ha quattro nipoti, si è trasferita da Gezer a Be’eri con la famiglia nel 1990 e da allora vive lì. È stata una delle fondatrici del movimento israelo-palestinese Women Wage Peace, nato alla fine del 2014 dopo l’ultima grande guerra a Gaza. Pochi giorni prima che il suo kibbutz fosse invaso dai terroristi, aveva partecipato alla marcia che Women Wage Peace organizza ogni anno durante la festività di Sukkot.

In un’intervista rilasciata ad Haaretz sei anni fa, dopo che l’ennesima serie di combattimenti tra Israele e Gaza si era conclusa con una tregua, ha dichiarato: «Con quello che sta succedendo ora, credo che il nostro messaggio sia più che mai attuale. L’unico modo per porre fine a questa violenza è negoziare un accordo di pace. Questo cessate il fuoco può durare qualche settimana o qualche mese, ma finché le due parti non si siederanno a parlare, non sarà finita».

Vivian Silver è stata particolarmente attiva nel promuovere l’uguaglianza per le comunità beduine del sud di Israele, situate non lontano dal suo kibbutz. È stata co-CEO – insieme ad Amal al-Sana – del Centro arabo-ebraico per l’uguaglianza, l’emancipazione e la cooperazione, che promuove la società condivisa tra ebrei e arabi in Israele e gli sforzi di pacificazione tra israeliani e palestinesi.

Tra le molte attività di volontariato che ha svolto nel corso degli anni, è stata un membro attivo di Road to Recovery, un’organizzazione che aiuta a trasportare i pazienti da Gaza negli ospedali in Israele, affinché possano ricevere cure mediche adeguate.

Aveva deciso di immigrare in Israele dopo aver trascorso il suo terzo anno all’estero presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Nel 1974, il giorno dopo aver discusso la tesi in Canada, si è imbarcata su un volo di sola andata per tornare in Israele.

Nel 1981, Silver aveva fondato un dipartimento per la promozione dell’uguaglianza di genere all’interno del movimento dei kibbutz e in seguito ha fatto parte del consiglio di amministrazione del New Israel Fund.

Nel 1998 è stata nominata direttrice esecutiva dell’Istituto Negev per le Strategie di Pace e Sviluppo a Beersheba. Fino allo scoppio della seconda intifada, all’inizio degli anni Duemila, si è recata spesso a Gaza per partecipare a varie iniziative di pace tra i popoli.Colette Avital, un’ex diplomatica, membro della Knesset e sua amica, ha dichiarato: «Ogni volta e ovunque la incontrassi, era sempre entusiasta per una nuova idea, si buttava in nuove iniziative, era sempre ottimista e pronta ad aiutare, aveva sempre il sorriso sulle labbra […] Non posso fare a meno di pensare, di cercare di immaginare quali devono essere stati i suoi ultimi pensieri, quando ha visto gli uomini per cui ha combattuto, gli uomini che ha aiutato, venire a strapparle brutalmente la vita. E non riesco a trattenere le lacrime. Per lei, per la pace».


(Haaretz, 14 novembre 2023, traduzione di Laura Colombo)