di Nilde Vinci


Riesco a sopportare meglio il mio dolore per i femminicidi e gli stupri con un sogno: sogno che venga creata un’associazione, a livello nazionale, delle famiglie e delle donne offese e oltraggiate.

Questa associazione, legalmente riconosciuta, potrebbe costituirsi parte civile esercitando una pretesa civilistica all’interno del processo penale.

Questa “costituzione di parte civile” potrebbe avvalersi di avvocate e/o avvocati anche grazie alle donazioni che sicuramente riceverebbe in quantità, la mia compresa.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 10 dicembre 2023)

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre È ora di cambiare, 3 dicembre 2023


In questi ultimi tempi le forme più distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità hanno riempito la cronaca e l’immaginario collettivo. Dapprima la brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, e la conseguente guerra di posizione che ha già causato oltre 200.000 morti. Poi il brutale attacco dei miliziani di Hamas a città, villaggi, installazioni militari e un festival di musica nel sud di Israele che ha prodotto circa 1.400 morti con torture, mutilazioni, abusi e stupri sistematici nei confronti delle donne, oltre al rapimento di circa 240 persone. Per arrivare infine al criminale bombardamento e all’invasione israeliana di Gaza che non ha risparmiato palazzi civili, ospedali, campi di rifugiati, infrastrutture fondamentali per l’accesso a cibo, acqua, elettricità, che ha causato nel giro di due/tre mesi il massacro da 20.000 morti, tra cui 8.000 minori e 6.200 donne.

D’altra parte, per restare più vicino a noi, in mezzo a questi orrori organizzati, registriamo il lungo elenco delle vittime delle violenze “ordinarie” quotidiane e dei femminicidi (circa 109 le donne uccise nel 2023).

Riguardando la lunga lista di femminicidi di quest’anno saltano agli occhi diversi aspetti, tra cui l’età molto variabile dei soggetti, le tante nazionalità coinvolte sia da parte degli autori che delle vittime, il gran numero di regioni interessate, la diversità di mezzi utilizzati per compiere il crimine, i motivi o le occasioni disparate, il fatto che queste violenze colpiscano e coinvolgano donne incinte, figli, parenti, o che implichino talvolta anche suicidi o tentati suicidi.

Cosa hanno in comune tutte queste violenze? Molte donne (e alcuni uomini) hanno chiamato in causa il Patriarcato e la sua cultura, suscitando l’immediata reazione di altri uomini che invece vorrebbero riportare questi fatti criminali a motivazioni psicologiche, alla fragilità o alla debolezza delle persone.

Non c’è dubbio che dentro ai codici del possesso, della gelosia, all’incapacità di accettare la libertà e l’autodeterminazione femminile, al ricorso all’uso della forza e delle armi sia inevitabile ritrovare elementi di una cultura patriarcale che ancora abitua gli uomini a pensare alle donne se non come “oggetti”, quantomeno come “soggetti a disposizione” che sono “amate” e “apprezzate” solo nella misura in cui rispondono al desiderio, ai bisogni e alle aspettative maschili.

Tuttavia, non dobbiamo fare l’errore di accontentarci di uno slogan ma dobbiamo sforzarci di andare più a fondo per capire cosa possiamo comprendere di quello che sta accadendo e quanto le tradizionali spiegazioni siano adeguate al caso. 

Soffermiamoci sul caso di Filippo Turetta e dell’omicidio di Giulia Cecchettin che ha destato un’ondata emotiva particolarmente forte. Complice il fatto che si trattava di giovani, universitari, dalle facce pulite, di famiglie come tante altre nelle quali era più facile riconoscersi e immedesimarsi. Certamente ha giocato anche la dinamica dell’evento. La sparizione, la ricerca, gli appelli dei parenti, la speranza di un lieto fine e invece la prevedibile tragica fine che ha confermato i sospetti più ovvi. Sono state particolarmente importanti in questo caso anche le voci e le parole dei famigliari dell’uno e dell’altra protagonista, a partire da Elena Cecchettin, la sorella di Giulia che ha puntualizzato: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è». Per lei questi personaggi sono figli del patriarcato che si sentono autorizzati alla possessività e al controllo.

La sorella, dunque, ha invitato a guardare anche oltre i singoli protagonisti, a guardare quanto certi gesti si iscrivano in un ordine di possibilità e di significati che rendono plausibili o quantomeno pensabili certe azioni.

Nel comportamento di Turetta, dunque, possiamo rinvenire pensieri e gesti patriarcali, ma in un contesto sociale e anche culturale che è cambiato e che ci ripresenta motivi antichi in forme più intime e personali.

Le famiglie e i contesti dei due protagonisti non ricalcano le strutture delle famiglie patriarcali, non sembrano riflettere le gerarchie, i modelli tradizionali. Non è la stessa cosa di un clan patriarcale in cui la violenza è espressione di un modello famigliare e sociale rigorosamente definito. Per intenderci non è la stessa cosa del delitto di Saman Abbas in cui la violenza è ordinata e perpetrata da gran parte del nucleo famigliare. Qui il contesto è completamente diverso, non solo la famiglia della vittima, ma anche la famiglia dell’autore è distrutta. Non solo non si riconosce nel gesto ma fatica a comprendere da dove viene.

Val la pena per comprendere la peculiarità del contesto sottolineare le tre voci maschili che per le due famiglie hanno preso parola in quei giorni.

La prima è quella di Nicola Turetta, il padre di Filippo che intervistato dai cronisti ha dichiarato:«È pur sempre mio figlio. Non lo giustifico in niente, per quello che ha fatto. E per questo deve essere giudicato, dovrà assumersi la responsabilità. E penso al papà di Giulia, al quale ci sentiamo vicini. Anche noi siamo pieni di dolore». «Giulia l’abbiamo conosciuta bene. Veniva qua con Filippo, ci vedevamo. Sembrava una coppia perfetta, nessuno riporterà più Giulia. Siamo molto vicini a questa famiglia, e non riusciamo a capire come possa aver fatto una cosa così un ragazzo a cui abbiamo cercato di dare tutto». «Io da padre – ha proseguito ancora Turetta – ho pensato che fosse un figlio perfetto, perché non mi aveva dato mai nessun problema, né a scuola, né con i professori, mai un litigio con qualche compagno di scuola o che altro. Mai. Con il fratello più piccolo neanche una baruffa. E ora trovarmi con una cosa del genere, voi capite che non è concepibile, ci dev’essere qualcosa che è entrata in lui».

Come si nota il padre ha empatizzato con la vittima e la sua famiglia e non ha difeso per nulla il figlio, non ha minimamente accennato alcuna sorta di giustificazione o di scusante. In un’intervista riportata da fanpage.it ha addirittura lasciato intendere che avrebbe quasi preferito «che la cosa fosse finita in un altro modo».

Una seconda voce maschile è quella di Andrea, lo zio della giovane studentessa, che alla fiaccolata per Giulia a Vigonovo si è sentito di abbracciare Nicola, il padre di Filippo Turetta, che partecipava all’evento per ricordare la ventiduenne uccisa a coltellate.

«Ho abbracciato il papà di Filippo, un gesto che lui ha voluto fare lontano dalle telecamere. Lo avevo invitato per farci sentire uniti in questo dolore: noi per la perdita di Giulia, loro nella sofferenza di un figlio che ha provocato una perdita grande. La famiglia non c’entra, non è colpa dei genitori, questo è quello che penso io […] Sono due persone provate con un dolore enorme, forse con un dolore più grande del nostro, ma non sono loro che hanno fatto male a Giulia. Adesso il perdono per Filippo non lo sento, sento pietas per la famiglia perché sono anche loro vittime del figlio».

Infine, c’è stata la voce di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in seguito al delitto ha raccontato di non aver percepito dei segnali premonitori del pericolo: «Non ci sono riuscito e purtroppo ne ho fatto le spese. Da papà è inevitabile farsi delle domande: potevo fare qualcosa per lei? I primi a colpevolizzarci siamo noi genitori. Ho sempre cercato di preservare la privacy di Giulia, anche perché è sempre stata una ragazza coscienziosa, responsabile, e mi sono sempre affidato al suo giudizio».

Poi ci sono le parole del discorso che ha fatto durante il funerale della figlia, in cui si è rivolto direttamente agli uomini con parole nuove: «Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto».

Come si nota, in questo caso, le figure maschili e paterne coinvolte nella vicenda hanno saputo trovare delle parole diverse dal linguaggio stereotipato e sessista tipico della cultura patriarcale. Non va sottovalutata questa novità.  

Dunque, se il tema è la cultura e l’educazione patriarcale, in questo contesto essa va ricercata a un livello differente più personale e individualizzato che produce una violenza più disorganica, imprevedibile, di risentimento. Nell’autore della violenza, qualcosa è penetrato e ha lavorato in profondità, in forma più sottile e insidiosa, a strutturare un certo tipo di mentalità, a costruire un certo senso di sé e dell’altro, a definire delle aspettative e dei modelli relazionali. Il risultato è qualcosa di vecchio e di nuovo allo stesso tempo, che val la pena provare a evidenziare.

Intanto rispetto al senso di sé emerge una profonda fragilità maschile, il forte bisogno della partner, della donna, l’esatto contrario del mito dell’uomo indipendente. Io credo che questa dipendenza maschile dalle donne, dalla madre, dalla fidanzata, dalla moglie e perfino dalla collega di lavoro, ci sia sempre stata ma finché si era dentro una struttura sociale e famigliare patriarcale solida questa dipendenza non poteva emergere, era protetta dalle sicurezze dei ruoli e delle regole prestabilite. Emerge invece oggi di fronte alla libertà femminile e a percorsi di individuazione e di costruzione di senso più forti e più a fuoco da parte delle donne. Si evidenzia quindi il chiaro bisogno della partner per la propria stabilità, ma una partner, tuttavia non riconosciuta nella sua alterità.

Rispetto al senso dell’alterità, occorre insistere sul fatto che la donna, la partner non è affatto percepita come inferiore, come minore, come qualcosa da educare, sviluppare o proteggere. Al contrario Giulia Cecchettin appare come più autonoma, più matura, più brava negli studi, e persino più felice. Quindi non c’è un senso maschile di superiorità, ma semmai l’opposto, il senso di inferiorità o quantomeno di inadeguatezza maschile. È il maschio che non si sente all’altezza che chiede a lei di rallentare, di aspettarlo, di attendere a laurearsi.

Quindi rispetto al senso della relazione, è chiaro che il contesto non è quello di una relazione patriarcale tradizionale, ma quello di una relazione “democratica”, “paritaria”. La cultura è quella, il modello sociale delle nuove generazioni è quello. Eppure, il maschio non ci sta dentro.

Molti uomini sono abituati a provare affetto e sentimenti dentro a relazioni che controllano, che dominano, che dirigono, ma non in una relazione senza reti. Una relazione libera dove puoi sentire il taglio dell’alterità. Il punto è che senza questa esperienza, questa ferita e la sua accettazione – l’accettazione che l’altra è altra anche quando sta con te – non c’è possibilità di un amore sano.

La questione, dunque, non è solo la dimensione ideologica del patriarcato (che comunque persiste in una parte del mondo maschile), ma piuttosto la dimensione esperienziale e relazionale, l’incapacità di misurarsi fino in fondo con una soggettività altra in quella che Lia Cigarini ha chiamato “relazione di differenza”.

La cultura – almeno in parte – si è evoluta, la società si è andata trasformando, anche se non abbastanza a fondo. Anche se il patriarcato ha perso gran parte del suo riconoscimento e del suo appoggio c’è ancora molta strada da fare per congedarsi veramente dal sessismo e dalla violenza. Il fatto è che non basta cambiare le leggi, occorre lavorare sulle mentalità, sulle aspettative sociali, sui modelli di relazione.

“La libertà delle donne è libertà per tutti” recita l’invito a questa discussione. Questa è stata in effetti anche la mia esperienza, nelle esperienze di gioia e condivisione tanto quanto in quelle di delusione o di separazione. Ma questa libertà non è semplicemente un valore, un principio, ma è un’esperienza, una pratica, una scuola.

Che significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne? Che significa non sentirsi diminuiti, o minacciati, ma fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento – anche quando è conflittuale o dolorosa – un terreno di maturazione per il proprio modo di amare, di sentire e di stare al mondo?

È urgente cominciare a parlarne insieme.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 8 dicembre 2023)

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre È ora di cambiare, 3 dicembre 2023


Il numero di Via Dogana 3 “È ora di cambiare” è quanto mai opportuno in questo momento storico, la mia vuole essere una breve introduzione che dà alcuni spunti di riflessione a partire dai recenti efferati casi di cronaca e dalla conseguente risonanza mediatica.

Per ragioni contingenti e personali, mi sono ritrovata in quest’ultima settimana a vedere alcuni dei cosiddetti talk show televisivi incentrati sul caso di femminicidio di Giulia Cecchettin, e la parola più diffusamente utilizzata e controversa era patriarcato. Sono rimasta molto colpita dall’approssimazione e superficialità di quello che veniva narrato, e trovo che la stessa cosa succeda sui social e alla radio: vengono espresse posizioni che man mano si radicalizzano per contrapposizione, ma sono per lo più inaccurate. Invece ho trovato molto lucido e prezioso il contributo di Ida Dominijanni su Internazionale, dal titolo “Il campo di battaglia del patriarcato vacillante”[1], che tutte e tutti dovrebbero leggere, come pure un’intervista, sempre a Ida Dominijanni, pubblicata sull’Unità, e intitolata “Il patriarcato è ferito, per questo è più feroce”[2]. In estrema sintesi, il punto che voglio sottolineare è che si tratta di saper nominare quello che sta capitando per far ordine, e la parola giusta per il nostro imbrogliato presente è post-patriarcato.

Il n° 23 della rivista cartacea Via Dogana aveva come titolo “La fine del patriarcato”, è uscita a settembre del 1995, e Luisa Muraro nell’articolo “Salti di gioia” scrive: “questi sono i tempi della fine del patriarcato, dopo quattromila anni di storia e chissà quanti di preistoria. È finita! È finita! È finita!”. Ma cosa precisamente è finito? È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini, le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post-patriarcato, perché, se non è finito il potere maschile e la sua ricerca da parte degli uomini, è cessato l’assoggettamento delle donne, è terminato il credito che le donne davano al sistema socio-simbolico rappresentato dal patriarcato. Ida Dominijanni efficacemente dice che nel patriarcato le “donne non c’era neanche bisogno di ammazzarle, perché erano addomesticate”. E continua dicendo “Adesso abbiamo un patriarcato ferito, ferito dalla libertà femminile guadagnata, che quindi reagisce a questa libertà in modo efferato”.

Se poi pensiamo alle guerre in corso, il quadro della mascolinità si tinge ancor più di fosco. Sui social spopolano i modelli più violenti e machisti, gli stupri e le violazioni dei corpi femminili sono armi trasversali di una guerra generalizzata.

Torno al femminicidio di Giulia Cecchettin, perché ritengo sia paradigmatico di elementi retrivi e fatti del tutto nuovi. Nella narrazione piena di sproloqui sul patriarcato, una certa vulgata di destra lo rubrica a fatto legato alla criminalità, a un malessere individuale, un raptus e un gesto di follia. Elena Cecchettin, la sorella della vittima, ha creato una cesura nella narrazione della violenza sulle donne[3], mostrando chiaramente il problema sociale e politico dei femminicidi, ovvero il problema di un maschile che non sa stare alla misura della libertà femminile, che non può sopportare l’indipendenza delle donne da desideri e imposizioni di un lui debole e in affanno, e ciò vale a tutte le latitudini e in tutti i sistemi sociali, quelli dove le donne non hanno diritti e quelli dove le donne sono più emancipate. Il punto nodale non è quindi il patriarcato, inteso come sistema socio-simbolico di dominio dell’uomo sulla donna. La vera questione è la cultura patriarcale, alimentata da guerra e violenza, che fissa l’identità maschile in una tradizione anacronistica.

Il movimento #MeToo ha fatto un lavoro importante mostrando in quale misura l’atteggiamento maschile che avanza soverchianti pretese, incurante del desiderio di lei, permei la nostra cultura. Ma questo non basta: smascherare, svelare, denunciare non è abbastanza per attuare una modificazione del sistema. Pensiamo alla frase agghiacciante pronunciata dall’assassino durante l’interrogatorio, così come la riportano i media: “Non accettavo che non fosse più mia”, la quintessenza di una cultura del possesso e del dominio. E qui si innesta anche il discorso del neoliberismo, inteso come quella forma specifica di biopolitica dove la dimensione sociale, politica ed economica implodono in un sistema che è tutt’altro che repressivo, al contrario, è un sistema che produce, incrementa e risignifica la libertà degli esseri umani secondo il codice del mercato. Se per le donne la questione cruciale è l’assimilazione della libertà femminile da parte del neoliberismo, e per approfondire questo accenno rimando al libro curato da Stefania Tarantino e Tristana Dini Femminismo e neoliberismo[4], per gli uomini il punto critico è l’evaporazione del padre e della sua Legge, ovvero la sparizione dell’interdizione a favore dell’ingiunzione al godimento, del godimento immediato dell’altra ridotta a oggetto. A questo proposito, scrive Ida Dominijanni: “Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego così insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme: “i nostri bravi ragazzi”, insospettabili fino a un attimo prima di estrarre un coltello dallo zaino”.

In questo quadro, tuttavia, abbiamo visto sorgere un grande desiderio di politica delle giovani donne, non solo nelle manifestazioni del 25 novembre, ma anche in un fiorire di iniziative di collettivi e gruppi di giovanissime, in cui si mette in parola l’esperienza, si fanno circolare idee, si condividono gesti di discontinuità. Ne voglio citare una, il lavoro fatto da ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, la rivista mensile del Liceo classico Manzoni di Milano. In occasione del 25 novembre, hanno lavorato al progetto Morgana, producendo un podcast con le testimonianze raccolte tra le ragazze della scuola[5] e realizzando interviste ai professori della scuola, sulla scorta della discontinuità che il caso di Giulia Cecchettin sta evidenziando. Martina Ghanbari, che frequenta il secondo anno, ha svolto le interviste con altre ragazze e ragazzi della redazione de L’Urlo, redatte poi in un fascicolo che è stato distribuito a tutti gli e le studenti della scuola. Riporto due passaggi dignificativi:

“Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai propri studenti?

Professor Sivelli: […] Se sono maschio, docente o studente che sia, e mi conosco sia dal punto di vista morale sia nei rapporti col genere femminile, mi ritengo di conseguenza esonerato da questo discorso perché tanto “io non sono così, lo so”. Non dovremmo mai considerarci immuni. Solo se siamo costantemente minacciati, solo se pensiamo che può accadere anche a noi, solo se facciamo tutti un continuo lavoro di introspezione, si può pensare a un cambiamento. Non lasciate che gli eventi vi vengano messi davanti agli occhi, sentiteli come problemi vostri, che incombono anche sulla vostra identità di maschio”.

È notevole il passaggio dalla ferma certezza del proprio fondamento morale, che dispensa da qualsiasi implicazione e mette l’uomo nella consueta posizione giudicante, a una inedita vulnerabilità, che domanda la presa di coscienza in prima persona, per tutti e ciascuno.

“Hai mai assistito a episodi di violenza? Come hai reagito?

Professor Morelli: […] Quello di cui mi sono stupito è che persone che io reputavo civili, educate, rispettose delle regole del prossimo, dei rapporti, tendenzialmente anche abbastanza consapevoli dal punto di vista sociale[6], hanno poi manifestato atteggiamenti inaspettati e inesplicabili nei confronti della propria compagna o della propria partner: di non accettazione, di rifiuto e di incapacità di accettare l’esito di una relazione amorosa che non mi sarei mai aspettato da loro. Stiamo parlando di violenza verbale e, nella peggiore delle ipotesi, di stalking, che sono manifestazioni odiose del proprio modo di essere. Tutto è concentrato in quel sottobosco di relazioni tossiche che rendono ancora più grave il problema di cui parliamo. Parliamo della normalità, non stiamo parlando di un ragazzo che uccide una ragazza”.

Lo stupore iniziale lascia il posto alla consapevolezza che si tratta di una violenza endemica e strutturale alla “normalità” dei rapporti tra i sessi.

C’è un filo di speranza, se la percezione che sia ora di cambiare diventa moneta corrente tra gli uomini e se questo dolore collettivo riesce a essere un efficace agente di cambiamento.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 8 dicembre 2023)


[1] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/il-campo-di-battaglia-del-patriarcato-vacillante/

[2] https://www.unita.it/2023/11/22/il-patriarcato-e-ferito-per-questo-e-piu-feroce-parla-ida-dominijanni/

[3] La stampa straniera, in particolare spagnola, ha registrato questo cambiamento, come esempio voglio citare un articolo di El País dal titolo significativo “El asesinato machista que puede cambiar Italia” (qui la versione in inglese: https://english.elpais.com/international/2023-11-28/the-femicide-case-that-can-change-italy.html). Del resto, la Spagna lavora da tempo sia politicamente che culturalmente contro la piaga dei femminicidi, particolarmente cruenta nella penisola Iberica. Ricordo il film del 2003 “Ti do i miei occhi”, della regista Icíar Bollaín, un vero manifesto femminista, intendendo il femminismo come la presa di coscienza di una donna e la messa in gioco della sua libertà, a partire dalle relazioni con altre donne.

[4] Dini T.; Tarantino S. (a cura di), Femminismo e neoliberalismo. Libertà femminile versus imprenditoria di sé e precarietà, 2014, Natan Edizioni

[5] Si può vedere su YouTube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=1z_NrjVpUDo

[6] Qui il professore ha fatto il ritratto perfetto dell’uomo progressista e “di sinistra”.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre È ora di cambiare, 3 dicembre 2023


Nei giorni scorsi, durante le manifestazioni che si sono tenute nelle piazze d’Italia contro la violenza sulle donne, una frase è spiccata su tutte: “Siamo marea”. Marea sono state le oltre 500.000 persone che hanno partecipato a Roma il 25 novembre, e migliaia di altre in diversi luoghi pubblici del Paese, come qui a Milano, dove si sono riunite 30.000 persone. Marea sono le tantissime voci che si sono sollevate con rabbia nelle strade, ma anche sui media tradizionali e nelle fitte comunità virtuali sui social.

Ma andiamo alla radice di questa parola che sta identificando un fenomeno che mai come in questo momento ho sentito così potente, quello che chiamiamo cambio di civiltà. Marea è il movimento delle acque del mare che periodicamente due volte nelle ventiquattro ore del giorno gonfiano, montano e si espandono sulle rive. Dunque marea implica un moto, sempre destinato a ritornare.

Quando si parla di femminismo all’interno della storia, si parla di ondate. La suddivisione cronologica della storiografia femminista in termini di ondate non ha trovato un riscontro unanime, ma come scrive la storica francese Christine Bard, “Un’ondata può essere ricoperta da un’altra senza scomparire”.[1] Pur con le differenze e le frammentazioni all’interno del movimento che conosciamo, le giovani femministe che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni mai come in questo momento sembrano unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando pienamente l’eredità delle “storiche” e prolungando, o forse dovremmo dire ridando vita da un nuovo punto di vista alle lotte condotte negli anni ’70.

I fatti recenti smentiscono l’idea del post-femminismo che circolava tra noi giovani donne solo qualche anno fa, nella convinzione che la libertà è stata raggiunta una volta per tutte. In queste settimane si è detto anche che il patriarcato è ancora qui, è stato chiamato a gran voce da donne arrabbiate, donne ferite, donne che ne hanno abbastanza. È un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che si nasconde nelle relazioni personali e nei luoghi di lavoro, un patriarcato che, marea dopo marea, ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. L’uomo che non sa più come prenderci. L’uomo che si sente in competizione con le donne. L’uomo che collabora fintanto che a farla da padrone è lui. Dall’ego-soggettivismo superomista alla prigione a cielo aperto della “città delle donne”. Dal furore alla disfatta. Povero uomo.
Come ci dicono le piazze recenti, tutti gli uomini sono responsabili. Io penso sia importante ribadire che tutti gli uomini sono responsabili delle azioni e dei comportamenti che condurranno da questo momento in avanti, singolarmente e collettivamente, perché qualcosa ora è davvero cambiato e bisogna guardare avanti per costruire un disegno comune. La dimensione collettiva sembra darci una prospettiva futura in questo momento, in cui la dimensione soggettiva è spesso associata a quella individuale nel senso di individualista, di solitaria, egoriferita, come la dimensione digitale dei nostri profili, come la solitudine che ognuna di noi sente quando si tratta di affrontare i problemi veri, solitudine che forse sentono anche gli uomini, frutto di un’impotenza generazionale. 

Eppure credo che è proprio nella dimensione soggettiva, intima e personale che il cambiamento potrà avvenire. Certo cosa significa “personale”, che sentiamo nello slogan femminista “il personale è politico”, nell’epoca in cui la dimensione pubblica e privata si articola attraverso degli account? Forse bisognerebbe partire proprio da qui, cosa è personale per noi? Quell’io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, titolo di una sua raccolta del ’92, in cui riaffiora ora la poesia “Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo”.

Personale è forse partire da sé, come abbiamo imparato a fare qui in Libreria, per scoprirsi sole e incomplete senza il sé dell’altra e dell’altro, personale è vuoto senza lo sguardo di chi ci guarda fuori da noi. Noi donne questo lo sappiamo, e il nuovo bisogno di ricreare comunità reali e virtuali che siano uno spazio di parola alternativo ci racconta proprio questo. In queste settimane anche qui a Milano sono nati nuovi spazi di condivisione anche in luoghi che non sono deputati a incontri femministi. Questi momenti di autocoscienza in alcuni casi hanno scosso molte ragazze, hanno preso coscienza della violenza subita da parte degli uomini negli ultimi anni, violenza fisica, verbale, emotiva, economica. Questo ha generato anche atteggiamenti di chiusura verso gli uomini, di inevitabile diffidenza, perché il nemico potrebbe essere tra noi, a casa, al bar o in ufficio. Al netto della positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze, questa chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale.

Le relazioni di potere contro cui combattiamo ogni giorno sono la radice di molti dei problemi che viviamo in prima persona. Sono relazioni, non corpi astratti a cui diamo il nome di “società”, come se in qualche modo fosse compito sempre di altri. Queste relazioni si basano sull’idea patriarcale di controllo, controllo dell’uomo rispetto al margine di azione di una donna, ma a volte anche di donne rispetto ad altre donne. Controllo viene dalla parola francese contrôle ovvero contro registro, il che ci riporta alla vigilanza, a un occhio burocratico, ciò che appunta lo sguardo. Dello sguardo molto ci ha detto Irigaray, e del potere maschile di guardare, del male gaze, sentiamo il peso in ogni momento. Lo sguardo maschile appunta ciò che facciamo quando ci vestiamo in un certo modo, quando ci mostriamo sui social, quando esprimiamo la nostra sessualità, mentre lavoriamo. Lo sguardo maschile ruba. Lo sguardo quantifica il nostro potere di scambio in quanto merce-corpo pensante e brillante nell’economia liberista.

È interessante in questo senso quanto ha detto nella conferenza del progetto Elles a Paris Photo lo scorso novembre la curatrice Nathalie Herschdorfer: che forse non dovremmo più parlare di female gaze in opposizione e in risposta allo sguardo maschile, ma che abbiamo bisogno di altre parole. Di parole nuove per dire di noi, e per parlare con gli uomini. Fintanto che le nostre parole non saranno diverse per raccontare cosa vogliamo e come lo vogliamo non assisteremo alla svolta che intravediamo.

Mi piacerebbe che la nostra sacrosanta rabbia, che in questi giorni ha usato anche parole bellicose, si facesse innanzitutto produttiva, produttiva di un cambiamento che è qui nelle nostre mani e che dobbiamo cercare di attualizzare mostrando agli uomini che un dialogo è possibile. Che si può imparare con noi, ora. Che il mansplaining manifesto o meno è finito. Che il nostro approccio alle emozioni può rendere le loro e le nostre relazioni migliori. Che nuove pratiche nel mondo del lavoro e del fare arte sono a beneficio di tutti. Che anche per gli uomini è arrivato il momento di partire da sé e di chiedersi con noi: quando ci sentiamo davvero libere e liberi?

Anch’io come tutte le donne ho avuto a che fare con atteggiamenti violenti da parte di uomini, nelle relazioni e nel lavoro. Si è trattata di violenza psicologica e a volte economica. Ma non voglio dire che l’ho subita, perché non è stato così: ho capito, ho reagito, ho lottato. Ho creato uno spazio mio di lavoro e di vita in cui i vecchi metodi basati sulla sopraffazione non valgono più. Ancora oggi mi devo interfacciare con uomini che cercano di sminuirmi, che fingono di non vedermi anche se guardano, che cercano di togliere valore alle mie idee perché tutto si basa sul principio che vali solo se dai, se produci, e se ti tolgono quello non vali più nulla neanche tu. E invece prima ancora di dare, ci sono. Esserci basta. Starci. Riversarsi nel mondo come marea, senza contenersi. Il nostro pensiero e il nostro sentire non sono disgiunti da noi e hanno valore nello scambio, non nella valutazione. Agli uomini dico, questa sono io, e non ci sarà nessun diritto, nessuna legge, nessuna simmetria a farmi sentire amata. Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza.


(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 8 dicembre 2023)


[1] Christine Bard, Une histoire féministe est-elle possible? La transmission universitaire, entre libertés et contraintes, Les cahiers du CEDREF, 2005

di Clara Jourdan


In un recente articolo, Donne e lavoro, l’Italia resta indietro. Senza indipendenza non c’è libertà, (La Stampa, 27 novembre 2023) Elsa Fornero afferma giustamente l’importanza dell’indipendenza per essere libere. Di quale indipendenza parla? «La libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro», il lavoro retribuito intende. Ma qui si pone un problema, anzi due. Collegare la libertà al lavoro retribuito è vero fino a un certo punto, lo smentisce la vita di quelle donne che dovendo sommare il lavoro retribuito a quello domestico non hanno più tempo e forze per nient’altro. Alla faccia della libertà conquistata. Allora per capire la realtà bisogna smettere di chiamare lavoro solo quello retribuito. Lavoro è “tutto il lavoro necessario per vivere”, come è stato scritto (Immagina che il lavoro, Sottosopra 2009). Tutto il lavoro necessario per vivere è quello che fanno gran parte delle donne, e considerarlo tale dà senso a un modo femminile di intendere e praticare il lavoro, un modo prezioso e indispensabile per mantenere in vita l’umanità e che potrebbe diventare un insegnamento per tutti, specialmente in tempi in cui la guerra mostra i terribili limiti delle concezioni maschili della realtà. Un grande lavoro quello femminile, sì, ma la libertà? Veniamo al secondo problema. Per una libertà non ricalcata sui modi storicamente maschili occorre scostarsi dall’idea di indipendenza solo come indipendenza economica. È un fatto che ieri come oggi anche donne che hanno un lavoro retribuito o un altro reddito proprio continuano a dipendere da uomini, non solo mariti affettuosi o maltrattanti, ma datori di lavoro, compagni di partito ecc. Prima che l’indipendenza economica, dunque, per la libertà delle donne è necessaria l’indipendenza simbolica. In molte l’hanno sperimentata nel femminismo, tutte facendo conto sulle relazioni con altre donne. Cosa vuol dire concretamente indipendenza simbolica? Innanzitutto, non svalorizzare quello che desiderano e fanno le donne se diverso da quello che desiderano e fanno gli uomini, come invece leggo più avanti nell’articolo: «la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi». Ho insegnato per tanti anni in un istituto tecnico turistico e linguistico, frequentato per il 95% da ragazze. Ragazze sottilmente consigliate? Eppure studiavano con interesse e piacere le lingue, la storia dell’arte, la filosofia… Forse il pregiudizio è in chi disprezza le scelte femminili quando non coincidono con quelle maschili. E riguardo alla scienza, ormai studiata e praticata da innumerevoli donne, viene anche il sospetto che l’esigenza di una totale parità di impegno scientifico femminile sia in funzione dell’attuale sistema economico («l’Italia resta indietro»), più che della libertà delle donne.

Non dubito che quello che Fornero scrive venga dalla sua esperienza personale di pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni… La capisco e so che queste cose fanno parte della nostra storia. Ma partire da sé non vuol dire assolutizzare la propria esperienza, fermarsi lì nell’interpretazione del mondo per tutte. C’è sempre altro. Per esempio, io che sono della stessa generazione dell’ex ministra ho avuto anch’io un consiglio “sbagliato” ma di segno opposto: il mio professore di matematica mi consigliò ingegneria, non scienze politiche come volevo e ho fatto. E sono diventata femminista per un desiderio di libertà femminile, non di parità con gli uomini. Come moltissime altre non ho «reclamato l’uguaglianza», anche se questa è stata la risposta formale delle istituzioni politiche.

Non mi dilungo, ciò che dico è stato detto e scritto molte volte e da molte donne negli ultimi sessant’anni. Ma l’interpretazione corrente resta quella stereotipata espressa dall’articolo di Fornero: parità, parità, parità! Mi domando se non sia un modo, forse inconsapevole, per rassicurare gli uomini che restano al centro dei nostri pensieri, per fargli credere che quello che vogliamo si misura con i loro traguardi economici e politici, per dirgli che non hanno nulla da temere dalla libertà delle donne. Affinché smettano di ucciderci? Finora non è servito.


(www.libreriadelledonne.it, 8 dicembre 2023)

di Luisa Pogliana


Il contesto neoliberista-finanziario

Per anni noi donne abbiamo portato una nuova visione nel management, attente agli essenziali equilibri di potere in campo. Tanto tanto più necessario oggi, di fronte al grave cambiamento nel modo di governare le aziende. È il modello economico del neoliberismo finanziario, cui deriva un potere che agisce con nuove dinamiche.

Nella nostra visione l’azienda è per noi il punto di incontro di interessi diversi: finanziatori, proprietari, chi lavora, e al manager compete trovare un equilibrio tra questi interessi. Ma oggi lo stesso scopo dell’azienda – produrre beni o servizi – passa in secondo piano. Come anche la remunerazione dei lavoratori e gli investimenti, necessari a garantire il futuro. Perché uno dei primi mandati rivolti ai manager è contenere, tagliare il costo del lavoro.

L’azienda è distolta dal suo fine naturale, creare valore, ed è assoggettata a una estrazione di valore. La speculazione finanziaria prevale sull’economia produttiva.

È una tendenza che inizia negli anni 80 del 900, ma si è sviluppata in modo graduale, e solo negli ultimi anni ne abbiamo visto chiaramente gli effetti. Guardiamo per esempio un indicatore nel mercato del lavoro degli USA. La forbice tra produttività e remunerazione si è allargata sempre più: la produttività è cresciuta del 64%, le remunerazioni sono cresciute del 17%.

Il salto evidente del suo dominio è avvenuto con l’ondata del Covid, facendo leva soprattutto sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, che hanno isolato ogni lavoratore e lavoratrice con il lavoro da casa totale e obbligatorio. Così si toglie il fondamento della solidarietà, la forza della contrattazione, e si rende chi lavora più controllabile, dominabile. Infatti è ben prima del Covid che le grandi società di consulenza aziendale (McKinsey, Accenture…), mettevano l’isolamento dei singoli lavoratori come obiettivo principale indispensabile per ottenere tutto il resto. Si era valutato che ci sarebbero voluti 30 anni per raggiungerlo. Le politiche per contenere il Covid lo hanno reso possibile in tre anni.

Le pressioni sul management

Oggi la gestione dell’azienda da parte dei manager è sempre più condizionata da vincoli esterni: la pressione della crescente forza di questa pressione è la compliance: obiettivi predefiniti a prescindere dagli andamenti del business aziendale, standard di settore e certificazioni imposti a livello globale, limitano l’autonomia di azione dei manager di ogni livello.

L’altro strumento è la cosiddetta digital transformation. Strumenti tecnologici destinati a ridurre gli ambiti decisionali dei manager, e lo spazio per il lavoro umano con il suo valore.

Facciamo solo qualche esempio. Le piattaforme digitali impongono regole e ritmi molto più stretti della catena di montaggio. La gestione aziendale guidata dai dati (data driven), usa algoritmi ignoti ai manager stessi, e sminuisce il loro ruolo come autori di politiche e di scelte. I dati, inoltre, non sono neutri, ma riflettono i pregiudizi di chi li crea: verso le donne prima di tutto, e le etnie diverse dalla nostra, le età… Così gli algoritmi per selezionare il personale escludono le donne, perché non disponibili a lavorare senza limiti di tempo. Infatti l’Intelligenza Artificiale di oggi è prodotta da un mondo dominato da uomini – spesso misogini – bianchi e di alto livello sociale. Lo stesso avviene nella finanza speculativa.

La riduzione del potere manageriale

Il potere e lo status dei manager nei due ultimi decenni sono diventati via via molto limitati.

Si è affermato un nuovo potere, esercitato da lontano e difficilmente visibile: grandi investitori finanziari, grandi istituti bancari globalizzati, grandi case digitali. I manager di tutti i livelli e di ogni specializzazione ne sono toccati. CEO e Chief Financial Officer sono più esposti al mercato finanziario, che guarda gli andamenti del titolo in borsa molto più dei risultati nel business di riferimento: la loro remunerazione viene decisa da chi detiene le azioni. Anche i manager delle Risorse Umane sono esposti ad aspettative esterne, con il compito di tenere sotto controllo il costo del lavoro. Per gli altri si diffondono accordi diversi, con una flessibilità tutta a vantaggio aziendale: temporary manager, fractional manager, consulenza.

Complessivamente c’è un maggiore distanziamento tra il vertice e gli altri manager, spesso costretti a rinunciare proprio a quelle azioni che danno senso all’essere manager (come occuparsi di chi lavora). La figura del manager è erosa.

È una situazione frustrante, c’è un forte scontento. Ma si tende a non parlarne pubblicamente, per una sorta di pudore, per non sminuire la propria immagine. Si rischia di coprire l’insoddisfazione con atteggiamenti di facciata. Ad esempio, continuiamo a parlare dell’abusato “persone al centro”, ma è più una petizione di principio che una descrizione di ciò che riusciamo a fare. E si parla di “organizzazioni tossiche”, come si trattasse solo dell’agire di manager malintenzionati.

Come fare

Sappiamo che non saremo noi sole a poter contrastare il neoliberismo e le sue conseguenze, ma qualcosa si può fare. Qualcosa, infatti, sta già succedendo.

Negli Stati Uniti, culla del neoliberismo e della finanza, lì dove le politiche del personale si basano sulla relazione uno a uno, i lavoratori e le lavoratrici sono tornati a una risposta collettiva. Nonostante la paura di ritorsioni, c’è stata una crescita dell’adesione ai sindacati in media del 60% . Nei mesi scorsi gli scioperi sono scoppiati dappertutto, tanto che questa stagione è stata etichettata “l’estate calda”. Si intravede un cambiamento anche nell’atteggiamento dei manager: una nuova attenzione a recuperare spazi di azione per sé.

Queste lotte non vengono all’improvviso, sono maturate proprio mentre cresceva l’accanimento e la voracità sempre in aumento di questa economia. E sono state impreviste. Dunque ci fanno pensare che c’è uno spazio politico anche per noi. Importante è smettere di tacere su questa situazione. I margini di autonomia sono più ristretti ma ci sono, vediamo come usarli. Anche iniziative limitate, che incidono comunque sulle organizzazioni: diamo valore alla microprogettazione.

Se la situazione impedisce di esporci, certamente dobbiamo tutelare il nostro lavoro. Possiamo però dare vita a soggetti collettivi per fare fronte comune contro il nostro depotenziamento. Lasciamo da parte i discorsi difensivi, e guardiamo in faccia la realtà: diciamoci che cosa non si riesce a fare, o non ci fa brillare ma impaurire.

Un bell’incoraggiamento viene dal passato. In ogni epoca del capitalismo ci sono situazioni specifiche di ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e del potere. E richiede una risposta adeguata. Ma ogni volta è venuta da una grande donna, e prima di un uomo. La prima è Beatrice Webb, che con l’arrivo della Rivoluzione Industriale, fonda il concetto stesso di management, basato sull’idea di Industral Democracy. Segue la Grande Depressione, alla quale Mary Parker Follet risponde con l’idea di un management “umanistico”: non il “potere su” ma il “potere con”.

E nel nostro periodo emerge Judy Wajicman, la più grande esperta del “capitalismo digitale, nell’intreccio tra management/lavoro/genere/tempo.

Anche al neoliberismo possiamo dare una risposta. E chissà, forse ha raggiunto il suo massimo livello, forse il quadro sta cambiando. Ma noi non aspettiamo.


Luisa Pogliana ha fondato con altre l’associazione Donnesenzaguscio, per “riflettere sull’essere donna e manager” (www.donnesenzaguscio.it). Il video del Seminario Manager sotto pressione. Ma uno spazio per agire e cambiare c’è sempre (Milano, 18 novembre 2023) si trova su YouTube al link https://youtu.be/ML0geT4UR8c


(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2023)

di Arianna Premoli


Sabato 11/11 si è tenuto nella sede della Libreria delle donne di Via Pietro Calvi 29 un altro incontro della serie #LIBERAmente, questa volta a tema social network: quanto li usiamo, perché li usiamo, cosa ci riserva il futuro?

Che i social stiano occupando una posizione sempre più di rilievo nella nostra vita è cosa assodata, ormai.

Ci colpisce come, nella nostra vita lavorativa, una eventuale presenza social possa essere il discrimine di un’assunzione o di un congedo ingessato e goffo: non siamo abbastanza visual, non siamo abbastanza trendy. Non abbiamo curato a sufficienza l’immagine di noi che vendiamo al mondo, a dispetto magari di curricula stellari alle spalle. L’immagine diventa il non plus ultra, il biglietto da visita supremo, che nessuna persona può permettersi di ignorare. E quello che succede a chi non si presta al gioco è presto detto: un completo e totale isolamento.

Non si batte ciglio oggigiorno per come le interazioni umane, in carne e ossa, stiano venendo coattamente rimpiazzate da e-mail e messaggi vocali nelle chat, al fine del ridurre i faccia-a-faccia al minimo indispensabile e, se si riesce, ancor meno di quello. Non ci si meraviglia di una omologazione tout-court delle nostre modalità di socializzazione, che diventano smaterializzate, impalpabili in un etere che appiattisce e ingrigisce tutto ciò che tocca. Le foto delle vacanze non sono più una cosa fine a sé stessa, ma un palcoscenico su cui esibirci in una performance volta a mostrare a tutti quanto siamo rilassati. Le foto di una mostra? Quanto siamo acculturati. Le foto di un campo di girasoli? Quanto siamo connessi alla natura. Un atto dopo l’altro, in una recita che non sembra finire mai. Una recita in cui siamo tutti spettatori e attori al tempo stesso, dove a colpi di like si partecipa a questa allucinazione collettiva dove siamo tutti felici.

Uno dopo l’altro, i social stanno implementando il ricatto più vecchio della Storia umana: se non vuoi essere dato in pasto (i.e. i nostri dati personali) ai lupi (i.e. il mondo delle multinazionali), pagami. La pubblicità domina e scandisce ogni momento della nostra vita, tutto è prodotto.

Davanti a questa avanzata inesorabile ci sentiamo impotenti, spogliate di qualsivoglia arma utile a non farci additare come “retrograde” e “all’antica”, quando il nostro obiettivo è quello di far risuonare dei campanelli di allarme: il fenomeno ci sta sfuggendo di mano, si sta trasformando in un tritacarne da cui non c’è scampo.

Ma un fil rouge c’è, anche se non si vuole vedere: il nostro sistema economico sta fagocitando la nostra umanità, e i social sono la forchetta.

Con un progressivo erodersi di tutti gli spazi di aggregazioni a noi cari nel mondo reale in nome di un fantomatico progresso, ci si è ritrovati spinti a forza in una dimensione neonata, quella digitale, senza regole di alcun tipo. La nostra ingenuità iniziale, la gioia bambinesca di avere tra le mani un mondo tutto nuovo da scoprire, ha fatto sì che diventassimo ciechi ai suoi pericoli nascosti, che l’1% dei Grandi del mondo ha subito ritorto contro di noi a suo vantaggio.

Non siamo persone, siamo potenziali prodotti e potenziali compratori. Anche se la nostra fonte di guadagno non sono direttamente i social, questi ci portano clienti, e per fidelizzare i clienti bisogna implementare strategie di marketing funzionali, e queste strategie di marketing vanno rinnovate ogni mese per non far calare l’interesse. Dobbiamo venderci ed essere felici di farlo, per poi essere gettati via quando abbiamo esaurito il nostro potenziale. Tanto, ci sarà sempre carne fresca, cresciuta a pane e TikTok, pronta a prendere il nostro posto. Uno schema piramidale degno delle peggiori compagnie di truffe.

Ma, in mezzo a tutto questo disfattismo, una speranza c’è, e parte da incontri come questo.

La battaglia frontale è inutile in questo primo tempo, quando la polvere non si è ancora posata, e bisogna lavorare sui fianchi: costruire degli argini per contenere il fiume in piena.

Questi argini si costruiscono con onestà e tanta, tantissima voglia di fare.

L’onestà di vivere la nostra vita e il nostro corpo così come sono, senza infiocchettarli con filtri e correzioni ad hoc, mostrandoci nella nostra forma più naturale. Onestà è rompere il circolo vizioso che ci tiene con le guance sempre tirate in un sorriso posticcio, con il flash sempre pronto.

E la voglia di fare, e la costanza, per cambiare la narrativa dominante dei social oggigiorno. Faticare tutte insieme per costruire basi solide da cui far partire un lento, lentissimo cambiamento sociale che ridefinisca il nostro modo di stare online e lo spazio che noi decidiamo di dedicare alla dimensione digitale, perché non ci annienti.


Arianna Premoli fa parte del collettivo Le Compromesse


(www.libreriadelledonne.it, 6 dicembre 2023)

di Aldo Cazzullo


Nel 1965, Franca Viola, che non aveva ancora compiuto diciotto anni, fu violentata dal nipote di un boss mafioso. Secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto sposarlo: il matrimonio riparatore. Lei rifiutò, e i genitori si schierarono dalla sua parte. Il padre chiese l’aiuto della polizia. L’aggressore non vide estinto il reato, come sarebbe accaduto se Franca si fosse piegata al matrimonio; finì in carcere. «L’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce» disse la ragazza. Fu aperta una via che tante altre giovani donne, non soltanto del Sud, hanno seguito. Quando Franca si sposò con un uomo che amava e la amava, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inviò un dono di nozze, papa Paolo VI ricevette la coppia. Fu uno spartiacque nella storia d’Italia.

È possibile che l’assassinio di Giulia Cecchettin e il discorso di suo padre ieri siano un altro di quei tornanti nella vicenda nazionale.

Il padre non ha puntato il dito contro nessuno. Non ha neppure escluso che in futuro maturino le condizioni per il perdono. Ma le sue parole più importanti non sono quelle rivolte all’assassino di sua figlia; sono quelle che risuonano per tutti gli uomini. Che non sono ovviamente colpevoli in modo indiscriminato, ma che portano una responsabilità. Tocca agli uomini educare i figli a rifiutare la violenza e a denunciarla. Tocca agli uomini parlare agli altri uomini. Non minimizzare le piccole violenze, perché talora è da lì che nascono le grandi. Rispettare sempre e comunque le donne, molte delle quali portano come un peso nascosto il ricordo di tante piccole prevaricazioni. Non avere paura della libertà della donna, non considerarsi mai proprietari del suo corpo e della sua anima. Non girare la testa di fronte alle violenze e alle ingiustizie.

Infine, l’invito forse più importante: accettare le sconfitte. I dinieghi e gli abbandoni, i no e i basta. L’ultima parola spetta alle donne. Giulia Cecchettin non ha potuto dire la sua. L’ha detta il padre per lei. A noi tocca ascoltarla, metterla in pratica, e ripeterla a chi verrà dopo.


(Corriere della Sera, 6 dicembre 2023)

di Jennifer Guerra


Sono tanti anni che si parla di come contrastare la violenza sulle donne e di genere ma, per la prima volta, il femminicidio di Giulia Cecchettin ha consentito di porsi una domanda diversa dalle solite. Non più rivolta alle istituzioni affinché aumentino le pene o alle donne affinché stiano più attente, ma all’intera società. Cosa possiamo fare e in cosa abbiamo sbagliato noi, come collettività, e nello specifico gli uomini di questa collettività? A porla è stata prima una giovane donna, Elena Cecchettin, da subito derisa e attaccata con accuse senza senso, e poi suo padre, Gino Cecchettin. Non è per niente scontato che un uomo, a maggior ragione in quello che possiamo presumere sia uno dei momenti più dolorosi della sua vita, si faccia carico di questo peso. Perché è un peso dire agli uomini che hanno un problema, e che questo problema non si può risolvere solo con l’educazione, la prevenzione o la minaccia della punizione. Queste sono le soluzioni di cui si possono e di cui si dovrebbero fare carico le autorità, ma c’è dell’altro, qualcosa che riguarda la vita intima delle persone e il modo in cui si relazionano con gli altri. Gino Cecchettin, nella sua orazione funebre per la figlia, è entrato in questo ambito privato e, come nella migliore tradizione femminista, l’ha portato sul piano politico, parlando di un’assunzione di responsabilità. Un genitore che ha appena perso la figlia per un omicidio non solo non ha citato nel suo discorso al funerale della figlia Giulia vendetta, pena o perdono, ma addirittura riconosce che la responsabilità è collettiva, includendo anche sé stesso nel discorso. Molti commentatori in questi giorni hanno attribuito la violenza di genere a una presunta crisi della paternità, sostenendo che la mancanza della sua autorevolezza possa causare comportamenti violenti nei figli maschi. Ma di fronte a un padre come Gino Cecchettin è difficile riuscire a sostenere ancora questa tesi: il problema piuttosto sta nella mancanza di modelli di mascolinità alternativa a quella egemonica, che non incarni solo un ruolo predeterminato ma anche e soprattutto la volontà di cambiare. Nell’omonimo libro, la femminista bell hooks scrive che «il primo atto di violenza che il patriarcato chiede agli uomini di commettere non è la violenza contro le donne, ma piuttosto l’automutilazione psicologica, la loro repressione emotiva». Non è il padre permissivo e debole a causare la violenza, ma è l’uomo – che sia padre o meno non importa – che non prende atto dei propri sentimenti.

Questa presa di consapevolezza non si limita al perimetro del sé, ma diventa contagiosa nel momento in cui è condivisa: i sentimenti non si possono cambiare o cancellare con la sola forza di volontà, ma è sempre possibile agire sulle conseguenze che questi sentimenti hanno sugli altri. Riconoscendo sé stessi e poi i propri simili come portatori di sentimenti, «guardando negli occhi degli altri» per citare il discorso di Cecchettin, si può costruire un’alternativa. Al funerale di sua figlia, ma anche in tutti i giorni precedenti fatti di dichiarazioni precise e chiare, Gino Cecchettin ha mostrato che è possibile essere uomini vulnerabili, affranti, arrabbiati, ma allo stesso tempo anche lucidi e concreti. Sempre bell hooks nel suo libro La volontà di cambiare scrive che nella società patriarcale gli uomini rinunciano a “essere integri”. Il loro mostrarsi “tutti di un pezzo” si traduce in realtà nel mostrare di volta in volta le parti di sé che si adattano al ruolo che viene loro richiesto di ricoprire. Cecchettin si è mostrato integro, accogliendo in sé il bene e il male di questo momento a ogni livello: personale, umano, politico. Non solo, ha mostrato anche che è possibile riconoscere i propri limiti. Annunciando di volersi prendere una pausa dal lavoro, il padre di Giulia ha messo un altro tassello nella sua opera di decostruzione, sottraendosi al ruolo di breadwinner, di perfomatività a tutti i costi. Un’altra analisi gettonata della cosiddetta crisi della mascolinità vuole che sia proprio la perdita di prestigio economico dell’uomo, minacciata dalla crescente emancipazione della donna, a causare il sentimento di vendetta che porta alla violenza di genere. Gino Cecchettin, con questa sua scelta, ha in qualche modo mostrato che soffiare sul fuoco della competizione non può essere una soluzione praticabile, proprio perché è in quella competizione che si nasconde la trappola della mascolinità.

L’“impegno civico” che Gino Cecchettin sente di doversi assumere è già stato svolto con questa incredibile presa di coscienza. Non una lezione calata dall’alto, non la predica di un padre, ma le parole di un uomo che ha deciso di non restare a guardare il proprio dolore.


(Fanpage.it, 6 dicembre 2023)

L’autrice di questo articolo ha scelto di rimanere anonima.


Com’è stato accolto nelle scuole italiane il minuto di silenzio per Giulia Cecchettin? E qual è il vero volto della mascolinità tossica che non riusciamo a vedere? Per capirlo bisogna partire da un dato: la fragilità dell’identità maschile.

Era martedì 21 novembre, erano le 11 del mattino, l’aria che si respirava nelle aule delle scuole italiane incarnava la tensione della dialettica quando si fa corpo vivo e teso: in alcune aule il silenzio in nome di Giulia Cecchettin resta come di marmo a separare le parole dette prima e quelle dopo. In altre aule si fa rumore, più rumore possibile, non per gusto del caos ma per coscienza politica. Infine in aule più medie, più quotidiane l’appello nazionale al silenzio viene spezzato da risolini, battute, pernacchie fatte a mezza bocca per rompere l’imbarazzo di una posa che non si impone come il marmo, ma si appoggia come plastica posticcia sui corpi di ragazzi e ragazze che non ne colgono il valore.

In un’aula, la mia, al posto del minuto di silenzio si è acceso un dibattito che si è fatto subito antagonismo (e non dialettica), dinamiche di branco, strategie di autodifesa, reazioni istintive a una comunicazione che vede vittime e imputati senza inquadrare la struttura. Le poche ragazze di una classe di un istituto professionale hanno urlato le loro ragioni, provate dalla rabbia e dalla paura di vivere in un contesto in un cui non si sentono sicure, hanno spiegato le ragioni di un malessere legato a un contesto socio-economico e culturale che non ascolta. In quella scuola gli studenti di seconda generazione sono la maggioranza e le loro culture non sono comunicanti, ma sono isolate, tendono a radicalizzarsi e ghettizzarsi. Il bagaglio culturale di cui sono portatori diventa il marchio di fabbrica che garantisce loro l’appartenenza a una comunità, e in quanto “marchio” non dialoga, ma aggrega senza mediazione. Le ragazze hanno spiegato le ragioni di un malessere legato a quella scuola dove la sproporzione tra generi e una mascolinità tossica mai messa in discussione costringono quelle ragazze ad andare in bagno in coppia non per chiacchierare, ma per proteggersi da un costante stato di tensione. In tutta risposta alle parole delle ragazze, il resto della classe ha rioccupato il territorio facendo branco, ribadendo che «possono tornare a stare zitte e cucinare», perché «io rispetto mia madre e le donne adulte, non rispetto le prostitute». Discorsi detti per aggrapparsi a uno status quo, smorzati pian piano dall’apertura di un dialogo con l’insegnante (che sarei io) durante il quale i ragazzi si sono placati e richiamati reciprocamente a stare attenti, con serietà, promettendo di riflettere su quanto detto (ho raccontato un’esperienza personale).

Alla fine della conversazione sul volto dei ragazzi è apparso uno sguardo confuso, incerto, scomposto, decostruito verrebbe da dire, e silenzioso (finalmente). Il giorno dopo, tuttavia, quello stesso sguardo si è tradotto nello sguardo competitivo di chi sente di aver perso un po’ di territorio e vuole riconquistarlo: i ragazzi schierati mi hanno chiesto, con fare provocatorio, di parlare dei “froci” o di riaprire il discorso, spalleggiandosi, rinviandosi battute e pacche sulle spalle. Dovevo aspettarmelo: i ragazzi cercano l’identità di branco pur di riappropriarsi di un qualsiasi tipo di identità, pur di non rimanere nudi davanti alla realtà. E quella nudità la percepiscono più facilmente quando non hanno un’identità individuale strutturata (e con strutturata intendo “pensata”, e quindi in grado di attutire i colpi della contraddizione).

Un volto della mascolinità tossica

«Io non so come fai a stare in quelle situazioni mantenendo la calma, io impazzisco per comportamenti maschilisti molto meno espliciti», mi ha detto una mia amica quando le ho raccontato la vicenda. E anch’io, devo dire. Perché mi innervosisco per un mio amico che mi interrompe mentre parlo, sovrappone la sua voce alla mia, e non provo rabbia (tra le tante emozioni provate) di fronte a queste dinamiche scolastiche? Credo che una prima risposta riguardi le responsabilità: la responsabilità di un quindicenne è limitata se, per adeguarsi a un contesto che non gli dà strumenti conoscitivi necessari per emanciparsi, assume marcati ruoli di genere. Perché quel quindicenne è in gran parte frutto della classe sociale, del sistema sociale e culturale che gli ruota attorno, è in gran parte frutto di una porzione di realtà che è stata ghettizzata, ignorata, bistrattata in maniera classista dagli strati più privilegiati della società, come se mettere la testa sotto la sabbia eliminasse i problemi.

In secondo luogo la risposta sta in una egoistica, intima, individualistica percezione di pericolo e fastidio: quando entro in quelle classi, so che sto uscendo dalla mia bolla e che sto entrando in un’altra Italia, che pure esiste, che pure è viva, ma che teoricamente non permea la mia sfera privata, quella che ho scelto per me. Insomma, non sento violata la mia intima scelta di vivere in un certo modo. Non sento violata la mia libertà. Ma credo che ci sia anche un’altra motivazione: dietro quell’attaccamento disperato a valori inossidabili e assoluti come “la Famiglia”, “la Rispettabilità”, “l’Onore”, “la Donna pura”, credo ci sia l’attaccamento di chi sa che quelle maiuscole sono l’unico capitale di cui dispone. Se non so chi sono e chi sarò (o peggio: ho l’impressione di essere condannato a essere sempre, fino alla morte, questa persona qui), allora il mio avanzamento si misura per progressive acquisizioni di sicurezze: la mia impressione di non esistere e di non avere un’identità “pensata” porta alla ricerca spasmodica di sintomi della mia esistenza, in una sua manifestazione tutta esteriore. E se la donna è uno di questi “sintomi”, se è veramente un’emanazione della mia esistenza e non una persona autonoma, allora il mio affetto potrebbe assumere le sembianze del controllo per proteggerla, la donna. Proteggerla anche dalle sue stesse scelte, certo, cosa c’è di male, perché proteggere lei vuol dire proteggere un surrogato della mia persona.

L’altro volto della mascolinità tossica (lo stesso, ma più agiato)

«Noi non siamo talebani, io non ho mai insegnato a mio figlio a maltrattare le donne. Parlavamo spesso in casa di questi temi, soprattutto quando i ragazzi partecipavano agli eventi organizzati dalla scuola»: in quegli stessi giorni ho sentito queste parole, pronunciate dal padre di Filippo Turetta in un’intervista. «Noi non siamo talebani» è un’espressione curiosa e sintomatica che, al di là delle speculazioni educative che sicuramente l’intera vicenda ha attratto, lascia trapelare l’idea di un “noi” e di un “loro”, da un lato pace e armonia, dall’altro violenza e maschilismo, come se il maschilismo passasse solo attraverso le imposizioni violente e non attraverso la propagazione di strutture di pensiero, spesso implicite. Noi non siamo come loro, come gli stranieri, come i terroristi, come i pazzi che si fanno esplodere o che massacrano una ragazza a morte perché non si è coperta bene, quindi non posso essere colpevole, sembra dirci il padre. Io ho dato tutto a mio figlio, gli ho voluto bene a quel bravo ragazzo che andava bene a scuola e che faceva sport, e che poi ha accoltellato a morte la ragazza. Eppure c’è in questa storia, in questa presunta purezza e perfetta piccola borghesia italiana, uno scollamento tra ciò che si dice e ciò che accadeva (anche prima dell’omicidio) che continua a riportarmi a Pastorale Americana [romanzo scritto nel 1997 da Philip Roth], a una famiglia che è anche Storia e cultura, allo sconcerto di una culla che si crede sicura e caritatevole, ma che in fondo non si conosce, che non si pone domande trascinandosi in una tranquillità bovina, e che alla fine si scopre nutrice di una violenza senza capo:

«Marcia cominciò a ridere dell’ottusità di cui avevano dato prova davanti alla fragilità di tutto il meccanismo, a ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava colando rapidamente a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste. Si era aperta una breccia nel loro fortilizio, persino nella sicura Old Rimrock, e ora che era aperta non si sarebbe più chiusa. Non si riprenderanno mai. Tutto è contro di loro. Tutte le voci che dall’esterno condannano e ripudiano la loro vita! Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?»

Cos’ha la loro vita, la nostra vita piccolo borghese che non va? Cosa c’è di sbagliato in una cultura che conforta il figlio maschio prediletto raccontandogli che può ottenere tutto, basta volerlo, basta impegnarsi, basta andarselo a prendere, basta rifiutare il fallimento, basta mettere su famiglia e dare l’impressione di essere una persona risolta, basta performare, basta tenere tutto dentro perché fuori è ovunque competizione (la stessa competizione delle classi sociali più disagiate, ma con beni posizionali diversi), basta – in sostanza – percepirsi infallibili per essere veramente infallibili? Cosa c’è di sbagliato in un mondo dove soprattutto gli uomini acquistano dignità solo in base al bottino che ottengono? Di sbagliato, forse, c’è che in questo mondo gli uomini fanno fatica a creare relazioni, dove per “relazione” non si intende la dinamica gruppale, ma si intende la capacità di uscire da sé stessi per entrare a contatto con l’altro, perché uscire vuol dire entrare nell’ignoto, e quindi nella debolezza, e quindi nella sconfitta. Di sbagliato c’è che se si vive sempre, unicamente, la propria dimensione personale, l’altro diventa un feticcio e il sé diventa una prigione, la paura di instaurare una relazione sincera alimenta un’identità fondata sul vuoto di esperienze e riflessioni, la persona si riduce, ancora una volta, a marchio che non dialoga. C’è di sbagliato che, quando questo tipo di cultura mostra le sue falle, quella stessa cultura reagisce battendo i piedi e chiedendosi come mai, oppure inoltrandosi in litanie melense sui peccati del mondo e dei maschi, scambiando questo mea culpa vittimista per elaborazione del problema. E questo accade perché ciò che resta è sempre la solita esaltazione del bel, bravo, figlio maschio che può tutto, tranne sminuirsi. Questo è il nocciolo che permea le due Italie, quella dei “buoni” e quella dei “cattivi”, che riproduce gli stessi schemi ma con beni posizionali diversi, e si chiama mascolinità tossica, maschilismo, ossessione del potere e – nei casi estremi – femminicidio. Per decostruire, in sostanza, non basta scegliere a quale gruppo aderire (per semplificazione, maschilista o femminista), bisogna entrare nel gruppo antagonista ed esporsi, rompere la dinamica di branco e accedere alla relazione significativa. «L’infelicità degli uomini nei loro rapporti, il dolore che provano per il fallimento dell’amore, nella nostra società passa spesso inosservato perché in realtà alla cultura patriarcale non importa se gli uomini sono infelici. […] I costumi patriarcali impongono agli uomini una sorta di stoicismo emotivo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano. […] Una volta pensavo fosse una cosa da donne, questa paura degli uomini. Ma, quando ho cominciato a discutere con gli uomini dell’amore, li ho sentiti più di una volta parlare della paura degli altri maschi. Gli uomini che provano sentimenti, che amano, spesso nascondono le loro emozioni agli altri uomini per paura di essere attaccati e ridicolizzati. Questo è il grande segreto che tutti condividiamo: la paura della mascolinità patriarcale che impregna la nostra cultura», diceva bell hooks.


(L’Indiscreto, 6 dicembre 2023)

di Chiara Saraceno


Ogni donna che compie anche un silenzioso atto di ribellione contro stereotipi che la inchiodano in comportamenti e destini che non sente confacenti a sé e alle proprie figlie, che insegna ai propri compagni, figli, colleghi che le donne non solo vanno rispettate, ma sono soggetti liberi e che un rapporto di coppia, ma anche di generazione, può fondarsi solo sul riconoscimento della libertà reciproca, contribuisce al cambiamento nei modelli di genere e nei rapporti tra uomini e donne. Non occorre scendere in piazza per fare questo. Ma perché il cambiamento sia riconosciuto nelle norme legali e sociali, occorre che ci si mobiliti collettivamente, che si scenda in piazza, che la ribellione privata diventi pubblica. Le «immense conquiste del femminismo storico» che qualche giorno fa su questo giornale Mastrocola ha dichiarato di apprezzare, le richieste del femminismo che Natalia Ginzburg, citata da Mastrocola, dichiarava di condividere in toto, pur non piacendole il femminismo, hanno potuto diventare almeno in parte realtà solo perché ci sono state donne che si sono mobilitate collettivamente, correndo il rischio delle semplificazioni degli slogan e anche del conflitto interno alle varie anime dei movimenti, oltre che dei costi sul piano personale e professionale. Legalizzazione della contraccezione, dell’aborto, eliminazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, riforma del diritto di famiglia che finalmente ha dato attuazione al principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione ma ignorato per trent’anni, riconoscimento dello stupro come reato contro la persona anziché contro la morale, eliminazione delle restrizioni di accesso alle professioni, leggi contro le discriminazioni, estensione dei congedi di maternità a tutte le lavoratrici e persino il riconoscimento del diritto dei padri al congedo: sono tutti cambiamenti avvenuti in conseguenza della mobilitazione dei movimenti delle donne. Ovviamente, non basta scendere in piazza e non basta qualche slogan più o meno urticante per produrre cambiamento. Occorre un’azione costante, sostenuta da analisi adeguate, la costruzione di alleanze, tra donne e tra donne e uomini. Ma si parte sempre dalla denuncia di un’ingiustizia, di una situazione non tollerabile, che mobilita, diviene protesta collettiva e chiede risposte concrete, non occasionali.

I femminicidi e le violenze sulle donne in quanto donne sono appunto questo fatto ingiusto e intollerabile, non derubricabile a semplice patologia individuale e neppure genericamente imputabile a una supposta fragilità delle identità nelle società contemporanee, a una generica incapacità di reggere alle frustrazioni e ai rifiuti. Perché si tratta di uomini che aggrediscono e talvolta uccidono donne proprio in quanto donne, uomini che considerano le donne vuoi loro proprietà, vuoi a disposizione dei loro appetiti sessuali. Perciò, che piaccia o meno, chiama in causa modelli di genere e di rapporti tra uomini e donne insieme asimmetrici e fondati su quella che chiamerei una rivendicazione proprietaria di dipendenza da parte di uomini rispetto alle donne con cui stanno o vorrebbero stare. Il termine patriarcato non è (più) adeguato a rappresentare questa modalità di stare nei rapporti di coppia e neppure per rappresentare le persistenti diseguaglianze di genere in società (e politica, nonostante una presidente del Consiglio donna), anche se rimane come nostalgia per un mondo che non lo garantisce più, come traspare anche dall’intervista di Vannacci ieri su questo giornale. Il patriarcato ha perso da tempo le proprie basi sociali e normative. Ma è rimasta, per quanto minoritaria e non sempre esplicita, l’idea di un diritto maschile a essere soddisfatti nei propri bisogni e ad avere la precedenza nel mercato del lavoro, in politica, nelle diverse forme di riconoscimento sociale. Lo hanno da ultimo documentato i dati dell’indagine sugli stereotipi di genere. Persino la fragilità, l’incapacità di uscire da una dipendenza affettiva, possono venir ribaltate in rivendicazione a ogni costo e con ogni mezzo di un diritto a non essere lasciati. Ovviamente, non tutti condividono questi stereotipi. Anche tra chi li condivide non tutti diventano violenti. Ma costituiscono un terreno di coltura non solo per le discriminazioni, ma per pretese di controllo e l’incapacità ad accettare di non essere ricambiati nella propria richiesta di dipendenza e a riconoscere, pur con dolore, la libertà dell’altra. A differenza di Mastrocola, trovo importante che tra gli uomini sia iniziata una riflessione autocritica, senza farsi spaventare (o legittimare a non fare nulla) dalle denunce semplificatorie di patriarcato. Perché il problema è come favorire lo sviluppo di identità maschili e di relazioni tra uomini e donne basate sull’uguaglianza, il reciproco rispetto, incluso il rispetto della libertà dell’altra/o, contrastando sia l’assunto di un privilegio di genere (maschile) nel fare e nel non fare, sia la mancanza di controllo delle proprie pulsioni ed emozioni. È una responsabilità e un lavoro che certo devono avvenire nella quotidianità delle relazioni, in famiglia e fuori, da parte di uomini e donne. Ma che richiede anche una riflessione collettiva e ad ampio raggio, non limitata alla denuncia della violenza, cui devono partecipare, appunto, anche gli uomini. Non per dare lezioni o battersi il petto, ma per mettere in moto efficaci azioni di cambiamento. Allenare le proprie figlie a difendersi fisicamente dagli aggressori, come suggerisce Vannacci, non è sufficiente a proteggerle dalle discriminazioni, tanto meno a modificare l’immagine dell’uomo come potenziale aggressore.


Riportiamo di seguito il testo a cui Chiara Saraceno fa riferimento, pubblicato sulla stessa testata il 3 dicembre u.s. a firma di Paola Mastrocola.


“Non amo questo femminismo è un confronto armato tra i sessi”


Non so bene che cosa significhi, oggi, essere femminista. Credo che tutte le donne lo siano, nel profondo di loro stesse, e che conducano le proprie battaglie all’interno della cerchia di familiari e amici. Ma altra cosa è dichiararsi femminista e partecipare a lotte e cortei. Non tutte lo fanno, perché non tutte condividono le idee, le parole, gli slogan e i toni del femminismo (quello oggi dominante sui media). Mi chiedo cosa pensino, queste donne non dichiaratamente femministe, di fronte ai recenti efferati casi di violenza. Se sono, come me, turbate anche dal dibattito in corso, dai toni perentori, dalle idee agguerrite e monolitiche.

Penso alla massa delle donne che, sposate o meno, con figli o no, vivono con – o frequentano – uomini normalmente non violenti, penso alla vita di tutti i giorni, donne e uomini che cercano, insieme, di dividersi i compiti, affrontare i problemi, prendersi qualche sprazzo di felicità. Penso a queste donne che di colpo, da ogni parte e in ogni momento del giorno da quindici giorni (sui social, in tivù e alla radio), sentono dire che tutti i maschi sono corresponsabili della morte di Giulia Cecchettin, e potenzialmente portatori di una violenza che è in loro da sempre.

Penso che di colpo queste donne guardino con occhi diversi gli uomini che hanno intorno, in casa propria, in casa di amici, per strada; che osservino i gesti che compiono, gli sguardi che lanciano, i piatti che lavano o non lavano, le parole che usano e quelle che si dimenticano di usare. Osservano. Turbate e addolorate per i casi di stupro, femminicidio, violenza fisica e verbale tra le mura domestiche di cui la cronaca è piena, cercano ora di vedere quel che non hanno mai visto e di capire quel che non hanno mai capito, di scorgere la falla, la stortura, l’anello che non tiene. Cercano di vedere il mostro che può annidarsi nell’essere maschile. E si sentono smarrite, quasi in colpa per non aver visto e capito niente, percepiscono intorno un’aria di disapprovazione, o anche solo disagio e imbarazzo; quasi vi fosse, sopra di loro, un’astronave nemica fatta a forma di tribunale, gremita di sguardi accigliati e severi che le accusano.

Non so cosa faranno adesso, queste donne di colpo illuminate. E non so cosa faranno gli uomini che normalmente vivono intorno a queste donne non dichiaratamente femministe, e che si trovano improvvisamente di fronte altri uomini che corrono a professarsi femministi, a fare mea culpa, a dirsi unanimemente corresponsabili di ogni crimine per il solo fatto di essere maschi (trovo strabiliante questa autoflagellazione maschile collettiva che, seppur limitata agli ambienti intellettuali, declina in nuova forma l’ormai classico “singhiozzo dell’uomo bianco”).

Ho sempre apprezzato pienamente le immense conquiste del femminismo storico, divorzio e aborto in primis. Ma di fronte a questo nuovo femminismo dei media, che mi sembra piuttosto un fumoso “femministicamente corretto”, potrei usare pari pari le parole di Natalia Ginzburg, che in un articolo di cinquant’anni fa esatti, nel 1973, scriveva: «Non amo il femminismo. Condivido però tutto quello che chiedono i movimenti femminili. Condivido tutte o quasi tutte le loro richieste pratiche. Non amo il femminismo come atteggiamento dello spirito». E ancora: «Il sentimento essenziale espresso dal femminismo è l’antagonismo fra donna e uomo». Ecco. In questi giorni tremendi in cui siamo tutti quanti scossi dal femminicidio di Giulia Cecchettin, quel che non mi piace in quel che leggo e sento sui media è la granitica unicità della visione femminista, l’assertività stritolante delle tesi, la totale mancanza di dubbi e assenza di sfumature, il sistematico non-ascolto delle opinioni altrui, anche quando espresse da persone competenti in base ai dati e ai loro studi. Aleggia un enorme Pensiero Unico Femminista, un PUF che recita di continuo: i femminicidi dipendono dalla sopravvivenza del patriarcato; l’aggressività maschile non ha basi biologiche e dipende essenzialmente dall’educazione e dalla cultura; bisogna allevare i figli in modo neutro (no bambole alle femmine, no macchinine ai maschi), introdurre corsi di educazione sentimentale nelle scuole, vigilare sull’uso del linguaggio.

Eppure l’agire umano è così complesso, così astruso, e in particolare le ragioni dei più recenti efferati crimini sono così misteriose e variegate. Si dovrebbe avere una maggiore apertura, non un pensiero ermeticamente chiuso a ogni altra possibile visione delle cose. Provo a elencare ciò che il PUF non prende in considerazione: l’ipotesi che i femminicidi e la violenza dipendano anche dal consumismo e dalla cultura dei diritti; che l’indulgenza e iper-protezione in ambito famigliare e scolastico abbiano reso i ragazzi e le ragazze incapaci di gestire frustrazioni e sconfitte, di sostenere sacrifici e quindi anche di elaborare il lutto per un rifiuto della persona amata; l’ipotesi che il rischio di subire violenza sia riducibile con comportamenti più prudenti (come peraltro sosteneva già trent’anni fa Camille Paglia, femminista coraggiosa e controcorrente). Infine l’ipotesi che le scelte “non femministe” di una parte considerevole delle donne siano libere scelte e non sempre e soltanto frutto di condizionamenti; che se una donna si sente più felice a curare la casa e i figli, o andare a cavallo o coltivare piante grasse, ha tutto il diritto di farlo senza dover incorrere negli strali del PUF.

Non amo il femminismo perché non mi piace questa contrapposizione armata delle donne contro gli uomini. Non siamo due eserciti di cui l’uno deve far fuori l’altro, prendo in prestito ancora una volta le parole di Natalia Ginzburg: «Penso che tutte le lotte sociali debbano essere combattute da uomini e donne insieme». Non amo il femminismo perché non mi sono mai sentita una donna: cioè, non ho mai pensato che questa mia peraltro indubbia appartenenza al genere femminile potesse significare qualcosa di decisivo, così staccato dal resto. Non mi sono mai pensata staccata dal resto.

Mi sono sempre sentita soltanto un essere umano, che per caso era nata femmina, così come per caso era nata a Torino. Infine, non amo il femminismo (e tutte le ideologie) perché non tutto è chiaro e spiegabile del nostro vivere su questa terra. Voglio dire che, se anche debellassimo definitivamente il patriarcato, se annientassimo il capitalismo e tutti i peggiori incubi delle passate ingiustizie, non credo che la violenza sulle donne (e la violenza in generale) sparirebbe dal nostro mondo. Un margine di insondabilità, e quindi di nostra ignoranza, lo dovremmo sempre mettere in conto, di fronte alle tragedie. Tutto qui. E sopperire con la pietà. Quella pietà universale che, non so perché, mi riesce difficile scorgere nel dibattito attuale.


(La Stampa, 5 dicembre 2023)

di Gino Cecchettin


Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio. Mi scuso per l’impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili.

La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia. Mia figlia Giulia era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma. Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma.

Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà: il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti. Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia? Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione… Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne, e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto.

A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, a una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale. È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto.

La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli. Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza di genere inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti. Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere.

Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti. Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo. Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne.

Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita. Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere: «Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia…».

Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia. Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia. Cara Giulia, grazie, per questi ventidue anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano. Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio.


(Today.it, 5 dicembre 2023)

di Annarosa Buttarelli*


Per Giulia e per Elena


L’odio millenario verso le donne in quanto donne dei femminicidi dà un unico mostruoso senso a quello che sta capitando e che l’uccisione di Giulia Cecchettin fa ascrivere ancora una volta alla mai veramente affrontata “questione maschile”. Spiegazioni che richiamano la ragion di Stato e la geopolitica per le guerre sono, nel 2023, del tutto secondarie e forse inutili.

Non fermeranno nulla, mai. Così con il femminicidio di Giulia Cecchettin non si interromperà la catena degli assassinii delle donne, visto che i giovani maschi – dicono le statistiche – stanno superando i vecchi maschi nel darsi da fare con coltelli e fiamme. La morte dell’innocente Giulia, oltre a suscitarci profondo dolore e profonda tristezza, finalmente ha sollevato la reazione generale a un livello più elevato del solito tra noi femministe e nella popolazione italiana. Le richieste di intervento dello Stato, purtroppo non avranno immediata efficacia, perché non è quella la strada più urgente.

Più sensate sono le voci che chiedono un massiccio e generale intervento perché finalmente si provi a “formare” meglio i maschi, giovani, vecchi, padri, operatori, medici, psicologi, militari, giudici maschi e femmine, manager, questori… Tanti, troppi forse, anche se questa sarebbe la strada giusta, a condizione che anche la cultura generale accettasse la necessità di una trasformazione radicale. Ma, come intellettuale femminista, sono sull’orlo della disperazione.

Questa benedetta “formazione” chi la farà? Chi la sta facendo?

Dobbiamo chiederci sinceramente quanto sia efficace e, addirittura, sensato educare, formare i maschi da parte di coloro che dovrebbero essere formati a loro volta. Dobbiamo chiederci se sia efficace educare e formare alla vecchia maniera, cioè avendo come base e come obiettivo la parità, l’inclusione, la complementarietà, la bontà, l’uguaglianza, il giustificazionismo psicologico, l’educazione sessuale basata sugli organi genitali… I Centri antiviolenza delle donne non formano così, ma rischiano ogni giorno la chiusura perché, di solito, il sostegno pubblico va nella direzione del “politicamente corretto” buonista. Ma in questi interventi si vede benissimo com’è grave l’ignoranza della vera dinamica dei rapporti tra uomini e donne, come si è lontani dalla realtà e come si continui a intervenire in astratto per la maggior parte delle formazioni nelle scuole, ad esempio.

Da intellettuale femminista e formatrice di lungo corso, sostengo, insieme a molte altre, che il grande assente è il senso della differenza sessuale, esattamente come è assente nei banali e diseducativi dibattiti televisivi.

Ad esempio, a Napoli, in questo momento, stiamo provando a intervenire, noi formatrici della Fondazione Scuola Donne di Governo insieme alle psicologhe di SINAPSI dell’Università Federico II, con una proposta formativa che non riguarda più l’educazione sessuale, ma che ha per titolo “Per una nuova civiltà del rapporto tra i sessi”. È questa la meta che dobbiamo tenere presente radicalmente, affinché i troppi agnelli sacrificali della storia degli uomini, Giulia Cecchettin tra questi, riceva quella forma di giustizia che va ben oltre la Legge, e ben oltre lo Stato.

Per di più abbiamo a che fare con la parola “patriarcato” che purtroppo è sfuggita a Elena, la geniale sorella di Giulia. Si spiega il rapido contagio avuto da questa parola con il fatto che è una parola vuota oramai: non esiste più nemmeno come ordine sociale il patriarcato, abbiamo già detto e scritto molte volte che stiamo cercando di disfare anche il dominio del fratriarcato, che è anche peggio del patriarcato. Indignarsi contro il patriarcato è come indignarsi e coartare contro il nulla chi ignora la storia. Ancora una volta ci tocca dire che la “questione maschile” è satura anche di ignoranza.

Chi domina è ben contento che si parli di patriarcato perché sarà del tutto inefficace farlo. Tremo all’idea che i futuri ignari “formatori e formatrici” cadano nella trappola e vi facciano cadere anche chi sarà loro affidato. Insisto per amore delle mie simili: bisogna prima formare i formatori e anche molte formatrici.


(*) Direttrice Scientifica Scuola di Alta Formazione Donne di Governo


(Scuola di Alta formazione Donne di Governo, dicembre 2023)

di Pat Carra


È in libreria Libellule nella rete (ed. Zona 42), il romanzo di fantascienza di Loretta B. Angiori, pseudonimo di Loretta Borrelli (Angiori è l’acronimo delle iniziali delle sue sorelle). Sviluppatrice web e teorica critica della tecnologia, Loretta scrive importanti saggi e tiene corsi nelle accademie sulle arti multimediali. Tra le sue numerose partecipazioni a gruppi politici a cominciare dagli anni ’90, è cofondatrice di Erbacce e prima di Aspirina: dal 2013 è stata l’anima e la maestra digitale delle nostre riviste, e ha ispirato i fumetti La bracciante digitale. In redazione abbiamo imparato a perderci nel suo pensiero labirintico, incline ad aprire finestre su finestre su finestre, più che a tirare conclusioni e trovare facili soluzioni. Spesso ci è apparsa come un’avanguardia troppo in anticipo: affidandoci a occhi chiusi, abbiamo aperto gli occhi.

Libellule nella rete è il suo romanzo di esordio, nato dal bisogno di staccarsi dall’astrazione teorica per riuscire a raccontare il mondo dominato dalle macchine e le trasformazioni tecnologiche intese come sintomi di trasformazioni più vaste: della natura, delle emozioni, dell’espressività, del lavoro, dell’inconscio. La sua passione per la fantascienza, che spazia da Ursula Le Guin a Donna Haraway a Orwell, le ha offerto la chiave.

Il punto di partenza del libro è una critica alle utopie della Silicon Valley e dell’intelligenza artificiale, utopie basate su teorie come l’“utilitarismo radicale” che, mosso da un “altruismo effettivo” sogna di organizzare una società acquiescente oppure, all’opposto, utopie basate su teorie come l’“accelerazionismo effettivo” che spinge per l’automazione totale del lavoro. Dietro queste filosofie ci sono persone reali, potenti gruppi di estrema destra che con il loro progetto anarcocapitalista o millenarista hanno un grande peso nel sistema economico e politico statunitense e anche nel nostro. Senza dimenticare che dall’altra parte del mondo c’è il progetto comunista-capitalista della Cina.

Nel romanzo, Loretta costruisce una società della catastrofe in cui queste utopie hanno vinto su tutta la linea, i redditi e le organizzazioni economiche sono regolamentati, l’IA semplifica il lavoro e le valutazioni dei comportamenti, tutto è automatizzato e sotto controllo, i sistemi di monete e di crediti sono assolutamente trasparenti, quindi blockchain, interoperatività e decentralizzazione dei sistemi e così via.

Le protagoniste sono Rei, una microinfluencer che abita in una metropoli come tante (potrebbe essere Milano), e Chiara, amministratrice di sistema che vive in una comunità autogestita di montagna, Piana di Urlele. Le loro storie si alternano, nei capitoli dispari Rei è raccontata in terza persona, in quelli pari Chiara è l’io narrante. Le due donne sono destinate a incontrarsi e a mettere in discussione molte certezze, in uno spazio-tempo del futuro che è l’essenza stessa del nostro presente: la catastrofe climatica, lo strapotere delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale, la solitudine, la depressione, la sofferenza psichica nel tardocapitalismo della sorveglianza.

In questo universo Rei «si sentiva spesso distrutta e assente, svuotata. Spesso provava una grande noia sfogliando i contenuti della rete, ignorava le interazioni con altri utenti. Le sedute di supporto psicologico non l’aiutavano a identificare le cause del suo malessere». Per questo Rei si rivolgerà, come altri, alle stanze per il supporto emotivo della misteriosa Sight Holding, società apparentemente clandestina.

L’altro mondo, la comunità di Urlele e alcuni spazi periferici e notturni che Rei si trova a frequentare, evocano i gruppi di hacking nati per condividere la conoscenza, il cyberpunk italiano, i centri sociali, i movimenti ambientalisti e anticapitalisti, il femminismo che mette le relazioni al centro del cambiamento. A Urlele appaiono le libellule che per Chiara «sono simbolo del rapporto tra forze a volte divergenti, altre volte convergenti, sempre positive per le trasformazioni. I cambiamenti che sognavamo dovevano stare agli obblighi del mondo che ci circondava, ma spesso desideravamo volare in modo imprevedibile».

Nel romanzo divergono e convergono, appunto, le prese di coscienza che aprono spazi di libertà, riconoscendo dall’interno del sistema i punti di rottura su cui l’azione diventa possibile. La tensione politica sottesa è sempre fortissima e permette, anche a noi che leggiamo con il fiato sospeso, di restare nella rete senza cadere nella rete. In alcune pagine il linguaggio informatico è complicato e viene il dubbio, a chi non ne conosce i codici, che sia tutta una finzione. Si tratta invece di un idioletto, un sistema linguistico comprensibile a una comunità, che potrebbe corrispondere a verità pur restando ermetico ai più. Queste pagine saranno lette in modo differente da esperti o profani, ma poco importa nel flusso narrativo.

Le libellule sono «fuoco al di sotto dell’acqua», creature che mettono in comune desideri e conoscenze: hacker, femministe, filosofi e attivisti, robot chiamati Mer che raccolgono le fragole e capiscono gli alberi, amiche che preparano cene, adolescenti inquieti, una bambina pasticciona e una madre ansiosa, i manifestanti anonimi nella città alluvionata, il libraio che vende manoscritti…

Durante la presentazione alla libreria Anàrres a Milano, Loretta ha citato la celebre frase di Fredric Jameson ripresa da Mark Fisher «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», estendendola al patriarcato. Da quando le donne non hanno più dato credito al realismo capitalista-patriarcale e hanno immaginato e desiderato altro, è iniziato il declino di un potere che sembrava eterno e immutabile. Se questo nuovo mondo possibile è considerato fantascienza, Loretta lo fa suo e dichiara “Io sono fantascienza”.


Domenica 10 dicembre alle ore 12 – Libreria Tuba, Via del Pigneto 39, RomaIncontro con Loretta Borrelli e Elena Giorgiana Mirabelli, modera Barbara Leda Kenny


(Erbacce, 4 dicembre 2023)


Domenica 3 dicembre 2023, ore 10.30 -13.00

Invito alla redazione aperta di Via Dogana 3


Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29 – Milano


È ora di cambiare

Le guerre in corso, che possono diventare feroci nei confronti di donne e bambini, e l’aumento di stupri di gruppo e di violenze contro le ragazze e le donne anche nel nostro paese, ci mostrano una continuità tra tempo di guerra e tempo di pace. Già nel 1970 il manifesto di Rivolta Femminile diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Oggi questo è più che mai evidente, soprattutto tra giovani, dove il rapporto tra i sessi è attraversato da paura, sfiducia, vendetta.

Ma sempre oggi, lo slogan Donna, vita, libertà, gridato in Iran da giovani donne e giovani uomini insieme, testimonia che la libertà delle donne è libertà per tutti. Come dare seguito, allora, al cambiamento che questa presa di coscienza richiede? Perché gli uomini non si dissociano dalla virilità distruttiva? Quali ostacoli interiori ed esteriori li trattengono da una modificazione che sentiamo urgente? Quali responsabilità si assume ciascuno di loro nei rapporti concreti con i propri simili e con le donne? Vorremmo interloquire con uomini, soprattutto giovani, su questi punti non più rinviabili, per avviare un necessario cambio di civiltà.


Introducono la discussione Laura Colombo, Giorgia Basch e Marco Deriu.


Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.


È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.


Appuntamento: domenica 3 dicembre 2023, ore 10.30, presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.

di Redazione


Era nata il giorno della fondazione del Partito Comunista, fu partigiana cattolica e quindi esponente del Pci, venendo eletta nella prima legislatura della Repubblica, di cui era l’unica parlamentare ancora in vita. È morta la scorsa notte, Maria Lisa Cinciari Rodano, avanguardia del femminismo in Italia. Aveva 102 anni, ventitré dei quali trascorsi in Parlamento, dal 1948 al 1971. Fu la prima donna a ricoprire la carica di vicepresidente della Camera nell’ultimo lustro a Montecitorio, dal 1963 al 1968, per poi essere eletta al Senato. Per sette anni consigliera provinciale a Roma, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta fu anche europarlamentare.

Arrestata sotto il fascismo per la sua attività nella Resistenza nelle file del Movimento dei Cattolici Comunisti e nell’attività dei Gruppi di difesa della donna, fu cofondatrice dell’Udi, Unione donne in Italia, di cui è stata anche presidente. A lei – nonna del nostro collega Tommaso Rodano – si deve, fra l’altro, la scelta della mimosa come simbolo dell’8 marzo, Festa della donna. Nel 2015 è stata insignita del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

«Odiavo le forme d’autorità, l’inquadramento, il conformismo. Detestavo le sfilate a via dell’Impero, il dover mettere la divisa, le manifestazioni sportive allo stadio dei marmi. E ho impressa questa immagine che vidi a Monterado, nelle Marche: la fila delle persone disoccupate appoggiate alle spallette dei muri, lungo la strada. Povertà e impotenza. Mi colpì moltissimo», ha ricordato nel giorno del suo centesimo compleanno, intervistata dal nipote. Del giorno della sua elezione a vicepresidente della Camera invece disse: «La prima cosa che ricordo è che non sapevo come vestirmi. La seconda che tutti i commenti erano su come fossi vestita». Delle battaglie femministe si era detta “più che orgogliosa, contenta”: «La condizione femminile è cambiata profondamente. Eravamo relegate al ruolo di moglie o di madre, siamo diventate cittadine di pieno diritto. Sono felice di aver combattuto per questo, la sento come una delle cose positive della mia vita».

Come «partigiana e poi politica di grande spessore» che «ha lottato sempre per i diritti e la libertà di tutte e di tutti», la ricorda il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Mentre Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, ne parla come di una «donna combattente e appassionata, sempre in prima fila nella difesa dei valori della democrazia» ma «soprattutto una madre, sorella, compagna per tante donne nel cammino lungo e faticoso della parità» di genere. «Le siamo riconoscenti e grate – ha aggiunto la leader dem – per tutto quello che ha fatto e continueremo a farci guidare anche dalla sua passione». Il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, assicura che terrà Marisa Rodano «nel cuore e nella responsabilità di ricostruire unitariamente un senso e una prospettiva di umanità, oggi più che mai urgenti».


Le direzioni e le redazioni de Il Fatto Quotidiano e Ilfattoquotidiano.it partecipano al lutto del collega Tommaso Rodano per la perdita della cara nonna.


(Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2023)

di Franca Fortunato


Le manifestazioni oceaniche della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne hanno visto – come nei giorni precedenti nelle università e nelle scuole – ragazze e ragazzi partecipare in massa, in risposta non tanto alla chiamata delle donne di Non Una di Meno, quanto all’appello della sorella di Giulia, Elena, che ha saputo trasformare il suo dolore e la sua rabbia in forza personale e collettiva. Nonostante il dolore per l’orrenda uccisione di Giulia, di fronte a quella marea mi sono sentita “felice”, come ho confessato con “pudore”, per paura di non essere capita, all’incontro tenuto quel giorno alla libreria “Non ci resta che leggere” di Soverato (CZ), organizzato dal gruppo donne di “Cittadinanzattiva”, ai cui incontri partecipo da un po’, invitata da Francesca Labonia, mia amica e cofondatrice del gruppo. La mia felicità nasceva nel vedere insieme tante ragazze che il femminismo ha cambiato dando loro consapevolezza dell’inviolabilità del proprio corpo. La mia felicità nasceva nel vedere come, grazie alle ragazze, siano cambiati anche tutti quei ragazzi che manifestavano con loro, rompendo così, in modo irreversibile, la complicità maschile che è dura a morire in quei padri che si affrettano a difendere i propri figli accusati di violenza sessuale, delegittimando e screditando le ragazze che li accusano per renderle non credibili. È questo un comportamento patriarcale che generazioni di donne hanno subito e che oggi quelle ragazze e quei ragazzi, eredi delle loro madri, non accettano più. Quanta dignità, invece, nel dolore e nella tragedia hanno dimostrato i genitori dell’assassino di Giulia rifiutandosi, per il momento, di incontrare il figlio omicida in carcere! La mia felicità mi ha riportata a quella provata quando ho incontrato il femminismo della differenza che mi ha cambiato la vita e quando ho letto nel 1996 il Sottosopra “È accaduto non per caso”, un documento scritto dalle donne della Libreria di Milano con cui annunciavano: «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito […]. Adesso è un altro tempo e un’altra storia». Ecco, mi sono detta quel giorno, l’altro tempo e l’altra storia, il tempo e la storia della libertà femminile, in cui quelle ragazze sono nate, oggi è anche il loro tempo e la loro storia. Quello che è accaduto il 25 novembre non è accaduto per caso ma è frutto anche del lavoro delle donne che, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, si sono autorizzate a portare dentro la scuola il sapere e le pratiche del femminismo della differenza, rivoluzionando i saperi, la lingua e il rapporto con colleghe/i e alunne/i. Mi riferisco alla mia esperienza e di tante donne come me e di quelle a me maestre nella “Pedagogia della differenza” e al movimento dell’“Autoriforma gentile” nelle scuole e nelle università che ha coinvolto anche uomini. Di quel sapere e di quelle esperienze c’è un tesoro di libri a cui donne e uomini possono accedere per il loro insegnamento. Esperienze, figlie di un tempo nuovo che hanno dato inizio a una nuova storia, dando senso a scuola all’essere donne e scoprendo il piacere dell’insegnare e dell’imparare. Da ripetitrici e trasmettitrici di un sapere e di una lingua che cancellano noi donne, siamo diventate protagoniste e produttrici di nuovo sapere, nuove pratiche educative, nuovo linguaggio nel rispetto della differenza sessuale, in un rapporto relazionale tra chi insegna e chi impara. Si educa alla relazione praticandola. Oggi, in un continuum materno da madre in figlia, sono le ragazze e le giovani donne a insegnare la sessuazione dei saperi e del linguaggio, come ho visto fare nel gruppo “Cittadinanzattiva” da alcune di loro. Come non essere felice?


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 2 dicembre 2023)

È il momento di condividere passioni e speranze, desideri e progetti. È più che mai necessario. Urgente. E con i libri possiamo regalare tesori. Una mappa preziosa di letture e insieme di pratiche politiche. L’abbiamo costruita con testimonianze e consigli in presenza e con collegamenti a sorpresa dalla Sicilia al Trentino. E per i vostri regali ricordate che la libreria li spedisce ovunque con il vostro biglietto personalizzato scritto a mano dalle libraie.

Per il collegamento zoom prenotatevi, entro sabato mattina, all’indirizzo:
info@libreriadelledonne.it, specificando espressamente la data.

di Antonella Nappi


Sono stata alla manifestazione di Milano il 25 novembre contro la violenza sulle donne con un cartello che diceva l’opposto di ciò che molte dicono e scrivono, e alcune sostengono anche in ambiente universitario: che il movimento LGBTQ+ ci rappresenta tutte e tutti. Insinuando così un potere di rappresentanza che mi è odioso perché pensiero del tutto maschile. È una violenza per me insopportabile, ora che ho imparato a riconoscere la violenza che non è Legge da imparare. Ho impiegato cinquant’anni a riconoscere la violenza che da bambina mi sembrava la Legge familiare o sociale che dava il giusto apprendimento. La devo additare e combattere!

Mi preoccupa grandemente che si manchi di elaborazione riflessiva nella protesta e che la si dia in mano al maschilismo mediatico, il maschilismo sempre vincente nella politica rappresentativa, che sia nei parlamenti o nelle strade. C’è invece una disponibilità piacevolissima nelle persone meno giovani e meno organizzate a considerare la violenza della politica, quella dell’economia.

La piazza di Milano il 25 novembre era immensa e molto pacifica, molto riflessiva nella disposizione a considerare la violenza contro le donne; la stessa disposizione che in questi anni considera la violenza della guerra in tutti i luoghi dove i conflitti economici e politici non sono analizzati e gestiti da pratiche di contrattazione verbale e diventano distruzione e morte. Era una piazza piena di giovani padri e madri con bambini. Quella popolazione che fa lo sforzo della comunicazione tra differenti e ci fa progredire, quella su cui investire.

Lì mi erano tutti amici, il mio cartello era il loro, per questa ragione dico che c’è un potenziale di capacità di dirsi ed essere solidali enorme, non buttiamolo nel fosso della contestazione non sapiente. Nel fosso di quell’esasperare l’inimicizia verso la scienza e la politica, solo perché l’economia le influenza e investe la sua potenza nel far sì che si prendano gioco di noi; dobbiamo distinguere tra la scienza e la politica asserviti al guadagno illimitato e quelle con le quali possiamo comunicare e che ci giovano.

Il mio cartello diceva:

«La più grande violenza contro le donne e i bambini è usare corpi di donne per diventare padri di figli a cui si nega la madre. È violenza patriarcale. 

Gli uomini devono riconoscere l’altro da sé: le donne.

Con la storia di silenzio e censura che abbiamo noi donne, privarci della desinenza in -a, che da pochi anni ci dava visibilità, è un crimine politico. Chiunque voglia dare visibilità ad altre censure usi la stelletta o altro, ma in aggiunta alla -a, non in sostituzione, così dimostrando di non voler cancellare le donne.

Noi donne non siamo a disposizione degli uomini, non usate il nostro nome: il femminismo è interesse a valorizzare le donne. Non ci lasciamo cancellare.»


(www.libreriadelledonne.it, 1° dicembre 2023)

di Roberta De Monticelli


È questa settimana in libreria “J’Accuse”, un libro di Francesca Albanese – relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati – in conversazione con Christian Elia (Fuori Scena, RCS) che offre in sette brevi capitoli un glossario per capire che cosa è successo in Palestina e in Israele. Pubblichiamo un estratto della postfazione.


Gaza non c’è più – è solo un ammasso di dolore e rovina. Un’apocalisse è in corso, in tutti i sensi della parola. Una rivelazione, soprattutto. Non solo degli estremi di cui siamo capaci quando i vincoli del diritto e della civiltà sono violati. Ma anche dell’altra faccia della splendida luna di Israele, la faccia che era nell’ombra: la Palestina. Ora l’altra faccia della luna, tremenda, è nella luce della nostra coscienza, a dispetto del taglio totale di elettricità e connessioni imposto – come se solo la tenebra potesse essere testimone di un sacrificio umano così senza limiti e senza senso. E invece mai così visibile, mai così scoperchiata in tutta la sua tragedia, è oggi la storia intera della nascita e della crescita di Israele nella terra che fu la Palestina storica, delle vie che la costruzione di quello stato ha imboccato e sempre più sistematicamente perseguito, del dolore che queste scelte, non inevitabili, hanno causato: dal lato oscuro della luna soprattutto, ma anche dal lato lucente, in uno stillicidio di veleno e morte. Un dolore che oggi giunge al suo insopportabile zenit.

Dice un grande scrittore che un libro deve essere «un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi» (Franz Kafka). Questo J’Accuse dovrebbe essere un’ascia del genere per ciascuno di noi. Che sia almeno uno scalpello sottile, un cesello addirittura, che con la lama del diritto incida nella profondità della memoria, perché possiamo imparare che terribile cosa sia stata la nostra indifferenza fino ad oggi, e come ogni giorno del nostro ignorare la faccia oscura della luna, ogni ora del nostro silenzio, abbia portato un po’ di energia alla bomba atomica del male che ora sta distruggendo la nostra umanità, insieme ai corpi degli innocenti.

Lo scritto che avete in mano discende direttamente dall’ufficio di un «funzionario dell’umanità»: perché tale, nella sua indipendenza che lo solleva al di sopra dei funzionari stipendiati, è una relatrice speciale delle Nazioni Unite, e ben si adatta al suo ruolo questo appellativo che Edmund Husserl riservava agli eredi di Socrate.

Questo J’Accuse è scritto in nome degli ideali e delle corrispondenti norme e istituzioni che la comunità internazionale si era data per prevenire e spegnere le guerre; perché dov’era la selva geopolitica delle potenze sedesse il governo della legge, il diritto internazionale e i suoi organi di garanzia; perché dov’erano le radici di sangue e di terra delle nazioni scendesse il balsamo della ragione, e tutti noi ricordassimo le radici di carta e pensiero piantate in noi per sostenere la nostra umanità al di sopra degli strati di risentimento, dolore, impunità e violenza che ci salgono ormai alla gola.

Forse è ancora possibile. Che il dono dei vincoli di ragione, accolto dalla parte migliore della tradizione umanistica e della filosofia e infine dalla comunità internazionale, prevalga: e sventi questa ulteriore catastrofe del mondo globale di cui l’Europa annunciò, con le sue guerre novecentesche, l’avvento. Perché ciò che separa, nel mondo intero, il sottilissimo strato di civiltà per cui soltanto possiamo dirci umani dal sottostante oceano di stupidità e ferocia che ci minaccia, è solo l’impegno a brandirle, le carte di cui queste radici sono fatte, invece di brandire le armi.

Che vuol dire: rianimarle del nostro soffio, queste carte e questa lettera che solo lo spirito fa viva. Rianimarle del soffio per cui soltanto l’ideale eccede sul reale, e il valore sul fatto – e soprattutto la ricerca, il dubbio, la veglia critica e la trasparenza logica eccedono sul dogma, l’urlo tribale, la furia ideologica. Eccedono, vuol dire: non si lasciano ridurre a. Eccedono, solo per un soffio. Senza questo soffio, la nostra umanità è perduta. Mi pare che a questo bivio siamo, oggi.


(Il manifesto, 1° dicembre 2023)