di Mariacristina Pianta
Che cosa significa conversare sull’orizzonte? Non è facile rispondere perché i testi della raccolta non si limitano a descrivere o trattare argomenti significativi, ma cercano di andare oltre, di superare la realtà fenomenica per cogliere il nucleo della vita e delle cose. Le sezioni del libro presentano, in particolare, un elemento comune perché l’inizio del primo verso, in posizione di anafora, si ripete in molte poesie del medesimo gruppo: Capita, La luna lo sa, questo corpo a corpo, Anna, Vincent, Poi, In pagine mai scritte, Per certi versi. Questa tecnica ha l’obiettivo di sottolineare l’importanza di determinati argomenti e situazioni. Trovare aspetti che, analogicamente, si collegano vuol dire scoprire, nelle contraddizioni del nostro tempo e nell’angoscia dell’assurdo, delle coordinate di orientamento. È come se il famoso varco montaliano fosse vicino, quasi tangibile. Pensiamo a I limoni o a La casa dei doganieri, in cui pare di decodificare un messaggio o di dipanare l’aggrovigliata matassa nelle nostre mani. Allo stesso modo Antonella Doria, per mezzo di immagini incisive, affronta problemi, che coinvolgono il nostro io più profondo, ed enuncia tragedie di carattere sociale che si verificano quotidianamente: «Capita a volte / in un agosto come questo / con il cielo azzurro / corpi clandestini in / vortici di verdiblu cristalli / danzano una danza circolare». Sgomento, antitesi tra una natura amena (cielo azzurro) e corpi di migranti alla deriva sono maggiormente sottolineati dall’uso dell’enjambement (in /vortici), dai lemmi danza-danzano e dalla quasi totale assenza di punteggiatura. La parola è essenziale in un simile percorso, segnato da drammi personali e collettivi, perché travalica il suo potenziale espressivo. Come avviene nelle tele di Munch e di Bacon, una forza di notevole impatto cattura l’attenzione e permette di superare un discorso esclusivamente razionale per indurre ad effettuare un’analisi metalinguistica dell’opera.
(Odissea, 24 novembre 2023)
Antonella Doria
Conversazioni sull’orizzonte
Con una nota di Maria Enrica Castiglioni
Book editore pagg. 92 € 16,00
di redazione Radio Radicale
Registriamo l’intervento di Antonella Nappi, “storica” femminista, che ha portato il suo punto di vista e la sua proposta sul contributo differente delle donne per culture e pratiche di pace, nella Conferenza stampa, che si è tenuta a Roma, mercoledì 20 dicembre 2023, con inizio alle ore 11:01, in via Fori Imperiali, angolo S. Pietro in carcere, per rispettare il costituzionale ripudio della guerra attraverso il taglio del bilancio della difesa (-10 miliardi, da 30 circa a 20 miliardi) e degli aiuti militari al governo ucraino.
La conferenza stampa, che ha una durata di 35 minuti, è stata organizzata dai Disarmisti Esigenti, il giorno dopo il presidio al Pantheon che ha raccolto circa cento attiviste e attivisti romani; ed è stata tenuta, oltre che da Antonella Nappi (sociologa e scrittrice), da Alfonso Navarra (portavoce di Disarmisti Esigenti), Ennio Cabiddu (Lega per il Disarmo Unilaterale), Mino Forleo (Associazione per la Scuola della Repubblica), Enrica Lomazzi (WILPF Italia).
L’intervento di Antonella Nappi si ascolta, sul sito di radio radicale, nella scheda riportata al seguente link:
L’intera conferenza stampa si guarda e si ascolta partendo dal medesimo link.
Questa la trascrizione integrale dell’intervento di Antonella:
«Da sessant’anni le donne in Italia valorizzano sempre di più il loro pensiero, la loro pratica politica che è del tutto differente dalla pratica politica di gestire, gli uni contro gli altri, il potere.Tutti gli esseri viventi sono nati da donne e le donne fanno gestazioni, danno la vita, perché la vita viva. Non per mandare in guerra a morire i maschi, non per far morire donne e bambini sotto i bombardamenti. Le ucraine, le russe, le palestinesi, le israeliane, sicuramente vogliono mantenere in vita i loro figli; vogliono sviluppare una politica di comunicazione, di contrattazione in positivo per la vita, per soddisfare i bisogni, per difendere la salute. Per prevenire il pianeta dagli inquinanti, contro la distruzione e l’inquinamento che sono le guerre.Ecco insomma, vogliamo i soldi per la scuola, per la salute, per dare una vita dignitosa a tutti i paesi e a tutti gli abitanti del nostro paese e della terra.Vogliamo modificare l’educazione dei maschi: liberarli dal dover essere aggressivi e dal dover combattere, perché diventino più sentimentali, più sinceri, più comunicativi con le donne.Vogliamo valorizzare le donne, il loro pensiero e la loro politica di pace».
(Radio Radicale, 20 dicembre 2023)
di Chiara Zamboni
Il libro di Annarosa Buttarelli tratta un grande tema che attraversa la storia dell’umanità. Non solo le religioni monoteiste lo pongono al centro dei testi sacri, ma, più concretamente, coinvolge la nostra vita quotidiana. È un tema che evidentemente gli esseri umani avvertono oggi come urgente, più che in altri tempi. Per fare due esempi. A casa, mi è stato mandato un altro libro sul male. Inoltre oggi, contemporaneamente a questa presentazione, ce n’è un’altra sullo stesso tema, nella sala dei comboniani.
Davvero c’è un bisogno profondo di trattare questa questione. Perché si è creato questo bisogno? Mi sembra per il fatto che si è rotto un equilibrio sia delle relazioni soggettive più elementari come quella tra donne uomini, sia a livello geopolitico. Siamo abbandonate alle nostre forze in un campo attraversato da forze contrastanti e senza regole. Inoltre, e per lo stesso motivo, c’è una intensificazione della violenza e della crudeltà, sia nelle guerre sia nei femminicidi.
Mi potreste chiedere a questo punto, «Ma il libro di Annarosa non è in particolare sul male. Il titolo parla chiaro, quello che interessa ad Annarosa è come le filosofe hanno trattato bene e male e come hanno cambiato di segno al modo di affrontarli». Eppure nel libro c’è una maggiore attenzione al male, forse perché se ne può parlare senza idealizzarlo e anche perché se ne sente l’urgenza. Comunque un merito del libro è di riuscire a parlare anche del bene senza nessuna idealizzazione.
Posso dire in generale che è un libro non moralistico, non propone valori da perseguire, critica chi pensa di salvare dal male facendo il bene.
Il libro sgombra subito il campo sottraendosi a un dibattito filosofico che attraversa la nostra civiltà. Quello per intenderci che ha trovato nelle categorie linguistiche e ontologiche di Sant’Agostino la sua espressione più nota, per cui il male è il non essere e il bene è l’essere, e ciò che è desiderabile per noi. E si sottrae anche all’altra grande concezione del rapporto tra bene e male come un conflitto tra due entità con forza ontologica propria, per cui bene e male hanno entrambi realtà e sono contrapposti sia in Dio sia nel mondo. Penso in particolare alla religione persiana e ad alcuni filosofi. Il libro si avvicina se mai a una concezione più moderna per cui bene e male dipendono dal giudizio soggettivo.
Riguardo a questo giudizio Annarosa introduce un pensiero originale: è Eva, che ha offerto all’umanità non tanto l’opposizione del bene al male, bensì il discernimento, il saper distinguere l’uno dall’altro assieme al pensare, di cui abbiamo bisogno per fare questo discernimento. Mangiando il frutto della conoscenza, Eva ha insegnato a discernere e dunque a giudicare cosa sia bene e cosa sia male. Ma, aggiunge Annarosa, Eva è una donna e di conseguenza l’effetto del suo dono non è quello di costruire un sistema filosofico o religioso, bensì sapersi orientare concretamente nella vita.
La vita è un percorso. Risulta fondamentale saper discriminare ciò che è bene – ciò che fa bene alla nostra vita – da ciò che è male, cioè ciò che fa male prima di tutto alla nostra vita, ma anche alla vita comune. Facendo così ci muoviamo a vista e affrontiamo quello che accade per quello che accade. Così come accade, senza generalizzare.
In questa prospettiva il libro si presenta come il tentativo – davvero riuscito – di suggerire una serie di pratiche concrete che permettono quel muoversi a vista in questo processo senza cadere nella posizione idealistica di combattere il male con il bene.
Prima di inoltrarmi in alcune delle pratiche (ovviamente, molte altre le trovate nel libro) che Annarosa descrive, quello che emerge dal testo è una concezione assolutamente non dialettica tra bene concreto e male concreto. Non simmetrica. Per me questa è stata una chiave per capire la sua scommessa.
Se da un lato le pratiche del fare il bene e le pratiche di salvaguardarsi dal male vengono valorizzate per il loro essere dei suggerimenti per come comportarsi in contesto, dall’altro vengono inscritte in due mondi paralleli, senza nessun rapporto tra di loro. Senza dialettica reciproca.
Si può leggere questo libro come un diario di bordo, con un insieme di avvistamenti di scogli pericolosi, e proposta di azioni conseguenti.
Un primo scoglio pericoloso è individuato da Annarosa in quell’esperienza che Simone Weil chiama malheur e che in genere viene tradotta con sventura. Si tratta di quando ci capitano addosso degli eventi che tagliano le nostre radici, ci privano di energia, ci espropriano delle nostre possibilità. Rispetto al senso comune, lo spostamento di senso che Weil opera è che questi eventi esproprianti non sono il male. Capitano e dunque sono dell’ordine della necessità. Né bene né male in sé. Ma risultano invece pericolosi per le conseguenze che possono provocare negli esseri umani, che per salvarsi dal dolore di questa costrizione, attaccano gli altri, mettono in atto invidia, rancore. Sterili strategie a scapito altrui. Come i capponi di Renzo, nei Promessi sposi, che «si ingegnavano a beccarsi l’un l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura».
Saper distinguere l’evento espropriante dal dolore che se ne prova e dalle reazioni che allora quasi inconsapevolmente si mettono in atto per aggirare questo dolore è una pratica difficile, ma essenziale nella nostra vita.
Un secondo scoglio pericoloso è agire per fare il bene, avendo in mente il bene e non l’azione che si compie. La retorica del bene è vuota, mentre il bene si vede solo nell’azione efficace. Negli atti e non nelle intenzioni. Trovo molto giusta questa focalizzazione del bene visto nelle azioni concrete e solo lì coglibile. L’esempio è quello della parabola evangelica del Samaritano così come la interpreta Françoise Dolto. Il samaritano aiuta il viandante, ferito e spogliato sulla strada dai banditi. Lo affida a un albergatore dando dei soldi, perché abbia quello che serve. Poi se ne va. Non aspetta riconoscenza o altro. Non lo fa per fare il bene, ma perché vede la necessità dell’altro e si mette nei suoi panni: la prossima volta potrebbe capitare a lui su quella strada. Il bene non è nell’intenzione ma nell’azione. Ha a che fare con un agire necessario. Il samaritano si è immaginato al posto di un altro. Lo aiuta, ma senza perdere tempo oltre quello che occorre. Non devia dalla sua strada se non per poco. Il samaritano non aspetta gratitudine. Il debito simbolico che il viandante ha contratto nei suoi confronti può essere saldato facendo per un altro quello che il samaritano ha fatto per lui. Se e quando capiterà l’occasione. Questo significa per Dolto partecipare ad una corrente d’amore, che è cosa ben diversa dall’agire per il bene.
Questa dimensione pragmatica, che sta alla necessità, e ha attenzione al contesto in cui ci si muove è proposta da Annarosa anche rispetto a situazioni che avvertiamo scottanti. In realtà un vero e proprio nervo scoperto del nostro tempo. Che fare rispetto a coloro che intenzionalmente minacciano la nostra integrità, e che dunque rappresentano il male per noi singolarmente? Quale la pratica che lei suggerisce?
L’immagine ricorrente nel testo è ovviamente quella delle donne che subiscono violenza dai compagni, dai mariti, e che porta in troppi casi al femminicidio. A questo tema dedica molte pagine verso la fine del libro. Ma più in generale propone una pratica molto precisa che riguarda anche altri contesti come quello del lavoro. Comunque, dove accade che veniamo minacciate nella nostra integrità.
La pratica consiste in due passi che consistono nel sottrarsi a questa situazione materialmente, andandosene, e nel non cercare di comprendere l’altro che ci minaccia interiormente. Comprenderlo significherebbe infatti sviluppare un sentimento di compassione che in genere viene adoperato dall’altro per rilanciare la propria minaccia e non libera dal vincolo. In questi casi cercare di capire l’altro, mentre si è all’interno del vincolo, destruttura interiormente e allo stesso tempo rilancia dialetticamente la crudeltà dell’altro nella relazione vischiosa e mortifera.
È una pratica che sta molto a cuore ad Annarosa. Paradossalmente, chiedere il perché l’altro ci fa del male e cercare di capirlo ci consegna ancora di più alla violenza che egli agisce su di noi. Rinforza la sua minaccia.
Trovo molto saggia questa pratica che Annarosa suggerisce. Porto un esempio personale in cui ho fatto esattamente così. Riguarda il lavoro. All’università per un anno ho lavorato con un docente universitario. Lo sentivo minaccioso della mia vita interiore. Altri non lo percepivano in questo modo, dunque il vincolo era tra me e lui. Era molto obliquo. All’interno del lavoro universitario mi considerava una pedina da usare sulla scacchiera accademica. Pensava di adoperarmi come testa di ponte per distruggere i suoi nemici filosofi. Riguardo al mio stile di vita, insisteva che rientrassi in famiglia e facessi una vita “normale”. Appena ho potuto mi sono sottratta al rapporto di lavoro con lui. Senza scontrarmi ma anche senza cercare di capire questa dinamica. Senza cercare di comprendere la sua psicologia. Mi sono “messa in salvo”. Il senso dell’integrità di sé è molto più importante dell’aver ragione o dell’esprimere un giudizio morale. Poi, solo quando non c’è stato più nessun rapporto, ho cercato di capire, confrontandomi con altre persone, che avevano lavorato con lui. Quindi trovo sacrosanta la pratica che Annarosa descrive nel libro e su cui giustamente insiste molto.
Descrivo ora un altro piano del libro che si ferma sulle reazioni dell’animo umano sottoposto a organizzazioni del lavoro malate. Direi che conoscere, comprendere e pensare è anche un dono di Eva. Non si tratta dunque solo di proporre pratiche concrete, ma del piano della comprensione della realtà umana e le sue trasformazioni antropologiche. Annarosa prende come guida in questo allargamento al piano dell’organizzazione della società sia La banalità del male sul caso Eichmann di Hannah Arendt sia L’ingranaggio siamo noi di Christophe Dejours.
Mi sono occupata a lungo del meccanismo dell’organizzazione della governance tipico del neocapitalismo, perché l’ho visto imposto all’università, trasformandola, dal 2010 in poi.
È un meccanismo per cui ogni lavoratore è coinvolto nel governo dell’istituzione in cui lavora. Viene creata una ragnatela, per cui ognuno è responsabile di una commissione, risponde alla persona gerarchicamente superiore e ha la responsabilità di inferiori. Questo coinvolgimento di tutti fa sì che nessuno possa tenersi fuori dal governare quella piccola realtà, ma allo stesso tempo non si può contrattare il senso generale di quello che si sta facendo e delle finalità dell’organizzazione. Si è presi da un meccanismo le cui linee generali non possono essere discusse. Prima c’era chi governava un’istituzione e chi era governato. Invece ora tutti governano in legami capillari, improduttivi (le commissioni), per cui scompare alla vista chi governa davvero. L’ideologia della trasparenza significa che tutto quello che si fa deve essere mostrato. Ma non viene mostrato chi davvero prende le decisioni. Il sentimento indotto è quello di essere sempre responsabili, con il peso che questo implica, e a fronte dell’effettiva sterilità di tanto lavoro trasparente, perché presto ci si rende conto che le cose avvengono altrove. Tutto questo fa ammalare gli animi.
Annarosa riprende la figura di Eichmann descritta da Arendt e dà delle chiavi di lettura per capire la realtà organizzativa che ho appena descritta. Innanzitutto il fatto che Eichmann era preso da grandi emozioni e non ricordava gli eventi concreti. Mentre ritornare alla storia di una organizzazione del lavoro, alla sua genesi, getta luce su come ne siamo stati coinvolti. Inoltre Eichmann mancava totalmente di empatia. Si rivolgeva ai giudici israeliani che aveva di fronte pensando di portarli dalla sua parte dicendo che anche loro come lui avevano cercato di fare carriera se ora occupavano quel posto. Senza tener conto che era accusato di aver organizzato lo sterminio di milioni di ebrei. Come ebrei erano quei giudici. La mancanza di empatia nelle organizzazioni impedisce di valorizzare i legami sostanziali, autentici, rispetto a quelli formali imposti. Eichmann agiva in modo contraddittorio senza assolutamente rendersene conto. Diceva di essere amico degli ebrei. Ma aveva organizzato alla perfezione i treni verso i campi per il loro sterminio. Le due realtà in lui non stridevano. Nei comportamenti che ho notato nella governance diffuso è il passaggio da una posizione a un’altra senza dover pensare, cioè senza giustificare il passaggio di fronte a sé stessi e agli altri.
Mentre Arendt dice: Eichmann mancava di spazio politico e di pensiero, Annarosa invece dice di lui: mancava di attenzione alla realtà, l’unica forma di bene in atto che possiamo riconoscere.
Su questo arrivo al punto essenziale del libro che si trova nelle pagine dedicate da Annarosa a Iris Murdoch. Il vero bene è l’attenzione alla realtà, il che implica empatia. Attenzione alla realtà è anche accettare le contraddizioni che si vivono, senza nasconderle prima di tutto a sé stessi. E senza coprire l’esperienza vivente con parole finte.
Anche l’attenzione alla realtà è una vera e propria pratica, rimanendo quello delle pratiche il filo conduttore che ho trovato nel libro di Annarosa.
(www.libreriadelledonne.it, 20 dicembre 2023)
di Umberto Varischio
Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».
Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.
Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).
Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».
Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».
Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».
In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».
La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».
I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.
Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».
Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».
Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».
(www.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2023)
di Marina Terragni
Ammesso che ce ne fosse bisogno, all’on. Maria Rachele Ruiu di ProVita ho detto con la massima franchezza che obbligare la donna intenzionata ad abortire di ascoltare il battito del cuore del feto non è una proposta ammissibile. Si tratta di un’idea insensata, sadica, punitiva e probabilmente incostituzionale che avrebbe probabilmente come unico effetto quello di incentivare l’aborto clandestino. Forse la proposta non andrà mai in discussione e resterà mera propaganda. Cattiva propaganda però.
Ancora una volta nel mirino ci sono le donne, ferocemente colpevolizzate. Vero che in materia di procreazione l’ultima parola non può che spettare a loro, a meno di non pensare di poterle obbligare a condurre la gravidanza con qualche mezzo di contenzione (tenerle in cella? legarle al letto fino al parto?). Vero però anche che sono molti i fattori esterni che pesano nella decisione di abortire, primo fra questi fattori la posizione dell’uomo con cui la donna ha concepito.
Quando si parla di aborto invece gli uomini scompaiono regolarmente dalla scena, così come spesso scompaiono dalla vita delle donne. Ma a una rilevazione empirica probabilmente scopriremmo che forse nella metà dei casi, probabilmente di più, le donne abortiscono perché non hanno accanto un uomo intenzionato a diventare padre e non possono permettersi di crescere un bambino da sole. La gran parte degli uomini ha un’idea di comodo dell’aborto: giusto un piccolo intervento, un fastidio che evita ben altri guai. La RU486 – pillola abortiva – ha rafforzato questa convinzione: si butta giù come un antinfiammatorio e la gravidanza magicamente sparisce. Ma gli uomini non vengono mai tirati in mezzo. Nemmeno dai ProVita.
«Per il piacere di chi sto abortendo?» si è chiesta Carla Lonzi.
Una donna che si ritrova costretta a interrompere la gravidanza a causa dell’irresponsabilità procreativa di un uomo sta subendo una violenza. È una violenza di cui non si parla mai, che viene sottaciuta anche dalle donne e non compare mai nel multiforme novero delle violenze maschili. Ma è ora che questo silenzio venga rotto, anche e non solo dal fronte pro-life.
Che il numero degli aborti diminuisca è un obiettivo condivisibile: meno dolore c’è e meglio è. Ma combattere per questo obiettivo non può significare combattere contro le donne. Ogni mossa in questa direzione va piuttosto intesa come supporto e vicinanza alle donne e non come giudizio e punizione: in questa chiave va letto il buon lavoro del Centro di Aiuto alla Vita milanese di Paola Bonzi, apprezzato perfino dagli avversari politici, perfino dai radicali che videro con favore l’attribuzione dell’Ambrogino d’Oro.
È ora quindi che questa violenza maschile misconosciuta venga nominata. Compresa la violenza economica: a parità di mansioni una donna continua a guadagnare meno di un uomo, in media 8.000 euro annui nel settore privato, per non parlare delle interruzioni di carriera fino alla perdita del lavoro. Anche questo rende molto difficile farcela da sole e tenersi il bambino, se lo si vuole.
Per essere credibili nel lavoro politico sull’aborto queste violenze vanno nominate.
(Feministpost, 19 dicembre 2023)
di Ilaria Gaspari
A cinquant’anni dall’incidente in cui la poetessa perse la vita, il ricordo del fratello minore. La risalita dopo la rottura con Max Frisch. «Era rigorosa, severa. Le interviste la mettevano a disagio, ma ne ho ascoltata una in italiano e sembrava meno timida»
Nell’autunno del 1973, cinquant’anni fa, Ingeborg Bachmann moriva in una stanza asettica del reparto Grandi ustionati all’ospedale romano di Sant’Eugenio, per le conseguenze del rogo accidentale innescato dalla brace di una sigaretta. Aveva quarantasette anni e da venti, con varie interruzioni, abitava a Roma: aveva traslocato molte volte, spostandosi dal centro ai Parioli, dove visse per qualche tempo con lo scrittore Max Frisch, poi di nuovo in centro. Alla sua morte, Heinrich Böll dichiarò di «pensare a lei come a una ragazza»: parole che Heinz Bachmann, il fratello di tredici anni più giovane, che Ingeborg adorava, riprende nel libro di ricordi che le ha dedicato (Ingeborg Bachmann, meine Schwester), pubblicato da Piper, storico editore delle opere di lei. Heinz, geologo, ha viaggiato in tutto il mondo e oggi vive a Oxford con la moglie Sheila – c’è nel libro una foto del loro matrimonio, nell’agosto del ’71 a Paddington, in cui sorridono insieme a Ingeborg splendenti di felicità.
Noi che amiamo l’opera di sua sorella, non possiamo che esserle grati per averci donato questo ritratto affettuoso.
«Mi fa molto piacere. Forse, mi dico, ho fatto la cosa giusta. Sa, non è stato facile scriverlo, io sono uno scienziato e ho uno stile… da scienziato. Ho cominciato con l’idea di dover essere obiettivo al massimo. Lette le prime pagine, dalla casa editrice mi hanno fatto notare che doveva essere invece il racconto di un’esperienza molto personale. Ho dovuto cambiare completamente stile. Ma ci tenevo a scrivere qualcosa che potesse trasmettere un’immagine completa di mia sorella, raccontarla com’era quando non stava sotto gli occhi del mondo. Era molto nota: in Austria era una celebrità. Non poteva uscire senza essere riconosciuta. Pensi che all’epoca le persone mi fermavano…».
In quanto fratello di Ingeborg?
«Sì! Ora magari non si direbbe, perché sono un vecchio signore. Ma da ragazzo, la nostra somiglianza era così evidente che spesso le persone, incontrandomi la prima volta, mi dicevano: “Oh! tu devi essere il fratello”».
Nelle fotografie della giovinezza vi somigliate molto. È vero che non sappiamo che viso avrebbe avuto lei, se fosse vissuta fino a poter invecchiare… Negli anni, in assenza di Ingeborg, è cambiato il suo modo di leggerla?
«Per me è sempre stato molto importante non solo leggerla, ma cercare di comprendere il suo sforzo di trasmettere le sue idee in un modo nuovo. Negli anni ’50 e ’60 si distingueva davvero, si era inventata un suo stile. Sono cresciuto con le sue parole, che hanno contribuito a modellare il mio pensiero. Ora, più li rileggo, più i suoi testi, che mi hanno reso quello che sono, continuano a rivelarmi aspetti – di lei, di me – che non avevo ancora compreso».
Nel 1962, andò a trovarla a Roma e le scattò una serie di fotografie bellissime che spesso compaiono sulle copertine dei suoi libri. Immaginava che sarebbero diventate così celebri?
«Come fotografo ero un principiante assoluto, e a dirla tutta non è che poi abbia fatto grandi progressi. Ma ho scattato quelle foto con amore. È raro che su oltre settanta scatti la maggior parte sia quasi perfetta. Capita che il soggetto chiuda gli occhi, ad esempio, per una frazione di secondo. Invece sono venute quasi tutte bene. Lei era felice che l’esperimento fosse riuscito, io anche: non ho mai fatto foto tanto belle in vita mia, né prima né dopo. Un colpo di fortuna. Comunque, oltre alla serie scattata da me, rimangono tante fotografie di lei. Nell’archivio Frisch c’è una foto di loro due insieme sulla terrazza di via De’ Notaris [dove vissero insieme, ndr], scattata da Mario Dondero, in cui lei porta un vestito con la gonna a losanghe: ne abbiamo ritrovata un’altra di lei sorridente con lo stesso vestito, sembra proprio una ragazza. È la foto a cui penso quando penso a lei».
Qual era il tratto principale della sua personalità?
«Parecchie persone sono convinte che fosse molto seria, quasi severa. In realtà, anche se certo pensava con una logica limpida, rigorosa, era soprattutto divertente. Amava raccontarci piccole storie buffe. Persino dopo la rottura con Max Frisch… È vero, ha vissuto un periodo cupo, ha sofferto. Ma man mano che si riprendeva dallo shock, i suoi tratti più felici sono riapparsi. Per noi vederla rifiorire è stato bellissimo. Parlo per me e per Isolde, la sorella di mezzo».
Isolde e Ingeborg avevano solo pochi anni di differenza.
«Isolde è in vacanza in Grecia. Ha 95 anni. Viaggia da sola, è molto in forma».
Nell’autunno ’73, mentre Ingeborg era ricoverata al Sant’Eugenio, il marito di Isolde, Franz, morì in un incidente stradale, lasciandola sola con sei bimbi…
«Una coincidenza tremenda. Per molti anni non sono riuscito a parlare di quel periodo. Oltretutto si era diffuso il sospetto che mia sorella fosse stata uccisa: era completamente assurdo, ma è una cosa che succede, quando muoiono persone famose. Si spargono le voci più incredibili. E accadeva anche prima dei social media».
A proposito: sua sorella era felice di essere famosa? In molti filmati sembra timida.
«Era timida. Le interviste la mettevano a disagio, e credo che la sua reputazione di persona molto seria sia nata anche da questo. Intellettualmente, come dicevo, era seria, sì: ma nella vita di tutti i giorni veniva fuori la sua personalità buffa, aperta. Recentemente ho ritrovato un’intervista in cui parla in italiano. È così diversa rispetto a quelle in tedesco! Sembra molto più felice, a suo agio, spumeggiante».
Ci sono registrazioni in cui legge poesie in un bellissimo italiano: aveva tradotto Ungaretti, era ormai la sua seconda lingua. E nel documentario-intervista girato da Gerda Haller nella sua ultima estate, ride molto. Ha visto il film che le ha dedicato Margarethe von Trotta, Viaggio nel deserto?
«Prima di iniziare la lavorazione la regista mi ha voluto incontrare, abbiamo parlato a lungo. Quando ho visto il film, sono rimasto affascinato. Mostra i suoi due lati. La sua attitudine alla felicità. E la malinconia».
Vicky Krieps, l’attrice che l’interpreta, mi è parsa molto convincente. Ma non so che effetto possa aver fatto a lei…
«Incredibile. È stato sconvolgente. Il modo di muoversi, la postura… la voce. Mi è sembrato di sentire mia sorella».
Nel film, Ingeborg appare molto sola in un mondo intellettuale ancora dominato dagli uomini.
«Sì. C’è una scena in cui fa un discorso davanti a una platea di soli uomini, anziani, austeri. Mi ha fatto ripensare a una lettera che ci aveva spedito a casa – ce ne mandava di molto divertenti. Diceva: “Sono sempre insieme a questi uomini, a parlare con loro di cose serie, e intanto le loro mogli se ne stanno lì sedute a bere il caffè”».
È stata una pioniera: una poetessa, donna, sulla copertina dello Spiegel nel ’54. Ma nella vita non è stata sola: ha avuto molte amiche. Volevo chiederle di Maria Teofili, che a Roma per anni l’ha aiutata a gestire le faccende pratiche. Era una buona amica, credo…
«Molto. È morta qualche anno fa. L’ho incontrata diverse volte quando sono stato a trovare mia sorella a Roma. E ci ha dato una mano anche all’epoca dell’incidente: quando abbiamo dovuto liberare l’appartamento di Palazzo Sacchetti, con Sheila, lei era lì ad aiutarci. La comunicazione era un po’ difficile, perché io non parlavo italiano. Ma so quanto è stata importante per Ingeborg».
Ho incontrato varie persone che l’avevano conosciuta, come Ginevra Bompiani, Moshe Kahn… ma anche chi l’ha amata attraverso la sua opera. Ogni volta ho la sensazione di un legame speciale, affettuoso. Credo che sia dovuto al fatto che la sua scrittura è toccante in un modo che non può lasciare indifferenti. Capita anche a lei di avere questa percezione?
«Mi piacerebbe che chi la legge potesse comprendere quanto fosse straordinaria non solo sul piano intellettuale, ma anche umano. Non era una persona astratta, era una donna gentile. Chi l’ha conosciuta lo ricorda, solo che il tempo passa e sono sempre meno le persone che hanno avuto l’occasione di frequentarla. Ma spero che la sua immagine viva per sempre».
(Corriere della sera, 18 dicembre 2023)
di Alessandra Sarchi
Mi è capitato qualche settimana fa di rivedere La ragazza con la pistola, il film con cui Mario Monicelli diede la possibilità a Monica Vitti di esprimere il suo talento comico, da protagonista assoluta di una commedia sceneggiata da Rodolfo Sonego e Luigi Magni. Il film uscì nel 1968 e venne accolto in maniera tiepida dalla critica; se andate a vedere nel Morandini tuttora trovate un giudizio non entusiasta: macchiettistico, caricaturale, non del tutto riuscito. Eppure a me che lo scoprii da adolescente piacque moltissimo e anche ora, che sono una signora di mezza età, mi ha fatto lo stesso effetto.
Ricordo di aver visto il film di Monicelli e alcuni di Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) insieme a mia cugina, eravamo a metà degli anni ‘80, in quella che poi sarebbe stata chiamata l’epoca del riflusso e del disimpegno, e per noi due ragazzette, sebbene ignoranti della faticosa acquisizione di diritti da parte delle donne dal dopoguerra in poi, era chiaro di avere davanti una visione nuova del rapporto fra i sessi, che metteva in luce con la parodia i cliché maschilisti da cui eravamo ancora circondate.
Alcune scene e alcune frasi entrarono nel nostro lessico privato, un modo per dirci che avevamo capito ciò per cui bisognava lottare, ma anche un modo per spezzare la retorica romanticheggiante e sentimentale che, nella cultura media, ricamava un pathos insopportabile anche in quelle storie in cui era evidente che la cosa migliore per una ragazza era tagliare i ponti e cambiare strada. E infatti, in quegli stessi anni, Cyndi Lauper cantava “Girls just want to have fun”.
All’epoca non sapevamo che La ragazza con la pistola era anche una rielaborazione in chiave di commedia di un fatto di cronaca: il rapimento e la violenza subita nel 1965 da una giovane siciliana, Franca Viola, che poi aveva rifiutato fermamente il matrimonio riparatore; né che il film di Monicelli era pure in dialogo con la trilogia di Pietro Germi: Divorzio all’italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e signori (1966) e con l’indagine sulla femminilità condotta da Antonio Pietrangeli, in film come Adua e le compagne (1960) e Io la conoscevo bene (1965).
In qualche modo tuttavia, sebbene ci separasse un mondo dalla Sicilia rurale, ci identificavamo in Assunta Patané, una strepitosa Monica Vitti, rapita con la forza da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré) un coetaneo con cui scambiava sguardi eloquenti, ancorché furtivi. Nonostante il rapimento [avviso: molti spoiler a seguire], nonostante sappia che perdere la verginità significa perdere la rispettabilità sociale e cadere nell’abisso delle svergognate, Assunta consuma un’infuocata notte d’amore con Vincenzo che la mattina dopo scompare. Obbligata a vendicare l’infamia, con una pistola nella borsetta e seicento lire che la madre le infila nel petto, Assunta parte dalla Sicilia per l’Inghilterra dove Vincenzo è fuggito.
Vestita di nero, con una treccia che arriva fino al sedere, capace di esprimersi a malapena in dialetto siculo, Assunta arriva nella Londra effervescente della fine degli anni ’60 e da lì iniziano per lei una serie di avventure che la portano a scoprire non solo un mondo profondamente diverso da quello dal quale proveniva, ma anche la possibilità di rapporti fra uomo e donna non per forza finalizzati al sesso o al matrimonio. Ma il modello precedente continua ad agire: per questo ha un incubo ricorrente: tornare al paese non vendicata davanti a una schiera di donne e uomini in nero le gridano «buttana, buttana».
Fatta la tara all’andamento talora bozzettistico, tipico peraltro della commedia all’italiana, e alla tendenza caricaturale di certi personaggi, il film di Monicelli è piuttosto innovativo per lo spazio che riserva a una protagonista donna e per come ne rappresenta l’intraprendenza. Innanzitutto Assunta, in apparenza imbottita di cultura patriarcale quanto i maschi che la circondano, si comporta in modo da rompere lo schema della donna che resiste, o subisce passivamente, l’atto sessuale. Con una gag che si ripeterà alla fine, nel loro secondo e ultimo incontro amoroso, Assunta finge di respingere Vincenzo – «Fredda come il marmo sono. Non sento niente» – ma in realtà è parte attiva, perfino esagerata nell’impeto degli abbracci e dei toccamenti, tanto che Vincenzo subito sospetta che abbia conosciuto altri uomini prima di lui e si spaventa di tanta foga.
«Incatenata a te voglio essere» gli dice Assunta quando lui, alla fine, le chiede di sposarla e di smettere di lavorare e uscire liberamente con gli amici, ed è proprio questa affermazione estrema che sottolinea e rivela la cultura del dominio e del possesso che sottende ogni gesto, ogni parola di Vincenzo. Una cultura che Assunta saluta per sempre con un bye bye dal traghetto che la porta all’isola di Jersey, mentre Vincenzo sulla banchina del molo impreca: «Buttana eri e buttana sei rimasta».
Ricordo di aver riso moltissimo a sentire Monica Vitti dire: «Fredda come marmo sono» mentre si avvinghiava a Carlo Giuffré nelle due scene che sono comiche e parodiche al tempo stesso. Divenne un modo di dire fra me e mia cugina, e capisco perché ridevamo tanto, e rido tuttora: perché siamo davanti a un classico esempio di umorismo in cui ciò che viene negato a parole si realizza nei fatti, e soprattutto perché Monica-Assunta agisce il proprio desiderio, non è (solo) preda di un uomo, ma lo vuole attivamente, e se lo prende.
L’emancipazione di Assunta progredisce nel corso del film, e il regista lo sottolinea anche con gli abiti e i colori che la sua protagonista indossa; vestita di nero, castigata o a lutto all’inizio, con quella interminabile treccia che sembra la lunga catena di stereotipi sessisti cui è legata, diventa sempre più disinvolta nell’indossare camicie colorate, minigonne e foulard sgargianti. Eppure, e in questo sta l’originalità del punto di vista adottato da sceneggiatore e regista, Assunta è fin dall’inizio una donna che si ribella al ruolo di vittima e di sottomessa.
La scelta stessa di farle compiere un viaggio in un paese straniero, da sola, armata di una pistola, senza nessun appoggio, è di per sé rivoluzionaria: sono pochissime le narrazioni in cui una donna affronta da sola il vasto mondo e, anche se declinate sul registro picaresco, le avventure di Assunta la portano a diventare una persona più aperta, meno succube del costume sociale dentro cui è cresciuta e soprattutto pienamente legittimata da sé stessa nel disegnare la propria vita. Moll Flanders di Daniel Defoe è forse una sua lontana antenata, ma senza il filtro del puritanesimo.
D’altra parte, mentre Moll Flanders si macchia di crimini rilevanti, Assunta Patanè più banalmente sbaglia mira e ferisce alle gambe l’amante di Vincenzo, ma è proprio in merito alla violenza e all’idea di possesso nella relazione amorosa che Assunta compie una grande svolta: va a manifestare con i pacifisti contro la guerra in Vietnam e dichiara di aver chiuso con la violenza. Ammazzare Vincenzo non le interessa più. Questo passaggio è di grande importanza perché incrocia due realtà apparentemente separate: il codice di onore con cui Assunta era cresciuta e la violenza della guerra; a questa legge maschile di aggressione Assunta dice no.
Infine, Assunta Patanè è soprattutto una donna moderna nel senso che vuole autodeterminarsi; è mossa da bisogni e desideri simili ai nostri, primo fra tutti quello di tenere le redini della propria vita e di non cedere più all’asimmetria* nei rapporti con l’altro sesso.
Viceversa, la figura di Vincenzo è grottesca: quale uomo vorrebbe sentirsi vicino a questo fantoccio di virilità che crede di essere un tombeur de femmes mentre è solo un rozzo e manesco che vagheggia una moglie zitta e sottomessa mentre passa da un’avventura all’altra? La figura di Vincenzo è così poco attraente che è facile non empatizzare con lui, liquidandolo come un sessista con tutti i peggiori luoghi comuni del meridionale, eppure piace ad Assunta e probabilmente in qualche fase della vita sarebbe piaciuto a molte altre donne.
Perché allora questa commedia, che ha tutti gli ingredienti e la relativa complessità di punti di vista, non si annovera fra i film che hanno cambiato il modo di pensare i rapporti fra i sessi, l’emancipazione femminile, e il contesto di violenza in cui ciò è avvenuto, e purtroppo avviene ancora, nel nostro paese? Ho continuato a pormi questa domanda nei giorni terribili in cui si scopriva la morte di Giulia Cecchettin, ennesima e non ultima donna uccisa da un uomo, l’ex fidanzato.
Ripensandoci e facendo un paragone tra il film di Monicelli e i film della Wertmüller che vidi da giovane nello stesso periodo, una ragione può stare proprio nel fatto che l’elaborazione della violenza attribuita ad Assunta finisce da un lato per esonerare la controparte maschile dal fare altrettanto, dall’altro in un certo senso stilizza la violenza, la derubrica a fatto di cui si può ridere. Ben altra è la sua rappresentazione nei film di Wertmüller: botte e umiliazioni viste da una donna rimangono tali e violentissime, anche se nel corso del film si ride. Come si ride o sorride, ma si soffre anche per le vessazioni, nel recentissimo film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, dove di nuovo la posta in gioco per la protagonista è l’autodeterminazione.
Sono consapevole che non è un libro, non è un film o una pièce teatrale che possono cambiare dinamiche di potere nelle relazioni umane così radicate e cristallizzate in assunti verbali, simbolici, di costume da risultare indiscussi, come la supremazia maschile sulle donne. Eppure la modesta fortuna di La ragazza con la pistola fa parte del problema: nei modi leggeri della commedia e nel regime discorsivo doppio che l’ironia implica, va oltre il ritratto di costume, va oltre i vari cliché che rappresenta in scena, e pone una questione fondamentale: la violenza e il suo inestricabile legame con la cultura patriarcale. Solo che rimane una domanda di cui sono le donne a farsi carico, non gli uomini.
Assunta da vendicatrice armata si trasforma in pacifista convinta, e quando tira fuori la pistola davanti a Vincenzo è solo per dirgli che è scarica. Rinuncia alla vendetta e all’uccisione, elabora la propria vicenda e va oltre. Mi piacerebbe trovare nel cinema un corrispettivo al maschile di questa rinuncia, ci ho pensato e non l’ho trovato, può darsi che esista e che io non lo conosca, ma in generale mi sembra che a mancare nei discorsi sulla violenza sia una presa di posizione da parte maschile, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. È dai tempi di Aristofane e della sua commedia Lisistrata, che metteva in scena lo sciopero del sesso delle donne ateniesi per far cessare la guerra del Peloponneso, che la riflessione sulla violenza e sulla guerra viene affidata alle donne, è ora che gli uomini s’interroghino sulla loro parte, che lo facciano con le parole e con le azioni.
(Il Post, 18 dicembre 2023)
(*) Assunta Patané non mette in questione l’asimmetria tra i sessi, ma l’assunzione che “asimmetria” significhi “sottomissione”. (La redazione del sito)
Nota sull’autrice
Alessandra Sarchi
Nata a Reggio Emilia nel 1971 ha esordito nel 2008 con i racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore). Ha pubblicato quattro romanzi con Einaudi: Violazione (2012), L’amore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020); del 2022 sono i racconti Via da qui (Minimum Fax). È autrice di La felicità delle immagini il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati (Bompiani 2019) e del podcast Vive! Storie di eroine che si ribellano al loro tragico destino, interpretato insieme a Federica Fracassi, divenuto poi un libro pubblicato nel 2023 da HarperCollin
di Franca Fortunato
Quando nasce una bambina o un bambino è la vita che viene al mondo grazie al Sì di una donna, come la ragazzina di nome Maria che secoli fa in Palestina, a Nazareth, acconsentì alla venuta del bambino divino che nacque povero in una stalla, al freddo e al gelo, riscaldato da un bue e da un asinello, visitato dai pastori, accorsi a adorarlo, e dai Re Magi, venuti da lontano per portare oro incenso e mirra. È così che da duemila anni a ogni Natale si rinnova quell’evento inaudito, non con l’albero o i regali di Babbo Natale, ma col presepe, almeno per la mia generazione, dove si aspetta la notte di Natale per deporre nella grotta il bambinello Gesù. Ogni anno mi chiedo dove stia nel nostro tempo il senso del Natale che è vita, speranza, amore che ogni nascita porta con sé. Quest’anno Maria in Terra Santa non riuscirà a salvare la sua creatura dalla strage degli innocenti che si sta consumando a Gaza. Ogni volta che muore una/un bambina/o si fa buio, e quando sono migliaia e migliaia a morire, come a Gaza e in tutte le guerre, le tenebre della notte avvolgono l’umanità. A Gaza, bambine/i lasciati senza cibo, senza acqua, senza farmaci, muoiono sotto i bombardamenti israeliani (18.000 i morti, un terzo bambine/i). Neonate/i, abbandonate/i negli ospedali, prima di essere bombardati, muoiono nelle incubatrici per mancanza di elettricità. Ospedali, case, scuole, biblioteche, siti storici e archeologici, campi profughi, tutto distrutto e raso al suolo con la stessa furia con cui Tito, l’imperatore romano del III secolo d.C., entrato a Gerusalemme assediata, distrusse il Tempio e costrinse gli ebrei alla diaspora. Oggi Tito sono gli israeliani che con l’esercito più potente del mondo hanno assediato e invaso Gaza e la stanno radendo al suolo, spingendo i palestinesi fuori dalla loro terra. A Gaza non c’è una mangiatoia dove trovare riparo dai bombardamenti ma solo “poveri cristi”, che aspettano di morire. «Ora non ci resta che aspettare la morte: che sia dagli aerei, o per fame o per malattia», scrive nel suo diario da Gaza sud Aya Ashour (Il Fatto Quotidiano, 12/12/2023). Questo non è “diritto alla difesa” ma vendetta, ritorsione, terrorismo, genocidio come risposta all’attacco terroristico di Hamas. Ripulire Gaza dai palestinesi, dagli arabi come li chiamano i sionisti nazionalisti perché per loro la Palestina non esiste, non è mai esistita e non esisterà, è la strategia che Netanyahu e il suo governo stanno perseguendo come anche i coloni da anni nella Cisgiordania occupata. Coloni che, come riporta nei suoi reportage su La Stampa Francesca Mannocchi, pensano che oggi, dopo la Nakba (catastrofe) del 1948, sia arrivato il momento di portare a termine il sogno di quel gruppo di giovani sionisti che nel 1882 scappò dai pogrom dello zar di Russia ed emigrò in Palestina per conquistarla e colonizzarla e «farne un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati in Europa». «Un solo Stato per un solo popolo», è questo, da sempre, il progetto dei coloni e dei sionisti nazionalisti, oggi al potere in Israele. «Uno Stato che si chiami Palestina – dicono i coloni di Cisgiordania – non è realizzabile. Gli ebrei hanno diritto ad avere uno Stato e averlo da soli. Ci sono tanti Stati arabi, dove i palestinesi possono essere dislocati». «La speranza di una convivenza non è più possibile e dovete prenderne atto come ne abbiamo preso atto noi. Non si tratta più di discutere la pace […], si tratta di accettare la fine di una impossibile coesistenza. Prima lo fate, prima possiamo vivere nel nostro Stato, perché non abbiamo un altro posto dove stare, a differenza degli arabi». Non cercate il Natale dove c’è guerra, odio e violenza. Non cercatolo a Gaza. Non lo troverete.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 16 dicembre 2023)
di Federica Iezzi
All’arrivo nella piccola stazione di Przemyśl, lungo il confine tra Polonia e Ucraina, ci aspetta un tè bollente. È nel “punto di accoglienza”, un angolino dedicato ai rifugiati ucraini che resiste fin dall’inizio del conflitto. È ancora buio. Le lunghe file davanti al binario 5 sono quelle dei passeggeri appena scesi dal treno proveniente da Kiev, che iniziano l’infinita trafila legata alle procedure di immigrazione.
Ma c’è anche chi torna indietro e aspetta l’orario di partenza del treno diretto a casa. Chi fugge in genere ha lo sguardo della paura, chi rientra quello della speranza. «Perché torni, Daryna?» chiediamo. «Perché devo aiutare le persone a casa. È meglio stare insieme», ci risponde, appesantita dal pensiero che la occupa. La guardiamo mentre si allontana tra il vapore bianco che si leva nell’aria e il suo zaino sulle spalle.
Nel freddo che ti trapassa le ossa e non ti lascia la capacità di pensare, file di persone e valigie tornano a casa. Tra gli alberi rimasti si guarda il quadrato di cielo fitto di stelle, nuvole alte e una luna quasi piena.
L’Ucraina resta sotto i bombardamenti, gli abitanti vivono nell’incertezza e nel terrore. Non esiste alcun collegamento aereo con il mondo esterno e nei Paesi vicini si può andare solo in autobus, in treno o in macchina. Ma chi sta fuori vuole rientrare.
Cosa attende chi torna in Ucraina?
Dita che si muovono come antenne di insetti, cercano l’app del meteo sul cellulare che segna -4°C. Il freddo si poggia senza pietà sul viso e ti accompagna fino a che non si sale sui vagoni riscaldati. Presto una voce metallica annuncia la partenza verso Kiev. E i bambini iniziano a correre dentro il treno come se fossero nel parco giochi.
C’è chi porta con sé sacchetti di plastica con il pane dentro. Chi si toglie strati di vestiti. Chi cambia il pannolino ai figli. Chi tiene in braccio il proprio gatto. E chi si aggrappa alle finestre dei corridoi, osservando distrattamente il paesaggio straniero che scorre come in un film.
Inizia il viaggio verso Kiev. Nella brulicante stazione di Ternopil’ sale Olena, con il suo bambino ancora nella pancia. Mentre fuori la neve imbianca i campi brulli, ci racconta che a Ternopil’ ci sono ancora tanti sfollati interni provenienti dall’est. Ha un maglione fucsia, un trucco appena accennato dello stesso colore della maglia e non sposta mai la mano dalla pancia. La guerra non le ha fatto perdere la sua bellezza di mamma.
«Ho una figlia di diciannove anni che sta combattendo a Avdiïvka – ci dice con gli occhi di un’anima annegata – Abbiamo una vita che non ci permettono di vivere». Le donne sono parte integrante delle forze armate ucraine. Ce ne sono 42.000 e 5.000 di loro oggi sono schierate sulle più attive linee del fronte: a Kupyans’k, Avdiïvka, Orichiv e Cherson.
È difficile raccontare i suoni che cercano di strappare il palcoscenico al silenzio, ma nel corridoio del treno corre una bambina bionda con un gioco musicale. È una musica mai sentita. È un suono che non si dimentica.
L’ultima fermata del treno è quella di Kiev. Fino all’estate scorsa chi arrivava veniva accolto da un paesaggio spettrale di case sbarrate e cortili ricoperti di alberi. Nessuno sui marciapiedi. Nulla è cambiato fuori. Gli ucraini continuano a morire. Uno degli eserciti più grandi del mondo continua a bombardare. A cambiare oggi sono le domande. Quanto pericolo sono disposto ad accettare? Qual è la cosa migliore per la mia famiglia?
«Non esiste un posto sicuro in Ucraina. È difficile descrivere cosa c’è di così speciale nella parola casa. È dove tutto ti è familiare, dove conosci le persone», ci dice Olena, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, più di 5,5 milioni di ucraini sono tornati a casa, e non solo nelle grandi città come Kiev o Dnipro, ma anche in piccoli centri, compresi quelli a ridosso delle linee del fronte. I mercati al coperto riprendono vita dentro una città innevata. Scaffali pieni di pacchetti decorati attirano l’attenzione dei passanti che fanno video per TikTok.
I russi hanno fatto a pezzi Bachmut, si sono avvicinati ad Avdiïvka e hanno raso al suolo piccole città sconosciute, che non sono nemmeno più sulle cartine. Ovunque si sentono costantemente colpi sordi, lo stesso rumore di una porta che si chiude. La paura è diminuita al suono delle sirene antiaeree. Olena ci racconta che vive in un edificio moderno, ma che non ha il gas per cucinare. Ha comprato un fornello da campeggio così può cucinare quando manca la corrente elettrica. Aggira i blackout, assicurandosi di caricare il suo computer e il telefono quando ha l’elettricità.
E mentre il freddo invernale non dà tregua al Paese, crescono le preoccupazioni che la Russia possa riprendere gli attacchi su larga scala a una già fragile rete elettrica, ripetendo la medesima tattica utilizzata nel 2022. Dunque, invece di inviare smisurate colonne di carri armati, come ha fatto inizialmente, la Russia oggi si sposta a un ritmo glaciale lungo le 1.600 miglia delle linee di forza, combattendo di fatto una guerra d’attrito.
«Il mio bambino nascerà a Kiev», ci saluta così Olena.
(Il manifesto, 14 dicembre 2023)
di Antonella Mariani
Lo scandalo già emerso nel 2015 si arricchisce delle testimonianze delle donne, raccolte in un podcast d’inchiesta. Le giovani incinte non sposate venivano accolte in case religiose
“Figlie della Chiesa” (Kinderen van de Kerk in fiammingo) è il podcast pubblicato dal sito hln.be (Het Laatste Nieuws) che in queste ore sta facendo discutere il Belgio. Vi si rivelano, attraverso testimonianze dirette, i contorni di uno scandalo che era già esploso nel 2015, costringendo il Parlamento fiammingo a presentare le sue scuse «per la reazione tardiva delle autorità alla segnalazione delle adozioni forzate», e che riguarda trentamila neonati tolti alle madri e dati in adozione, con la complicità di religiosi e religiose. I fatti si sono svolti tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e – incredibilmente – gli anni Ottanta: giovani donne non sposate, incinte, venivano accolte in casa famiglie, dove svolgevano lavori e anche – è l’accusa – sottoposte talvolta ad abusi. Al momento del parto, venivano sottoposte ad anestesia generale e al risveglio non vedevano più i propri figli. È ciò che racconta all’emittente Rtl, ad esempio, una donna che nel 1982 aveva ventitré anni, era stata mandata, incinta e non sposata, in una casa di accoglienza a Tamar, diretta da religiose. Trasferita in ospedale per il parto, le fu praticato un cesareo e non vide mai la sua bambina. La donna, Cyrilla, dice anche di essere stata sterilizzata durante l’intervento. La figlia di Cyrilla, scrive Rtl, è stata venduta per 100.000 franchi.
Le famiglie adottive, sostiene il podcast, pagavano il servizio una somma tra i 10.000 e i 30.000 franchi belgi. Il confine tra pagamento e donazione, in questo caso, potrebbe essere sottile, ma quel che è certo è che la Chiesa belga non intende sottrarsi alle sue responsabilità.
Il sito della Conferenza episcopale belga, cathobel.be, spiega che i vescovi hanno presentato le loro scuse alle vittime, riconoscendo «la sofferenza che un grande numero di madri biologiche e di bambini adottati hanno dovuto sopportare».
Il portavoce dei vescovi, padre Tommy Scholtes all’emittente Rtl ha aggiunto che si vuole «perseguire la verità in modo indipendente». Concretamente, scrive ancora il sito ufficiale cathobel.be, ciò significa «stabilire contatti per trovare gli archivi […]. Nella misura del possibile, la Conferenza dei vescovi desidera contribuire alla ricerca delle madri biologici e dei bambini adottati».
(Avvenire.it, 14 dicembre 2023)
di Lorenzo Tecleme
Capita alle Cop che paesi piccoli e medi, normalmente ignorati dalle cronache internazionali, si ritaglino un ruolo da inaspettati protagonisti. A Cop28, ancora in corso a Dubai, questo ruolo se lo sta prendendo la Colombia. E il merito è soprattutto della sua carismatica ministra dell’Ambiente e dello sviluppo sostenibile, Susana Muhamad.
Già prima della COP la Colombia, guidata per la prima volta nella sua storia da un governo di sinistra, ha inaugurato un nuovo piano contro la deforestazione e annunciato lo stop a ogni nuova licenza estrattiva nell’oil&gas. Non una scelta scontata per un paese che ancora al 2020 aveva il petrolio in cima alla lista dei beni importanti. A Cop28 il Paese ha aderito al Fossil Fuel non-Proliferation Treaty, una proposta di trattato internazionale modellato sulla falsariga degli accordi che portarono a fermare la corsa alle armi nucleari. È la prima nazione produttrice di idrocarburi a farlo. Ma soprattutto è la posizione colombiana al negoziato a stupire gli analisti. Come quelle di tutti i paesi in via di sviluppo, la delegazione guidata da Muhamad è estremamente critica coi paesi occidentali sul lato finanziario, accusandoli di non fornire al Sud globale i mezzi necessari alla transizione. Ma a differenza di buona parte del mondo non industrializzato e della stessa America Latina, la Colombia è radicalmente schierata a favore del phase-out, l’abbandono dei combustibili fossili. Una posizione tedesca sulla mitigazione e cubana su finanza e adattamento che spezza le contrapposizioni tipiche dei summit internazionali sul clima.
Artefice di questo modello è senza dubbio la ministra. Quarantasette anni, storica ecologista con una laurea in pianificazione dello sviluppo sostenibile alle spalle, fiera delle sue origini palestinesi. Al Majli, l’assemblea convocata da Al Jaber alla fine della prima settimana, si è fatta conoscere anche come oratrice. «Il suo intervento è stato davvero notevole, quasi non riesco a crederci» ha commentato su X l’analista Nathalie Jones dell’IISD. «Se riusciamo a concordare sul 2030 – ha detto Muhamad – facciamolo. Dobbiamo eliminare progressivamente i combustibili fossili e abbiamo bisogno di un nuovo accordo economico per farlo». Non solo l’appoggio al phase-out, ma anche un richiamo a una data, il 2030, dentro un negoziato in cui anche i più ambiziosi si concentrano sul lontano 2050. E ancora: «Chi triplicherà le rinnovabili (uno degli obiettivi negoziali, ndr)? Chi ha interessi sui prestiti al 5% o chi li ha al 30%? Dov’è l’equità per noi, che siamo immersi nel debito?». Il dito è puntato su quell’occidente che di cancellazione del debito e seri aiuti alla transizione nel Sud globale non vuole sentire parlare.
È un ruolo unico quello che Muhamad ha scelto per il suo paese. La parte del governo-attivista, che dice ciò che gli ecologisti vorrebbero sentire, è di solito propria delle piccole nazioni insulari, che hanno un grande impatto simbolico ma nessun potere concreto. Stavolta lo ha preso una nazione che, seppur non paragonabile alle grandi potenze, ha 50 milioni di abitanti e un’area di molto superiore a quella italiana. Alla fine del Majli, la platea ha risposto al discorso di Muhamad con un lungo applauso. Per ora, il più sentito di questa Cop.
(il manifesto, 13 dicembre 2023)
di Anna Maria Selini
È un quadro fosco quello dipinto da Guido Veronese sulla situazione tra israeliani e palestinesi. «Siamo a un punto di non ritorno – spiega il docente di Psicologia clinica all’Università Milano Bicocca, esperto di traumi collettivi in aree di crisi – e le conseguenze non riguarderanno solo i due popoli, ma tutti noi». Veronese conosce bene la Striscia di Gaza: la frequenta dal 2011, come formatore e supervisore in scuole e centri che si occupano di traumi, in particolare dei bambini. Il 7 ottobre, quando Hamas ha attaccato Israele, provocando la morte di 1.200 persone, era appena rientrato in Italia. Di lì a poco su Gaza si è scatenata la peggiore delle rappresaglie, ad oggi sono 18.000 le vittime palestinesi.
Professore, come valuta quello che è successo a partire dal 7 ottobre?
Quello del 7 ottobre è stato un evento unico, catastrofico, e forse un punto di non ritorno anche per Israele stesso. Dalla sua fondazione, nonostante il periodo degli attacchi suicidi compiuti dai palestinesi tra gli anni ’80 e 2000, non si è mai verificato un evento di questa portata e ciò ha creato un punto di discontinuità in termini di sicurezza. Israele doveva e deve essere per i suoi cittadini il luogo sicuro per eccellenza, anche se forse non lo è mai stato veramente, ma una retorica della sicurezza è sempre stata costruita. Con il 7 ottobre si è sbriciolata e il senso di sicurezza del cittadino medio è entrato totalmente in crisi.
E invece per i palestinesi?
Anche la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre non ha precedenti per magnitudine di distruzione. Quindi anche per i palestinesi rappresenta un punto di discontinuità in termini di sofferenza collettiva, ma a differenza degli israeliani, per i palestinesi, in particolare di Gaza, non c’era un senso di sicurezza precedente. Anzi, semmai in questo vi è una certa continuità, un’idea di precarietà, di senso di minaccia e di attacco che è sempre continuato e che dopo il 7 ottobre ha avuto una accelerazione.
Quanto c’entrano il trauma della Shoah da un lato e della Nakba – l’esodo forzato di oltre 700mila palestinesi nel 1948 – nelle reazioni dei due popoli?
Ci sono diversi livelli da tenere in considerazione. Il primo è quello del contemporaneo ed è qualcosa che ci riguarda un po’ tutti. Ha a che vedere con il privilegio delle società occidentali capitalistiche, quella presunzione di sicurezza e stabilità che diamo per scontata, ma che non lo è affatto, perché riguarda una piccolissima parte del mondo. Basti guardare la tragedia dei migranti e dei traumi collettivi che li portano a cercare una vita migliore in Europa. Israele da questo punto di vista è simile a noi: siamo molto spaventati di perdere questo privilegio e quando vediamo una persona sofferente, come il migrante, ci spaventiamo. Questa paura inferocisce, rende manipolabili e più facilmente razzisti.
A questo primo livello si aggiunge, nel caso di Israele, la questione della Shoah, in cui si innescano dei processi psicologici collettivi, ma anche delle patologie collettive. Perché avere a pochi chilometri da casa delle persone che soffrono in quella maniera e assolutamente non preoccuparsi per loro, ma addirittura in qualche modo partecipare a un processo di deumanizzazione nei confronti dei palestinesi, senza grossi rimorsi di coscienza trucidarli, come sta avvenendo, è un fenomeno patologico.
Mi ricorda un po’, più che gli ebrei che subivano lo sterminio, ancora una volta i tedeschi, che avevano i campi di sterminio a poche centinaia di metri o chilometri da casa e che non vedevano nulla. Il fatto che non vedessero ha un che di patologico e la società israeliana è vittima di questa patologia del non vedere.
Per quanto riguarda la Shoah, vedo anche un’altra cosa, il cosiddetto dirty game, gioco sporco: la tragedia della Shoah è stata ed è ancora molto sfruttata dalla retorica sionista, come la via per portare avanti un’agenda di dominio sui palestinesi, utilizzando la paura e forse anche tutto quello che rimane del trauma collettivo. Non so quanto questo possa fare presa sull’intera popolazione ebraica mondiale, che vive anche fuori da Israele il trauma transgenerazionale della Shoah. Sicuramente ha una forte presa sul senso di colpa occidentale, sulla nostra patologia collettiva, cioè quel senso di colpa che ci portiamo rispetto a quanto fatto, da europei e non palestinesi, nella Seconda Guerra mondiale nei confronti del popolo ebraico.
Quanto incide invece la Nakba sulle reazioni dei palestinesi?
Sicuramente ha fatto la differenza nella reazione attuale, così come in tutta la storia della resistenza palestinese. È qualcosa che fa parte della narrazione collettiva, che viene trasmessa di generazione in generazione, come un senso di deprivazione, spoliazione, perdita e con un aspetto del lutto che questo trauma porta con sé. È la perdita della terra, ma anche della dignità e di un numero impressionante di vite umane. Questo senso di insicurezza diffusa provoca una sofferenza collettiva, che in qualche modo porta anche a delle reazioni violente.
C’è poi un secondo livello, un altro tipo di trauma, che è il trauma del colonizzato: la reazione violenta che produce, che da un punto di vista di umanità potrebbe anche essere definita come ingiustificabile, è invece una reazione che assume senso, se la vediamo nei termini dell’impotenza e dell’umiliazione che vive il colonizzato. In tutti i processi di decolonizzazione c’è un aspetto atroce, violento e indicibile.
Si superano traumi del genere?
Se intendiamo che a un certo punto questi traumi storici e transgenerazionali spariscono, no. Ci saranno sempre, ma possono cominciare a coesistere, diventare una parte generativa nella storia dei due popoli. Il popolo ebraico dopo la Seconda guerra mondiale si è trovato di fronte a un bivio, che porta verso una storia di vita, quindi generativa, o una via di morte, fatta di una continua ripetizione degli aspetti negativi del trauma, della dinamica vittima-carnefice, con la possibilità che la prima si trasformi nel secondo.
Da un punto di vista psicologico, è possibile una pacificazione, un dialogo vero tra i due popoli?
Finché non c’è una riduzione delle asimmetrie di potere, credo non vi sia nessuna possibilità di contatto.
Ci sono i morti, ma anche i sopravvissuti. Come vivranno, in particolare i bambini?
Attualmente è molto difficile da dire, perché siamo ancora nella catastrofe, che è senza precedenti. Quello che fino adesso ho notato nel mio lavoro con i bambini palestinesi è una capacità di resilienza sorprendente, che ho visto però declinare negli ultimi anni, a favore dell’aumento del senso di oppressione, della chiusura e dell’assedio. Oggi ho veramente grossi dubbi che questa resilienza possa continuare ad esprimersi. Qualcosa di altamente catastrofico si è innescato e gli effetti li vedremo su tutta la popolazione mondiale, non so ancora in che termini.
Non si può fare nulla?
Si può agire solo nel momento in cui la crisi è stabilizzata e quindi l’unica cosa da fare ora è aspettare.
(AltraEconomia, 13 dicembre 2023)
di Alessandra Pellegrini De Luca
Maria Agnese Bellardita ha scoperto di essere stata adottata a ventott’anni: il giorno del funerale di suo padre una zia le disse che la donna che l’aveva partorita l’aveva lasciata davanti a una chiesa, e che i suoi genitori adottivi non avevano mai voluto che si sapesse. Molti anni dopo, al termine di una lunga ricerca che ha coinvolto il tribunale dei minori di Firenze, i Carabinieri e il suo avvocato, Bellardita ha scoperto una storia completamente diversa: a quella donna, che all’epoca aveva sedici anni, fu detto che la figlia era nata morta. Aveva partorito in un piccolo istituto per suore di Mozzo, vicino a Bergamo. I suoi genitori non volevano che lei crescesse la bambina, e d’accordo con le suore decisero di dare la neonata in adozione pochi giorni dopo la sua nascita.
Bellardita e la donna, ormai molto anziana, si sono incontrate per la prima volta il 23 dicembre del 2014, quasi dieci anni fa, nello studio legale delle nipoti di lei. Il loro è stato il primo caso in Italia di ricongiungimento tra madre e figlia o figlio non riconosciuto ottenuto attraverso il cosiddetto interpello, cioè la possibilità per le autorità di rintracciare una donna che abbia partorito in anonimato e chiederle, su richiesta del figlio non riconosciuto, se voglia revocare l’anonimato e incontrarlo.
È una possibilità prevista in diversi paesi europei, come Francia e Germania: in Italia è stata introdotta nel 2013, con una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il divieto allora in vigore di identificare la donna, previsto dalla legge sulle adozioni nazionali (dal 2001 quella legge prevedeva che le persone adottate potessero avere informazioni sui genitori biologici una volta compiuti i 25 anni, con l’eccezione proprio dei nati col parto in anonimato). La Corte ha anche chiesto al parlamento di fare una legge per definire con esattezza modi e tempi dell’interpello, cosa che non è ancora stata fatta: che si riesca quindi a contattare la donna per chiederle se vuole rimuovere l’anonimato o no dipende ancora molto dal singolo tribunale e dalla buona volontà dei singoli funzionari, con varie questioni irrisolte in mezzo.
Il diritto dei nati col parto in anonimato a conoscere le proprie origini biologiche è molto dibattuto, anche tra gli esperti, ed è stato oggetto di numerose sentenze di tribunali nazionali e internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo: le decisioni al riguardo devono bilanciare il diritto della donna all’anonimato e all’oblio con quello dei nati a conoscere le proprie origini. Quest’ultimo diritto è stato progressivamente riconosciuto a livello internazionale negli ultimi decenni, sia da paesi che da organi sovranazionali come il Consiglio d’Europa, un’istituzione che si occupa di democrazia e diritti umani e non c’entra con l’Unione Europea (da non confondere con il Consiglio Europeo). In Italia, la Corte costituzionale lo ha legato all’articolo 2 della Costituzione, sui diritti inviolabili delle persone.
A oggi, e anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, prevale comunque la volontà della donna: se lei non acconsente a rimuovere l’anonimato, il nato o la nata non potranno sapere chi è ed eventualmente incontrarla.
La storia di Bellardita fu molto raccontata, nel 2014, anche perché nel frattempo lei era entrata in contatto con il Comitato per il diritto alle origini biologiche, che su questo tema è molto attivo e negli anni ha organizzato manifestazioni e scritto proposte di legge. Il giorno in cui Bellardita incontrò la donna che l’aveva partorita, questa le disse che un primo dubbio sul fatto che lei fosse davvero nata morta dopo il parto le era venuto mesi prima di essere contattata dal tribunale: quando al bar aveva letto un articolo sull’Eco di Bergamo in cui si parlava di una donna nata il 21 gennaio del 1955, proprio il giorno in cui decenni prima aveva partorito lei, che cercava la propria madre biologica.
La donna raccontò a Bellardita anche di quando tanti anni prima, giorni dopo il parto, aveva chiesto alle suore dell’istituto di portarla nel cimitero in cui avevano seppellito la bambina: «Le mostrarono una piccola croce con su scritto “Maria” e le fecero credere, d’accordo coi genitori, che io ero stata seppellita lì», dice Bellardita. Dopo questa vicenda ha aperto un sito in cui raccoglie appelli di figli non riconosciuti, di donne che cercano figli da cui per varie ragioni si sono separate alla nascita, e più in generale di persone che cercano parenti biologici di cui hanno perso le tracce.
Per fare ricerche di questo tipo sono nati anche diversi gruppi su Facebook, che negli ultimi anni hanno permesso a diverse persone di ritrovarsi. Molte persone utilizzano anche test del DNA fai-da-te, sempre più diffusi anche se non sempre affidabili rispetto alle informazioni che promettono di fornire.
«Ci sono tante storie come la mia, di donne molto giovani a cui veniva detto che i figli erano nati morti, magari perché la famiglia non era in grado di mantenerli o perché non voleva che la donna diventasse madre in quel momento», dice Bellardita. Sul suo sito si trovano anche appelli di donne che hanno dato in adozione i figli dopo il parto su spinta di compagni o parenti, magari in situazioni di difficoltà emotiva o economica e pentendosene in un momento successivo. Altre donne, anni dopo aver partorito in anonimato, hanno cambiato idea sulla possibilità di conoscere i figli non riconosciuti.
In Italia la legge sul parto in anonimato consente alla donna di partorire in ospedale in condizioni di riservatezza, gratuitamente e indipendentemente dalla nazionalità e dal titolo di soggiorno; e poi di non riconoscere il bambino, di cui viene constatato lo stato di abbandono e la conseguente adottabilità. La possibilità del parto in anonimato era stata introdotta con l’obiettivo di evitare gli abbandoni di neonati o gli infanticidi, ed è tuttora fortemente sostenuta anche da ambienti cattolici che la considerano anche un mezzo per limitare le interruzioni di gravidanza.
Col parto in anonimato, nell’atto di nascita del bambino viene scritto «nato da donna che non consente di essere nominata». Un’altra norma prevede che il nome della donna che ha partorito, così come la sua cartella clinica, restino segreti per almeno 100 anni: è la cosiddetta “legge dei cent’anni”, o più dispregiativamente definita da alcuni la “punizione dei cent’anni”, che quest’anno è stata anche l’argomento del film di Alessandro Bardani Il più bel secolo della mia vita, con Valerio Lundini e Sergio Castellitto.
Al parto in anonimato si fa ricorso per poche centinaia di nati l’anno, e i numeri sono in calo: nel 2007 erano stati 642, nel 2021 sono stati 173. Il Comitato per il diritto alle origini biologiche ha stimato che i figli non riconosciuti che fanno richiesta per l’interpello siano invece 300-400 l’anno. Nel 60 per cento dei casi l’esito è positivo, nel senso che la donna che li ha partoriti acconsente a revocare il proprio anonimato, dice la presidente del Comitato Anna Arecchia.
A chiedere l’interpello spesso le persone arrivano dopo aver scoperto da grandi che non erano nate dai genitori che li avevano cresciuti. Bellardita racconta di essersi fatta per la prima volta delle domande sulle proprie origini dopo aver trovato, rovistando in casa da ragazza, una scatola piena di lettere scritte da sua madre. Notò con un certo stupore che in corrispondenza della sua data di nascita, il 21 gennaio 1955, non c’era nessun riferimento a lei o a una qualsiasi gravidanza: anni dopo aveva chiesto a sua zia se per caso fosse stata adottata, e sua zia le aveva risposto di sì.
In altri casi l’interesse verso le proprie origini viene suscitato dalla percezione di qualcosa di non detto: Arecchia, la presidente del Comitato, ha raccontato per esempio di essere cresciuta in un posto molto piccolo in cui attorno alle sue origini e alla sua storia, diversa dalle altre, circolavano molti pettegolezzi: «Lo sapevano tutti, ma nessuno me lo diceva: appena mi sono trasferita in una città più grande per studiare ho iniziato la mia ricerca, iniziando col reperire il mio atto di nascita integrale». È così che Arecchia ha scoperto di essere stata partorita in anonimato, da una donna che le assegnò il nome “Anna”, poi mantenuto dai genitori adottivi: sull’atto di nascita, visionato per questo articolo, le fu assegnato il cognome “Dive”, scelto invece dal funzionario dell’anagrafe.
In mancanza di una legge, le modalità di presentazione dell’interpello alla madre anonima variano. Nella sentenza del 2013 la Corte ha parlato di «un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza» alla donna e permetta di interpellarla per chiederle, su richiesta del figlio biologico, se voglia rimuovere l’anonimato e incontrarlo. Nella pratica le modalità con cui si procede sono disomogenee, basate prevalentemente su precedenti e prassi giudiziarie che si sono create nel corso degli ultimi anni.
Di solito l’istanza per interpellare la donna che ha partorito in anonimato viene presentata al tribunale dei minori della regione di residenza del figlio o della figlia che fa richiesta di incontrarla. Poi eventualmente la pratica passa al tribunale della provincia di nascita, se diverso da quello di residenza. In alcuni casi i giudici si sono rifiutati di procedere proprio appellandosi alla mancanza di una legge che definisse con chiarezza le modalità dell’interpello; in altri i tribunali hanno incaricato il comando provinciale dei Carabinieri, oppure i servizi sociali, di individuare e rintracciare la donna e chiederle se fosse disposta a rimuovere l’anonimato: «Sui commissariati questa nuova attività investigativa è piombata un po’ come una tegola: sono cose che non avevano mai fatto prima», dice Arecchia.
Nel procedimento per rintracciare la donna i soggetti coinvolti sono dunque molti: il tribunale, gli agenti delle forze dell’ordine, i servizi sociali, i reparti di maternità degli ospedali, chi gestisce i loro archivi e le loro cartelle. C’è poi il personale incaricato di contattare la madre, per esempio i funzionari comunali e delle anagrafi, che una volta ricevuto il certificato di assistenza al parto cercano l’indirizzo di residenza della donna. Alcuni tribunali inviano una lettera di convocazione, altri mandano fisicamente qualcuno a citofonare alla donna.
«È capitato che i funzionari andassero sotto casa della donna con un’ambulanza, in previsione di un suo possibile malore», dice Arecchia. In moltissimi casi le donne sono ormai anziane, l’interpello può essere scioccante e traumatico.
Arecchia dice di essere consapevole che i nati in anonimato in cerca delle proprie origini possono creare un «putiferio emotivo» nelle donne e nelle loro famiglie, così come dice di essere consapevole delle critiche che alcuni gruppi femministi rivolgono al Comitato per la sua attività, ritenuta in contrasto col diritto della donna all’anonimato e all’oblio. Le critiche arrivano anche da alcuni ambienti cattolici, che considerano le rivendicazioni del Comitato una minaccia al parto in anonimato.
Arecchia ritiene però che su questo genere di argomenti in Italia prevalga una «mentalità adultocentrica» poco interessata ai diritti dei nati, e su queste stesse basi si dice contraria a forme di procreazione assistita come la gestazione per altri, cioè quando la gravidanza è portata avanti da una persona per conto di altre persone. A suo dire infatti questa tecnica nega il diritto alle origini. In realtà la possibilità di mantenere contatti e relazioni tra nati e donna gestante esiste, dipende dalla regolamentazione della pratica ed è peraltro ampiamente utilizzata da molte famiglie formate attraverso questa tecnica: tutte possibilità poco discusse e conosciute in Italia, dove il dibattito è fortemente politicizzato.
La ricerca della donna che ha partorito in anonimato procede per gradi e può avere esiti molto diversi. Incendi o alluvioni possono aver distrutto gli archivi degli ospedali, per cui diventa impossibile risalire al nome della donna; i tribunali dei minori, che in Italia sono 29 e hanno gravi carenze di organico, possono condurre indagini in maniera superficiale; una volta rintracciata la donna non è raro scoprire che magari è morta anni prima (in questo caso, sempre per via della mancanza di una legge, non ci sono regole chiare sulla revocabilità dell’anonimato).
È stato proprio il caso di Arecchia: dopo cinque anni di ricerche ha scoperto che molti anni prima la donna che l’aveva partorita si era trasferita in Canada. Dopo mesi di tentativi e una rogatoria internazionale Arecchia ha infine avuto accesso al nome della donna, scoprendo che era morta. È andata comunque a Toronto, in Canada, e ha conosciuto i suoi altri tre figli: una di loro, l’unica che parlava italiano, l’ha accompagnata nel cimitero in cui era stata sepolta la donna, concludendo così una «ricerca durata una vita», per usare le parole di Arecchia.
(Il Post, 13 dicembre 2023, pubblicato con il titolo “I figli non riconosciuti che vogliono rintracciare le proprie origini biologiche”)
di Ascanio Celestini*
Francesco è figlio di un ricco mercante. Combatte la battaglia di Collestrada nel 1202 contro i nobili di Assisi, poi lascia tutte le ricchezze, gira scalzo, non tocca più il denaro. Sceglie la povertà. Dice che se possiedi qualcosa sei costretto a difenderla e diventi violento.
Nel 1219 arriva in Egitto. Parla con i crociati, gli ricorda il quinto comandamento: non uccidere. Ma non lo stanno a sentire. Prova a parlare anche con i musulmani, ma la guerra continua lo stesso.
Francesco torna a casa con l’idea che non serve a niente conquistare quel pezzo di terra dove è nato Gesù. Che la terra è tutta uguale e che Betlemme è solo un posto di povera gente che somiglia a tanti altri nel mondo. Così nel 1223 fa il suo presepe a Greccio, un altro posto di povera gente. Un borgo dell’alto Lazio. La notte di Natale di otto secoli fa qualche centinaio di persone sono state in Terra Santa senza muoversi dalla Sabina.
Dopo ottocento anni quella terra è ancora un posto di poveri cristi. Qualcuno ha fatto il calcolo dei bambini uccisi da Erode. Se gli abitanti di Betlemme erano un migliaio potevano esserci circa trenta neonati. Ma volendo uccidere solo i maschi il numero si riduce ulteriormente.
A settanta chilometri a sud-ovest assistiamo a una strage moderna. I numeri sono altri perché la tecnologia ci permette di essere più performanti dei soldati di Erode.
Secondo l’Oms: «A Gaza muore in media un bambino ogni dieci minuti». I morti in totale oggi arrivano a 18.000 e i bambini sono quasi un terzo.
Cioè se lasciamo fuori dal numero gli adulti ci rendiamo conto che i bambini uccisi dall’esercito di Israele sono cinque volte il totale degli israeliani uccisi dai miliziani di Hamas.
Non sono un esperto e non conosco in maniera profonda la storia di quella terra e della gente che la abita. Se devo aggiungere la mia opinione a quella di altri commentatori preferisco farlo al bar dove siamo tutti consapevoli della nostra ignoranza, dove sappiamo che abbiamo solo opinioni.
Infatti mi capita di commentare i numeri di questo conflitto. Mi capita di farlo al bar. Non è un discorso circostanziato, non sto a ricordare che prima del 7 ottobre la guerra era iniziata da un pezzo, che Gaza è una galera, che Hamas esiste almeno dalla fine degli anni ’80 e che è stata sostenuta persino da Israele per contrastare al-Fatah.
No. Parlo solo del numero dei morti. Siamo tragicamente oltre una proporzione che fa spavento: più di 10 palestinesi uccisi per ogni israeliano.
Il bar nel quale discuto con altri clienti sta a Roma. Nella mia città questi numeri ricordano il marzo del 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Uno mi fa: «Vogliamo dire che gli israeliani sono nazisti?»
No. Non lo direi mai, non dobbiamo dirlo mai. E per tante ragioni. Per esempio non voglio dire che i militanti di Hamas sono partigiani. E tantomeno voglio che si pensi ai partigiani romani del ’44 come a una banda di terroristi.
Eppure la sproporzione è evidente. E pesa la giustificazione secondo la quale Israele ha il diritto/dovere di reagire e che, nonostante mezzo mondo dichiari che è una carneficina sproporzionata, Israele può considerarla un’operazione militare perfettamente legale per colpire i terroristi.
E poi chiedo agli altri clienti del bar: «Secondo voi come sono morti i palestinesi?»
Hamas ha bruciato i bambini e squartato il corpo delle donne. E l’esercito israeliano come li ammazza i bambini palestinesi? Con le caramelle avvelenate? E le donne palestinesi non sono squartate quando un razzo israeliano gli sfonda la casa? Anche l’esercito israeliano brucia e squarcia i corpi, ma non li mostra. I bambini fatti a pezzi dalle armi israeliane sono molti di più di quelli israeliani morti il 7 ottobre, ma non vengono filmati.
Ecco la differenza. Hamas deve dimostrare che può reagire. E deve mostrare ogni singolo assassinio per farlo pesare come un macigno. A Israele non basta reagire, deve dimostrare che la propria forza è dieci volte più grande, ma senza mostrare i morti. Come se fosse un atto di giustizia. Una naturale conseguenza. Che, anzi, bisogna nascondere per non mettere in secondo piano la “vera” motivazione, cioè il diritto/dovere di reagire.
«Il primo buco nero è quello che sta accadendo ora a Gaza – scrive Gideon Levy di Haaretz – L’infinita verbosità dei media israeliani quasi ignora l’orribile bagno di sangue. Non una parola sul disastro di Gaza. Non che sia giustificato o ingiustificato: semplicemente non esiste. Il disinteresse è deliberato. Non ci sono resoconti. Nessuna immagine. A malapena un accenno».
Cosa succederebbe se Israele mostrasse i corpi sventrati di quei 18.000 palestinesi?
Recentemente gli Stati Uniti hanno bloccato l’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite che chiedeva “un cessate il fuoco umanitario immediato” nella Striscia di Gaza. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ringrazia «il presidente Biden per essere stati fermamente al nostro fianco, oggi, e per aver dimostrato la loro leadership e i loro valori».
Quando domani al bar qualcuno mi chiederà «vuoi dire che gli israeliani sono nazisti?» continuerò a rispondere «No», questo abbiamo il dovere morale di dire con forza, ma aggiungerò che l’analogia mi spaventa perché vedo la stessa arma che usano i regimi peggiori: nascondere i morti e legalizzare il crimine.
Nel presepe di Greccio pensato da Francesco c’era la mangiatoia, l’asino e il bue. Nient’altro. Non voleva mettere in scena la nascita di Gesù, ma ricordare a tutti che era nato povero in un posto di povera gente identica a tanti poveri cristi in ogni parte del mondo.
Oggi anche Gaza è un presepe vuoto come quello di Francesco. In quella guerra ci sono tutte le guerre. Tra quei morti ci sono tutti i morti che non possiamo giustificare.
(*) Ascanio Celestini è in tournée teatrale per la sua ultima opera “Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato”
(Il manifesto, 12 dicembre 2023)
di Claudia Bruno*
Attraversare Queen Victoria Street, a Londra, in un pomeriggio qualsiasi, e trovarsi inaspettatamente davanti Forgotten Streams – una vasca immensa inondata di radici che si spalanca come una ferita nel cuore della city, opera urbana della scultrice spagnola Cristina Iglesias – potrebbe richiamare alla mente le parole che Anna Maria Ortese affidava alle pagine della sua raccolta Corpo celeste, nell’aprile del ’97: “Invece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio, proveniente da lontano, o immobile in quel punto (così sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo anche noi” scriveva nell’introduzione alla sua preziosa successione di ragionamenti data alle stampe l’anno prima di morire. “Oggetto del sovramondo, era anche la Terra” spiegava, non ci sarebbe stato bisogno di andare nello spazio, lo spazio era già qui e noi ci eravamo dentro.
O ricordare la serie di autoritratti realizzati dalla fotografa Judy Dater tra l’80 e l’83, durante i suoi viaggi nei parchi nazionali americani. In uno dei suoi scatti realizzati in Idaho, fondendo la tecnica dell’autoritratto alla fotografia di paesaggio si rappresentava come una presenza aliena, dalla figura longilinea e decentrata – l’ombra di un treppiedi in primo piano, solo dieci secondi per posare prima che si chiudesse automaticamente l’otturatore – esponendo il suo corpo nudo e infinitamente piccolo alla luce lattea dei “crateri della luna”; in un altro, sdraiata su un fianco, raccolta in posizione fetale e ripresa da dietro, la sua persona assumeva i contorni di un sasso argentato, levigato da un ambiente vulcanico.
C’è qualcosa di ultraterreno in noi, nella terra su cui poggiamo i piedi, qualcosa di precedente a quello che siamo. Forgotten Streams, realizzata da Iglesias nel 2017 davanti alla sede centrale europea di Bloomberg, tra i colossi del mercato globale dei dati, funziona come una voragine emotiva: è ai piedi di uno dei suoi edifici simbolo che la città finanziaria, affollata di traiettorie apparentemente inarrestabili, restituisce al presente la sua dipendenza da un’era geologica remota anni luce. Bronzo, acqua, pietra, acciaio, permettono al corso di uno degli affluenti scomparsi del Tamigi, il Walbrook, di riaffiorare simbolicamente assottigliando il confine tra organico e inorganico, e intercettano un’istanza allo stesso tempo extraterrestre e sommersa, capace di tenere insieme l’immensità del cosmo con gli sprofondi del sottosuolo
Le radici s’intrecciano nella grande vasca di cemento scomposta in tre parti, affondano nell’acqua e riemergono qualche passo più in là alla maniera di un’impuntura indomita. Per un istante l’impressione è di trovarsi di fronte alla corrispondenza aumentata delle fotografie in bianco e nero scattate dall’artista slovacca Maria Bartuszová negli anni ’80, durante le sue passeggiate invernali sugli argini ghiacciati del fiume Hornád, a Košice, sulle tracce sentimentali di un altro fiume che le era stato caro da bambina, il Vltava che scorreva a Praga – “Winter Nature Studies” il titolo della serie che ritraeva il corso d’acqua costellato dagli ammassi lattiginosi di neve che avrebbero ispirato negli anni a seguire le sue sculture di gesso e di pietra.
È come se il mondo avesse una crosta e si potesse sbucciare, come se sotto la superficie intatta delle cose scorresse un flusso inarrestabile di senso, la linfa invisibile di un rimosso abissale. Iglesias le chiama “sculture liquide”, ne ha realizzate diverse in parti del globo tra loro distanti nel corso della sua carriera – a Madison Square Park a New York (Landscape and Memory, 2022); sull’isola di Santa Clara, in Spagna (Hondalea. Marine Abyss, 2021); davanti al Museum of Fine Arts di Huston, in Texas (Inner Landscape. The Lithosphere, the Roots, the Water, 2020); nel giardino della Fundació Per Amor a l’Art, a Valencia (A través, 2018); e prima di Londra a Toledo, Anversa, Santander, passando per Messico, Norvegia e Brasile.
“Ho iniziato a interessarmi all’utilizzo dell’acqua nei miei lavori come elemento di movimento e trasformazione all’interno di una cultura, e quindi anche di una città: è osservando l’acqua che possiamo comprendere che niente, se guardiamo attentamente, resta uguale a se stesso” spiegava in un’intervista del 2021 alla Whitechapel Gallery di Londra. “Penso che l’acqua in qualche modo renda tutto questo evidente, velando e svelando continuamente le cose mentre si muove. Nelle sequenze a cui lavoro alcune volte l’acqua scorre velocemente e poi va più lentamente, per me è soprattutto un elemento che ci parla del tempo, del trasferimento di una conoscenza” proseguiva. “Nelle mie sculture, attraverso l’acqua creo l’illusione di una profondità, perché è di questo che voglio parlare: di un sottosuolo, del fatto che una città possa avere una sua propria interiorità”.
L’esperienza generata è preverbale, ricontatta in qualche modo il sentimento che così bene Ana Mendieta esprimeva nel documentario Fuego De Tierra diretto nel 1987 dalla regista americana Kate Horsfield. “La mia arte” sosteneva l’artista nata a Cuba nel 1948 ed esiliata negli Stati Uniti insieme a sua sorella quando era ancora una ragazzina “è fondata sulla convinzione che esiste un’energia universale che attraversa ogni cosa: dall’insetto all’uomo, dall’uomo allo spettro, dallo spettro alla pianta, dalla pianta alla galassia”. “Le mie opere” recitava come una preghiera “sono le vene di irrigazione di questo fluido universale. Attraverso di esse risalgono la linfa ancestrale, le credenze originarie, gli accumuli primordiali, i pensieri inconsci che animano il mondo. Non c’è passato originario da riscattare, c’è il vuoto, l’orfano, la terra non battezzata dell’inizio, il tempo che dall’interno della terra ci guarda. C’è prima di tutto la ricerca dell’origine”.
Le sculture di Iglesias sono intrise di una affine insanabile nostalgia, genealogicamente connessa a quella emanata dalle opere terra-corpo di Mendieta, si incasellano le une con le altre in un collage di Silueta in negativo, dove il corpo dell’artista scompare, viene affidato al paesaggio circostante, esteso al passo di chi attraversa lo spazio e si ferma a guardare, all’improvviso assorbito da un richiamo ipnotico che ne pretende l’attenzione.
Se nella “Earth-body art” di Mendieta il corpo dell’autrice si fondeva con la terra, diventava l’opera attraverso il sangue, l’evocazione della sepoltura, la combustione, qui resta lo sprofondo, l’assenza, l’inclinazione generativa della materia che di continuo si riproduce spaventosa e salvifica. L’esilio dalla terra è la città, un inghiottitoio immateriale dove l’impermanenza si fa strada lungo cavi di silicio. Se nella ricerca di Mendieta il corpo o il suo calco tornavano alla terra, si lasciavano inghiottire – da un ruscello, da un deserto messicano, da un campo di margherite – nell’atto finale di un incondizionato abbandono; nelle sculture di Iglesias è il regno di sotto a tornare a galla, riprendersi il mondo, diventare un silenzio che interrompe il rumore del traffico per raccontare il passato al futuro. È un canto incrinato che ha la dolcezza di un sonnifero, l’andatura di un inconscio collettivo, qualcosa che sarebbe capace di parlarci in sogno.
Jocelyn Mc Gregor, artista nata in Lincolnshire nel 1989, usa la tecnica della stop-motion per integrare il suo corpo con le sculture che produce inscenando in modo vivido ed efficace la fine della realtà come un ritorno alla natura dal tono alterato. “Non sei in nessun posto normale che conosci” recita la sua voce in un monologo diffuso online. “Nessuna area di straordinaria bellezza naturale. Nessun sito del patrimonio mondiale dell’Unesco. Scatta solo foto, lascia solo impronte”. In un video di pochi secondi realizzato montando tra loro una serie di scatti fotografici e pubblicato su Instagram, mostra in primo piano la bocca semiaperta da cui fuoriesce la coda di un lombrico. Quello che le spunta tra i denti è in realtà un manufatto che lei stessa ha prodotto, trasformarne le immagini delle diverse posizioni nello spazio in un video e creare l’illusione del movimento equivale a giocare col confine tra animato e inanimato, digitale e analogico.
“Una piccola luce rossa si accese, illuminando una nascita giurassica di uova perfettamente circolari” scrive in una pagina di diario pubblicata online e datata 2018, Isola di Yakoshima, in Giappone. Potrebbe essere la traccia di una science fiction dove gli insetti governano il mondo e partorire la terra è una funzione alla portata di tutte le creature. Le sue opere ne riproducono le atmosfere illuminate e desertiche. Il suo universo si dissecca in un terrario di vermi, paesaggi partoriti da ragazze distese supine sui gomiti, le gambe divaricate con naturalezza come durante un esercizio di ginnastica. Qui, capelli e crini di cavallo crescono direttamente dalle piegature delle braccia, ci sono piedi che riposano affiancati dentro un nido di paglia, arti che fuoriescono da gusci di lumaca, vermi giganti ricoperti di unghie che si appollaiano comodi su poltrone impagliate. Impossibile non pensare alle body extension realizzate da Rebecca Horn negli anni ’70 per le sue performance, o alle parole di Clarice Lispector ne La passione secondo GH – anch’esse dopotutto un’estensione oltreumana di qualcosa di finito.
“Il tesoro era un pezzo di metallo, era un pezzo di calce di parete, era un pezzo di materia sotto forma di blatta” faceva dire in quelle pagine alla sua protagonista dopo averle messo in bocca il corpo dell’insetto. “Dalla preistoria io avevo cominciato la mia marcia attraverso il deserto […] e avevo infine trovato lo scrigno. E dentro lo scrigno, sfavillante di gloria, il segreto nascosto. Il segreto più remoto del mondo, opaco, ma che mi accecava irradiando la sua esistenza semplice che lì sfavillava in gloria fino a farmi dolere gli occhi. Dentro lo scrigno il segreto: un pezzo di cosa”.
Mc Gregor architetta attraverso le sue opere un horror rassicurante, che fa del ritorno alla natura una spedizione verso l’ignoto. “In silenzio arrancavamo nell’oscurità” continua il diario giapponese “lei non era che un’ombra e il rumore degli stivali nella sabbia accanto a me. Avevamo perso il gruppo, che era stato frettolosamente scortato lungo la spiaggia davanti a noi…”. A metà strada tra le estensioni inumane di Horn e il labirinto di gusci di Maria Bartuszová, Mc Gregor si muove forse prima di tutto in un paesaggio fondato sull’incontro tra specie.
La sua scultura tattile Earthing, attualmente in Aldgate Square, a Londra, espone al passaggio pubblico il racconto intimo di una fecondazione, dove il corpo dell’artista riprodotto in un calco presta la sua forma segmentata a una simbiosi: un braccio e un paio di gambe fuoriescono da enormi gusci di lumaca; altre due gambe emergono da un ammasso di pietre rivestite dalla muta di un serpente, dorate come quelle di un mimo, incrociate su se stesse come quelle di un fachiro. A differenza di quanto avveniva nei lavori di Horn, dove piume, matite, unicorni e ventagli si applicavano vistosamente alle estremità dei corpi non più o non ancora umani, nelle opere di Mc Gregor il legame si fa intangibile a testimoniare l’esistenza di una nuova parentela.
Diversamente dagli involucri bianchi e sottili che nelle sue sculture Bartuszová articolava intorno al vuoto e spesso in sospensione come a scandagliare l’origine stessa di una forma nella sua irriproducibile fragilità, Mc Gregor colleziona conchiglie spesse dai colori non perfettamente naturali, membrane che contengono sempre un tutto pieno, si accordano alle tinte sature delle storie di folklore, ognuna con la propria ambizione di lasciarsi scivolare fuori l’imprevedibile risposta che stavamo aspettando, qualcosa che comincia nel momento stesso in cui ritorna.
Joanna Zylinska, che insegna Filosofia dei Media presso il dipartimento di Digital Humanities del King’s College di Londra e molto ha scritto negli ultimi anni su arte, realtà virtuali ed estinzioni di massa, la chiamerebbe “la fine dell’uomo”. Nel video Exit Man, realizzato per accompagnare uno dei suoi saggi più recenti, un pamphlet articolato intorno a una contro-apocalisse femminista (La fine dell’uomo, Rogas, 2021, uscito nel Regno Unito nel 2018), mette in scena un “museo locale dell’Antropocene” ad auspicio di un futuro diverso da quello che siamo abituati a prefigurarci. Un esercizio di pensiero che funziona come un esorcismo culturale, dove slogan scritti a mano nelle strade del pianeta – Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock; Businesses open as usual; Last day; New idol is coming; We have closed early today for optimisation purposes; It won’t make the difference – si alternano a scheletri animali e umani, prospettive interstellari e inquadrature spaziali, tra sculture, rampicanti, manufatti e pitture rupestri, gigantografie trumpiane e scarpe migranti, pesci morti sulle rive e diverse architetture industriali; testimoniando così bene la prospettiva parziale della storia che ci stiamo raccontando.
Nel suo saggio, passando per le teorie di Donna Haraway, Karen Barad, Rosi Braidotti, Anna Lowenhaupt Tsing, Zylinska si serve di una sottile ironia femminista per mettere in crisi la definizione stessa di “antropocene” e smontare la narrazione della fine del mondo come esito scontato della storia. Le smanie di colonizzazione maschilista dello spazio e di elevazione dell’umano a condizione divina attraverso l’intelligenza artificiale vengono in poche pagine smascherate e descritte come facce dello stesso marchingegno: la paura del maschio bianco benestante di essere spodestato di ogni privilegio da cui deriva l’illusione cognitiva che confonde la fine del patriarcato con la fine della specie. Nel discorso di Zylinska le smanie di salvezza che hanno la forma di un’exit strategy – dall’estinzione di massa come prospettiva liberatoria ai traslochi su Marte dell’umanità che se lo può permettere o se lo “merita” – lasciano spazio alla precarietà come condizione dell’esistenza, ai legami come pratica fondante di qualsiasi etica necessaria alla sopravvivenza sul e del pianeta.
In questa cornice, che va oltre la visione tragica e conservatrice dell’antropocene, dove la fine dell’uomo coinciderebbe con la fine del mondo, si inserisce sicuramente il lavoro della designer e artista turco-americana Pinar Yoldas, che dal concetto di “eccesso” è partita per articolare una “nuova tassonomia del vivente”. Nel suo lavoro più noto, Ecosystem of Excess – esposto all’interno della rassegna Eco-visionaries alla Royal Academy of Arts di Londra fino a febbraio 2020, proprio qualche giorno prima dell’inizio della pandemia – Yoldas mette insieme una serie di eccentriche creature colorate simili a microorganismi ingranditi, contenuti in degli acquari cilindrici che molto ricordano le lava lamp degli anni ‘70, e inventa così un ecosistema “post-umano” di “organismi speculativi” immersi in un ambiente immaginario. Sito di interesse e luogo di nascita di queste “specie in eccesso”, spiega Yoldas nei suoi interventi pubblici a commento dell’installazione che ha portato in questi anni in giro per il mondo, è il great pacific garbage patch, vortice di immondizia delle dimensioni dell’Europa centrale, composto da diversi milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, situato nel Pacifico settentrionale.
L’elemento acquatico torna preponderante nel lavoro di quest’artista, che riprende la teoria della “zuppa primordiale” – secondo cui la vita sulla terra iniziò quattro miliardi di anni fa negli oceani, quando la materia inorganica si trasformò in molecole organiche – e la combina alle ricerche più recenti sui microorganismi in grado di metabolizzare le plastiche, arrivando a inventare un interregno di insetti pelagici, rettili marini, pesci e uccelli dotati di organi adatti a digerire gli scarti prodotti dalla nostra specie. Il suo è un nuovo ordine post-linneano del regno vivente dove gli oceani da gigantesca zuppa di plastica divengono il sito di scambio tra materia organica e sintetica, arte e scienza.
Pinar Yoldas inventa forme di vita complesse, che possono prosperare in ambienti estremi, paesaggi tossici generati dal consumismo umano, trasformare il surplus prodotto dal desiderio capitalistico in “uova, vibrazioni, gioia”. Nei suoi lavori supera così la prospettiva dominante, offrendo una visione decentrata della vita senza l’uomo, e ripensando la biologia a partire dalla presa di coscienza che gli umani non sono indispensabili al pianeta. Immaginare la terra senza di “noi” diventa un prerequisito fondamentale per lo stesso stare al mondo, significa ridimensionare l’importanza che affidiamo alla specie, accordarsi ai processi evolutivi del sistema solare, allargare il campo alle altre galassie. Fine dell’uomo non significa fine del mondo.
Se c’è qualcosa di indispensabile alla terra, invece, questi sono proprio gli oceani. Quando nel 2005 le gemelle Christine e Margaret Wertheim hanno dato vita ai primi nodi del Crochet Coral Reef, che negli anni successivi sarebbe diventato il progetto artistico collettivo più esteso al mondo, lo avevano bene in mente. Al centro della gigantesca barriera corallina realizzata all’uncinetto che avrebbe coinvolto migliaia di donne in ventisette paesi del mondo attraversando tre continenti e nel 2019 sarebbe stata esposta alla Biennale di Venezia, c’era proprio l’intento di fermare l’erosione degli ecosistemi marini dovuta all’acidificazione delle acque, una delle conseguenze dell’innalzamento eccessivo e veloce che le temperature globali hanno subito negli ultimi anni. È solo la spinta iniziale di una storia che affonda le radici tra arte e matematica. In Staying with the Trouble (Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019), la biologa, filosofa della scienza e teorica femminista Donna Haraway la racconta rintracciando nel progetto delle due sorelle le caratteristiche essenziali della fantascienza femminista.
Tutto inizia dopo la lettura di un articolo sullo sbiancamento dei coralli e dall’interesse per gli studi della matematica lettone Daina Taimina, docente alla Cornell University, che nel ‘97 aveva messo a punto un modello fisico della geometria iperbolica utilizzando il metodo dell’uncinetto. È così che a Christine Wertheim, artigiana e poetessa, e alla sua gemella Margaret, matematica e artista, viene in mente di realizzare una barriera corallina filata a mano. Nate a Brisbane nel Queensland, in Australia, vicino alla grande barriera corallina, le due sorelle hanno cominciato a tessere la scultura lanosa quando si trovavano a Los Angeles per lasciare in seguito il filo alle altre che ci avrebbero lavorato nelle più disparate aree del pianeta utilizzando vari materiali – lana e cotone, ma anche buste di plastica, resti di nastro adesivo, fili di vinile, pellicole alimentari.
“La barriera corallina all’uncinetto attiva dei nodi simpoietici tra matematica, biologia marina, attivismo ambientale, consapevolezza ecologica, tecniche artigianali femminili, arti tessili, forme di allestimento museale e pratiche artistiche comunitarie” scrive Haraway. “Infettandosi a vicenda e infettando chiunque venga in contatto con le loro creature fibrose, migliaia di artigiane creano all’uncinetto degli attaccamenti psicologici, materiali e sociali con le barriere coralline negli oceani, ma non praticando la biologia marina o immergendosi tra i coralli o stabilendo altre forme di contatto diretto”. Una “intimità senza prossimità” capace di stabilire “una presenza senza disturbare le creature che animano il progetto”.
Questi fili sembrano trovare il senso perfetto nel lavoro della visual artist italiana Rachele Maistrello, che a partire dal 2018, dopo un viaggio a Pechino, ha lavorato a un progetto artistico a metà tra esposizione fotografica, ricerca storica e fantascienza. Il lavoro di Maistrello è articolato in due atti consecutivi nel tempo ma considerati come opere autonome, Green Diamond e Blue Diamond, entrambe esposte al Museo Maxxi di Roma rispettivamente nel 2021 e nel 2022, la seconda anche alla Galleria Eugenia Delfini nel 2023.
Al centro delle due opere c’è una storia d’amore ambientata in una fabbrica di tecnologia hi-tech “altamente sofisticata”, la Green Diamond, presumibilmente esistita nella Pechino degli anni ‘90 per sviluppare raffinati microchip in polvere di diamante, capaci di provocare nel corpo umano sensazioni e sentimenti legati alla natura. Nello specifico, questa tecnologia prevedeva che sensori impiantati in precise parti del corpo umano, lenti a contatto virtuali e onde ultrasoniche, potessero essere attivati attraverso una serie di gesti, innescando nell’utente sensazioni come il calore del sole sulla schiena, il vento in faccia, il profumo di un fiore, o l’impressione di essere circondati dal verde scuro di una foresta, per dirne alcune.
“Ho passato moltissimo tempo con gli operai a collezionare pensieri sulla natura” racconta l’autrice a proposito della genesi della sua ricerca, iniziata a Pechino dentro l’azienda Bernard Control nel 2018, “una natura possibile, futura e passata: parlavamo dei luoghi di pace della loro infanzia tanto quanto di oasi immaginate durante il lavoro in catena di montaggio”.
I presupposti sono simili a quelli che hanno portato due artiste e ricercatrici nordeuropee, Alexandra Daisy Ginsberg e Sissel Tolaas, a servirsi dell’ingegneria genetica per “resuscitare” l’odore dei fiori estinti “in modo che gli umani potessero sperimentare di nuovo qualcosa che abbiamo distrutto”, come accade in Resurrecting the sublime, opera al confine tra arte, biotecnologie, e scienze olfattive, che dal 2019 hanno portato in giro all’interno di spazi come il Centro Pompidou di Parigi o la Wellcome Collection di Londra. In modo affine ai sensori della Green Diamond immaginata da Maistrello, l’odore dei fiori inventati da Ginsberg e Tolaas sulla base di ricerche reali condotte su specie estinte (l’Hibiscadelphus wilderianus delle Hawaii, o il Leucadendron grandiflorum del Sud Africa, tra quelle considerate), è portatore dell’idea di un paesaggio perduto, sublime, non più conoscibile, raggiungibile solo attraverso la fiction.
Protagonisti della storia raccontata da Maistrello: Li JianPing, operaio addetto alla pulizia dei sensori della Green Diamond tra il 1994 e il 1999, e Gao Yue giovane promessa della scuola di arte acrobatica di Pechino a cui a un certo punto viene affidato il compito di testarli e lavorare sui nuovi gesti per attivarli. In Green Diamond l’artista ricostruisce la storia della fabbrica attraverso lo scambio epistolare tra Li JianPing e Gao Yue, e una serie di foto, video e documenti, senza tuttavia riuscire ad attestarne l’esistenza. Tutto il lavoro ruota “intorno alla costruzione di un sito che funziona come un archivio, ma anche come il moodboard per un film – mescolando documenti, video, trascrizioni di mail e informazioni tecniche” come spiega l’artista, definendo il sito web del progetto “una sorta di piccolo labirinto, in cui immergersi in una realtà fantascientifica che invece di rivolgersi al futuro si rivolge al passato”.
Blue Diamond segue invece le evoluzioni della fabbrica dopo il 1999 e i suoi nuovi esperimenti in mare aperto nel campo della neurologia dei cetacei, e ricompone la vicenda di Gao Yue che qui ritorna in qualità di apneista, chiamata a interagire direttamente con i delfini per conto della società. L’opera comprende pagine di diario, documenti, fotografie e annotazioni attribuiti a Gao Yue e datati tra il 1999 e il 2001, e ne documenta il complicato tentativo di comunicare con il regno subaqueo. È da questi materiali che veniamo a sapere del rapporto di Yue con un delfino, e della comunicazione tra umani e specie acquatiche resa possibile dalla traduzione delle loro frequenze sonore. Qualcosa di simile a quello che Maistrello realizza parallelamente, in collaborazione con lo Jonian dolphin conservation nel Golfo di Taranto, traducendo il linguaggio ad ultrasuoni dei delfini in frequenze, e associando queste ultime al movimento di diversi materiali (sabbia, farina, pigmenti colorati), fino a ottenere dei pattern fotografici attraverso il procedimento analogico della camera oscura, e affidando così una forma visiva a “suoni che noi umani non possiamo vedere, rendere visibile l’invisibile”, come spiega lei stessa in un video dell’Italian Trade Agency.
Da una parte c’è “il mondo marino fatto di specie di cetacei ma anche di abissi e di altri tempi e altri ritmi” ha raccontato a proposito di Blue Diamond in occasione dell’esposizione al Maxxi, e dall’altra “il mondo umano della logica della ragione ma anche del cercare oltre i propri limiti”. E allora è soprattutto il senso di un’assenza che la sua protagonista Gao Yue ricerca “un’assenza che non è mancanza ma possibilità di comunione tra mondi diversi e allo stesso tempo legati, un’assenza che è un vuoto che è molto vicino a una sensazione antica come quella del grembo materno, dove è tutto in possibilità in divenire e si è ancora totalmente natura”.
In questo ritrovato, artificiale, liquido amniotico, materia e visione producono un innesto che si schiude, restituisce alla pratica artistica il suo potere generativo, capace di trasformare il modo in cui guardiamo la realtà, pensiamo le cose, percepiamo il tempo. Solo tenendo insieme anatomia e immaginario potremo ridefinirci in un legame che passa per la soggettività del mondo, sembrano ripeterci i lavori di queste artiste.
Anticipare un ritorno alla terra ancora del tutto irreale significa allora pronunciare parole nuove, considerare la scrittura come un corpo, ogni corpo una forma d’arte. Il concetto stesso ne risulta trasfigurato, disperso in uno spazio fluido, nella promessa infinita di senso che si realizza solo attraverso storie dagli echi primordiali, eppure appena o quasi nate, ancora tutte da raccontare.
(Il Tascabile, 12 dicembre 2023)
*Claudia Bruno scrittrice e giornalista, si è laureata a Roma in Teorie della Comunicazione. È redattrice editoriale di inGenere, scrive di libri sul Manifesto e lavora come consulente editoriale. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati da Minima&Moralia, Not, Colla, Cadillac, Inutile, Abbiamo le prove e altre riviste. Ha scritto Sola andata (NNE, 2022) e Fuori non c’è nessuno (effequ, 2016).
di Antonella Mariani
La sedia che domenica 10 dicembre a Oslo resterà vuota durante la consegna del Premio Nobel per la Pace renderà evidente al mondo la ferocia del regime iraniano, che punisce duramente i suoi cittadini, e in particolar modo le donne, per il loro anelito di libertà.
L’assenza fisica di Narges Mohammadi – così come il prossimo 13 dicembre a Strasburgo quella dei familiari di Mahsa Amini, la cui memoria è stata onorata con il Premio Sakharov – sarà però tutt’altro che muta: sarà un grido al mondo e ricorderà che godere dei diritti umani fondamentali, contenuti nella Dichiarazione universale che proprio oggi compie 75 anni, in troppe parti del pianeta richiede lotta, impegno, sacrificio personale, talvolta la vita e spesso senza risultati apprezzabili nell’arco della propria esistenza.
L’attivista cinquantunenne si è battuta per i diritti delle donne e ne è stata privata, per l’abolizione della pena di morte e assiste impotente allo stillicidio di esecuzioni di giovani connazionali nel suo Paese. Il Premio assegnato dal Comitato di Oslo è a lei e a chi insieme a lei porta avanti il movimento nonviolento “Donne vita libertà”, sbocciato proprio dopo la morte di Mahsa Amini.
Alla brutalità del regime di Teheran, Narges e gli altri attivisti oppongono coraggio, forza d’animo, idealismo e resistenza. Ci piace immaginare però che la poltrona destinata a Narges a Oslo rappresenti il “vuoto” di altri milioni di donne che non hanno voce per gridare il proprio dolore. Il “vuoto” delle afghane rinchiuse da oltre due anni nel carcere immateriale dell’apartheid di genere teorizzato e realizzato dai taleban nella (quasi) indifferenza del mondo. Il “vuoto” delle israeliane brutalizzate nell’assalto dei terroristi di Hamas dello scorso 7 ottobre, le cui verità faticano a trovare il giusto riconoscimento. Il “vuoto” delle palestinesi uccise a migliaia sotto i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Il “vuoto” delle yemenite senza nome vittime di una guerra dai contorni oscuri e pressoché ignorata, delle dissidenti russe e bielorusse che si oppongono all’autocrazia e sono rinchiuse dietro le sbarre, delle ragazze stuprate a migliaia nella guerra fratricida del Tigrai… Anche per loro, oggi, per la loro resistenza che pochi conoscono e che ancora meno vogliono conoscere, è quella sedia vuota, quel baratro immenso in cui annegano diritti, libertà, dignità.
Narges Mohammed, in qualche modo, le rappresenta tutte, con la sua assenza e il sacrificio di sé. La sappiamo in una prigione, malata ma non arresa, e immaginiamo che oggi il riconoscimento che il mondo le riserva possa essere condiviso da milioni di altre donne sconosciute, la cui vita è costellata di fatica, di diritti negati e di futuro calpestato.
Il Nobel per la pace a Narges Mohammadi offre lo spunto anche per riflettere su altro “vuoto”. La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, Nobel per la letteratura 2015, scriveva che «la guerra non ha un volto di donna», intendendo che non ne sono le artefici ma le vittime incolpevoli. Potremmo chiosare che nemmeno la pace lo ha, purtroppo. Il Comitato di Oslo quest’anno ha premiato con il massimo riconoscimento una attivista che lotta per i diritti umani, nella convinzione che senza il rispetto di essi non ci può essere nemmeno pace.
Ma dobbiamo osservare che dalla Libia alla Siria, passando per il Sudan, nei processi di pacificazione attivi nel 2022 in cui l’Onu ha avuto una parte, la rappresentanza politica femminile si è fermata al 16 per cento (era del 19% nel 2021 e del 23 per cento nel 2020). Dunque la “sedia” della storia rimane priva di donne non solo perché esse sono le vittime misconosciute e addirittura ignorate di conflitti e discriminazioni, ma anche perché ad esse non viene riconosciuto un ruolo e un interesse nella costruzione della pace. Troppi “vuoti”, troppe assenze sono condensate in quella poltrona su cui nessuna, domenica, si siederà.
(Avvenire, 11 dicembre 2023)
di Giada Storelli
Nel gennaio 2014, sul sito web della Bbc, apparve un articolo dal titolo “Whatever happened to the term New Man?” a firma del giornalista Tom de Castella. Nell’articolo si ripercorreva la storia dell’espressione “New Man” che, a partire dagli anni Ottanta, descriveva una nuova e «exotic new species of man, happy to do the washing up or change a nappy» [una nuova specie esotica di uomini, felici di lavare i piatti o cambiare un pannolino].
Per l’Oxford English Dictionary, come riportato anche nell’articolo, per “New Man” s’intende colui che «rejects sexist attitudes and the traditional male role, especially in the context of domestic responsibilities and childcare, and who is (or is held to be) caring, sensitive, and non-aggressive» [rifiuta gli atteggiamenti sessisti e il tradizionale ruolo maschile, soprattutto nel contesto delle responsabilità domestiche e della cura dei figli, e che è (o è ritenuto essere) premuroso, sensibile e non aggressivo]. Non è un caso che tale cambiamento riguardo le mansioni dell’uomo all’interno del ménage familiare maturò negli anni Ottanta. In questo periodo, infatti, i ruoli di genere e il mercato del lavoro erano in profonda evoluzione, risultato delle lotte femministe, delle proteste giovanili e delle trasformazioni sociali del periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Come in ogni rivoluzione che si rispetti però, ci sono sempre delle figure che precorrono i tempi, segnando la strada dei grandi cambiamenti prima che questi maturino all’interno della coscienza di massa. È il caso, in questo contesto, dello scrittore inglese George Orwell, al secolo Eric Arthur Blair, un “New Man” ben prima che tale termine fosse coniato.
Nel sito theOrwellSociety.com sono raccolti una serie di saggi firmati da Richard Lance Keeble, suddivisi in tre parti, dal titolo “The Heart of the Matter” dove viene ricostruito un aspetto poco noto della figura dello scrittore, eppure fondamentale nelle sue opere come nella vita privata: la paternità. «Orwell – si legge nel terzo capitolo – had long expressed his wish to become a father. For instance, in April 1940, when his friends Rayner and Margaret Heppenstall celebrated the birth of a daughter, he said: “What a wonderful thing to have a kid of one’s own. I’ve always wanted one”» [aveva espresso da tempo il desiderio di diventare padre. Ad esempio, nell’aprile del 1940, quando i suoi amici Rayner e Margaret Heppenstall festeggiarono la nascita di una figlia, disse: “Che cosa meravigliosa avere un figlio proprio. Ne ho sempre desiderato uno”]. Dopo anni di tentativi infruttuosi di concepire un figlio, George Orwell e la moglie Eileen O’Shaughnessy vennero informati dal loro medico della disponibilità all’adozione di un bambino e nel giugno 1944 accolsero quello che venne ribattezzato Richard Horatio Blair. Passò poco più di un anno dell’arrivo del figlio ed Eileen morì prematuramente, all’età di 39 anni, all’ospedale di Newcastle.
Fu così che Orwell si ritrovò a crescere il bambino da solo, padre single di un figlio adottivo, una sorta di deformazione della figura paterna per la società di metà Novecento. Nonostante il consiglio di amici, che dopo la morte di Eileen cercano di persuadere lo scrittore a dare indietro il bambino, Orwell rifiutò con fermezza il loro invito e dimostrò di «padroneggiare le arti domestiche della paternità con abilità e piacere» applicandosi in mansioni assolutamente insolite, per quel periodo, al ruolo paterno. «My father – racconta Richard Horatio Blair a Richard Lance Keeble – was completely devoted to me. When Eileen died, he really cared for me, which was very rare at that time. He fed me, changed my clothes and nappies, he gave me baths: most fathers at that time never did that sort of thing» [Mio padre… mi era completamente devoto. Quando Eileen morì, si prese davvero cura di me, cosa molto rara a quel tempo. Mi dava da mangiare, mi cambiava i vestiti e i pannolini, mi faceva il bagnetto: la maggior parte dei padri a quel tempo non faceva mai cose del genere]. Non è di certo una novità la sensibilità anticipatrice di Orwell riguardo ai temi della società moderna – il caso più famoso è senza dubbio la contemporaneità delle questioni che trattò nel suo romanzo 1984 – ma altrettanto significativo è stato il suo contributo a dimostrare, con il suo esempio monogenitoriale, che una forma alternativa di uomo, padre e famiglia era possibile.
L’idea progressista di Orwell riguardo la paternità nasceva come reazione al rapporto difficile con suo padre – l’approvazione del quale lo scrittore ha sempre ossessivamente rincorso – e alla sua vicinanza al pensiero anarchico riguardo l’educazione dei bambini. Tale pensiero Orwell lo condivideva con un fotografo di origini italiane, Vero Recchioni, naturalizzato inglese con il nome di Vernon Richards. I due non solo sostenevano le idee del movimento anarchico inglese, ma convenivano anche nell’ideologia relativa alla funzione e all’uso dell’immagine, in particolare sul ruolo di quella fotografica nella costruzione di una nuova società. Fu così che nel 1946 Richards realizzò in una serie di scatti George Orwell con il figlio, foto uniche nel loro genere e rimaste inedite fino al 1992 per via della refrattarietà dello scrittore all’obiettivo fotografico. Vernon dunque documentò la spontaneità e l’affetto di un padre mentre gioca con suo figlio in intimità o spinge per strada il passeggino. Secondo lo scrittore farsi ritrarre in posa sarebbe stata una palese distorsione della realtà, perché il suo intento, e quello di Richards, era di trasmettere quel moment of truth, quel frammento di verità, che costituiva la base del credo fotografico di entrambi. Oggi tutta la serie di scatti originali è conservata alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel Fondo Fotografico Vernon Richards, che si compone anche di un nucleo di immagini relative alla famiglia del fotografo e di alcuni amici anarchici, pervenuto grazie a Fiamma Chessa curatrice dell’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.
Una di queste fotografie, e altre di Richards, sono le protagoniste di alcuni dipinti dell’artista Giulia Andreani nell’esposizione L’Improduttiva, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, visitabile fino al 10 marzo 2024. In questo corpus di dipinti l’artista ha rielaborato fotografie del periodo intorno alla Seconda guerra mondiale attraverso il patrimonio documentale di Istoreco (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea), dell’archivio privato dell’Ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro conservato presso la biblioteca scientifica Carlo Livi e della Biblioteca Panizzi. «Quando stavo lavorando alla mostra – spiega l’artista Giulia Andreani – mi sono imbattuta nel Fondo Vernon Richards. Il nucleo di foto di Orwell con il figlio adottivo mi colpirono particolarmente per due aspetti: il primo perché ritraggono un George Orwell diverso dalla solita narrazione di uomo schivo e freddo e dall’altra per il suo essere padre in un modo assolutamente rivoluzionario per l’epoca».
I temi della genitorialità, del femminismo e della divisione dei ruoli di genere per Andreani sono molto importanti nel suo lavoro e da qui la scelta di produrre questi dipinti: «Mi interessano particolarmente questi temi non solo a livello politico e sociologico ma anche nella rappresentazione nella storia dell’arte. Infatti sono molto rare le immagini di padri affettuosi, che esulano lo stereotipo biblico, perché considerato poco virile e quindi raramente raffigurati nella storia dell’arte occidentale». Le opere che ripercorrono la storia e l’intreccio di queste famiglie sono ospitate all’interno dell’ultima sala dell’esposizione alla Collezione Maramotti, dove sono raccolti alcuni ritratti che Andreani ha riprodotto di Orwell con il figlio, della moglie Eileen O’Shaughnessy e di Vernon Richards con sua moglie Maria Luisa Berneri, pensandola «come una grande famiglia anarchica allargata».
(Rivista Studio, 11 dicembre 2023. Traduzioni tra parentesi quadre di Umberto Varischio)
di Clara Jourdan
In un recente articolo, Donne e lavoro, l’Italia resta indietro. Senza indipendenza non c’è libertà, (La Stampa, 27 novembre 2023) Elsa Fornero afferma giustamente l’importanza dell’indipendenza per essere libere. Di quale indipendenza parla? «La libertà non si conquista senza l’indipendenza economica e questa a sua volta si ottiene con il lavoro», il lavoro retribuito intende. Ma qui si pone un problema, anzi due. Collegare la libertà al lavoro retribuito è vero fino a un certo punto, lo smentisce la vita di quelle donne che dovendo sommare il lavoro retribuito a quello domestico non hanno più tempo e forze per nient’altro. Alla faccia della libertà conquistata. Allora per capire la realtà bisogna smettere di chiamare lavoro solo quello retribuito. Lavoro è “tutto il lavoro necessario per vivere”, come è stato scritto (Immagina che il lavoro, Sottosopra 2009). Tutto il lavoro necessario per vivere è quello che fanno gran parte delle donne, e considerarlo tale dà senso a un modo femminile di intendere e praticare il lavoro, un modo prezioso e indispensabile per mantenere in vita l’umanità e che potrebbe diventare un insegnamento per tutti, specialmente in tempi in cui la guerra mostra i terribili limiti delle concezioni maschili della realtà. Un grande lavoro quello femminile, sì, ma la libertà? Veniamo al secondo problema. Per una libertà non ricalcata sui modi storicamente maschili occorre scostarsi dall’idea di indipendenza solo come indipendenza economica. È un fatto che ieri come oggi anche donne che hanno un lavoro retribuito o un altro reddito proprio continuano a dipendere da uomini, non solo mariti affettuosi o maltrattanti, ma datori di lavoro, compagni di partito ecc. Prima che l’indipendenza economica, dunque, per la libertà delle donne è necessaria l’indipendenza simbolica. In molte l’hanno sperimentata nel femminismo, tutte facendo conto sulle relazioni con altre donne. Cosa vuol dire concretamente indipendenza simbolica? Innanzitutto, non svalorizzare quello che desiderano e fanno le donne se diverso da quello che desiderano e fanno gli uomini, come invece leggo più avanti nell’articolo: «la parità, però, non è ancora raggiunta nelle discipline più scientifiche, non per inadeguatezza ma per sottili “consigli” a seguire percorsi di studi più “adatti alle donne”, secondo pregiudizi diffusi». Ho insegnato per tanti anni in un istituto tecnico turistico e linguistico, frequentato per il 95% da ragazze. Ragazze sottilmente consigliate? Eppure studiavano con interesse e piacere le lingue, la storia dell’arte, la filosofia… Forse il pregiudizio è in chi disprezza le scelte femminili quando non coincidono con quelle maschili. E riguardo alla scienza, ormai studiata e praticata da innumerevoli donne, viene anche il sospetto che l’esigenza di una totale parità di impegno scientifico femminile sia in funzione dell’attuale sistema economico («l’Italia resta indietro»), più che della libertà delle donne.
Non dubito che quello che Fornero scrive venga dalla sua esperienza personale di pregiudizi, discriminazioni, umiliazioni… La capisco e so che queste cose fanno parte della nostra storia. Ma partire da sé non vuol dire assolutizzare la propria esperienza, fermarsi lì nell’interpretazione del mondo per tutte. C’è sempre altro. Per esempio, io che sono della stessa generazione dell’ex ministra ho avuto anch’io un consiglio “sbagliato” ma di segno opposto: il mio professore di matematica mi consigliò ingegneria, non scienze politiche come volevo e ho fatto. E sono diventata femminista per un desiderio di libertà femminile, non di parità con gli uomini. Come moltissime altre non ho «reclamato l’uguaglianza», anche se questa è stata la risposta formale delle istituzioni politiche.
Non mi dilungo, ciò che dico è stato detto e scritto molte volte e da molte donne negli ultimi sessant’anni. Ma l’interpretazione corrente resta quella stereotipata espressa dall’articolo di Fornero: parità, parità, parità! Mi domando se non sia un modo, forse inconsapevole, per rassicurare gli uomini che restano al centro dei nostri pensieri, per fargli credere che quello che vogliamo si misura con i loro traguardi economici e politici, per dirgli che non hanno nulla da temere dalla libertà delle donne. Affinché smettano di ucciderci? Finora non è servito.
(www.libreriadelledonne.it, 8 dicembre 2023)
di Luisa Pogliana
Il contesto neoliberista-finanziario
Per anni noi donne abbiamo portato una nuova visione nel management, attente agli essenziali equilibri di potere in campo. Tanto tanto più necessario oggi, di fronte al grave cambiamento nel modo di governare le aziende. È il modello economico del neoliberismo finanziario, cui deriva un potere che agisce con nuove dinamiche.
Nella nostra visione l’azienda è per noi il punto di incontro di interessi diversi: finanziatori, proprietari, chi lavora, e al manager compete trovare un equilibrio tra questi interessi. Ma oggi lo stesso scopo dell’azienda – produrre beni o servizi – passa in secondo piano. Come anche la remunerazione dei lavoratori e gli investimenti, necessari a garantire il futuro. Perché uno dei primi mandati rivolti ai manager è contenere, tagliare il costo del lavoro.
L’azienda è distolta dal suo fine naturale, creare valore, ed è assoggettata a una estrazione di valore. La speculazione finanziaria prevale sull’economia produttiva.
È una tendenza che inizia negli anni 80 del 900, ma si è sviluppata in modo graduale, e solo negli ultimi anni ne abbiamo visto chiaramente gli effetti. Guardiamo per esempio un indicatore nel mercato del lavoro degli USA. La forbice tra produttività e remunerazione si è allargata sempre più: la produttività è cresciuta del 64%, le remunerazioni sono cresciute del 17%.
Il salto evidente del suo dominio è avvenuto con l’ondata del Covid, facendo leva soprattutto sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, che hanno isolato ogni lavoratore e lavoratrice con il lavoro da casa totale e obbligatorio. Così si toglie il fondamento della solidarietà, la forza della contrattazione, e si rende chi lavora più controllabile, dominabile. Infatti è ben prima del Covid che le grandi società di consulenza aziendale (McKinsey, Accenture…), mettevano l’isolamento dei singoli lavoratori come obiettivo principale indispensabile per ottenere tutto il resto. Si era valutato che ci sarebbero voluti 30 anni per raggiungerlo. Le politiche per contenere il Covid lo hanno reso possibile in tre anni.
Le pressioni sul management
Oggi la gestione dell’azienda da parte dei manager è sempre più condizionata da vincoli esterni: la pressione della crescente forza di questa pressione è la compliance: obiettivi predefiniti a prescindere dagli andamenti del business aziendale, standard di settore e certificazioni imposti a livello globale, limitano l’autonomia di azione dei manager di ogni livello.
L’altro strumento è la cosiddetta digital transformation. Strumenti tecnologici destinati a ridurre gli ambiti decisionali dei manager, e lo spazio per il lavoro umano con il suo valore.
Facciamo solo qualche esempio. Le piattaforme digitali impongono regole e ritmi molto più stretti della catena di montaggio. La gestione aziendale guidata dai dati (data driven), usa algoritmi ignoti ai manager stessi, e sminuisce il loro ruolo come autori di politiche e di scelte. I dati, inoltre, non sono neutri, ma riflettono i pregiudizi di chi li crea: verso le donne prima di tutto, e le etnie diverse dalla nostra, le età… Così gli algoritmi per selezionare il personale escludono le donne, perché non disponibili a lavorare senza limiti di tempo. Infatti l’Intelligenza Artificiale di oggi è prodotta da un mondo dominato da uomini – spesso misogini – bianchi e di alto livello sociale. Lo stesso avviene nella finanza speculativa.
La riduzione del potere manageriale
Il potere e lo status dei manager nei due ultimi decenni sono diventati via via molto limitati.
Si è affermato un nuovo potere, esercitato da lontano e difficilmente visibile: grandi investitori finanziari, grandi istituti bancari globalizzati, grandi case digitali. I manager di tutti i livelli e di ogni specializzazione ne sono toccati. CEO e Chief Financial Officer sono più esposti al mercato finanziario, che guarda gli andamenti del titolo in borsa molto più dei risultati nel business di riferimento: la loro remunerazione viene decisa da chi detiene le azioni. Anche i manager delle Risorse Umane sono esposti ad aspettative esterne, con il compito di tenere sotto controllo il costo del lavoro. Per gli altri si diffondono accordi diversi, con una flessibilità tutta a vantaggio aziendale: temporary manager, fractional manager, consulenza.
Complessivamente c’è un maggiore distanziamento tra il vertice e gli altri manager, spesso costretti a rinunciare proprio a quelle azioni che danno senso all’essere manager (come occuparsi di chi lavora). La figura del manager è erosa.
È una situazione frustrante, c’è un forte scontento. Ma si tende a non parlarne pubblicamente, per una sorta di pudore, per non sminuire la propria immagine. Si rischia di coprire l’insoddisfazione con atteggiamenti di facciata. Ad esempio, continuiamo a parlare dell’abusato “persone al centro”, ma è più una petizione di principio che una descrizione di ciò che riusciamo a fare. E si parla di “organizzazioni tossiche”, come si trattasse solo dell’agire di manager malintenzionati.
Come fare
Sappiamo che non saremo noi sole a poter contrastare il neoliberismo e le sue conseguenze, ma qualcosa si può fare. Qualcosa, infatti, sta già succedendo.
Negli Stati Uniti, culla del neoliberismo e della finanza, lì dove le politiche del personale si basano sulla relazione uno a uno, i lavoratori e le lavoratrici sono tornati a una risposta collettiva. Nonostante la paura di ritorsioni, c’è stata una crescita dell’adesione ai sindacati in media del 60% . Nei mesi scorsi gli scioperi sono scoppiati dappertutto, tanto che questa stagione è stata etichettata “l’estate calda”. Si intravede un cambiamento anche nell’atteggiamento dei manager: una nuova attenzione a recuperare spazi di azione per sé.
Queste lotte non vengono all’improvviso, sono maturate proprio mentre cresceva l’accanimento e la voracità sempre in aumento di questa economia. E sono state impreviste. Dunque ci fanno pensare che c’è uno spazio politico anche per noi. Importante è smettere di tacere su questa situazione. I margini di autonomia sono più ristretti ma ci sono, vediamo come usarli. Anche iniziative limitate, che incidono comunque sulle organizzazioni: diamo valore alla microprogettazione.
Se la situazione impedisce di esporci, certamente dobbiamo tutelare il nostro lavoro. Possiamo però dare vita a soggetti collettivi per fare fronte comune contro il nostro depotenziamento. Lasciamo da parte i discorsi difensivi, e guardiamo in faccia la realtà: diciamoci che cosa non si riesce a fare, o non ci fa brillare ma impaurire.
Un bell’incoraggiamento viene dal passato. In ogni epoca del capitalismo ci sono situazioni specifiche di ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze e del potere. E richiede una risposta adeguata. Ma ogni volta è venuta da una grande donna, e prima di un uomo. La prima è Beatrice Webb, che con l’arrivo della Rivoluzione Industriale, fonda il concetto stesso di management, basato sull’idea di Industral Democracy. Segue la Grande Depressione, alla quale Mary Parker Follet risponde con l’idea di un management “umanistico”: non il “potere su” ma il “potere con”.
E nel nostro periodo emerge Judy Wajicman, la più grande esperta del “capitalismo digitale”, nell’intreccio tra management/lavoro/genere/tempo.
Anche al neoliberismo possiamo dare una risposta. E chissà, forse ha raggiunto il suo massimo livello, forse il quadro sta cambiando. Ma noi non aspettiamo.
Luisa Pogliana ha fondato con altre l’associazione Donnesenzaguscio, per “riflettere sull’essere donna e manager” (www.donnesenzaguscio.it). Il video del Seminario Manager sotto pressione. Ma uno spazio per agire e cambiare c’è sempre (Milano, 18 novembre 2023) si trova su YouTube al link https://youtu.be/ML0geT4UR8c
(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2023)