di Umberto Varischio


Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».

Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.

Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).

Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».

Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».

Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».

In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».

La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».

I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.

Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».

Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».

Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».


(www.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2023)

di Marina Terragni


Ammesso che ce ne fosse bisogno, all’on. Maria Rachele Ruiu di ProVita ho detto con la massima franchezza che obbligare la donna intenzionata ad abortire di ascoltare il battito del cuore del feto non è una proposta ammissibile. Si tratta di un’idea insensata, sadica, punitiva e probabilmente incostituzionale che avrebbe probabilmente come unico effetto quello di incentivare l’aborto clandestino. Forse la proposta non andrà mai in discussione e resterà mera propaganda. Cattiva propaganda però.

Ancora una volta nel mirino ci sono le donne, ferocemente colpevolizzate. Vero che in materia di procreazione l’ultima parola non può che spettare a loro, a meno di non pensare di poterle obbligare a condurre la gravidanza con qualche mezzo di contenzione (tenerle in cella? legarle al letto fino al parto?). Vero però anche che sono molti i fattori esterni che pesano nella decisione di abortire, primo fra questi fattori la posizione dell’uomo con cui la donna ha concepito.

Quando si parla di aborto invece gli uomini scompaiono regolarmente dalla scena, così come spesso scompaiono dalla vita delle donne. Ma a una rilevazione empirica probabilmente scopriremmo che forse nella metà dei casi, probabilmente di più, le donne abortiscono perché non hanno accanto un uomo intenzionato a diventare padre e non possono permettersi di crescere un bambino da sole. La gran parte degli uomini ha un’idea di comodo dell’aborto: giusto un piccolo intervento, un fastidio che evita ben altri guai. La RU486 – pillola abortiva – ha rafforzato questa convinzione: si butta giù come un antinfiammatorio e la gravidanza magicamente sparisce. Ma gli uomini non vengono mai tirati in mezzo. Nemmeno dai ProVita.

«Per il piacere di chi sto abortendo?» si è chiesta Carla Lonzi.

Una donna che si ritrova costretta a interrompere la gravidanza a causa dell’irresponsabilità procreativa di un uomo sta subendo una violenza. È una violenza di cui non si parla mai, che viene sottaciuta anche dalle donne e non compare mai nel multiforme novero delle violenze maschili. Ma è ora che questo silenzio venga rotto, anche e non solo dal fronte pro-life.

Che il numero degli aborti diminuisca è un obiettivo condivisibile: meno dolore c’è e meglio è. Ma combattere per questo obiettivo non può significare combattere contro le donne. Ogni mossa in questa direzione va piuttosto intesa come supporto e vicinanza alle donne e non come giudizio e punizione: in questa chiave va letto il buon lavoro del Centro di Aiuto alla Vita milanese di Paola Bonzi, apprezzato perfino dagli avversari politici, perfino dai radicali che videro con favore l’attribuzione dell’Ambrogino d’Oro.

È ora quindi che questa violenza maschile misconosciuta venga nominata. Compresa la violenza economica: a parità di mansioni una donna continua a guadagnare meno di un uomo, in media 8.000 euro annui nel settore privato, per non parlare delle interruzioni di carriera fino alla perdita del lavoro. Anche questo rende molto difficile farcela da sole e tenersi il bambino, se lo si vuole.

Per essere credibili nel lavoro politico sull’aborto queste violenze vanno nominate.


(Feministpost, 19 dicembre 2023)

di Vita Cosentino


L’uccisione di Giulia Cecchettin, a due giorni dalla laurea, ha suscitato una tale ondata di attenzione e di partecipazione da farne un importante momento di svolta nella consapevolezza politica. Di quello che è seguito vorrei mettere in evidenza un fatto significativo per una politica come la nostra, che si fonda sul linguaggio: questa volta c’è stata una inedita e generalizzata presa di parola. In primis ha parlato la sorella Elena che dal suo dolore ha tratto una lucida analisi, poi su questa ennesima uccisione hanno parlato non solo le femministe, ma intellettuali, artisti, donne e uomini comuni. Mi ha commosso un bambino di undici anni che ha appeso davanti alla casa di Giulia un biglietto con su scritto: «prometto che da grande non diventerò mai come lui». In quei giorni perfino la mia parrucchiera parlava di patriarcato.

Considero positivo che la parola patriarcato sia uscita dagli ambiti femministi e sia diventata una parola corrente. Detto questo sono pienamente d’accordo con Laura Colombo quando nella sua introduzione dice che la parola giusta per definire il tempo che stiamo vivendo è post-patriarcato. Il patriarcato, infatti, ha perso sia la sua base nella società che il suo sistema di norme rappresentato dalla legge del padre ed è proprio il post, cioè la distanza, che permette di individuare a colpo d’occhio i comportamenti che si rifanno a quel modello del passato. Se fossimo ancora immersi in quella cornice culturale non ce ne renderemmo conto.

Di post-patriarcato parlano da tempo pensatrici femministe come Ida Dominijanni e Ina Praetorius, e nel 2014 Irene Strazzeri ha pubblicato il suo libro Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico. Ma è una parola che circola ancora poco ed è bene riprenderla e rilanciarla, perché fa chiarezza. Ha ragione Ida Dominijanni a ricordare nel suo bell’articolo su Internazionale che oggi la legge del padre è stata soppiantata dal “discorso del capitalista”, dal godimento immediato e dalla non sopportazione della frustrazione e della mancanza. Filippo Turetta, con la sua impossibilità ad accettare di essere lasciato e di vedere Giulia laurearsi prima di lui, è figura dell’oggi e non residuo del passato. Ma in quel passato trova il privilegio di essere uomo e ha a disposizione tutto l’armamentario prepotente e violento di quella cultura. Come ha detto Elena Cecchettin, «nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto».

Ora la questione è se quell’ondata è una fiammata che si esaurisce in grandi manifestazioni o se ci sarà un seguito di cambiamento e trasformazione. In questi giorni i femminicidi continuano inesorabili ma vediamo anche che non si sta arrestando il desiderio di cambiamento.

Sappiamo bene che la politica essenziale è che ognuno, ognuna parta da sé nel suo vivere quotidiano per trasformare la qualità delle relazioni in cui è inserito e inserita: quelle di coppia, quelle con i figli e le figlie, quelle con amici e amiche, quelle nel posto di lavoro. Inoltre diventa sempre più importante porre maggiore attenzione attorno a sé e non sorvolare sul commento sessista, sulla battuta misogina, sul paternalismo, sul minimizzare, sullo sminuire le donne.

Io penso anche però che il tempo sia maturo per un gesto simbolicamente forte. Nell’invito a questo incontro è citato il Manifesto di Rivolta Femminile che già nel ’70 diceva: «la guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile». Con le orribili guerre in corso, la militarizzazione del modello di comportamento maschile si è ulteriormente intensificata, per questo penso che ci voglia un gesto di rottura plateale. Ho in mente quello che ha rappresentato per le donne il Me Too, la cui forza è stata in grado di percorrere il mondo. Capisco che per gli uomini la cosa è più complicata perché c’è un doppio passaggio nella presa di coscienza. Il primo passo è senz’altro “mi riguarda” e mi azzardo a dire che la presa di parola di queste settimane ha posto le basi di questo primo passaggio. Il secondo passo è “non ci sto più” e questo va detto a voce alta per aprire a qualcos’altro.

Durante il funerale di Giulia, Gino Cecchettin, il padre, si è esposto con parole significative quando ha detto: «Mi rivolgo agli uomini, noi per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi sfidando la cultura che minimizza la violenza da parte di uomini apparentemente normali, non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione cruciale è creare una cultura di responsabilità e di supporto».

Ecco, è il momento per gli uomini di rispondere alla sua chiamata.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2023)

di Alessandra Sarchi


Mi è capitato qualche settimana fa di rivedere La ragazza con la pistola, il film con cui Mario Monicelli diede la possibilità a Monica Vitti di esprimere il suo talento comico, da protagonista assoluta di una commedia sceneggiata da Rodolfo Sonego e Luigi Magni. Il film uscì nel 1968 e venne accolto in maniera tiepida dalla critica; se andate a vedere nel Morandini tuttora trovate un giudizio non entusiasta: macchiettistico, caricaturale, non del tutto riuscito. Eppure a me che lo scoprii da adolescente piacque moltissimo e anche ora, che sono una signora di mezza età, mi ha fatto lo stesso effetto.

Ricordo di aver visto il film di Monicelli e alcuni di Lina Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nellonore (1972) e Travolti da un insolito destino nellazzurro mare dagosto (1974) insieme a mia cugina, eravamo a metà degli anni ‘80, in quella che poi sarebbe stata chiamata l’epoca del riflusso e del disimpegno, e per noi due ragazzette, sebbene ignoranti della faticosa acquisizione di diritti da parte delle donne dal dopoguerra in poi, era chiaro di avere davanti una visione nuova del rapporto fra i sessi, che metteva in luce con la parodia i cliché maschilisti da cui eravamo ancora circondate.

Alcune scene e alcune frasi entrarono nel nostro lessico privato, un modo per dirci che avevamo capito ciò per cui bisognava lottare, ma anche un modo per spezzare la retorica romanticheggiante e sentimentale che, nella cultura media, ricamava un pathos insopportabile anche in quelle storie in cui era evidente che la cosa migliore per una ragazza era tagliare i ponti e cambiare strada. E infatti, in quegli stessi anni, Cyndi Lauper cantava “Girls just want to have fun”.

All’epoca non sapevamo che La ragazza con la pistola era anche una rielaborazione in chiave di commedia di un fatto di cronaca: il rapimento e la violenza subita nel 1965 da una giovane siciliana, Franca Viola, che poi aveva rifiutato fermamente il matrimonio riparatore; né che il film di Monicelli era pure in dialogo con la trilogia di Pietro Germi: Divorzio allitaliana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Signore e signori (1966) e con l’indagine sulla femminilità condotta da Antonio Pietrangeli, in film come Adua e le compagne (1960) e Io la conoscevo bene (1965).

In qualche modo tuttavia, sebbene ci separasse un mondo dalla Sicilia rurale, ci identificavamo in Assunta Patané, una strepitosa Monica Vitti, rapita con la forza da Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré) un coetaneo con cui scambiava sguardi eloquenti, ancorché furtivi. Nonostante il rapimento [avviso: molti spoiler a seguire], nonostante sappia che perdere la verginità significa perdere la rispettabilità sociale e cadere nell’abisso delle svergognate, Assunta consuma un’infuocata notte d’amore con Vincenzo che la mattina dopo scompare. Obbligata a vendicare l’infamia, con una pistola nella borsetta e seicento lire che la madre le infila nel petto, Assunta parte dalla Sicilia per l’Inghilterra dove Vincenzo è fuggito.

Vestita di nero, con una treccia che arriva fino al sedere, capace di esprimersi a malapena in dialetto siculo, Assunta arriva nella Londra effervescente della fine degli anni ’60 e da lì iniziano per lei una serie di avventure che la portano a scoprire non solo un mondo profondamente diverso da quello dal quale proveniva, ma anche la possibilità di rapporti fra uomo e donna non per forza finalizzati al sesso o al matrimonio. Ma il modello precedente continua ad agire: per questo ha un incubo ricorrente: tornare al paese non vendicata davanti a una schiera di donne e uomini in nero le gridano «buttana, buttana».

Fatta la tara all’andamento talora bozzettistico, tipico peraltro della commedia all’italiana, e alla tendenza caricaturale di certi personaggi, il film di Monicelli è piuttosto innovativo per lo spazio che riserva a una protagonista donna e per come ne rappresenta l’intraprendenza. Innanzitutto Assunta, in apparenza imbottita di cultura patriarcale quanto i maschi che la circondano, si comporta in modo da rompere lo schema della donna che resiste, o subisce passivamente, l’atto sessuale. Con una gag che si ripeterà alla fine, nel loro secondo e ultimo incontro amoroso, Assunta finge di respingere Vincenzo – «Fredda come il marmo sono. Non sento niente» – ma in realtà è parte attiva, perfino esagerata nell’impeto degli abbracci e dei toccamenti, tanto che Vincenzo subito sospetta che abbia conosciuto altri uomini prima di lui e si spaventa di tanta foga.

«Incatenata a te voglio essere» gli dice Assunta quando lui, alla fine, le chiede di sposarla e di smettere di lavorare e uscire liberamente con gli amici, ed è proprio questa affermazione estrema che sottolinea e rivela la cultura del dominio e del possesso che sottende ogni gesto, ogni parola di Vincenzo. Una cultura che Assunta saluta per sempre con un bye bye dal traghetto che la porta all’isola di Jersey, mentre Vincenzo sulla banchina del molo impreca: «Buttana eri e buttana sei rimasta».

Ricordo di aver riso moltissimo a sentire Monica Vitti dire: «Fredda come marmo sono» mentre si avvinghiava a Carlo Giuffré nelle due scene che sono comiche e parodiche al tempo stesso. Divenne un modo di dire fra me e mia cugina, e capisco perché ridevamo tanto, e rido tuttora: perché siamo davanti a un classico esempio di umorismo in cui ciò che viene negato a parole si realizza nei fatti, e soprattutto perché Monica-Assunta agisce il proprio desiderio, non è (solo) preda di un uomo, ma lo vuole attivamente, e se lo prende.

L’emancipazione di Assunta progredisce nel corso del film, e il regista lo sottolinea anche con gli abiti e i colori che la sua protagonista indossa; vestita di nero, castigata o a lutto all’inizio, con quella interminabile treccia che sembra la lunga catena di stereotipi sessisti cui è legata, diventa sempre più disinvolta nell’indossare camicie colorate, minigonne e foulard sgargianti. Eppure, e in questo sta l’originalità del punto di vista adottato da sceneggiatore e regista, Assunta è fin dall’inizio una donna che si ribella al ruolo di vittima e di sottomessa.

La scelta stessa di farle compiere un viaggio in un paese straniero, da sola, armata di una pistola, senza nessun appoggio, è di per sé rivoluzionaria: sono pochissime le narrazioni in cui una donna affronta da sola il vasto mondo e, anche se declinate sul registro picaresco, le avventure di Assunta la portano a diventare una persona più aperta, meno succube del costume sociale dentro cui è cresciuta e soprattutto pienamente legittimata da sé stessa nel disegnare la propria vita. Moll Flanders di Daniel Defoe è forse una sua lontana antenata, ma senza il filtro del puritanesimo.

D’altra parte, mentre Moll Flanders si macchia di crimini rilevanti, Assunta Patanè più banalmente sbaglia mira e ferisce alle gambe l’amante di Vincenzo, ma è proprio in merito alla violenza e all’idea di possesso nella relazione amorosa che Assunta compie una grande svolta: va a manifestare con i pacifisti contro la guerra in Vietnam e dichiara di aver chiuso con la violenza. Ammazzare Vincenzo non le interessa più. Questo passaggio è di grande importanza perché incrocia due realtà apparentemente separate: il codice di onore con cui Assunta era cresciuta e la violenza della guerra; a questa legge maschile di aggressione Assunta dice no.

Infine, Assunta Patanè è soprattutto una donna moderna nel senso che vuole autodeterminarsi; è mossa da bisogni e desideri simili ai nostri, primo fra tutti quello di tenere le redini della propria vita e di non cedere più all’asimmetria* nei rapporti con l’altro sesso.

Viceversa, la figura di Vincenzo è grottesca: quale uomo vorrebbe sentirsi vicino a questo fantoccio di virilità che crede di essere un tombeur de femmes mentre è solo un rozzo e manesco che vagheggia una moglie zitta e sottomessa mentre passa da un’avventura all’altra? La figura di Vincenzo è così poco attraente che è facile non empatizzare con lui, liquidandolo come un sessista con tutti i peggiori luoghi comuni del meridionale, eppure piace ad Assunta e probabilmente in qualche fase della vita sarebbe piaciuto a molte altre donne.

Perché allora questa commedia, che ha tutti gli ingredienti e la relativa complessità di punti di vista, non si annovera fra i film che hanno cambiato il modo di pensare i rapporti fra i sessi, l’emancipazione femminile, e il contesto di violenza in cui ciò è avvenuto, e purtroppo avviene ancora, nel nostro paese? Ho continuato a pormi questa domanda nei giorni terribili in cui si scopriva la morte di Giulia Cecchettin, ennesima e non ultima donna uccisa da un uomo, l’ex fidanzato.

Ripensandoci e facendo un paragone tra il film di Monicelli e i film della Wertmüller che vidi da giovane nello stesso periodo, una ragione può stare proprio nel fatto che l’elaborazione della violenza attribuita ad Assunta finisce da un lato per esonerare la controparte maschile dal fare altrettanto, dall’altro in un certo senso stilizza la violenza, la derubrica a fatto di cui si può ridere. Ben altra è la sua rappresentazione nei film di Wertmüller: botte e umiliazioni viste da una donna rimangono tali e violentissime, anche se nel corso del film si ride. Come si ride o sorride, ma si soffre anche per le vessazioni, nel recentissimo film di Paola Cortellesi, Cè ancora domani, dove di nuovo la posta in gioco per la protagonista è l’autodeterminazione.

Sono consapevole che non è un libro, non è un film o una pièce teatrale che possono cambiare dinamiche di potere nelle relazioni umane così radicate e cristallizzate in assunti verbali, simbolici, di costume da risultare indiscussi, come la supremazia maschile sulle donne. Eppure la modesta fortuna di La ragazza con la pistola fa parte del problema: nei modi leggeri della commedia e nel regime discorsivo doppio che l’ironia implica, va oltre il ritratto di costume, va oltre i vari cliché che rappresenta in scena, e pone una questione fondamentale: la violenza e il suo inestricabile legame con la cultura patriarcale. Solo che rimane una domanda di cui sono le donne a farsi carico, non gli uomini.

Assunta da vendicatrice armata si trasforma in pacifista convinta, e quando tira fuori la pistola davanti a Vincenzo è solo per dirgli che è scarica. Rinuncia alla vendetta e all’uccisione, elabora la propria vicenda e va oltre. Mi piacerebbe trovare nel cinema un corrispettivo al maschile di questa rinuncia, ci ho pensato e non l’ho trovato, può darsi che esista e che io non lo conosca, ma in generale mi sembra che a mancare nei discorsi sulla violenza sia una presa di posizione da parte maschile, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. È dai tempi di Aristofane e della sua commedia Lisistrata, che metteva in scena lo sciopero del sesso delle donne ateniesi per far cessare la guerra del Peloponneso, che la riflessione sulla violenza e sulla guerra viene affidata alle donne, è ora che gli uomini s’interroghino sulla loro parte, che lo facciano con le parole e con le azioni.

(Il Post, 18 dicembre 2023)


(*) Assunta Patané non mette in questione l’asimmetria tra i sessi, ma l’assunzione che “asimmetria” significhi “sottomissione”. (La redazione del sito)


Nota sullautrice

Alessandra Sarchi

Nata a Reggio Emilia nel 1971 ha esordito nel 2008 con i racconti Segni sottili e clandestini (Diabasis editore). Ha pubblicato quattro romanzi con Einaudi: Violazione (2012), Lamore normale (2014), La notte ha la mia voce (2017) e Il dono di Antonia (2020); del 2022 sono i racconti Via da qui (Minimum Fax). È autrice di La felicità delle immagini il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati (Bompiani 2019) e del podcast Vive! Storie di eroine che si ribellano al loro tragico destino, interpretato insieme a Federica Fracassi, divenuto poi un libro pubblicato nel 2023 da HarperCollin

di Ilaria Gaspari


A cinquant’anni dall’incidente in cui la poetessa perse la vita, il ricordo del fratello minore. La risalita dopo la rottura con Max Frisch. «Era rigorosa, severa. Le interviste la mettevano a disagio, ma ne ho ascoltata una in italiano e sembrava meno timida»


Nell’autunno del 1973, cinquant’anni fa, Ingeborg Bachmann moriva in una stanza asettica del reparto Grandi ustionati all’ospedale romano di Sant’Eugenio, per le conseguenze del rogo accidentale innescato dalla brace di una sigaretta. Aveva quarantasette anni e da venti, con varie interruzioni, abitava a Roma: aveva traslocato molte volte, spostandosi dal centro ai Parioli, dove visse per qualche tempo con lo scrittore Max Frisch, poi di nuovo in centro. Alla sua morte, Heinrich Böll dichiarò di «pensare a lei come a una ragazza»: parole che Heinz Bachmann, il fratello di tredici anni più giovane, che Ingeborg adorava, riprende nel libro di ricordi che le ha dedicato (Ingeborg Bachmann, meine Schwester), pubblicato da Piper, storico editore delle opere di lei. Heinz, geologo, ha viaggiato in tutto il mondo e oggi vive a Oxford con la moglie Sheila – c’è nel libro una foto del loro matrimonio, nell’agosto del ’71 a Paddington, in cui sorridono insieme a Ingeborg splendenti di felicità.

Noi che amiamo lopera di sua sorella, non possiamo che esserle grati per averci donato questo ritratto affettuoso.

«Mi fa molto piacere. Forse, mi dico, ho fatto la cosa giusta. Sa, non è stato facile scriverlo, io sono uno scienziato e ho uno stile… da scienziato. Ho cominciato con l’idea di dover essere obiettivo al massimo. Lette le prime pagine, dalla casa editrice mi hanno fatto notare che doveva essere invece il racconto di un’esperienza molto personale. Ho dovuto cambiare completamente stile. Ma ci tenevo a scrivere qualcosa che potesse trasmettere un’immagine completa di mia sorella, raccontarla com’era quando non stava sotto gli occhi del mondo. Era molto nota: in Austria era una celebrità. Non poteva uscire senza essere riconosciuta. Pensi che all’epoca le persone mi fermavano…».

In quanto fratello di Ingeborg?

«Sì! Ora magari non si direbbe, perché sono un vecchio signore. Ma da ragazzo, la nostra somiglianza era così evidente che spesso le persone, incontrandomi la prima volta, mi dicevano: “Oh! tu devi essere il fratello”».

Nelle fotografie della giovinezza vi somigliate molto. È vero che non sappiamo che viso avrebbe avuto lei, se fosse vissuta fino a poter invecchiare… Negli anni, in assenza di Ingeborg, è cambiato il suo modo di leggerla?

«Per me è sempre stato molto importante non solo leggerla, ma cercare di comprendere il suo sforzo di trasmettere le sue idee in un modo nuovo. Negli anni ’50 e ’60 si distingueva davvero, si era inventata un suo stile. Sono cresciuto con le sue parole, che hanno contribuito a modellare il mio pensiero. Ora, più li rileggo, più i suoi testi, che mi hanno reso quello che sono, continuano a rivelarmi aspetti – di lei, di me – che non avevo ancora compreso».

Nel 1962, andò a trovarla a Roma e le scattò una serie di fotografie bellissime che spesso compaiono sulle copertine dei suoi libri. Immaginava che sarebbero diventate così celebri?

«Come fotografo ero un principiante assoluto, e a dirla tutta non è che poi abbia fatto grandi progressi. Ma ho scattato quelle foto con amore. È raro che su oltre settanta scatti la maggior parte sia quasi perfetta. Capita che il soggetto chiuda gli occhi, ad esempio, per una frazione di secondo. Invece sono venute quasi tutte bene. Lei era felice che l’esperimento fosse riuscito, io anche: non ho mai fatto foto tanto belle in vita mia, né prima né dopo. Un colpo di fortuna. Comunque, oltre alla serie scattata da me, rimangono tante fotografie di lei. Nell’archivio Frisch c’è una foto di loro due insieme sulla terrazza di via De’ Notaris [dove vissero insieme, ndr], scattata da Mario Dondero, in cui lei porta un vestito con la gonna a losanghe: ne abbiamo ritrovata un’altra di lei sorridente con lo stesso vestito, sembra proprio una ragazza. È la foto a cui penso quando penso a lei».

Qual era il tratto principale della sua personalità?

«Parecchie persone sono convinte che fosse molto seria, quasi severa. In realtà, anche se certo pensava con una logica limpida, rigorosa, era soprattutto divertente. Amava raccontarci piccole storie buffe. Persino dopo la rottura con Max Frisch… È vero, ha vissuto un periodo cupo, ha sofferto. Ma man mano che si riprendeva dallo shock, i suoi tratti più felici sono riapparsi. Per noi vederla rifiorire è stato bellissimo. Parlo per me e per Isolde, la sorella di mezzo».

Isolde e Ingeborg avevano solo pochi anni di differenza.

«Isolde è in vacanza in Grecia. Ha 95 anni. Viaggia da sola, è molto in forma».

Nellautunno 73, mentre Ingeborg era ricoverata al SantEugenio, il marito di Isolde, Franz, morì in un incidente stradale, lasciandola sola con sei bimbi…

«Una coincidenza tremenda. Per molti anni non sono riuscito a parlare di quel periodo. Oltretutto si era diffuso il sospetto che mia sorella fosse stata uccisa: era completamente assurdo, ma è una cosa che succede, quando muoiono persone famose. Si spargono le voci più incredibili. E accadeva anche prima dei social media».

A proposito: sua sorella era felice di essere famosa? In molti filmati sembra timida.

«Era timida. Le interviste la mettevano a disagio, e credo che la sua reputazione di persona molto seria sia nata anche da questo. Intellettualmente, come dicevo, era seria, sì: ma nella vita di tutti i giorni veniva fuori la sua personalità buffa, aperta. Recentemente ho ritrovato un’intervista in cui parla in italiano. È così diversa rispetto a quelle in tedesco! Sembra molto più felice, a suo agio, spumeggiante».

Ci sono registrazioni in cui legge poesie in un bellissimo italiano: aveva tradotto Ungaretti, era ormai la sua seconda lingua. E nel documentario-intervista girato da Gerda Haller nella sua ultima estate, ride molto. Ha visto il film che le ha dedicato Margarethe von Trotta, Viaggio nel deserto?

«Prima di iniziare la lavorazione la regista mi ha voluto incontrare, abbiamo parlato a lungo. Quando ho visto il film, sono rimasto affascinato. Mostra i suoi due lati. La sua attitudine alla felicità. E la malinconia».

Vicky Krieps, lattrice che linterpreta, mi è parsa molto convincente. Ma non so che effetto possa aver fatto a lei…

«Incredibile. È stato sconvolgente. Il modo di muoversi, la postura… la voce. Mi è sembrato di sentire mia sorella».

Nel film, Ingeborg appare molto sola in un mondo intellettuale ancora dominato dagli uomini.

«Sì. C’è una scena in cui fa un discorso davanti a una platea di soli uomini, anziani, austeri. Mi ha fatto ripensare a una lettera che ci aveva spedito a casa – ce ne mandava di molto divertenti. Diceva: “Sono sempre insieme a questi uomini, a parlare con loro di cose serie, e intanto le loro mogli se ne stanno lì sedute a bere il caffè”».

È stata una pioniera: una poetessa, donna, sulla copertina dello Spiegel nel 54. Ma nella vita non è stata sola: ha avuto molte amiche. Volevo chiederle di Maria Teofili, che a Roma per anni lha aiutata a gestire le faccende pratiche. Era una buona amica, credo…

«Molto. È morta qualche anno fa. L’ho incontrata diverse volte quando sono stato a trovare mia sorella a Roma. E ci ha dato una mano anche all’epoca dell’incidente: quando abbiamo dovuto liberare l’appartamento di Palazzo Sacchetti, con Sheila, lei era lì ad aiutarci. La comunicazione era un po’ difficile, perché io non parlavo italiano. Ma so quanto è stata importante per Ingeborg».

Ho incontrato varie persone che lavevano conosciuta, come Ginevra Bompiani, Moshe Kahn… ma anche chi lha amata attraverso la sua opera. Ogni volta ho la sensazione di un legame speciale, affettuoso. Credo che sia dovuto al fatto che la sua scrittura è toccante in un modo che non può lasciare indifferenti. Capita anche a lei di avere questa percezione?

«Mi piacerebbe che chi la legge potesse comprendere quanto fosse straordinaria non solo sul piano intellettuale, ma anche umano. Non era una persona astratta, era una donna gentile. Chi l’ha conosciuta lo ricorda, solo che il tempo passa e sono sempre meno le persone che hanno avuto l’occasione di frequentarla. Ma spero che la sua immagine viva per sempre».


(Corriere della sera, 18 dicembre 2023)

di Filippo Rea


Questo testo nasce dall’intervento alla redazione aperta di #VD3 del 3 dicembre 2023 “È ora di cambiare”, presso la Libreria delle donne di Milano.


L’invito aperto alla Redazione di Via Dogana 3 ci interroga sulla «continuità tra tempo di guerra e tempo di pace», allora io provo a rispondere utilizzando le modalità che ho incontrato nei gruppi della rete Maschile Plurale; provo cioè a osservare da vicino le mie relazioni di intimità e l’esperienza di insegnante di Scuola dell’Infanzia. Parto da un’osservazione di Marco Deriu che nel suo libro: “Dizionario Critico sulle Nuove Guerre”1 sottolinea come «la guerra materiale trova un suo fondamento nella dimensione dell’immaginario», ed è qui che troviamo continuità tra la dimensione bellica e la violenza che è uno degli aspetti caratterizzanti il dominio sulle altre soggettività che noi uomini siamo chiamati ad agire. In queste settimane in cui la “chiamata alle armi” degli eserciti risuona prepotente insieme ai richiami alla forza, mi è capitato di incontrare gruppi e associazioni che ci interrogano intorno al fenomeno della violenza degli uomini sulle donne, anche oggi ribadisco di non parlare a nome di nessuno se non mio. In uno di questi incontri un ragazzo ci sollecitava sul dovere di protezione delle donne a lui vicine, che quella “chiamata alla forza” esige da lui in quanto uomo; l’unica risposta che ho trovato, e porto anche a voi qui, è la possibilità di rintracciare nelle mie relazioni intime questa chiamata. In particolare nella mia esperienza di padre, dove si manifesta nella paura che mia figlia sia più debole e fragile di suo fratello; la sua supposta e non reale fragilità mi spinge e autorizza a esercitare quel diritto/dovere di protezione che in realtà nasconde lo squilibrio di potere e di ruoli nella relazione tra i sessi e i generi; squilibrio che muove dal principio per cui io e mio figlio, in quanto maschi, occupiamo un luogo simbolico che parla di una gerarchia di valori. Io però posso evitare di rispondere a questa chiamata riconoscendo quanta forza è necessario evocare nella relazione di cura con mia figlia, una forza diversa da quella che vuole noi maschi duri e incrollabili. Ora posso riconoscere le mie fragilità e vulnerabilità che nascono nell’intimità di quella relazione, e che sono fonte di ricchezza e autenticità. Insieme a questa nuova forza e ricchezza trovo anche nuove fatiche e responsabilità, che sono inevitabilmente intrecciate al desiderio che mi spinge fuori dalla posizione di dominio. Posso scegliere questa cura intima che la posizione di padre tradizionale non vorrebbe mi spettasse. Nei giorni successivi all’uccisione di Giulia Cecchettin molto si è detto e scritto, da destra risuona con arroganza il richiamo al maschio forte nell’idea che Filippo Turetta sia in realtà un uomo debole, un “maschio femminilizzato” che non sa controllarsi e che per questo diviene pericoloso; di nuovo l’idea che il femminile sia degradante, la chiamata alle armi del maschio tutto di un pezzo, la voglia di mettere distanza tra sé e “l’altro”, questa volta non più il mostro instabile ma un nuovo maschio, fragile e quindi non correttamente funzionante. Mi viene chiesto come io abbia riconosciuto in me questa chiamata e di conseguenza come provare a rifiutarla. Forse mi è possibile perché avendo scelto un mestiere tradizionalmente considerato “da femmine” ho incontrato nel mio percorso molte donne autorevoli, che sono state mie maestre e colleghe nel mestiere di insegnante e queste relazioni mi hanno permesso di disinnescare la presunzione di superiorità del mio genere, potendo così scegliere una dimensione lavorativa finalmente non performativa o competitiva. Così come nelle relazioni con amiche e compagne di vita posso imparare cosa non desidero essere e insieme coltivare legami intimi che mi vedono libero di esplorare desideri ed emozioni, libero da gabbie e stereotipi. In tempi recenti l’incontro con gli uomini dei gruppi di Maschile Plurale mi ha mostrato un modo prezioso e trasformativo del prendere parola tra maschi, diverso dalle modalità che avevo appreso in quelle zone oscure dove vengono insegnate le regole delle relazioni: la costante tensione alla performance e alla sopraffazione dell’altro, la distanza del corpo dall’esperienza e dei corpi tra loro, il divieto all’intimità prima di tutto con se stessi e poi con gli altri, la fragilità e la vulnerabilità da evitare a tutti i costi. Infine l’incontro con il femminismo e le sue pratiche mi ha regalato strumenti del tutto nuovi per esercitare il desiderio di rileggere la mia identità e il modo in cui abito le relazioni. Voglio citare anche io l’articolo di Dominijanni su Internazionale2, in particolare il passaggio in cui ci dice che: «Se il possesso di una donna diventa così irrinunciabile e il suo diniego insopportabile, le ragioni vanno ricercate anche nell’economia psichica propria dell’impero della merce e del mercato, che non genera mostri devianti ma figli disciplinati e conformi, perfettamente assoggettati alle sue norme». Lo cito per dire che riconosco appieno la mia origine di figlio disciplinato da un sistema simbolico dal quale desidero emanciparmi, e che anche nel mestiere di Maestro sento intorno a me la chiamata (di nuovo da respingere) a «disciplinare e conformare» bambini e bambine, con voce grossa e paternalistico autoritarismo. Soprattutto sento che questa chiamata alla disciplina mi arriva in quanto uomo, ovvero corpo estraneo, imprevisto, in una istituzione scolastica da sempre abitata per lo più da insegnanti donne. Quella stessa istituzione scolastica in cui, in contrasto con cento anni di esperienze e pensiero sulla scuola davvero troppo poco diffusi, ancora trova spazio uno sguardo degli adulti che vuole che i bambini maschi ripetano ossessivamente il “gioco eccitante”3 della performance, della violenza e della guerra.


1 Deriu M. (con la collaborazione di Tosolini A., Barbieri D.), Dizionario Critico delle Nuove Guerre, 2005, EMI, Bologna

2 https://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2023/11/23/femminicidio-cecchettin-patriarcato-vacillante

3 Qui un testo collettivo su maschile e guerra: https://maschileplurale.it/maschi-e-guerra/


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 17 dicembre 2023)

di Franca Fortunato


Quando nasce una bambina o un bambino è la vita che viene al mondo grazie al di una donna, come la ragazzina di nome Maria che secoli fa in Palestina, a Nazareth, acconsentì alla venuta del bambino divino che nacque povero in una stalla, al freddo e al gelo, riscaldato da un bue e da un asinello, visitato dai pastori, accorsi a adorarlo, e dai Re Magi, venuti da lontano per portare oro incenso e mirra. È così che da duemila anni a ogni Natale si rinnova quell’evento inaudito, non con l’albero o i regali di Babbo Natale, ma col presepe, almeno per la mia generazione, dove si aspetta la notte di Natale per deporre nella grotta il bambinello Gesù. Ogni anno mi chiedo dove stia nel nostro tempo il senso del Natale che è vita, speranza, amore che ogni nascita porta con sé. Quest’anno Maria in Terra Santa non riuscirà a salvare la sua creatura dalla strage degli innocenti che si sta consumando a Gaza. Ogni volta che muore una/un bambina/o si fa buio, e quando sono migliaia e migliaia a morire, come a Gaza e in tutte le guerre, le tenebre della notte avvolgono l’umanità. A Gaza, bambine/i lasciati senza cibo, senza acqua, senza farmaci, muoiono sotto i bombardamenti israeliani (18.000 i morti, un terzo bambine/i). Neonate/i, abbandonate/i negli ospedali, prima di essere bombardati, muoiono nelle incubatrici per mancanza di elettricità. Ospedali, case, scuole, biblioteche, siti storici e archeologici, campi profughi, tutto distrutto e raso al suolo con la stessa furia con cui Tito, l’imperatore romano del III secolo d.C., entrato a Gerusalemme assediata, distrusse il Tempio e costrinse gli ebrei alla diaspora. Oggi Tito sono gli israeliani che con l’esercito più potente del mondo hanno assediato e invaso Gaza e la stanno radendo al suolo, spingendo i palestinesi fuori dalla loro terra. A Gaza non c’è una mangiatoia dove trovare riparo dai bombardamenti ma solo “poveri cristi”, che aspettano di morire. «Ora non ci resta che aspettare la morte: che sia dagli aerei, o per fame o per malattia», scrive nel suo diario da Gaza sud Aya Ashour (Il Fatto Quotidiano, 12/12/2023). Questo non è “diritto alla difesa” ma vendetta, ritorsione, terrorismo, genocidio come risposta all’attacco terroristico di Hamas. Ripulire Gaza dai palestinesi, dagli arabi come li chiamano i sionisti nazionalisti perché per loro la Palestina non esiste, non è mai esistita e non esisterà, è la strategia che Netanyahu e il suo governo stanno perseguendo come anche i coloni da anni nella Cisgiordania occupata. Coloni che, come riporta nei suoi reportage su La Stampa Francesca Mannocchi, pensano che oggi, dopo la Nakba (catastrofe) del 1948, sia arrivato il momento di portare a termine il sogno di quel gruppo di giovani sionisti che nel 1882 scappò dai pogrom dello zar di Russia ed emigrò in Palestina per conquistarla e colonizzarla e «farne un rifugio sicuro per gli ebrei perseguitati in Europa». «Un solo Stato per un solo popolo», è questo, da sempre, il progetto dei coloni e dei sionisti nazionalisti, oggi al potere in Israele. «Uno Stato che si chiami Palestina – dicono i coloni di Cisgiordania – non è realizzabile. Gli ebrei hanno diritto ad avere uno Stato e averlo da soli. Ci sono tanti Stati arabi, dove i palestinesi possono essere dislocati». «La speranza di una convivenza non è più possibile e dovete prenderne atto come ne abbiamo preso atto noi. Non si tratta più di discutere la pace […], si tratta di accettare la fine di una impossibile coesistenza. Prima lo fate, prima possiamo vivere nel nostro Stato, perché non abbiamo un altro posto dove stare, a differenza degli arabi». Non cercate il Natale dove c’è guerra, odio e violenza. Non cercatolo a Gaza. Non lo troverete.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 16 dicembre 2023)

Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle
filosofe
, ed. Tlon 2023. “È stato necessario compiere un gesto teorico e
politico radicale: togliere ai concetti di bene e male l’iniziale maiuscola
per riportarli nella nostra realtà vivente e quotidiana. L’inefficacia dei
sistemi filosofici e culturali è contrastata da pensatrici come Françoise
Dolto, Iris Murdoch, Flannery O’Connor e molte altre, le quali
dischiudono prospettive e pratiche inattese che possono diventare il
cardine delle relazioni”. Annarosa Buttarelli dialoga con Mirella
Maifreda.

Per acquistare online Bene e male sottosopra:

https://www.bookdealer.it/libro/9791255540274/bene-e-male-sottosopra-la-rivoluzione-delle-filosofe

di Marina Terragni


In tante natività che fino a non molto tempo fa tenevamo appese sopra i letti e nelle aule di scuola si vede bene lo sguardo estatico del bambino verso la madre. Nel suo bellissimo saggio “La mente estatica” Elvio Fachinelli sorprendentemente parla dell’estasi non come luogo di beatitudine ma come zona di pericolo, di minacce e di ambiguità: «Uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile».

Il pericolo per il bambino in estasi – che a lungo si sentirà tutt’uno con la madre – è che la madre distolga lo sguardo da lui, che non gli offra più il seno, che rompa la simbiosi e lo lasci morire. Anche la vita di lei è in pericolo, l’odio del bambino è cordialmente ricambiato, ma chi rischia di più è la creatura.

«Nel lattante amore e odio sono intensi» dice Donald Winnicott. Il bambino odia proprio perché percepisce fino a che punto la madre potrebbe odiarlo. Nell’incanto apparente di quello sguardo c’è l’inferno.

Più o meno fino ai tre anni, fintanto che non si “individuerà”, il bambino vedrà nella madre la sua dea onnipotente e minacciosa, oggetto di adorazione e di terrore. Chi ha messo al mondo un maschio lo sa. Conservo ancora un disegno infantile di mio figlio: ci sono io, donnona enorme in mezzo ad altre persone minuscole, e nella pancia ho un bambino. Titolo dell’opera “Mamma Gigante” – mi ha chiesto di guidargli la mano per scriverlo: per quello mi ha disegnata di quelle dimensioni, sono così grossa che potrei uccidere tutti. Ecco una buona rappresentazione della scena madre.

Poi capita qualcosa, in genere al tempo della scuola materna. Nel nostro caso il rito iniziatico è stato uno “scambio di sangue” – un taglietto sul suo braccio e uno su quello del compagno del cuore, messi poi a contatto – a sancire una seconda nascita. Sangue vivo per lavare via quello immondo del parto. Uomini messi al mondo da uomini e tra uomini: una formale dichiarazione di indipendenza. Alla detronizzazione della dea, faccenda ben rappresentata anche nella narrazione cristiana, si accompagna l’obbligo di disprezzo per le “femmine”. Tutto comincia e ricomincia ogni volta così.

Quando assistiamo alla furia femminicida di fronte alla libertà di una donna e al suo possibile abbandono dobbiamo ritornare lì: la scena del delitto è la scena madre. Il maschio violento è in preda al terrore. Ha paura di morire se lei se ne va. L’assassinio fantasticato nella fase simbiotico-estatica stavolta viene agito, lui non è più inerme e ha la forza per farlo, un neonato furioso di ottanta chili. La dichiarazione di indipendenza era stata solo una parata, l’individuazione non è riuscita. Lui non ha mai smesso di sentirsi tutt’uno con lei, uccide sperando di sopravviverle ma tante volte capisce che non ce la farà e uccide anche sé stesso.

Lia Cigarini dice che sulla relazione madre-figlia c’è stato molto pensiero delle donne, mentre sul rapporto madre-figlio abbiamo ancora tanto da capire. Forse non riusciremo a ridurre/disinnescare la violenza maschile finché non ci avremo ragionato a fondo.

È qui che si profila anche una scena-padre.

Intervistando Marco Deriu (Il problema degli uomini è che sono incapaci di parlare del proprio vissuto. Parla il sociologo Deriu, Il Foglio, 23 novembre 2023) riservo l’ultima domanda proprio a questo: «Se è vero» gli chiedo «che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?».

«Quella con la madre onnipotente» risponde Deriu «è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».

L’assenza (forclusione del nome del padre, la chiama Lacan) è il tratto più comune nei padri post-patriarcali. L’obbligo della paternità non esiste più, il sistema che dava le regole, essere padri e come esserlo, si è dissolto. Quelli che diventano padri giocano da soli, devono inventarsi passo passo, spesso fanno confusione tra sé e la compagna – “ragazzi-madre”, per rubare il titolo a una canzone di Achille Lauro – o caracollano tra fuga e lotta rabbiosa, fight or flight. Restano figli, fratelli tra loro e dei loro figli.

A partire da qui, dalla scena padre, e approdando a ritroso alla scena madre si può forse immaginare un lavoro davvero efficace contro la violenza, lavoro che va fatto dagli uomini in prima persona: gli schemi della psicoanalisi, da Freud a Lacan, vanno riempiti del vivo dell’esperienza autocosciente. Gli uomini devono parlare fra loro a partire da sé, tenendoci noi disponibili all’ascolto e al dialogo per dare una mano a capire come ricostruirsi maschi e padri nella pace, liberi dall’obbligo del dominio, dalla paura, dalla rabbia, capaci di gratitudine per la donna che li ha messi al mondo e per quelle che li rimettono al mondo ogni giorno.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 15 dicembre 2023)

di Dora Casadio


In certi momenti mi è impossibile restare in silenzio.

Ogni minima parte di me mi costringe a parlare. 

Vinta la paura d’aprirmi, ho parlato. Non è semplice farlo per la prima volta davanti a un pubblico, e ora non è semplice scriverlo.

Ciò che mi ha indotto a dare voce alle mie riflessioni è una fortissima necessità di cambiamento, una necessità che ha radici nelle mie esperienze personali e si è intensificata grazie ai momenti di condivisione e ai confronti costruttivi. Ho capito che le mie esperienze individuali hanno una portata universale, così ho deciso di raccontarle.

Ci tengo a sottolineare che non sono un’eccezione, bensì la regola. Non sono un caso speciale, non mi sento diversa da migliaia di altre donne, mi sento solo una di tante. Ingiustamente una di tante. Ingiustamente perché tante sono le vittime di violenza, e una sono io.

Più volte nella mia vita mi sono ritrovata in una situazione tale da poter denunciare un uomo che su di me aveva esercitato una violenza. Non l’ho mai fatto, in nessuna delle occasioni. Ogni volta mi son ripromessa che, se mi fosse riaccaduto, l’avrei denunciato, ma effettivamente non l’ho mai fatto.

Il senso di colpa è opprimente. Soprattutto perché mi son sempre detta di avere le risorse per affrontare un processo in tribunale: quelle economiche, perché i lunghi e lenti tempi della giustizia in Italia costano caro, ma soprattutto quelle psicologiche, bisogna essere forti per affrontare una causa in cui si viene costantemente messe alla gogna. Le modalità che hanno per farlo sono fra le peggiori, non contemplano la delicatezza della situazione e la profondità delle ferite che gli episodi del genere lasciano.

Evidentemente queste risorse non le avevo. Solo oggi lo comprendo veramente e solo oggi mi ritrovo a confessarlo; quasi a sputarlo, a vomitarlo fuori. Perché a questa necessità non mi posso più sottrarre, esternare il mio vissuto è diventata urgenza. Non per me, ma per le altre donne che questa urgenza ancora non la sentono, perché non hanno i mezzi, non riescono a distinguere quale sia un comportamento violento o no, cosa sia una relazione tossica o meno, o forse perché hanno giustamente paura, paura anche di non essere credute. Per prime, tante volte, noi stesse non abbiamo gli strumenti per riconoscere queste situazioni, o se li abbiamo, temiamo le ripercussioni. Men che meno li hanno gli uomini, vittime anche loro di questa società maschilista. Questo è il punto: è necessario che si sviluppi una nuova coscienza collettiva che includa entrambi i sessi in un rapporto di totale equità, per un beneficio comune.

Alle elementari mi chiamavano “l’avvocato delle cause perse”, perché su di me gravava ogni ingiustizia. Son cresciuta così, a difendere i miei diritti e quelli degli altri. Nonostante questi fossero i miei valori, non ho saputo tutelarmi dagli episodi di violenza, episodi simili a quelli che quotidianamente tante donne vivono. Non parlo solo di violenza fisica, che è la più riconoscibile, ma anche quella verbale, psicologica ed economica; a volte anche il silenzio è violenza.

Una volta un buttafuori in discoteca, un’altra un medico o un professore, magari un passante per strada… tanti sono gli esempi che ognuna di noi potrebbe fare.

L’esperienza più traumatica della mia vita è stata il mio primo amore.

Non auguro a nessuno che queste due cose, un uomo violento e l’amore, si trovino insieme, ma sono sicura che capiti spesso. Quando li incontri per la prima volta il binomio è logorante. Non hai l’esperienza dalla tua parte, solo una vaga conoscenza teorica che nulla può contro le emozioni. Ancora prima di rendermene conto, mi sono ritrovata in un vortice di brutalità che mi ha travolta. Ho perso tutto ciò che credevo definisse la mia identità. Non mi riconoscevo più in quella persona. Vivevo il dolore che provavo, sì, ma lo vivevo lontano, perché quel corpo era solo un contenitore dell’anima che andava man mano svanendo. Terribile era il senso di impotenza e angoscia, terribile quello di estraniamento. Nella mia mente ho immaginato più volte l’ennesimo titolo di giornale che parlava di femminicidio, con il mio nome. Ma il dolore più grande è stato pensare alle persone a cui voglio bene e al male che ho causato loro quando hanno saputo in che situazione ero. La donna emancipata che credevo di essere, non lo ero più e forse non lo ero mai stata. Rimane solo un sentimento d’intensa vergogna. Quella che si prova davanti a una sconfitta enorme, quella che ti fa pensare che il problema sia tu, e non il tuo carnefice.

Ho avuto la fortuna di riuscire a uscirne. È importante in questi momenti saper chiedere aiuto, e adesso, nonostante siano passati anni, non posso più tacere. Sento il fortissimo bisogno di parlare. Che la mia esperienza orribile diventi utile. Che il mio dolore eviti altro dolore e diventi forza per le donne là fuori che non riescono a svincolarsi da queste situazioni paralizzanti. Perché là fuori, davanti alle ingiustizie, il mondo non si scandalizza e spesso tace. Si sente meno il peso della colpa quando i crimini li legittima la società in cui si vive.

Io non ci sto più. Voglio che si sviluppi una nuova consapevolezza. Non posso pensare che tutto questo male non porti a niente. Deve alimentare il fervore delle nostre battaglie. Dobbiamo metterci al servizio di questa causa, ora più che mai. Troppe vite sono state strappate inutilmente. Troppe donne vivono ancora nella paura. Farò di tutto per piantare semi, agire, produrre cambiamenti. Cercherò di far capire agli uomini che quella donna che viene maltrattata, strumentalizzata, umiliata e mortificata, potrebbe essere loro figlia, madre, sorella, moglie, compagna o amica, e farò di tutto per far capire che nessuna lo merita.  

Amica non sei sola, parla, racconta, denuncia anche tu. Liberati e liberiamoci.

Dicono che ora sia il kairos. Ora è il kairos.

È il momento giusto per la nascita di un nuovo femminismo, un femminismo che includa anche gli uomini.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 15 dicembre 2023)

di Ida Dominijanni


La gloria dell’Ucraina non è ancora morta,

né la volontà.

Ancora su di noi, giovani fratelli,

il destino sorriderà

(Inno nazionale ucraino)

Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta

Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa

Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte

Siam pronti alla morte, Italia chiamò

(Inno nazionale italiano)

Sii gloriosa, nostra patria libera,

unione eterna di popoli fratelli

(Inno nazionale della Federazione russa)


Klondike, “Restare a casa”, è un film della regista ucraina Maryna El Gombach, premiato a gennaio 2022 al Sundance Film Festival e a febbraio, pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, alla Berlinale. È un film duro e terribile. Racconta la storia di Irka, una donna incinta che vive con suo marito e suo fratello in un villaggio del Donbass quando, nel 2014, comincia la guerra civile fra l’esercito nazionale ucraino e la minoranza separatista sostenuta dai russi. I tre abitano in una casa isolata immersa in un paesaggio desolato, che si trasforma essa stessa in teatro di guerra quando il crollo di un muro di cinta fa saltare ogni confine fra dentro e fuori, fra pubblico e privato, fra personale e politico, fra normalità quotidiana ed emergenza. Non è solo che la guerra entra in casa, come nelle immagini che dal giorno dall’invasione russa documentano i bombardamenti, gli edifici sventrati, gli scantinati trasformati in rifugi antimissile; nel film la casa diventa propriamente il set della guerra, di una guerra che sconfina a sua volta dall’esterno all’interno della famiglia stessa, fra il marito della protagonista che sta con i separatisti e il fratello che sta con l’esercito ucraino. Irka invece non sta con nessuno. Tenta per tutto il film di mantenere la sua regia delle cose domestiche, impartendo compiti ai due uomini che però sfuggono al suo controllo per obbedire al richiamo delle armi. All’inizio delle ostilità il marito le consiglia di trasferirsi in città per partorire in ospedale, ma lei non si muove, decide testardamente di restare lì, di resistere e di partorire in casa senza l’aiuto di nessuno. 

Le cose precipitano, i due uomini finiscono ammazzati insieme dai soldati russi, Irka resta sola nella sua casa-set e da sola mette al mondo suo figlio, in una lunga sequenza finale che è una presa diretta volutamente iperrealistica del travaglio, del parto e del taglio del cordone ombelicale, e in cui salta un ulteriore confine, quello fra umano e animale. Il bambino, un cucciolo minuscolo, viene finalmente alla luce, e si potrebbe pensare che questa nascita voglia essere un lieto fine, la vittoria della vita sulla morte e del materno sulla distruttività maschile. Invece no. L’effetto, al contrario, è di un materno che ridotto a ostinazione biologica – a “nuda riproduzione”, potremmo dire parafrasando l’abusata “nuda vita” di Agamben – perde senso. Ed è di un crescendo in cui la forza della resistenza rischia di diventare altrettanto cieca di quella dell’aggressione a cui risponde. 

Restare, andare

Come tutti i buoni film, Klondike tocca l’inconscio e lo mobilita, attivando e autorizzando associazioni libere e domande scomode che la razionalità censura. Così almeno è accaduto a me per entrambi gli effetti che ho appena menzionato, ovvero per il senso che nel film assumono la resistenza e il materno, nonché il nesso che in qualche modo li lega. Comincio dalla resistenza, con una premessa, che riguarda la mia remora ad accettare l’analogia fra la difesa degli ucraini dall’invasione russa e la lotta partigiana da cui è nata la nostra Repubblica, analogia che nel discorso pubblico italiano è stata decisiva per dettare i termini non tanto della solidarietà quanto dell’identificazione con la causa ucraina. La resistenza italiana ebbe com’è noto due facce, quella della guerra di liberazione nazionale dall’invasione tedesca e quella della guerra civile di liberazione dal regime fascista; divise il popolo italiano fra fascisti e antifascisti, nonché il fronte antifascista al suo interno, e fu non malgrado ma grazie a queste divisioni che nacque una Repubblica antifascista e pluralista, costitutivamente e positivamente contrassegnata dalla diversificazione ideologica e dal conflitto politico. Diverso è il caso della resistenza ucraina, dove la controfaccia dell’indubbio coraggio eroico di un popolo che si mobilita compattamente contro l’invasore è un nazionalismo senza eccezioni e senza dissenso, che non divide ma uniforma il popolo ucraino attorno al suo commander in chief e all’investimento identitario sulla propria terra, sulla propria lingua e sulla cancellazione della lingua del nemico, sul taglio drastico delle radici culturali che lo legano al popolo russo. E non è affatto automatico che questa passione identitaria e nazionalista preluda alla fioritura di una democrazia, come sostiene la narrativa mainstream ucraina e occidentale, o bisognerebbe almeno chiedersi di quale tipo di democrazia stia gettando le basi.

È precisamente il legame identitario con la propria terra e la propria casa il nucleo emozionale ambivalente di Klondike, dove la resistenza della protagonista si spinge fino a un punto di messa alla prova di sé che ci interroga non sui meriti riconosciuti ma sui limiti sottaciuti della resistenza tout court: qualunque resistenza, non solo quella ucraina – a me, ad esempio, è capitato di pormi domande analoghe su quella palestinese[1]. Fino a che punto la resistenza a ogni costo è moralmente superiore alla resa, o alla diserzione o all’esodo? C’è un punto in cui la resistenza dell’aggredito diventa simile o speculare alla violenza dell’aggressore, e soprattutto si trasforma in violenza su di sé o in un sacrificio di sé autodistruttivo, che è facile ma non saprei quanto morale incoraggiare e sostenere da lontano? La protagonista del film che per partorire a casa sua mette a rischio la nascita del figlio fa una scelta moralmente encomiabile o sarebbe più responsabile, per lei e per il nascituro, smettere di resistere, andarsene e partorire in condizioni più sicure? Chi potrebbe accusarla, in questo secondo caso, di essersi arresa, o di aver disertato?

Allo scoppio della guerra molte ucraine che avrebbero potuto andarsene hanno deciso, come Irka, di restare, a rischio della propria vita o per tutelare la vita degli anziani impossibilitati a muoversi. Ma molte altre hanno deciso invece di andarsene, portando con sé i figli e lasciando i mariti a combattere, a costo di diventare profughe a disposizione del mercato del lavoro marginale europeo. In un caso e nell’altro la narrazione mediatica ha seguito e convalidato gli stereotipi di genere più scontati, descrivendo quelle che restano come eroiche guardiane della casa e quelle che vanno come madri mosse dalla disperazione, senza indagare le ragioni soggettive reali dell’una e dell’altra scelta. Ma quali che siano queste ragioni, la scelta di chi va non è meno coraggiosa o meno moralmente encomiabile di quella di chi resta, e verosimilmente non è motivata solo dalla disperazione ma anche dal rifiuto di una situazione insostenibile. “La guerra non ha un volto di donna”, ha scritto Svetlana Aleksievic[2], e noi sappiamo dalla sua straordinaria raccolta di testimonianze quanto la partecipazione delle donne sovietiche alla Seconda guerra mondiale abbia segnato indelebilmente la memoria femminile in quei due paesi, la Russia e l’Ucraina,  allora fratelli e oggi lacerati da una guerra fratricida, rispetto alla quale la decisione di disertare andandosene non è meno significativa politicamente di quella di partecipare restando: come la storia del femminismo insegna, la separazione femminile dalla politica come dalla guerra fra uomini è sempre un taglio polemico nei confronti dell’ordine socio-simbolico vigente.

Non sappiamo e non sapremo mai, invece, quanti uomini, ucraini e russi, avrebbero scelto di andarsene e disertare se non fossero stati costretti a restare e combattere da una coscrizione obbligatoria e spietata in entrambi i loro paesi: le stime occidentali, molto approssimative, parlano di circa 400.000 russi e di 650.000 ucraini fra i 18 e i 64 anni. Ma quello che trapela dalle inchieste sul campo racconta di una resistenza maschile diffusa all’arruolamento forzoso tanto in Russia quanto in Ucraina, di proteste contro l’esaltazione dell’eroismo silenziate con la violenza, di fughe e diserzioni motivate con il rifiuto di “un massacro senza senso fra popoli fratelli” e sostenute da organizzazioni di volontari oltreconfine[3]. Ed è quanto basta per incrinare la compattezza nazionalista delle due propagande che si fronteggiano sul campo e nella sfera mediatica.

Vista dalla prospettiva non di chi resta e resiste ma di chi diserta e se ne va la guerra d’Ucraina cambia sensibilmente i suoi connotati, e diventa indicativa di una più generale tendenza all’esodo e alla sottrazione che nelle più svariate parti del mondo si va configurando come forma di rivolta, o quantomeno di rifiuto senza ritorno, contro condizioni di vita impraticabili e inaccettabili. Si scappa dalle guerre, dalle conseguenze delle guerre, dai dopoguerra senza pace, dai regimi liberticidi, dalla catastrofe climatica, dalle persecuzioni politiche e dalle oppressioni patriarcali, dalle identità imposte, dalla fame senza scampo e dalla povertà senza futuro, come dimostrano le masse di migranti, uomini e donne, che ogni giorno sfondano confini proibiti. Si fugge dal lavoro che divora la vita e dall’imperativo della prestazione che la colonizza, come dimostra l’ondata di “grandi dimissioni” innescata dalla pandemia che dagli Stati uniti rimbalza anche in Europa e in Italia, preceduta, già prima della pandemia, dalla pratica Tangping in Cina. E si secede da democrazie ormai in crisi cronica e cronicamente incapaci di mantenere le loro promesse, come dimostrano i tassi di astensionismo in crescita vertiginosa in paesi come l’Italia[4]. Sono forme di esodo di cui stentiamo a riconoscere la valenza politica, ma che si impongono laddove il potere, in guerra e in pace, diventa così autoreferenziale e sordo da rendere ininfluenti e neutralizzare le forme di protesta e di conflitto tradizionali che presuppongono ancora una qualche fiducia nella partecipazione e nella rappresentanza.

Figure del materno

Vengo alla questione del materno. La protagonista di Klondike resta e resiste, resiste e resta, legando la sua gravidanza alla sua casa e alla sua terra: è la figura di un materno che si fa garante della continuità fra il territorio e la specie, la proprietà e la procreazione, la nazione e la generatività, una continuità che nel film confina con il mostruoso.

Questa figura del materno non proviene solo dall’Ucraina: al contrario, è un indicatore saliente delle tendenze che accomunano trasversalmente i due campi in lotta che la logica della guerra vorrebbe divisi verticalmente. È una figura altrettanto presente nella Russia di Putin, dove l’ingiunzione a procreare e l’eroicizzazione della madre prolifica sono due pilastri di un “neoimperialismo biopolitico”, com’è stato definito, mosso dalla convinzione che la tendenza alla denatalità rappresenti una minaccia per la sicurezza della nazione, e volto a contrastarla da un lato con la rivalutazione del destino materno tradizionale, dall’altro con l’annessione e la cittadinanza forzosa di pezzi di popolazione ucraina,  compresa l’ignobile pratica dei trasferimenti dei bambini in atto dal 2014 e intensificata dopo l’invasione[5]. Ma la stessa figura compare nel campo occidentale, si allunga da una sponda all’altra dell’Atlantico e fa i suoi giochi nella trasformazione dell’Unione europea che abbiamo conosciuto fin qui in quella che si affaccia sotto le insegne nazional-sovraniste. Non per caso la Polonia, il paese che esce più rafforzato dalla guerra in Ucraina e che ambisce a un ruolo egemonico nell’Europa futura, è stata nell’ultimo decennio la punta di diamante di una lotta senza quartiere alla possibilità per le donne di abortire, una lotta arrivata fino alla schedatura delle gravidanze e costata troppe vittime. Non per caso l’attacco all’aborto è stata la prima e principale bandierina piantata dalla Corte suprema americana a maggioranza trumpiana, con la conseguenza, in alcuni Stati, dello stesso rischio di schedature. E non per caso l’attacco all’aborto avanza anche in Italia, insieme con la glorificazione della madre come madre della nazione, chiamata a contrastare la denatalità e a scongiurare la “sostituzione etnica” minacciata dai migranti africani con la procreazione fra italiani bianchi: il tutto controfirmato da una donna che guida un partito denominato “Fratelli d’Italia” – un nome che è un programma, nonché una pista, come vedremo, per guardare anche fuori dai confini nazionali.

Dappertutto dunque è in atto un percorso a ritroso rispetto a quello compiuto dal femminismo dagli anni Sessanta del Novecento in poi. Col femminismo la maternità, da destino prescritto che era, è diventata scelta consapevole; oggi le politiche nazionaliste puntano a farla regredire da scelta a destino. Tanto più questo processo regressivo interroga il femminismo della differenza che notoriamente ha scommesso sulla risignificazione della madre, ovvero sulla possibilità di dissequestrarla dall’immaginario patriarcale per farne principio simbolico di genealogia, relazionalità, autorità e autorizzazione femminile: anche da questo punto di vista c’è una regressione, dal simbolico femminile all’immaginario patriarcale e nazionalista. Ed è un abbaglio pensare che fra la risignificazione femminista e la rivalutazione nazionalista del materno si possano aprire spazi di intesa – ad esempio, come qualcuna ha ipotizzato in Italia, sul terreno del rifiuto della maternità surrogata.  

Al posto di Elena

Quando è in gioco il materno è in gioco la differenza sessuale ed è in gioco la donna, che tuttavia non è riconducibile solo alla madre. Nell’immaginario patriarcale c’è un nesso che le lega entrambe e immancabilmente, la donna e la madre, alla guerra, scindendone le figure e assegnando a ciascuna una funzione di supporto al sistema. Da un lato c’è la donna come preda, oscuro e idealizzato oggetto del desiderio, a copertura della pulsione di morte che muove irrazionalmente ogni guerra: nella guerra di Troia, ha scritto Simone Weil, di Elena non importava nulla a nessuno di coloro che se la contendevano salvo Paride, eppure lei fungeva da simbolo di una posta in gioco che “non poteva essere definita perché non c’era”, salvo rintracciarla nella radice delirante del potere[6]. Dall’altro lato c’è la madre, altrettanto idealizzata come garanzia di continuità della specie contro la stessa pulsione di morte, tanto più se si tratta di guerre condotte su base etnica o nazionalista: come scrisse Rada Ivekovic durante la guerra in Kosovo, “la reinvenzione fantasmatica di una comunità etno-nazionalista si basa sul delirio identitario della fratria maschile, che nell’aderire all’ordine patriarcale idealizza il corpo materno riducendolo a garanzia di purezza della razza o della nazione”, a costo di  “una manomissione del tempo, che nei Balcani cancella almeno una generazione”.[7] Sono due topoi, la madre idealizzata e la donna oggetto del desiderio, che “manomettendo il tempo” ritornano uguali in tutte le guerre, ma che nel corso del tempo e delle generazioni subiscono anche interessanti variazioni.

Ancora Simone Weil, in Non ricominciamo la guerra di Troia, scrive che nelle guerre moderne “il ruolo di Elena è svolto da parole ornate di maiuscole”, usate di volta in volta per giustificare razionalmente l’uso della violenza e occultarne la radice irrazionale: siamo nel 1937 e a Simone l’intero lessico politico novecentesco –  nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazia – appare già svuotato di senso, un catalogo di “astrazioni cristallizzate” incapaci di cogliere il reale ma buone per essere ripetute “ammucchiando rovine su rovine” in loro nome[8]. L’intuizione di Weil coglie l’essenziale della funzione di quelle che oggi, con un termine edulcorato rispetto ai più appropriati “ideologia” e “propaganda”, vengono definite “narrative” delle guerre. Eppure dobbiamo constatare che nelle narrative delle guerre cui stiamo assistendo da trent’anni a questa parte l’evocazione delle donne come posta in gioco è ridiventata esplicita: al posto di Elena non ci sono solo “parole ornate di maiuscole”, ma anche nuove figure, e fantasmi, dell’immaginario maschile sulla donna. Forse perché nell’arco di tempo che ci separa dallo scritto di Simone Weil la libertà femminile si è dispiegata a tal punto da richiedere, da parte degli uomini, una reazione di riappropriazione del dominio perduto che passa anche per la gestione militarizzata del conflitto fra i sessi. Le guerre diventano così un termometro dello stato di salute, o meglio della deriva di crisi, del patriarcato. E domandarsi quali figure o quali fantasmi della donna vengono messi, di guerra in guerra, nel posto di Elena aiuta a fare luce sulle costanti ma anche sulle variazioni del patriarcato in guerra, e delle forme di patriarcato che si fanno la guerra fra loro.

Ai tempi della guerra nei Balcani, il posto di Elena era alquanto affollato. C’era in primo piano la donna dell’altro, preda di quel marchio d’infamia dei nazionalismi in lotta fra loro che sono i cosiddetti stupri etnici. C’erano, nell’immaginario dei paladini occidentali del Kosovo già allora ossessionati dalla denatalità, le profughe kosovare, incarnazione di un femminile arcaico e sofferente, corpo materno senza parola ma molto prolifico. E c’era il fantasma minaccioso di Monica Lewinsky, la giovane donna che durante il sexgate americano aveva costretto Bill Clinton a dire la verità sulla loro relazione sessuale via Internet e a mostrare così urbi et orbi le crepe di una sovranità patriarcale lesionata irreparabilmente dalla fine della separazione fra pubblico e privato: il re era nudo, e forse anche per questo tentava di rivestirsi con la divisa armata della spedizione “umanitaria” in Kosovo. Legittimata in nome dei diritti dei/delle kosovare conculcati dal dittatore serbo Milosevic, la guerra “umanitaria” divise il femminismo italiano e occidentale, fra quante dell’ideologia dei diritti si fidavano e quante ne diffidavano in quella come in altre circostanze[9].

Pochi anni dopo, nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale, il fantasma cambia: al posto di Elena c’è nientemeno che la libertà femminile, evidentemente diventata nel frattempo una conquista dilagante da addomesticare in qualche modo, nel nome della quale l’Occidente muove guerra all’Afghanistan e all’Iraq “per liberare le donne dal patriarcato islamico”. Parte consistente e decisiva della più ampia narrativa dello “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam, quella motivazione era falsa due volte: perché proiettava sul nemico “arcaico” il dominio patriarcale coprendone le permanenze all’interno dell’Occidente “moderno”, e perché, identificando la libertà femminile con la libertà occidentale, ignorava e mortificava la libertà femminile che esiste e circola anche nel mondo islamico. Anche in quel caso in femminismo si divise, fra quante in Occidentale aderirono alla narrativa dominante e quante in tutto il mondo la smontarono, mostrando gli elementi di trasversalità del patriarcato a est e a ovest, ricordando i limiti della libertà occidentale moderna disegnata sull’individuo neutro, valorizzando le pratiche di libertà femminile interne al mondo islamico:  se la libertà femminile era posta in gioco noi femministe giocammo la partita, sottraendola alla colonizzazione da parte della retorica bellica e facendone al contrario la cartina di tornasole delle contraddizioni trasversali ai due fronti in guerra. Nuove contraddizioni emersero di contro anche in campo femminile: le donne-kamikaze, le madri che allevavano i figli a diventare kamikaze, e nel campo occidentale le zelanti soldatesse americane in carriera e le fotografie scioccanti di Lyndie England con il prigioniero iracheno al guinzaglio nella prigione di Abu Ghraib spazzarono via ogni residua illusione, peraltro da sempre malriposta, che le donne siano per natura e per storia estranee alla guerra o immuni dai suoi orrori, o che basti essere donna per fare la differenza[10].

Oggi il quadro è assai diverso, e il femminismo, italiano e non solo, è più taciturno, stretto fra la sua vocazione pacifista e l’ingiunzione martellante a sostenere e armare l’Ucraina, rappresentata per giunta come vittima dello stupro di un vecchio patriarca autocratico e spietato. La libertà femminile è scomparsa dalla rappresentazione e dalla legittimazione della guerra: sulla scena mediatica – che certo non coincide con la realtà ma contribuisce a plasmarla, tanto più in una guerra in cui siamo arruolate come spettatrici prima ancora che come cittadine – restano solo due sagome femminili, apparentemente in contrasto fra loro ma solidali nella loro funzione di supporto dell’immaginario patriarcale. Da una parte le vittime perdenti e doloranti che restano a guardia della casa e degli anziani o se ne vanno con i figli incolonnate verso un’esistenza degradata, vestite come capita, spettinate e senza trucco; dall’altra parte le combattenti intrepide e vincenti, che sostengono la causa della guerra dai vertici delle carriere politiche o giornalistiche senza scarto alcuno dal linguaggio maschile, e al tempo stesso sempre perfettamente in linea con i canoni estetici della femminilità patinata. È l’antica scotomizzazione fra vittime passivizzate ed emancipate cooptate, ma non è mai apparsa così estrema e polarizzata: al confronto della vicepremier ucraina più guerrafondaia di Zelensky, o della portavoce del ministero degli esteri russo più spregiudicata di Lavrov, le prime marines che vent’anni fa si arruolavano nell’esercito americano per apprendere l’alfabeto della guerra, o le prime kamikaze che prima di suicidarsi nel nome di Allah guardavano con rimpianto le vetrine dei negozi, sembrano delle dilettanti della cooptazione nell’universo valoriale della virilità. Quelle che combattono oggi al fianco degli uomini sono donne che ce l’hanno fatta: hanno rotto il famoso soffitto di cristallo, maneggiano potere, lottano con una convinzione ai limiti del fanatismo per la propria nazione. E hanno una inquietante controfigura nella ragazza ucraina con il kalashnikov in mano e il lecca-lecca in bocca fotografata in una delle prime e più emblematiche immagini di questa guerra, triste prova di una femminilizzazione della pedagogia dell’orrore che ci riporta all’educazione fondamentalista dei giovani soldati della jihad islamica in quella che vent’anni fa era considerata la barbarie contrapposta alla civiltà occidentale. Quale desiderio supporta quel kalashnikov?

 Nel posto di Elena stavolta non c’è un’altra sagoma o un altro fantasma di donna. C’è un giovane uomo, Volodomyr Zelensky, che come Elena vive nascosto ma a differenza di Elena compare ovunque, dai parlamenti ai festival del cinema e dal Vaticano alla copertina di Vogue, ovunque diffonde e pubblicizza la causa del “popolo più eroico e coraggioso del mondo”, come lui stesso lo definisce, con discorsi ogni volta perfettamente tagliati sulla circostanza e sul contesto, e ovunque incarna questa causa nella sua propria persona, piccola ma forte e scolpita dalla fitness, come traspare dalla t-shirt da cui non si separa mai, nemmeno quando va in visita dal Papa portandogli in dono una Madonna incisa su un giubbotto antiproiettile invece che un ramoscello d’ulivo. È lui il nuovo eroe di cui tutti improvvisamente sembrano aver bisogno a dispetto di Brecht, ed è lui l’oggetto d’investimento di quel desiderio di guerra che all’indomani dell’invasione russa ha pervaso l’Europa tracimando dalle penne dei più accreditati opinion maker nostrani. E si può capire perché lo sia. Agli occhi dei leader europei di democrazie sfigurate, erose dall’invecchiamento della popolazione e dalla precarizzazione delle giovani generazioni, “disordinate” dalla libertà delle donne e della galassia queer, ossessionate dall’arrivo dei e delle migranti, assediate da élite ciniche dall’alto e da popoli disorientati dal basso, il leader ucraino appare come una insperata cura ricostituente di un ordine politico, sociale e simbolico assai pericolante.

È giovane, sbandiera virtù ottocentesche (per fortuna) dimenticate come il coraggio e l’eroismo virili e le scaglia contro il vecchio padre-patriarca russo, chiamando a raccolta tutti gli altri giovani maschi e promuovendo le giovani donne disposte a fare proprie e rilanciare le virtù virili. Ha trasformato le sue doti attoriali in doti di leadership, riuscendo come forse nessun altro in quella fusione di comunicazione e politica cui aspirano tutti i leader post-novecenteschi. Guida un paese attraversato da una somma di contraddizioni originate congiuntamente dalla fine del socialismo sovietico e dalla governance neoliberale europea, ma le nasconde sotto la compattezza della nazione e del nazionalismo, come del resto fanno o tentano di fare le destre sovraniste dei paesi europei occidentali.  Mette al bando i partiti d’opposizione, ma si intesta, nel plauso generale dell’Occidente, la titolarità della difesa della frontiera della democrazia in una guerra ultimativa contro l’autocrazia russa. È la figura che rappresenta come meglio non si potrebbe i sogni di ripresa di una virilità vacillante che non dà più identità, di una democrazia deformata che incorpora e metabolizza i veleni dell’autocrazia contro cui combatte, e di un patriarcato agli sgoccioli che si riorganizza come fratriarcato vincente. Il quadro è più complicato e più mosso di quello dipinto dalla narrativa occidentale mainstream, che delinea o sottintende l’ennesimo scontro di civiltà fra un patriarcato russo oscurantista da una parte e una democrazia paritaria ispirata alla gender equality dall’altro. Soprattutto se consideriamo che russi e ucraini erano un solo popolo fino a prima della guerra, sembra di assistere piuttosto al classico dispositivo edipico-patriarcale dell’uccisione del padre da parte di una fratria di giovani uomini pronti a consegnarlo alla storia per riformulare un patto socio-simbolico post- patriarcale, modernizzato e “democratizzato”, e basato non più sull’esclusione delle donne ma sulla loro divisione fra vittime perdenti e protagoniste vincenti, e sulla cooptazione di queste ultime nella piramide del potere.

Questo a me pare di poter vedere sul teatro di guerra ma da fuori, con uno sguardo condizionato dalla crisi delle democrazie occidentali e allarmato per il desiderio di guerra che le percorre. Ma da fuori non si vede tutto e si può vedere male; e infatti da dentro c’è chi ci accusa di presumere di vedere ma di non vedere niente. Una sosta nel dibattito femminista ucraino, russo e degli altri paesi post-sovietici aggiunge ulteriori e decisivi elementi al quadro.   

Femminismi

La più decisa critica femminista interna al proprio campo è emersa in Russia, cioè nel paese aggressore, mentre è stata assai più flebile, comprensibilmente, nel paese aggredito e, meno comprensibilmente, nel fronte democratico occidentale che lo sostiene. All’indomani dell’occupazione dell’Ucraina, le femministe russe sono state fra i primi gruppi d’opposizione al regime a mobilitarsi contro la guerra e contro Putin, con un testo che gli attribuiva tutte le responsabilità dell’invasione (nonché della guerra nel Donbass in quanto conseguenza dell’annessione della Crimea), e chiamava le femministe di tutto il mondo a fare leva sulla “enorme forza mediatica e culturale” acquisita negli anni per trasformarla in peso politico di opposizione “alla guerra, al patriarcato, all’autoritarismo e al militarismo”,  ricordando come questi termini siano legati fra loro e, nella Russia di Putin e Kirill, connessi all’introduzione di “valori tradizionali” (eterosessualità obbligatoria, disuguaglianza di genere, sfruttamento delle donne) e alla repressione di chi non vi si conforma[11].

L’appello delle femministe russe è stato raccolto e rilanciato il 17 marzo 2022 da un secondo testo, firmato da oltre 150 femministe di tutto il mondo, che alla condanna di Putin aggiungeva quella delle “corresponsabilità” della Nato e del suo “espansionismo globale”, nonché il rigetto delle “decisioni che comportano l’aggiunta di più armi al conflitto e l’aumento delle spese di guerra”; e si schierava “con il popolo ucraino che vuole ristabilire la pace e chiedere un cessate il fuoco, e con i cittadini russi mobilitati che chiedono di fermare l’invasione militare”[12]. Una posizione ineccepibile – contro l’aggressione russa e contro una risposta all’aggressione orientata all’escalation invece che alla risoluzione del conflitto – duramente rigettata però da un terzo testo, stavolta di femministe ucraine, che rivendicava “il diritto di resistere” e il ruolo attivo delle donne, “al fronte e a casa”, nelle lotte di resistenza, “dall’Algeria al Vietnam, dalla Siria alla Palestina, dal Kurdistan all’Ucraina”[13]. Questo fondamentale diritto all’autodifesa degli/delle oppresse verrebbe negato, secondo le firmatarie, da “un pacifismo astratto che condanna tutte le parti in guerra e che porta a soluzioni irresponsabili”: occorre invece, prosegue il testo, tenere ferma “la differenza essenziale fra la violenza come mezzo di oppressione e come mezzo legittimo di autodifesa”. Non solo: gli obiettivi della lotta femminista contro il patriarcato, la discriminazione sistemica, il razzismo e lo sfruttamento permangono in tempo di guerra come in tempo di pace, ma “l’invasione russa ci obbliga a concentrarci sull’obiettivo generale della difesa della società ucraina: la lotta per la sopravvivenza, per i diritti e le libertà fondamentali, per l’autodeterminazione politica” viene prima di tutto il resto[14].

La filosofa femminista ucraina Irina Zherebkina, voce molto attiva nel dibattito pubblico del suo paese sulla guerra, ha criticato entrambi questi manifesti, sostenendo che né l’uno né l’altro propone una prospettiva teorica femminista autonoma di opposizione radicale alla guerra e che ciò che li distingue è soltanto una differenza tattica, ovvero la postura anti-Nato nel primo caso, la postura nazionalista nel secondo. Nei confronti del femminismo nazionalista, tuttavia, Zherebkina è due volte critica, denunciandone non solo gli esiti nefasti nella congiuntura della guerra, ma anche la complicità costitutiva con il femminismo neo-liberale postsovietico, l’esaltazione acritica dei valori democratici, l’orientamento alla spartizione del potere più che alla sovversione dell’ordine patriarcale. Laddove secondo Zherebkina un pacifismo femminista radicale e autonomo dovrebbe battersi, nella scia tracciata da Judith Butler nei suoi testi sul dopo-11 settembre e ribadita dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, per una solidarietà e una mobilitazione transnazionali, “basata sui valori femministi dell’interdipendenza e della cura” e dotata di un immaginario politico potente, “in grado di contrastare le fantasie fasciste di destra che oggi minacciano la democrazia e la pace”[15].

Come non essere d’accordo? Salvo che però le posizioni di Butler sulla guerra in Ucraina sono solo apparentemente le stesse di quelle del dopo-11 settembre, anzi a ben vedere la mettono in contraddizione con sé stessa. Allora, la filosofia butleriana della vulnerabilità e  dell’interdipendenza e la sua “critica della violenza etica” avevano un valore tanto più dirompente in quanto erano volti a contestare la contestazione della reazione bellica degli Stati uniti all’aggressione subìta: l’appello “scandaloso” di Butler era rivolto al suo paese affinché interrompesse la spirale della violenza evitando una reazione ritorsiva,  nazionalistica e legittimata su base morale agli attentati dell’11 settembre, ed elaborando la scoperta della propria vulnerabilità come un dato comune all’umanità nel mondo globalizzato[16]. Che è un problema analogo a quello che ci pone oggi non tanto la sacrosanta resistenza ucraina all’invasione russa, quanto il suo sostegno armato e incapace di mediazione politica da parte del fronte occidentale. Sorprendentemente, però, nel caso dell’Ucraina la critica filosofica di Butler alla logica della violenza come logica fallocentrica mossa dalla pulsione di morte rimane, e così pure l’appello alla tessitura di pratiche politiche transnazionali contrapposte all’individualismo militarista maschile e ai rinascenti nazionalismi autoritari, ma il suo posizionamento politico cambia: non c’è traccia di critica della risposta armata occidentale all’invasione russa, lo schieramento a favore dell’Ucraina  dev’essere incondizionato e in quanto femministe “dobbiamo riunirci per opporci alla violenza di Putin, indipendentemente dalle nostre opinioni sulla Nato e simili”[17].

Va notato tuttavia che questa posizione pur nettamente ed esplicitamente filo-ucraina non basta a evitare a Butler gli strali appuntiti del femminismo ucraino nazionalista. Nella Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine tempisticamente convocata on line da Butler stessa,  Irina Zherebkina e Sabine Hark il 9 maggio 2022[18], Tereza Hendl accusa la filosofa americana di “pacifismo epistemicamente ingiusto” e “ottimismo idealistico” solo perché Butler, intervistata sulla guerra da un giornale catalano[19], aveva osato auspicare una rivolta democratica della popolazione e dell’esercito russi contro “la guerra di Putin” invece di invocare a gran voce armi per la resistenza ucraina, che per Hendl è l’unica forma di solidarietà femminista accettabile: “Una donna stuprata ha diritto all’autodifesa e non deve arrendersi al violentatore. Invece l’Ucraina dovrebbe accettare una vita “pacifica” sotto occupazione militare piuttosto che fare una lotta di liberazione armata?”. Chiunque si discosti o problematizzi questa prospettiva della “decolonizzazione” dell’Ucraina dall’imperialismo russo ricade nel “pacifismo epistemicamente ingiusto”, che consiste nell’ignorare le voci e le esigenze delle  ucraine e nel perpetrare la visione suprematista e a sua volta coloniale della sinistra e del femminismo occidentali, sempre pronti a denunciare l’imperialismo americano ma a chiudere due occhi su quello russo, il quale peraltro non è un marchio esclusivo di Putin bensì “un’eredità socio-storica della Russia, della sua cultura e di gran parte della sua popolazione”. Risibili risultano in quest’ottica, va da sé, quelle femministe occidentali – tra le quali, per quello che vale, la sottoscritta – che “vedono le guerre come giochi maschili fra due ‘cattivi’, da cui la richiesta che entrambe le parti disarmino” [20].

Si evincono facilmente da questa posizione di Hendl (e di altre come lei[21]) le linee di frattura che dividono il femminismo nazionalista da quello transnazionale, e che le stesse organizzatrici della Conferenza individuano nell’editoriale di presentazione degli Atti[22]. Da una parte le donne vengono arruolate nella causa nazionale, individuata come condizione di sopravvivenza che viene prima di tutto il resto; dall’altra parte, prima di tutto il resto c’è l’appartenenza alla comunità femminista internazionale, e a partire da questo posizionamento una critica “della nazione, dello stato-nazione e dello stato” che non può essere sacrificata nemmeno alle sacrosante ragioni della causa ucraina[23]. Da una parte vige la logica amico-nemico, cui anche la solidarietà dev’essere sottoposta, diventando così una solidarietà escludente, destinata solo alle ucraine e ostile alle “vicine di casa” russe e bielorusse, assegnate senza eccezioni al campo avverso; dall’altra parte la solidarietà si esprime in una tessitura relazionale che sfida e frantuma la logica amico-nemico, come nella pratica rivendicata di intensificazione delle relazioni fra ucraine, russe e bielorusse “per attraversare e demolire i confini militarizzati da Putin”[24]. Da una parte l’identità è data dai confini nazionali e si rafforza nella lotta per ripristinarne l’integrità; dall’altra parte c’è la consapevolezza che “l’identità delle terre di confine è incerta e ibrida e può portare all’accettazione dell’eterogeneità ma anche all’insicurezza e al fascismo”[25]. Da una parte c’è una pace condizionata alla vittoria, ovvero alla riconquista del pieno possesso dei territori usurpati dall’invasore, e dunque alla continuazione della guerra; dall’altra parte c’è l’avvertimento realistico che più lunga e dolorosa è una guerra, più “contaminata e violenta” sarà la pace, come insegna il dopoguerra serbo carico “di risentimento, negazione del passato, stabilità senza riconciliazione” e “saturo di una storia immaginaria in cui vittime e carnefici si scambiano di posto”[26].

Il mantra della “gender equality”

Da una parte – infine ma non ultimo – c’è una denuncia rancorosa della frattura est-ovest che finisce col riprodurla e rafforzarla anche fra donne, dall’altra parte c’è il tentativo di superarla smontando i dispositivi che l’hanno prodotta dal crollo del Muro di Berlino e dell’Unione sovietica in poi, e che chiamano in causa pesantemente le responsabilità dell’Unione europea nella maturazione delle condizioni della guerra di oggi. Per tutte le partecipanti al dibattito, sullo sfondo permane, irrisolto, il nodo dello smarrimento e della crisi d’identità innescati dal crollo dell’Urss nelle società post-socialiste, sospese fra la paura di un ritorno del passato sovietico e un desiderio di europeizzazione presto frustrato dalle modalità di allargamento a Est dell’Unione. Ma mentre per il femminismo nazionalista il problema è sostanzialmente culturale e morale – la “ingiustizia epistemica” di cui le ucraine si sentono vittime e incolpano le femministe occidentali –, per il femminismo transnazionale le responsabilità risiedono nelle scelte politiche nazionali  e sovranazionali che dall’89 in poi, a onta della retorica sull’unificazione dell’Europa, hanno riprodotto la frattura est/ovest, trovando precisamente nelle politiche di genere un laboratorio proficuo di esercizio e sperimentazione. Sotto accusa passa in primo luogo la “terapia d’urto” neoliberale, imposta da Ovest ma con il consenso degli apparati di stato postsocialisti dell’Est, che dopo il crollo dell’Urss ha trasformato, in Russia e negli ex paesi satelliti, l’economia sociale in economia di mercato, sostituendo il mito sovietico dell’”uomo nuovo” (e dell’emancipazione femminile) con quello dell’individuo competitivo (e di una millantata “gender equality”). In secondo luogo, le conseguenti politiche del mercato del lavoro, strategicamente incentrate sulla creazione di un esercito di riserva di manodopera femminile migrante e precaria, proveniente dai paesi dell’Est e destinata a quei lavori di cura e assistenza lasciati scoperti dallo smantellamento, a Est e a Ovest, dello stato sociale. Infine, le politiche della natalità, dove alle limitazioni dell’aborto (realizzate, come in Polonia, e Ungheria, o programmate, come in Russia, o minacciate, come in Italia) si affianca lo sviluppo delle tecnologie riproduttive, come in Ucraina, dove la fiorente industria di maternità surrogata si configura come una vera e propria esternalizzazione della riproduzione delle coppie committenti dell’Europa occidentale, e gode di un  vantaggio competitivo rispetto a quella di paesi come l’India e la Tailandia basato sull’offerta di una garanzia di bianchezza delle madri surrogate e dei bambini commissionati[27].

Il mantra europeista e neoliberale della gender equality, intonato peraltro sempre e solo riguardo alle carriere dirigenziali e politiche, nasconde una realtà fatta di sfruttamento e gerarchizzazione delle donne, che incrocia e gerarchizza le linee del genere, della classe e del colore e disegna nuove linee di attrito fra Est e Ovest. Le donne si ritrovano al centro dei processi di ridefinizione del vecchio continente basati su disuguaglianze spietate e insostenibili, ma cementate dalla paura del fantasma degli “altri” e delle “altre” che premono ai suoi confini. E l’analisi femminista, allenata com’è alla prospettiva intersezionale, scava dove la prospettiva geopolitica tradizionale non vede, e mette a fuoco le linee reali di frattura e di conflitto che le narrative nazionaliste occultano. E che non domandano l’arruolamento femminile al servizio, magari militare, delle nazioni di appartenenza, bensì la costruzione di reti di relazione transnazionali fra i paesi postsovietici e fra questi ultimi e i paesi europei occidentali – costruzione di cui peraltro la Conferenza in questione, con la sua pratica di ascolto reciproco fra situazioni diverse e posizioni divergenti, è un esempio eccellente. 

Fratelli

Tuttavia qualcosa manca a questo pur fecondo dibattito femminista, e questo qualcosa ha a che fare con un uso troppo generico della categoria di patriarcato, che rischia di annegare nella continuità ripetitiva del dominio maschile le contraddizioni che emergono al suo interno e le discontinuità che vi ha introdotto e vi introduce la libertà delle donne e degli altri soggetti che alla norma patriarcale non si conformano. Detto in altri termini, se sono evidenti le marcature maschili e patriarcali di questa come di tutte le guerre, prima fra tutte la ritornante regolarità del tentativo di ripristinare i ruoli di genere tradizionali, rilevare questa marcatura non basta, e si rischia anzi di rafforzarla e darle più credito di quanto non ne abbia se non si rilevano al contempo le crepe e le contraddizioni interne al patriarcato che questa guerra rivela,  le reazioni di rimessa violente ma impotenti del patriarcato alla libertà femminile che non cessa di affermarsi, le alleanze che il patriarcato stringe, modificandosi, con gli assetti politici, tutti traballanti, che in questa guerra sono in gioco: il neoimperialismo russo con la sua nostalgia di un impossibile ritorno al passato, l’impero americano minacciato dal proprio declino, le democrazie europee vacillanti, a ovest e a est, sotto il tiro incrociato del neoliberalismo, del populismo e dei rigurgiti di fascismo. L’urgenza di un’analisi accurata del presente si salda qui con il compito teorico di arricchire la riscoperta della categoria sempreverde di “patriarcato” da parte del femminismo di ultima generazione con gli apporti del pensiero della differenza italiano sulla modificabilità politica del patriarcato stesso, e sui segnali della sua crisi terminale[28]

Contestualizzata in questa cornice, la sintomatologia della guerra d’Ucraina dice qualcosa di più e di diverso da una riconferma, un ritorno o un ripristino del patriarcato. C’è un desiderio maschile di guerra sintomatico di una volontà di potenza lesionata, che ricorre alla guerra perché non riesce più a governare in pace e rispolvera l’eroismo a compensazione di una virilità destabilizzata. C’è un’impotenza politica e diplomatica generalizzata che sostituisce lo scambio di armi allo scambio di parole, e riproduce quel collasso della parola e della capacità di simbolizzazione che la teoria psicoanalitica associa all’eclissi della legge paterna. Ci sono due vecchi e consumati uomini potenti, Biden e Putin, nostalgici di un ordine bipolare perduto che tentano di ripristinare con l’antica logica amico-nemico, ma a cui tuttavia, a differenza dei loro predecessori del secolo scorso, non riescono più a dare né forma né senso. Sono tutti indicatori del fatto che la saldatura fra ordine simbolico e ordine politico che ha retto la storia della modernità è saltata, e che legge del padre non fa più ordine, né politico né geopolitico, in un mondo attraversato, a onta dei muri innalzati e dei confini militarizzati, da flussi di soggetti che a quella legge si oppongono o che ne prescindono, in primo luogo il flusso della politica delle donne che non si arresta né nei regimi democratici né in quelli autoritari[29].

A questi padri decaduti tentano di sostituirsi, in attesa di consumarne le spoglie nella migliore tradizione edipica, fratrie altrettanto violente ma modernizzate, che non hanno più bisogno di escludere le donne come alle origini dello Stato moderno, bensì di includerle almeno in parte nella gestione del potere, di arruolarle come madri garanti della continuità della nazione e della stirpe, e talvolta perfino di cedere loro lo scettro della leadership: purché sia nel nome dei fratelli, com’è scritto negli inni nazionali e com’è ribadito nella sigla di un partito nato nel sempre solerte laboratorio politico italiano. La più trascurata ma anche la più ambivalente delle tre bandiere del 1789 che inaugurarono la modernità, quella della fratellanza, torna a mostrare la sua controfaccia misogina. Alle origini del femminismo fu precisamente la scoperta di questa controfaccia a farci separare dai nostri fratelli rivoluzionari. Quel gesto originario da cui nacque la politica delle donne torna a indicare tanto più oggi, in tempi di fratrie reazionarie, la strada dell’esodo e della diserzione. 

(Diotima. Per amore del mondo. Edizione 19/2023)


[1] Mentre licenzio questo articolo l’efferato attacco di Hamas ai civili israeliani e l’altrettanto efferata risposta israeliana nella striscia di Gaza riaprono lo storico scenario del conflitto israelo-palestinese con un grado inedito di violenza e tragicità. In questo scenario le domande che pongo in queste pagine sulla resistenza, il restare e l’andare si pongono ovviamente anch’esse a un livello diverso e più alto di drammaticità che richiedono un’analisi ulteriore. Almeno sul punto dell’incremento di violenza senza politica che caratterizza i conflitti globali contemporanei rinvio comunque a Adriana Cavarero, Orrorismo, Feltrinelli, Milano 2007.

[2] Svetlana Aleksievic, La guerra non ha un volto di donna, trad. it. Di Sergio Rapetti, Giunti/Bompianoi 2022.

[3] Cfr. il docufilm Where is victory , trasmesso da Raitre il 7/8/2023 all’interno del ciclo Il fattore umano di Raffaele Pusceddu e Luigi Montebello e ora disponibile su Raiplay (https://www.raiplay.it/video/2023/08/Where-is-victory—Original-language—Il-Fattore-Umano—Puntata-del-07082023-9376cfdf-c3bb-4bce-9b5e-ab8462833ea3.html). La voce narrante è della regista e attrice lituana Hanna Bilobrova, compagna del regista e antropologo anch’egli lituano Mantas Kvedaravicius, ucciso molto probabilmente dai russi nell’assedio di Mariupol. Bilobrova ne ha recuperato e trasportato a casa il cadavere, e ne ha poi completato il film Mariupolis 2 sulla vita quotidiana durante la guerra, presentato al Festival di Cannes nel maggio 2022.

[4] La variegata fenomenologia dell’esodo e la sua valenza politica sono state al centro di due seminari organizzati dalla Fondazione Antonio Ratti e da Ordet con il titolo La dimensione dell’esodo. Etica della diserzione, il primo a Como il 9 marzo 2023 con Franco Bifo Berardi, Zasha Colah, Alisa Del Re, Christian Marazzi, Cesare Pietroiusti (https://vimeo.com/807476618), il secondo a Milano l’11 maggio con Federico Campagna, Cristina Morini, Liliana Moro, Annie Ratti. 

[5] Cfr. Sasha Talaver, Russia’s War Is a failed Answer to Its Demographic Crisis, Jacobin 23/4/2023, https://jacobin.com/2023/04/russia-ukraine-war-putin-demographic-crisis-social-reproduction-biopolitical-imperialism. Quanto al trasferimento forzoso dei minori ucraini in Russia, sarebbero 700.000 i bambini trasferiti dal 2014 in poi, dei quali 260.000 dall’inizio della guerra: cfr. Paolo Mieli, Vaticano-Russia, la tela possibile, “Corriere della Sera”, 18/9/2023.

[6] Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943, a cura di Donatella Zazzi, Pratiche Editrice, Milano 1998, p. 56.

[7] Rada Ivekovic, Effetti collaterali del patriarcato, “il manifesto” 22/5/1999.

[8] Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia cit., p. 57.

[9] Cfr. il mio Chi c’era stavolta al posto di Elena, “il manifesto” 10/6/1999.

[10] Sulla posta in gioco della libertà femminile nel ciclo delle guerre contro il terrorismo internazionale scatenate dagli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati uniti rinvio al mio 2001. Un archivio. L’11 settembre, le war on terror, la caccia ai virus, manifestolibri, Roma 2021. Ma sul pacifismo femminista di fronte a tutte le guerre che si sono succedute dalla fine della Guerra fredda a oggi cfr. Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, manifestolibri 2022.

[11]  Resistenza femminista contro la guerra, Fermare l’aggressione di Putin, “Jacobin Italia” 28/2/2022, https://jacobinitalia.it/contro-laggressione-militare-di-putin/

[12] Aa.Vv., Feminists Against War. A manifesto, 17/3/2022, https://spectrejournal.com/feminist-resistance-against-war/

[13] The Feminist Initiative Group, The Right to resist. A feminist manifesto, 7/7/2022, https://commons.com.ua/en/right-resist-feminist-manifesto/

[14] Questa posizione, compreso l’attacco al “pacifismo astratto”, verrà ribadita altre volte – ad esempio in un più recente Appello della società civile ucraina ai pacifisti, cofirmato dalla Rete femminista ucraina e da altre associazioni  (https://www.vita.it/lappello-della-societa-civile-ucraina-ai-pacifisti-nulla-su-di-noi-senza-di-noi/) – e ricalca gli argomenti polemici di alcune voci della sinistra radicale ucraina nei confronti della sinistra radicale e dei movimenti pacifisti occidentali, accusati di “westplaining” e segnatamente di non sacrificare la critica alla Nato e ai governi occidentali alla priorità della lotta contro Putin.

[15] Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina, “Pulpmagazine”, 3 agosto 2022, https://www.pulplibri.it/the-feminist-point-of-view-on-the-ukrainian-war-interview-with/Irina.

[16] Cfr. di Judith Butler, Vite precarie, Meltemi, a cura di Olivia Guaraldo, Roma 2004; Critica della violenza etica, trad. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006; Frames of War, Verso, London-New York 2009.

[17] Elisabetta Michielin, The feminist point of view on the Ukrainian war. Interview with Irina Zherebkina cit. Zerebkina cita il brano qui riportato dalla lettera inviata da Butler alla Conferenza transnazionale di solidarietà con le femministe ucraine del 9 maggio 2022, di cui parlerò ampiamente fra poco. Ma per la posizione di Butler sulla guerra in Ucraina cfr. Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms”, “ara.cat”, 28/4/2022, https://en.ara.cat/culture/am-hopeful-that-the-russian-army-will-lay-down-its-arms_128_4353851.html

[18] Transnational Feminist Solidarity with Ukrainian Feminists, on-line Meeting, May 9, 2022”. Gli Atti della Conferenza sono stati pubblicati e sono disponibili in PDF su “Gender Studies” 1922, n. 26, http://kcgs.net.ua/gurnal/26/. Ne raccomando la lettura, aldilà di quello che ne restituisce la mia breve rassegna.

[19] Silvia Marimon, Judith Butler:“I am hopeful that the Russian army will lay down its arms” cit.

[20] Tereza Hendl, Towards Accounting for Russian Imperialism and Building Meaningful Transnational Feminist Solidarity with Ukraine,“Gender Studies” cit.

[21] Cfr. ad esempio Agnieska Graff, Solidarity with Ukraine, or: Why East-West still Matters to Feminism, “Gender Studies” cit, pp. 57-61, che ha parole particolarmente dure nei confronti del femminismo italiano.

[22] Queste tre linee di frattura sono evidenziate anche dalle tre organizzatrici della Conferenza, nel loro editoriale di presentazione degli Atti, Feminism, War, Solidarity, “Gender Studies” cit., pp. 5-8.   

[23] Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine – How do We Stay Together in a State of Exception, Invasion and War?, “Gender Studies” cit., p. 51. Ma v. anche quanto scrive la filosofa serba Adriana Zaharijevic (The Principle is to Always Cross Borders, “Gender Studies” cit., pp.106-7) a partire dalla sua esperienza di contestazione del regime di Milosevic negli anni Novanta: “Diventare femminista in Serbia mi ha insegnato che patriottismo e femminismo sono opposti. Come scrive Virginia Woolf, noi, in quanto donne, non abbiamo patria, il che vuol dire rifiutarsi di elevare frontiere in noi stesse, posizionarsi contro l’ordine basato sul sangue, sul suolo, sulla nostra stessa patria, contro gli antenati e i guerrieri”. E continua: “Faccio fatica, anche di fronte alla imperdonabile invasione dell’Ucraina, ad aver fiducia nel proprio, nella nazione, nello Stato”.

[24] Ewa Majewska, Solidarity with Ukraine cit., p.50-51.

[25] Ivi, p. 52.

[26] Adriana Zaharijevic, The Principle is to Always Cross Borders cit., pp. 105-106.

[27] Cfr. Olena Lyubchenko, Neoliberal Reconstruction of Ukraine: A Social Reproduction Analysis, “Gender Studies” cit., pp. 21-48.

[28] Sulla riscoperta della categoria di “patriarcato” nel femminismo di ultima generazione cfr. Charlotte Higgins, The age of patriarchy: how an unfashionable idea became a rallying cry for feminism today, “The Guardian” 2018, 22/1. Sui segnali della fine del patriarcato messi in luce dal femminismo della differenza italiano, Aa. Vv, È accaduto non per caso, “Sottosopra” rosso, gennaio 1996.

[29] Ho analizzato di recente questa dinamica a proposito del movimento delle donne iraniane nel mio Il corpo politico che muove l’Iran, “Italianieuropei” 2023/1.

di Federica Iezzi


All’arrivo nella piccola stazione di Przemyśl, lungo il confine tra Polonia e Ucraina, ci aspetta un tè bollente. È nel “punto di accoglienza”, un angolino dedicato ai rifugiati ucraini che resiste fin dall’inizio del conflitto. È ancora buio. Le lunghe file davanti al binario 5 sono quelle dei passeggeri appena scesi dal treno proveniente da Kiev, che iniziano l’infinita trafila legata alle procedure di immigrazione.

Ma c’è anche chi torna indietro e aspetta l’orario di partenza del treno diretto a casa. Chi fugge in genere ha lo sguardo della paura, chi rientra quello della speranza. «Perché torni, Daryna?» chiediamo. «Perché devo aiutare le persone a casa. È meglio stare insieme», ci risponde, appesantita dal pensiero che la occupa. La guardiamo mentre si allontana tra il vapore bianco che si leva nell’aria e il suo zaino sulle spalle.

Nel freddo che ti trapassa le ossa e non ti lascia la capacità di pensare, file di persone e valigie tornano a casa. Tra gli alberi rimasti si guarda il quadrato di cielo fitto di stelle, nuvole alte e una luna quasi piena. 
L’Ucraina resta sotto i bombardamenti, gli abitanti vivono nell’incertezza e nel terrore. Non esiste alcun collegamento aereo con il mondo esterno e nei Paesi vicini si può andare solo in autobus, in treno o in macchina. Ma chi sta fuori vuole rientrare.

Cosa attende chi torna in Ucraina?

Dita che si muovono come antenne di insetti, cercano l’app del meteo sul cellulare che segna -4°C. Il freddo si poggia senza pietà sul viso e ti accompagna fino a che non si sale sui vagoni riscaldati. Presto una voce metallica annuncia la partenza verso Kiev. E i bambini iniziano a correre dentro il treno come se fossero nel parco giochi. 
C’è chi porta con sé sacchetti di plastica con il pane dentro. Chi si toglie strati di vestiti. Chi cambia il pannolino ai figli. Chi tiene in braccio il proprio gatto. E chi si aggrappa alle finestre dei corridoi, osservando distrattamente il paesaggio straniero che scorre come in un film.

Inizia il viaggio verso Kiev. Nella brulicante stazione di Ternopil’ sale Olena, con il suo bambino ancora nella pancia. Mentre fuori la neve imbianca i campi brulli, ci racconta che a Ternopil’ ci sono ancora tanti sfollati interni provenienti dall’est. Ha un maglione fucsia, un trucco appena accennato dello stesso colore della maglia e non sposta mai la mano dalla pancia. La guerra non le ha fatto perdere la sua bellezza di mamma.

«Ho una figlia di diciannove anni che sta combattendo a Avdiïvka – ci dice con gli occhi di un’anima annegata – Abbiamo una vita che non ci permettono di vivere». Le donne sono parte integrante delle forze armate ucraine. Ce ne sono 42.000 e 5.000 di loro oggi sono schierate sulle più attive linee del fronte: a Kupyans’k, Avdiïvka, Orichiv e Cherson.

È difficile raccontare i suoni che cercano di strappare il palcoscenico al silenzio, ma nel corridoio del treno corre una bambina bionda con un gioco musicale. È una musica mai sentita. È un suono che non si dimentica. 
L’ultima fermata del treno è quella di Kiev. Fino all’estate scorsa chi arrivava veniva accolto da un paesaggio spettrale di case sbarrate e cortili ricoperti di alberi. Nessuno sui marciapiedi. Nulla è cambiato fuori. Gli ucraini continuano a morire. Uno degli eserciti più grandi del mondo continua a bombardare. A cambiare oggi sono le domande. Quanto pericolo sono disposto ad accettare? Qual è la cosa migliore per la mia famiglia?

«Non esiste un posto sicuro in Ucraina. È difficile descrivere cosa c’è di così speciale nella parola casa. È dove tutto ti è familiare, dove conosci le persone», ci dice Olena, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, più di 5,5 milioni di ucraini sono tornati a casa, e non solo nelle grandi città come Kiev o Dnipro, ma anche in piccoli centri, compresi quelli a ridosso delle linee del fronte. I mercati al coperto riprendono vita dentro una città innevata. Scaffali pieni di pacchetti decorati attirano l’attenzione dei passanti che fanno video per TikTok.

I russi hanno fatto a pezzi Bachmut, si sono avvicinati ad Avdiïvka e hanno raso al suolo piccole città sconosciute, che non sono nemmeno più sulle cartine. Ovunque si sentono costantemente colpi sordi, lo stesso rumore di una porta che si chiude. La paura è diminuita al suono delle sirene antiaeree. Olena ci racconta che vive in un edificio moderno, ma che non ha il gas per cucinare. Ha comprato un fornello da campeggio così può cucinare quando manca la corrente elettrica. Aggira i blackout, assicurandosi di caricare il suo computer e il telefono quando ha l’elettricità.

E mentre il freddo invernale non dà tregua al Paese, crescono le preoccupazioni che la Russia possa riprendere gli attacchi su larga scala a una già fragile rete elettrica, ripetendo la medesima tattica utilizzata nel 2022. Dunque, invece di inviare smisurate colonne di carri armati, come ha fatto inizialmente, la Russia oggi si sposta a un ritmo glaciale lungo le 1.600 miglia delle linee di forza, combattendo di fatto una guerra d’attrito.

«Il mio bambino nascerà a Kiev», ci saluta così Olena.


(Il manifesto, 14 dicembre 2023)

di Antonella Mariani


Lo scandalo già emerso nel 2015 si arricchisce delle testimonianze delle donne, raccolte in un podcast d’inchiesta. Le giovani incinte non sposate venivano accolte in case religiose


“Figlie della Chiesa” (Kinderen van de Kerk in fiammingo) è il podcast pubblicato dal sito hln.be (Het Laatste Nieuws) che in queste ore sta facendo discutere il Belgio. Vi si rivelano, attraverso testimonianze dirette, i contorni di uno scandalo che era già esploso nel 2015, costringendo il Parlamento fiammingo a presentare le sue scuse «per la reazione tardiva delle autorità alla segnalazione delle adozioni forzate», e che riguarda trentamila neonati tolti alle madri e dati in adozione, con la complicità di religiosi e religiose. I fatti si sono svolti tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e – incredibilmente – gli anni Ottanta: giovani donne non sposate, incinte, venivano accolte in casa famiglie, dove svolgevano lavori e anche – è l’accusa – sottoposte talvolta ad abusi. Al momento del parto, venivano sottoposte ad anestesia generale e al risveglio non vedevano più i propri figli. È ciò che racconta all’emittente Rtl, ad esempio, una donna che nel 1982 aveva ventitré anni, era stata mandata, incinta e non sposata, in una casa di accoglienza a Tamar, diretta da religiose. Trasferita in ospedale per il parto, le fu praticato un cesareo e non vide mai la sua bambina. La donna, Cyrilla, dice anche di essere stata sterilizzata durante l’intervento. La figlia di Cyrilla, scrive Rtl, è stata venduta per 100.000 franchi.

Le famiglie adottive, sostiene il podcast, pagavano il servizio una somma tra i 10.000 e i 30.000 franchi belgi. Il confine tra pagamento e donazione, in questo caso, potrebbe essere sottile, ma quel che è certo è che la Chiesa belga non intende sottrarsi alle sue responsabilità.

Il sito della Conferenza episcopale belga, cathobel.be, spiega che i vescovi hanno presentato le loro scuse alle vittime, riconoscendo «la sofferenza che un grande numero di madri biologiche e di bambini adottati hanno dovuto sopportare».

Il portavoce dei vescovi, padre Tommy Scholtes all’emittente Rtl ha aggiunto che si vuole «perseguire la verità in modo indipendente». Concretamente, scrive ancora il sito ufficiale cathobel.be, ciò significa «stabilire contatti per trovare gli archivi […]. Nella misura del possibile, la Conferenza dei vescovi desidera contribuire alla ricerca delle madri biologici e dei bambini adottati».


(Avvenire.it, 14 dicembre 2023)

di Lorenzo Tecleme


Capita alle Cop che paesi piccoli e medi, normalmente ignorati dalle cronache internazionali, si ritaglino un ruolo da inaspettati protagonisti. A Cop28, ancora in corso a Dubai, questo ruolo se lo sta prendendo la Colombia. E il merito è soprattutto della sua carismatica ministra dell’Ambiente e dello sviluppo sostenibile, Susana Muhamad.

Già prima della COP la Colombia, guidata per la prima volta nella sua storia da un governo di sinistra, ha inaugurato un nuovo piano contro la deforestazione e annunciato lo stop a ogni nuova licenza estrattiva nell’oil&gas. Non una scelta scontata per un paese che ancora al 2020 aveva il petrolio in cima alla lista dei beni importanti. A Cop28 il Paese ha aderito al Fossil Fuel non-Proliferation Treaty, una proposta di trattato internazionale modellato sulla falsariga degli accordi che portarono a fermare la corsa alle armi nucleari. È la prima nazione produttrice di idrocarburi a farlo. Ma soprattutto è la posizione colombiana al negoziato a stupire gli analisti. Come quelle di tutti i paesi in via di sviluppo, la delegazione guidata da Muhamad è estremamente critica coi paesi occidentali sul lato finanziario, accusandoli di non fornire al Sud globale i mezzi necessari alla transizione. Ma a differenza di buona parte del mondo non industrializzato e della stessa America Latina, la Colombia è radicalmente schierata a favore del phase-out, l’abbandono dei combustibili fossili. Una posizione tedesca sulla mitigazione e cubana su finanza e adattamento che spezza le contrapposizioni tipiche dei summit internazionali sul clima.

Artefice di questo modello è senza dubbio la ministra. Quarantasette anni, storica ecologista con una laurea in pianificazione dello sviluppo sostenibile alle spalle, fiera delle sue origini palestinesi. Al Majli, l’assemblea convocata da Al Jaber alla fine della prima settimana, si è fatta conoscere anche come oratrice. «Il suo intervento è stato davvero notevole, quasi non riesco a crederci» ha commentato su X l’analista Nathalie Jones dell’IISD. «Se riusciamo a concordare sul 2030 – ha detto Muhamad – facciamolo. Dobbiamo eliminare progressivamente i combustibili fossili e abbiamo bisogno di un nuovo accordo economico per farlo». Non solo l’appoggio al phase-out, ma anche un richiamo a una data, il 2030, dentro un negoziato in cui anche i più ambiziosi si concentrano sul lontano 2050. E ancora: «Chi triplicherà le rinnovabili (uno degli obiettivi negoziali, ndr)? Chi ha interessi sui prestiti al 5% o chi li ha al 30%? Dov’è l’equità per noi, che siamo immersi nel debito?». Il dito è puntato su quell’occidente che di cancellazione del debito e seri aiuti alla transizione nel Sud globale non vuole sentire parlare.

È un ruolo unico quello che Muhamad ha scelto per il suo paese. La parte del governo-attivista, che dice ciò che gli ecologisti vorrebbero sentire, è di solito propria delle piccole nazioni insulari, che hanno un grande impatto simbolico ma nessun potere concreto. Stavolta lo ha preso una nazione che, seppur non paragonabile alle grandi potenze, ha 50 milioni di abitanti e un’area di molto superiore a quella italiana. Alla fine del Majli, la platea ha risposto al discorso di Muhamad con un lungo applauso. Per ora, il più sentito di questa Cop.


(il manifesto, 13 dicembre 2023)

di Anna Maria Selini


È un quadro fosco quello dipinto da Guido Veronese sulla situazione tra israeliani e palestinesi. «Siamo a un punto di non ritorno – spiega il docente di Psicologia clinica all’Università Milano Bicocca, esperto di traumi collettivi in aree di crisi – e le conseguenze non riguarderanno solo i due popoli, ma tutti noi». Veronese conosce bene la Striscia di Gaza: la frequenta dal 2011, come formatore e supervisore in scuole e centri che si occupano di traumi, in particolare dei bambini. Il 7 ottobre, quando Hamas ha attaccato Israele, provocando la morte di 1.200 persone, era appena rientrato in Italia. Di lì a poco su Gaza si è scatenata la peggiore delle rappresaglie, ad oggi sono 18.000 le vittime palestinesi.

Professore, come valuta quello che è successo a partire dal 7 ottobre?

Quello del 7 ottobre è stato un evento unico, catastrofico, e forse un punto di non ritorno anche per Israele stesso. Dalla sua fondazione, nonostante il periodo degli attacchi suicidi compiuti dai palestinesi tra gli anni ’80 e 2000, non si è mai verificato un evento di questa portata e ciò ha creato un punto di discontinuità in termini di sicurezza. Israele doveva e deve essere per i suoi cittadini il luogo sicuro per eccellenza, anche se forse non lo è mai stato veramente, ma una retorica della sicurezza è sempre stata costruita. Con il 7 ottobre si è sbriciolata e il senso di sicurezza del cittadino medio è entrato totalmente in crisi.

E invece per i palestinesi?

Anche la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre non ha precedenti per magnitudine di distruzione. Quindi anche per i palestinesi rappresenta un punto di discontinuità in termini di sofferenza collettiva, ma a differenza degli israeliani, per i palestinesi, in particolare di Gaza, non c’era un senso di sicurezza precedente. Anzi, semmai in questo vi è una certa continuità, un’idea di precarietà, di senso di minaccia e di attacco che è sempre continuato e che dopo il 7 ottobre ha avuto una accelerazione.

Quanto centrano il trauma della Shoah da un lato e della Nakba lesodo forzato di oltre 700mila palestinesi nel 1948 nelle reazioni dei due popoli?

Ci sono diversi livelli da tenere in considerazione. Il primo è quello del contemporaneo ed è qualcosa che ci riguarda un po’ tutti. Ha a che vedere con il privilegio delle società occidentali capitalistiche, quella presunzione di sicurezza e stabilità che diamo per scontata, ma che non lo è affatto, perché riguarda una piccolissima parte del mondo. Basti guardare la tragedia dei migranti e dei traumi collettivi che li portano a cercare una vita migliore in Europa. Israele da questo punto di vista è simile a noi: siamo molto spaventati di perdere questo privilegio e quando vediamo una persona sofferente, come il migrante, ci spaventiamo. Questa paura inferocisce, rende manipolabili e più facilmente razzisti.

A questo primo livello si aggiunge, nel caso di Israele, la questione della Shoah, in cui si innescano dei processi psicologici collettivi, ma anche delle patologie collettive. Perché avere a pochi chilometri da casa delle persone che soffrono in quella maniera e assolutamente non preoccuparsi per loro, ma addirittura in qualche modo partecipare a un processo di deumanizzazione nei confronti dei palestinesi, senza grossi rimorsi di coscienza trucidarli, come sta avvenendo, è un fenomeno patologico.

Mi ricorda un po’, più che gli ebrei che subivano lo sterminio, ancora una volta i tedeschi, che avevano i campi di sterminio a poche centinaia di metri o chilometri da casa e che non vedevano nulla. Il fatto che non vedessero ha un che di patologico e la società israeliana è vittima di questa patologia del non vedere.

Per quanto riguarda la Shoah, vedo anche un’altra cosa, il cosiddetto dirty game, gioco sporco: la tragedia della Shoah è stata ed è ancora molto sfruttata dalla retorica sionista, come la via per portare avanti un’agenda di dominio sui palestinesi, utilizzando la paura e forse anche tutto quello che rimane del trauma collettivo. Non so quanto questo possa fare presa sull’intera popolazione ebraica mondiale, che vive anche fuori da Israele il trauma transgenerazionale della Shoah. Sicuramente ha una forte presa sul senso di colpa occidentale, sulla nostra patologia collettiva, cioè quel senso di colpa che ci portiamo rispetto a quanto fatto, da europei e non palestinesi, nella Seconda Guerra mondiale nei confronti del popolo ebraico.

Quanto incide invece la Nakba sulle reazioni dei palestinesi?

Sicuramente ha fatto la differenza nella reazione attuale, così come in tutta la storia della resistenza palestinese. È qualcosa che fa parte della narrazione collettiva, che viene trasmessa di generazione in generazione, come un senso di deprivazione, spoliazione, perdita e con un aspetto del lutto che questo trauma porta con sé. È la perdita della terra, ma anche della dignità e di un numero impressionante di vite umane. Questo senso di insicurezza diffusa provoca una sofferenza collettiva, che in qualche modo porta anche a delle reazioni violente.

C’è poi un secondo livello, un altro tipo di trauma, che è il trauma del colonizzato: la reazione violenta che produce, che da un punto di vista di umanità potrebbe anche essere definita come ingiustificabile, è invece una reazione che assume senso, se la vediamo nei termini dell’impotenza e dell’umiliazione che vive il colonizzato. In tutti i processi di decolonizzazione c’è un aspetto atroce, violento e indicibile.

Si superano traumi del genere?

Se intendiamo che a un certo punto questi traumi storici e transgenerazionali spariscono, no. Ci saranno sempre, ma possono cominciare a coesistere, diventare una parte generativa nella storia dei due popoli. Il popolo ebraico dopo la Seconda guerra mondiale si è trovato di fronte a un bivio, che porta verso una storia di vita, quindi generativa, o una via di morte, fatta di una continua ripetizione degli aspetti negativi del trauma, della dinamica vittima-carnefice, con la possibilità che la prima si trasformi nel secondo.

Da un punto di vista psicologico, è possibile una pacificazione, un dialogo vero tra i due popoli?

Finché non c’è una riduzione delle asimmetrie di potere, credo non vi sia nessuna possibilità di contatto.

Ci sono i morti, ma anche i sopravvissuti. Come vivranno, in particolare i bambini?

Attualmente è molto difficile da dire, perché siamo ancora nella catastrofe, che è senza precedenti. Quello che fino adesso ho notato nel mio lavoro con i bambini palestinesi è una capacità di resilienza sorprendente, che ho visto però declinare negli ultimi anni, a favore dell’aumento del senso di oppressione, della chiusura e dell’assedio. Oggi ho veramente grossi dubbi che questa resilienza possa continuare ad esprimersi. Qualcosa di altamente catastrofico si è innescato e gli effetti li vedremo su tutta la popolazione mondiale, non so ancora in che termini.

Non si può fare nulla?

Si può agire solo nel momento in cui la crisi è stabilizzata e quindi l’unica cosa da fare ora è aspettare.


(AltraEconomia, 13 dicembre 2023)

di Alessandra Pellegrini De Luca


Maria Agnese Bellardita ha scoperto di essere stata adottata a ventott’anni: il giorno del funerale di suo padre una zia le disse che la donna che l’aveva partorita l’aveva lasciata davanti a una chiesa, e che i suoi genitori adottivi non avevano mai voluto che si sapesse. Molti anni dopo, al termine di una lunga ricerca che ha coinvolto il tribunale dei minori di Firenze, i Carabinieri e il suo avvocato, Bellardita ha scoperto una storia completamente diversa: a quella donna, che all’epoca aveva sedici anni, fu detto che la figlia era nata morta. Aveva partorito in un piccolo istituto per suore di Mozzo, vicino a Bergamo. I suoi genitori non volevano che lei crescesse la bambina, e d’accordo con le suore decisero di dare la neonata in adozione pochi giorni dopo la sua nascita.

Bellardita e la donna, ormai molto anziana, si sono incontrate per la prima volta il 23 dicembre del 2014, quasi dieci anni fa, nello studio legale delle nipoti di lei. Il loro è stato il primo caso in Italia di ricongiungimento tra madre e figlia o figlio non riconosciuto ottenuto attraverso il cosiddetto interpello, cioè la possibilità per le autorità di rintracciare una donna che abbia partorito in anonimato e chiederle, su richiesta del figlio non riconosciuto, se voglia revocare l’anonimato e incontrarlo.

È una possibilità prevista in diversi paesi europei, come Francia e Germania: in Italia è stata introdotta nel 2013, con una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il divieto allora in vigore di identificare la donna, previsto dalla legge sulle adozioni nazionali (dal 2001 quella legge prevedeva che le persone adottate potessero avere informazioni sui genitori biologici una volta compiuti i 25 anni, con l’eccezione proprio dei nati col parto in anonimato). La Corte ha anche chiesto al parlamento di fare una legge per definire con esattezza modi e tempi dell’interpello, cosa che non è ancora stata fatta: che si riesca quindi a contattare la donna per chiederle se vuole rimuovere l’anonimato o no dipende ancora molto dal singolo tribunale e dalla buona volontà dei singoli funzionari, con varie questioni irrisolte in mezzo.

Il diritto dei nati col parto in anonimato a conoscere le proprie origini biologiche è molto dibattuto, anche tra gli esperti, ed è stato oggetto di numerose sentenze di tribunali nazionali e internazionali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo: le decisioni al riguardo devono bilanciare il diritto della donna all’anonimato e all’oblio con quello dei nati a conoscere le proprie origini. Quest’ultimo diritto è stato progressivamente riconosciuto a livello internazionale negli ultimi decenni, sia da paesi che da organi sovranazionali come il Consiglio d’Europa, un’istituzione che si occupa di democrazia e diritti umani e non c’entra con l’Unione Europea (da non confondere con il Consiglio Europeo). In Italia, la Corte costituzionale lo ha legato all’articolo 2 della Costituzione, sui diritti inviolabili delle persone.

A oggi, e anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, prevale comunque la volontà della donna: se lei non acconsente a rimuovere l’anonimato, il nato o la nata non potranno sapere chi è ed eventualmente incontrarla.

La storia di Bellardita fu molto raccontata, nel 2014, anche perché nel frattempo lei era entrata in contatto con il Comitato per il diritto alle origini biologiche, che su questo tema è molto attivo e negli anni ha organizzato manifestazioni e scritto proposte di legge. Il giorno in cui Bellardita incontrò la donna che l’aveva partorita, questa le disse che un primo dubbio sul fatto che lei fosse davvero nata morta dopo il parto le era venuto mesi prima di essere contattata dal tribunale: quando al bar aveva letto un articolo sull’Eco di Bergamo in cui si parlava di una donna nata il 21 gennaio del 1955, proprio il giorno in cui decenni prima aveva partorito lei, che cercava la propria madre biologica.

La donna raccontò a Bellardita anche di quando tanti anni prima, giorni dopo il parto, aveva chiesto alle suore dell’istituto di portarla nel cimitero in cui avevano seppellito la bambina: «Le mostrarono una piccola croce con su scritto “Maria” e le fecero credere, d’accordo coi genitori, che io ero stata seppellita lì», dice Bellardita. Dopo questa vicenda ha aperto un sito in cui raccoglie appelli di figli non riconosciuti, di donne che cercano figli da cui per varie ragioni si sono separate alla nascita, e più in generale di persone che cercano parenti biologici di cui hanno perso le tracce.

Per fare ricerche di questo tipo sono nati anche diversi gruppi su Facebook, che negli ultimi anni hanno permesso a diverse persone di ritrovarsi. Molte persone utilizzano anche test del DNA fai-da-te, sempre più diffusi anche se non sempre affidabili rispetto alle informazioni che promettono di fornire.

«Ci sono tante storie come la mia, di donne molto giovani a cui veniva detto che i figli erano nati morti, magari perché la famiglia non era in grado di mantenerli o perché non voleva che la donna diventasse madre in quel momento», dice Bellardita. Sul suo sito si trovano anche appelli di donne che hanno dato in adozione i figli dopo il parto su spinta di compagni o parenti, magari in situazioni di difficoltà emotiva o economica e pentendosene in un momento successivo. Altre donne, anni dopo aver partorito in anonimato, hanno cambiato idea sulla possibilità di conoscere i figli non riconosciuti.

In Italia la legge sul parto in anonimato consente alla donna di partorire in ospedale in condizioni di riservatezza, gratuitamente e indipendentemente dalla nazionalità e dal titolo di soggiorno; e poi di non riconoscere il bambino, di cui viene constatato lo stato di abbandono e la conseguente adottabilità. La possibilità del parto in anonimato era stata introdotta con l’obiettivo di evitare gli abbandoni di neonati o gli infanticidi, ed è tuttora fortemente sostenuta anche da ambienti cattolici che la considerano anche un mezzo per limitare le interruzioni di gravidanza.

Col parto in anonimato, nell’atto di nascita del bambino viene scritto «nato da donna che non consente di essere nominata». Un’altra norma prevede che il nome della donna che ha partorito, così come la sua cartella clinica, restino segreti per almeno 100 anni: è la cosiddetta “legge dei cent’anni”, o più dispregiativamente definita da alcuni la “punizione dei cent’anni”, che quest’anno è stata anche l’argomento del film di Alessandro Bardani Il più bel secolo della mia vita, con Valerio Lundini e Sergio Castellitto.

Al parto in anonimato si fa ricorso per poche centinaia di nati l’anno, e i numeri sono in calo: nel 2007 erano stati 642, nel 2021 sono stati 173. Il Comitato per il diritto alle origini biologiche ha stimato che i figli non riconosciuti che fanno richiesta per l’interpello siano invece 300-400 l’anno. Nel 60 per cento dei casi l’esito è positivo, nel senso che la donna che li ha partoriti acconsente a revocare il proprio anonimato, dice la presidente del Comitato Anna Arecchia.

A chiedere l’interpello spesso le persone arrivano dopo aver scoperto da grandi che non erano nate dai genitori che li avevano cresciuti. Bellardita racconta di essersi fatta per la prima volta delle domande sulle proprie origini dopo aver trovato, rovistando in casa da ragazza, una scatola piena di lettere scritte da sua madre. Notò con un certo stupore che in corrispondenza della sua data di nascita, il 21 gennaio 1955, non c’era nessun riferimento a lei o a una qualsiasi gravidanza: anni dopo aveva chiesto a sua zia se per caso fosse stata adottata, e sua zia le aveva risposto di sì.

In altri casi l’interesse verso le proprie origini viene suscitato dalla percezione di qualcosa di non detto: Arecchia, la presidente del Comitato, ha raccontato per esempio di essere cresciuta in un posto molto piccolo in cui attorno alle sue origini e alla sua storia, diversa dalle altre, circolavano molti pettegolezzi: «Lo sapevano tutti, ma nessuno me lo diceva: appena mi sono trasferita in una città più grande per studiare ho iniziato la mia ricerca, iniziando col reperire il mio atto di nascita integrale». È così che Arecchia ha scoperto di essere stata partorita in anonimato, da una donna che le assegnò il nome “Anna”, poi mantenuto dai genitori adottivi: sull’atto di nascita, visionato per questo articolo, le fu assegnato il cognome “Dive”, scelto invece dal funzionario dell’anagrafe.

In mancanza di una legge, le modalità di presentazione dell’interpello alla madre anonima variano. Nella sentenza del 2013 la Corte ha parlato di «un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza» alla donna e permetta di interpellarla per chiederle, su richiesta del figlio biologico, se voglia rimuovere l’anonimato e incontrarlo. Nella pratica le modalità con cui si procede sono disomogenee, basate prevalentemente su precedenti e prassi giudiziarie che si sono create nel corso degli ultimi anni.

Di solito l’istanza per interpellare la donna che ha partorito in anonimato viene presentata al tribunale dei minori della regione di residenza del figlio o della figlia che fa richiesta di incontrarla. Poi eventualmente la pratica passa al tribunale della provincia di nascita, se diverso da quello di residenza. In alcuni casi i giudici si sono rifiutati di procedere proprio appellandosi alla mancanza di una legge che definisse con chiarezza le modalità dell’interpello; in altri i tribunali hanno incaricato il comando provinciale dei Carabinieri, oppure i servizi sociali, di individuare e rintracciare la donna e chiederle se fosse disposta a rimuovere l’anonimato: «Sui commissariati questa nuova attività investigativa è piombata un po’ come una tegola: sono cose che non avevano mai fatto prima», dice Arecchia.

Nel procedimento per rintracciare la donna i soggetti coinvolti sono dunque molti: il tribunale, gli agenti delle forze dell’ordine, i servizi sociali, i reparti di maternità degli ospedali, chi gestisce i loro archivi e le loro cartelle. C’è poi il personale incaricato di contattare la madre, per esempio i funzionari comunali e delle anagrafi, che una volta ricevuto il certificato di assistenza al parto cercano l’indirizzo di residenza della donna. Alcuni tribunali inviano una lettera di convocazione, altri mandano fisicamente qualcuno a citofonare alla donna.

«È capitato che i funzionari andassero sotto casa della donna con un’ambulanza, in previsione di un suo possibile malore», dice Arecchia. In moltissimi casi le donne sono ormai anziane, l’interpello può essere scioccante e traumatico.

Arecchia dice di essere consapevole che i nati in anonimato in cerca delle proprie origini possono creare un «putiferio emotivo» nelle donne e nelle loro famiglie, così come dice di essere consapevole delle critiche che alcuni gruppi femministi rivolgono al Comitato per la sua attività, ritenuta in contrasto col diritto della donna all’anonimato e all’oblio. Le critiche arrivano anche da alcuni ambienti cattolici, che considerano le rivendicazioni del Comitato una minaccia al parto in anonimato.

Arecchia ritiene però che su questo genere di argomenti in Italia prevalga una «mentalità adultocentrica» poco interessata ai diritti dei nati, e su queste stesse basi si dice contraria a forme di procreazione assistita come la gestazione per altri, cioè quando la gravidanza è portata avanti da una persona per conto di altre persone. A suo dire infatti questa tecnica nega il diritto alle origini. In realtà la possibilità di mantenere contatti e relazioni tra nati e donna gestante esiste, dipende dalla regolamentazione della pratica ed è peraltro ampiamente utilizzata da molte famiglie formate attraverso questa tecnica: tutte possibilità poco discusse e conosciute in Italia, dove il dibattito è fortemente politicizzato.

La ricerca della donna che ha partorito in anonimato procede per gradi e può avere esiti molto diversi. Incendi o alluvioni possono aver distrutto gli archivi degli ospedali, per cui diventa impossibile risalire al nome della donna; i tribunali dei minori, che in Italia sono 29 e hanno gravi carenze di organico, possono condurre indagini in maniera superficiale; una volta rintracciata la donna non è raro scoprire che magari è morta anni prima (in questo caso, sempre per via della mancanza di una legge, non ci sono regole chiare sulla revocabilità dell’anonimato).

È stato proprio il caso di Arecchia: dopo cinque anni di ricerche ha scoperto che molti anni prima la donna che l’aveva partorita si era trasferita in Canada. Dopo mesi di tentativi e una rogatoria internazionale Arecchia ha infine avuto accesso al nome della donna, scoprendo che era morta. È andata comunque a Toronto, in Canada, e ha conosciuto i suoi altri tre figli: una di loro, l’unica che parlava italiano, l’ha accompagnata nel cimitero in cui era stata sepolta la donna, concludendo così una «ricerca durata una vita», per usare le parole di Arecchia.


(Il Post, 13 dicembre 2023, pubblicato con il titolo “I figli non riconosciuti che vogliono rintracciare le proprie origini biologiche”)

di Claudia Bruno*


Attraversare Queen Victoria Street, a Londra, in un pomeriggio qualsiasi, e trovarsi inaspettatamente davanti Forgotten Streams – una vasca immensa inondata di radici che si spalanca come una ferita nel cuore della city, opera urbana della scultrice spagnola Cristina Iglesias – potrebbe richiamare alla mente le parole che Anna Maria Ortese affidava alle pagine della sua raccolta Corpo celeste, nell’aprile del ’97: “Invece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio, proveniente da lontano, o immobile in quel punto (così sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo anche noi” scriveva nell’introduzione alla sua preziosa successione di ragionamenti data alle stampe l’anno prima di morire. “Oggetto del sovramondo, era anche la Terra” spiegava, non ci sarebbe stato bisogno di andare nello spazio, lo spazio era già qui e noi ci eravamo dentro.

O ricordare la serie di autoritratti realizzati dalla fotografa Judy Dater tra l’80 e l’83, durante i suoi viaggi nei parchi nazionali americani. In uno dei suoi scatti realizzati in Idaho, fondendo la tecnica dell’autoritratto alla fotografia di paesaggio si rappresentava come una presenza aliena, dalla figura longilinea e decentrata – l’ombra di un treppiedi in primo piano, solo dieci secondi per posare prima che si chiudesse automaticamente l’otturatore – esponendo il suo corpo nudo e infinitamente piccolo alla luce lattea dei “crateri della luna”; in un altro, sdraiata su un fianco, raccolta in posizione fetale e ripresa da dietro, la sua persona assumeva i contorni di un sasso argentato, levigato da un ambiente vulcanico.

C’è qualcosa di ultraterreno in noi, nella terra su cui poggiamo i piedi, qualcosa di precedente a quello che siamo. Forgotten Streams, realizzata da Iglesias nel 2017 davanti alla sede centrale europea di Bloomberg, tra i colossi del mercato globale dei dati, funziona come una voragine emotiva: è ai piedi di uno dei suoi edifici simbolo che la città finanziaria, affollata di traiettorie apparentemente inarrestabili, restituisce al presente la sua dipendenza da un’era geologica remota anni luce. Bronzo, acqua, pietra, acciaio, permettono al corso di uno degli affluenti scomparsi del Tamigi, il Walbrook, di riaffiorare simbolicamente assottigliando il confine tra organico e inorganico, e intercettano un’istanza allo stesso tempo extraterrestre e sommersa, capace di tenere insieme l’immensità del cosmo con gli sprofondi del sottosuolo

Le radici s’intrecciano nella grande vasca di cemento scomposta in tre parti, affondano nell’acqua e riemergono qualche passo più in là alla maniera di un’impuntura indomita. Per un istante l’impressione è di trovarsi di fronte alla corrispondenza aumentata delle fotografie in bianco e nero scattate dall’artista slovacca Maria Bartuszová negli anni ’80, durante le sue passeggiate invernali sugli argini ghiacciati del fiume Hornád, a Košice, sulle tracce sentimentali di un altro fiume che le era stato caro da bambina, il Vltava che scorreva a Praga – “Winter Nature Studies” il titolo della serie che ritraeva il corso d’acqua costellato dagli ammassi lattiginosi di neve che avrebbero ispirato negli anni a seguire le sue sculture di gesso e di pietra.

È come se il mondo avesse una crosta e si potesse sbucciare, come se sotto la superficie intatta delle cose scorresse un flusso inarrestabile di senso, la linfa invisibile di un rimosso abissale. Iglesias le chiama “sculture liquide”, ne ha realizzate diverse in parti del globo tra loro distanti nel corso della sua carriera – a Madison Square Park a New York (Landscape and Memory, 2022); sull’isola di Santa Clara, in Spagna (Hondalea. Marine Abyss, 2021); davanti al Museum of Fine Arts di Huston, in Texas (Inner Landscape. The Lithosphere, the Roots, the Water, 2020); nel giardino della Fundació Per Amor a l’Art, a Valencia (A través, 2018); e prima di Londra a Toledo, Anversa, Santander, passando per Messico, Norvegia e Brasile. 

“Ho iniziato a interessarmi all’utilizzo dell’acqua nei miei lavori come elemento di movimento e trasformazione all’interno di una cultura, e quindi anche di una città: è osservando l’acqua che possiamo comprendere che niente, se guardiamo attentamente, resta uguale a se stesso” spiegava in un’intervista del 2021 alla Whitechapel Gallery di Londra. “Penso che l’acqua in qualche modo renda tutto questo evidente, velando e svelando continuamente le cose mentre si muove. Nelle sequenze a cui lavoro alcune volte l’acqua scorre velocemente e poi va più lentamente, per me è soprattutto un elemento che ci parla del tempo, del trasferimento di una conoscenza” proseguiva. “Nelle mie sculture, attraverso l’acqua creo l’illusione di una profondità, perché è di questo che voglio parlare: di un sottosuolo, del fatto che una città possa avere una sua propria interiorità”.

L’esperienza generata è preverbale, ricontatta in qualche modo il sentimento che così bene Ana Mendieta esprimeva nel documentario Fuego De Tierra diretto nel 1987 dalla regista americana Kate Horsfield. “La mia arte” sosteneva l’artista nata a Cuba nel 1948 ed esiliata negli Stati Uniti insieme a sua sorella quando era ancora una ragazzina “è fondata sulla convinzione che esiste un’energia universale che attraversa ogni cosa: dall’insetto all’uomo, dall’uomo allo spettro, dallo spettro alla pianta, dalla pianta alla galassia”. “Le mie opere” recitava come una preghiera “sono le vene di irrigazione di questo fluido universale. Attraverso di esse risalgono la linfa ancestrale, le credenze originarie, gli accumuli primordiali, i pensieri inconsci che animano il mondo. Non c’è passato originario da riscattare, c’è il vuoto, l’orfano, la terra non battezzata dell’inizio, il tempo che dall’interno della terra ci guarda. C’è prima di tutto la ricerca dell’origine”.

Le sculture di Iglesias sono intrise di una affine insanabile nostalgia, genealogicamente connessa a quella emanata dalle opere terra-corpo di Mendieta, si incasellano le une con le altre in un collage di Silueta in negativo, dove il corpo dell’artista scompare, viene affidato al paesaggio circostante, esteso al passo di chi attraversa lo spazio e si ferma a guardare, all’improvviso assorbito da un richiamo ipnotico che ne pretende l’attenzione.

Se nella “Earth-body art” di Mendieta il corpo dell’autrice si fondeva con la terra, diventava l’opera attraverso il sangue, l’evocazione della sepoltura, la combustione, qui resta lo sprofondo, l’assenza, l’inclinazione generativa della materia che di continuo si riproduce spaventosa e salvifica. L’esilio dalla terra è la città, un inghiottitoio immateriale dove l’impermanenza si fa strada lungo cavi di silicio. Se nella ricerca di Mendieta il corpo o il suo calco tornavano alla terra, si lasciavano inghiottire – da un ruscello, da un deserto messicano, da un campo di margherite – nell’atto finale di un incondizionato abbandono; nelle sculture di Iglesias è il regno di sotto a tornare a galla, riprendersi il mondo, diventare un silenzio che interrompe il rumore del traffico per raccontare il passato al futuro. È un canto incrinato che ha la dolcezza di un sonnifero, l’andatura di un inconscio collettivo, qualcosa che sarebbe capace di parlarci in sogno.

Jocelyn Mc Gregor, artista nata in Lincolnshire nel 1989, usa la tecnica della stop-motion per integrare il suo corpo con le sculture che produce inscenando in modo vivido ed efficace la fine della realtà come un ritorno alla natura dal tono alterato. “Non sei in nessun posto normale che conosci” recita la sua voce in un monologo diffuso online. “Nessuna area di straordinaria bellezza naturale. Nessun sito del patrimonio mondiale dell’Unesco. Scatta solo foto, lascia solo impronte”. In un video di pochi secondi realizzato montando tra loro una serie di scatti fotografici e pubblicato su Instagram, mostra in primo piano la bocca semiaperta da cui fuoriesce la coda di un lombrico. Quello che le spunta tra i denti è in realtà un manufatto che lei stessa ha prodotto, trasformarne le immagini delle diverse posizioni nello spazio in un video e creare l’illusione del movimento equivale a giocare col confine tra animato e inanimato, digitale e analogico.

“Una piccola luce rossa si accese, illuminando una nascita giurassica di uova perfettamente circolari” scrive in una pagina di diario pubblicata online e datata 2018, Isola di Yakoshima, in Giappone. Potrebbe essere la traccia di una science fiction dove gli insetti governano il mondo e partorire la terra è una funzione alla portata di tutte le creature. Le sue opere ne riproducono le atmosfere illuminate e desertiche. Il suo universo si dissecca in un terrario di vermi, paesaggi partoriti da ragazze distese supine sui gomiti, le gambe divaricate con naturalezza come durante un esercizio di ginnastica. Qui, capelli e crini di cavallo crescono direttamente dalle piegature delle braccia, ci sono piedi che riposano affiancati dentro un nido di paglia, arti che fuoriescono da gusci di lumaca, vermi giganti ricoperti di unghie che si appollaiano comodi su poltrone impagliate. Impossibile non pensare alle body extension realizzate da Rebecca Horn negli anni ’70 per le sue performance, o alle parole di Clarice Lispector ne La passione secondo GH – anch’esse dopotutto un’estensione oltreumana di qualcosa di finito.

“Il tesoro era un pezzo di metallo, era un pezzo di calce di parete, era un pezzo di materia sotto forma di blatta” faceva dire in quelle pagine alla sua protagonista dopo averle messo in bocca il corpo dell’insetto. “Dalla preistoria io avevo cominciato la mia marcia attraverso il deserto […] e avevo infine trovato lo scrigno. E dentro lo scrigno, sfavillante di gloria, il segreto nascosto. Il segreto più remoto del mondo, opaco, ma che mi accecava irradiando la sua esistenza semplice che lì sfavillava in gloria fino a farmi dolere gli occhi. Dentro lo scrigno il segreto: un pezzo di cosa”.

Mc Gregor architetta attraverso le sue opere un horror rassicurante, che fa del ritorno alla natura una spedizione verso l’ignoto. “In silenzio arrancavamo nell’oscurità” continua il diario giapponese “lei non era che un’ombra e il rumore degli stivali nella sabbia accanto a me. Avevamo perso il gruppo, che era stato frettolosamente scortato lungo la spiaggia davanti a noi…”. A metà strada tra le estensioni inumane di Horn e il labirinto di gusci di Maria Bartuszová, Mc Gregor si muove forse prima di tutto in un paesaggio fondato sull’incontro tra specie.

La sua scultura tattile Earthing, attualmente in Aldgate Square, a Londra, espone al passaggio pubblico il racconto intimo di una fecondazione, dove il corpo dell’artista riprodotto in un calco presta la sua forma segmentata a una simbiosi: un braccio e un paio di gambe fuoriescono da enormi gusci di lumaca; altre due gambe emergono da un ammasso di pietre rivestite dalla muta di un serpente, dorate come quelle di un mimo, incrociate su se stesse come quelle di un fachiro. A differenza di quanto avveniva nei lavori di Horn, dove piume, matite, unicorni e ventagli si applicavano vistosamente alle estremità dei corpi non più o non ancora umani, nelle opere di Mc Gregor il legame si fa intangibile a testimoniare l’esistenza di una nuova parentela. 

Diversamente dagli involucri bianchi e sottili che nelle sue sculture Bartuszová articolava intorno al vuoto e spesso in sospensione come a scandagliare l’origine stessa di una forma nella sua irriproducibile fragilità, Mc Gregor colleziona conchiglie spesse dai colori non perfettamente naturali, membrane che contengono sempre un tutto pieno, si accordano alle tinte sature delle storie di folklore, ognuna con la propria ambizione di lasciarsi scivolare fuori l’imprevedibile risposta che stavamo aspettando, qualcosa che comincia nel momento stesso in cui ritorna.

Joanna Zylinska, che insegna Filosofia dei Media presso il dipartimento di Digital Humanities del King’s College di Londra e molto ha scritto negli ultimi anni su arte, realtà virtuali ed estinzioni di massa, la chiamerebbe “la fine dell’uomo”. Nel video Exit Man, realizzato per accompagnare uno dei suoi saggi più recenti, un pamphlet articolato intorno a una contro-apocalisse femminista (La fine dell’uomo, Rogas, 2021, uscito nel Regno Unito nel 2018), mette in scena un “museo locale dell’Antropocene” ad auspicio di un futuro diverso da quello che siamo abituati a prefigurarci. Un esercizio di pensiero che funziona come un esorcismo culturale, dove slogan scritti a mano nelle strade del pianeta – Sorry! The lifestyle you ordered is currently out of stock; Businesses open as usual; Last day; New idol is coming; We have closed early today for optimisation purposes; It won’t make the difference – si alternano a scheletri animali e umani, prospettive interstellari e inquadrature spaziali, tra sculture, rampicanti, manufatti e pitture rupestri, gigantografie trumpiane e scarpe migranti, pesci morti sulle rive e diverse architetture industriali; testimoniando così bene la prospettiva parziale della storia che ci stiamo raccontando.

Nel suo saggio, passando per le teorie di Donna Haraway, Karen Barad, Rosi Braidotti, Anna Lowenhaupt Tsing, Zylinska si serve di una sottile ironia femminista per mettere in crisi la definizione stessa di “antropocene” e smontare la narrazione della fine del mondo come esito scontato della storia. Le smanie di colonizzazione maschilista dello spazio e di elevazione dell’umano a condizione divina attraverso l’intelligenza artificiale vengono in poche pagine smascherate e descritte come facce dello stesso marchingegno: la paura del maschio bianco benestante di essere spodestato di ogni privilegio da cui deriva l’illusione cognitiva che confonde la fine del patriarcato con la fine della specie. Nel discorso di Zylinska le smanie di salvezza che hanno la forma di un’exit strategy – dall’estinzione di massa come prospettiva liberatoria ai traslochi su Marte dell’umanità che se lo può permettere o se lo “merita” – lasciano spazio alla precarietà come condizione dell’esistenza, ai legami come pratica fondante di qualsiasi etica necessaria alla sopravvivenza sul e del pianeta.

In questa cornice, che va oltre la visione tragica e conservatrice dell’antropocene, dove la fine dell’uomo coinciderebbe con la fine del mondo, si inserisce sicuramente il lavoro della designer e artista turco-americana Pinar Yoldas, che dal concetto di “eccesso” è partita per articolare una “nuova tassonomia del vivente”. Nel suo lavoro più noto, Ecosystem of Excess – esposto all’interno della rassegna Eco-visionaries alla Royal Academy of Arts di Londra fino a febbraio 2020, proprio qualche giorno prima dell’inizio della pandemia – Yoldas mette insieme una serie di eccentriche creature colorate simili a microorganismi ingranditi, contenuti in degli acquari cilindrici che molto ricordano le lava lamp degli anni ‘70, e inventa così un ecosistema “post-umano” di “organismi speculativi” immersi in un ambiente immaginario. Sito di interesse e luogo di nascita di queste “specie in eccesso”, spiega Yoldas nei suoi interventi pubblici a commento dell’installazione che ha portato in questi anni in giro per il mondo, è il great pacific garbage patch, vortice di immondizia delle dimensioni dell’Europa centrale, composto da diversi milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, situato nel Pacifico settentrionale.

L’elemento acquatico torna preponderante nel lavoro di quest’artista, che riprende la teoria della “zuppa primordiale” – secondo cui la vita sulla terra iniziò quattro miliardi di anni fa negli oceani, quando la materia inorganica si trasformò in molecole organiche – e la combina alle ricerche più recenti sui microorganismi in grado di metabolizzare le plastiche, arrivando a inventare un interregno di insetti pelagici, rettili marini, pesci e uccelli dotati di organi adatti a digerire gli scarti prodotti dalla nostra specie. Il suo è un nuovo ordine post-linneano del regno vivente dove gli oceani da gigantesca zuppa di plastica divengono il sito di scambio tra materia organica e sintetica, arte e scienza.

Pinar Yoldas inventa forme di vita complesse, che possono prosperare in ambienti estremi, paesaggi tossici generati dal consumismo umano, trasformare il surplus prodotto dal desiderio capitalistico in “uova, vibrazioni, gioia”. Nei suoi lavori supera così la prospettiva dominante, offrendo una visione decentrata della vita senza l’uomo, e ripensando la biologia a partire dalla presa di coscienza che gli umani non sono indispensabili al pianeta. Immaginare la terra senza di “noi” diventa un prerequisito fondamentale per lo stesso stare al mondo, significa ridimensionare l’importanza che affidiamo alla specie, accordarsi ai processi evolutivi del sistema solare, allargare il campo alle altre galassie. Fine dell’uomo non significa fine del mondo.

Se c’è qualcosa di indispensabile alla terra, invece, questi sono proprio gli oceani. Quando nel 2005 le gemelle Christine e Margaret Wertheim hanno dato vita ai primi nodi del Crochet Coral Reef, che negli anni successivi sarebbe diventato il progetto artistico collettivo più esteso al mondo, lo avevano bene in mente. Al centro della gigantesca barriera corallina realizzata all’uncinetto che avrebbe coinvolto migliaia di donne in ventisette paesi del mondo attraversando tre continenti e nel 2019 sarebbe stata esposta alla Biennale di Venezia, c’era proprio l’intento di fermare l’erosione degli ecosistemi marini dovuta all’acidificazione delle acque, una delle conseguenze dell’innalzamento eccessivo e veloce che le temperature globali hanno subito negli ultimi anni. È solo la spinta iniziale di una storia che affonda le radici tra arte e matematica. In Staying with the Trouble (Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019), la biologa, filosofa della scienza e teorica femminista Donna Haraway la racconta rintracciando nel progetto delle due sorelle le caratteristiche essenziali della fantascienza femminista.

Tutto inizia dopo la lettura di un articolo sullo sbiancamento dei coralli e dall’interesse per gli studi della matematica lettone Daina Taimina, docente alla Cornell University, che nel ‘97 aveva messo a punto un modello fisico della geometria iperbolica utilizzando il metodo dell’uncinetto. È così che a Christine Wertheim, artigiana e poetessa, e alla sua gemella Margaret, matematica e artista, viene in mente di realizzare una barriera corallina filata a mano. Nate a Brisbane nel Queensland, in Australia, vicino alla grande barriera corallina, le due sorelle hanno cominciato a tessere la scultura lanosa quando si trovavano a Los Angeles per lasciare in seguito il filo alle altre che ci avrebbero lavorato nelle più disparate aree del pianeta utilizzando vari materiali – lana e cotone, ma anche buste di plastica, resti di nastro adesivo, fili di vinile, pellicole alimentari.

“La barriera corallina all’uncinetto attiva dei nodi simpoietici tra matematica, biologia marina, attivismo ambientale, consapevolezza ecologica, tecniche artigianali femminili, arti tessili, forme di allestimento museale e pratiche artistiche comunitarie” scrive Haraway. “Infettandosi a vicenda e infettando chiunque venga in contatto con le loro creature fibrose, migliaia di artigiane creano all’uncinetto degli attaccamenti psicologici, materiali e sociali con le barriere coralline negli oceani, ma non praticando la biologia marina o immergendosi tra i coralli o stabilendo altre forme di contatto diretto”. Una “intimità senza prossimità” capace di stabilire “una presenza senza disturbare le creature che animano il progetto”.

Questi fili sembrano trovare il senso perfetto nel lavoro della visual artist italiana Rachele Maistrello, che a partire dal 2018, dopo un viaggio a Pechino, ha lavorato a un progetto artistico a metà tra esposizione fotografica, ricerca storica e fantascienza. Il lavoro di Maistrello è articolato in due atti consecutivi nel tempo ma considerati come opere autonome, Green Diamond e Blue Diamond, entrambe esposte al Museo Maxxi di Roma rispettivamente nel 2021 e nel 2022, la seconda anche alla Galleria Eugenia Delfini nel 2023.

Al centro delle due opere c’è una storia d’amore ambientata in una fabbrica di tecnologia hi-tech “altamente sofisticata”, la Green Diamond, presumibilmente esistita nella Pechino degli anni ‘90 per sviluppare raffinati microchip in polvere di diamante, capaci di provocare nel corpo umano sensazioni e sentimenti legati alla natura. Nello specifico, questa tecnologia prevedeva che sensori impiantati in precise parti del corpo umano, lenti a contatto virtuali e onde ultrasoniche, potessero essere attivati attraverso una serie di gesti, innescando nell’utente sensazioni come il calore del sole sulla schiena, il vento in faccia, il profumo di un fiore, o l’impressione di essere circondati dal verde scuro di una foresta, per dirne alcune.

“Ho passato moltissimo tempo con gli operai a collezionare pensieri sulla natura” racconta l’autrice a proposito della genesi della sua ricerca, iniziata a Pechino dentro l’azienda Bernard Control nel 2018, “una natura possibile, futura e passata: parlavamo dei luoghi di pace della loro infanzia tanto quanto di oasi immaginate durante il lavoro in catena di montaggio”.

I presupposti sono simili a quelli che hanno portato due artiste e ricercatrici nordeuropee, Alexandra Daisy Ginsberg e Sissel Tolaas, a servirsi dell’ingegneria genetica per “resuscitare” l’odore dei fiori estinti “in modo che gli umani potessero sperimentare di nuovo qualcosa che abbiamo distrutto”, come accade in Resurrecting the sublime, opera al confine tra arte, biotecnologie, e scienze olfattive, che dal 2019 hanno portato in giro all’interno di spazi come il Centro Pompidou di Parigi o la Wellcome Collection di Londra. In modo affine ai sensori della Green Diamond immaginata da Maistrello, l’odore dei fiori inventati da Ginsberg e Tolaas sulla base di ricerche reali condotte su specie estinte (l’Hibiscadelphus wilderianus delle Hawaii, o il Leucadendron grandiflorum del Sud Africa, tra quelle considerate), è portatore dell’idea di un paesaggio perduto, sublime, non più conoscibile, raggiungibile solo attraverso la fiction.

Protagonisti della storia raccontata da Maistrello: Li JianPing, operaio addetto alla pulizia dei sensori della Green Diamond tra il 1994 e il 1999, e Gao Yue giovane promessa della scuola di arte acrobatica di Pechino a cui a un certo punto viene affidato il compito di testarli e lavorare sui nuovi gesti per attivarli. In Green Diamond l’artista ricostruisce la storia della fabbrica attraverso lo scambio epistolare tra Li JianPing e Gao Yue, e una serie di foto, video e documenti, senza tuttavia riuscire ad attestarne l’esistenza. Tutto il lavoro ruota “intorno alla costruzione di un sito che funziona come un archivio, ma anche come il moodboard per un film – mescolando documenti, video, trascrizioni di mail e informazioni tecniche” come spiega l’artista, definendo il sito web del progetto “una sorta di piccolo labirinto, in cui immergersi in una realtà fantascientifica che invece di rivolgersi al futuro si rivolge al passato”.

Blue Diamond segue invece le evoluzioni della fabbrica dopo il 1999 e i suoi nuovi esperimenti in mare aperto nel campo della neurologia dei cetacei, e ricompone la vicenda di Gao Yue che qui ritorna in qualità di apneista, chiamata a interagire direttamente con i delfini per conto della società. L’opera comprende pagine di diario, documenti, fotografie e annotazioni attribuiti a Gao Yue e datati tra il 1999 e il 2001, e ne documenta il complicato tentativo di comunicare con il regno subaqueo. È da questi materiali che veniamo a sapere del rapporto di Yue con un delfino, e della comunicazione tra umani e specie acquatiche resa possibile dalla traduzione delle loro frequenze sonore. Qualcosa di simile a quello che Maistrello realizza parallelamente, in collaborazione con lo Jonian dolphin conservation nel Golfo di Taranto, traducendo il linguaggio ad ultrasuoni dei delfini in frequenze, e associando queste ultime al movimento di diversi materiali (sabbia, farina, pigmenti colorati), fino a ottenere dei pattern fotografici attraverso il procedimento analogico della camera oscura, e affidando così una forma visiva a “suoni che noi umani non possiamo vedere, rendere visibile l’invisibile”, come spiega lei stessa in un video dell’Italian Trade Agency.

Da una parte c’è “il mondo marino fatto di specie di cetacei ma anche di abissi e di altri tempi e altri ritmi” ha raccontato a proposito di Blue Diamond in occasione dell’esposizione al Maxxi, e dall’altra “il mondo umano della logica della ragione ma anche del cercare oltre i propri limiti”. E allora è soprattutto il senso di un’assenza che la sua protagonista Gao Yue ricerca “un’assenza che non è mancanza ma possibilità di comunione tra mondi diversi e allo stesso tempo legati, un’assenza che è un vuoto che è molto vicino a una sensazione antica come quella del grembo materno, dove è tutto in possibilità in divenire e si è ancora totalmente natura”.

In questo ritrovato, artificiale, liquido amniotico, materia e visione producono un innesto che si schiude, restituisce alla pratica artistica il suo potere generativo, capace di trasformare il modo in cui guardiamo la realtà, pensiamo le cose, percepiamo il tempo. Solo tenendo insieme anatomia e immaginario potremo ridefinirci in un legame che passa per la soggettività del mondo, sembrano ripeterci i lavori di queste artiste.

Anticipare un ritorno alla terra ancora del tutto irreale significa allora pronunciare parole nuove, considerare la scrittura come un corpo, ogni corpo una forma d’arte. Il concetto stesso ne risulta trasfigurato, disperso in uno spazio fluido, nella promessa infinita di senso che si realizza solo attraverso storie dagli echi primordiali, eppure appena o quasi nate, ancora tutte da raccontare.


(Il Tascabile, 12 dicembre 2023)


*Claudia Bruno scrittrice e giornalista, si è laureata a Roma in Teorie della Comunicazione. È redattrice editoriale di inGenere, scrive di libri sul Manifesto e lavora come consulente editoriale. Suoi articoli e racconti sono stati pubblicati da Minima&Moralia, Not, Colla, Cadillac, Inutile, Abbiamo le prove e altre riviste. Ha scritto Sola andata (NNE, 2022) e Fuori non c’è nessuno (effequ, 2016).

di Ascanio Celestini*


Francesco è figlio di un ricco mercante. Combatte la battaglia di Collestrada nel 1202 contro i nobili di Assisi, poi lascia tutte le ricchezze, gira scalzo, non tocca più il denaro. Sceglie la povertà. Dice che se possiedi qualcosa sei costretto a difenderla e diventi violento.

Nel 1219 arriva in Egitto. Parla con i crociati, gli ricorda il quinto comandamento: non uccidere. Ma non lo stanno a sentire. Prova a parlare anche con i musulmani, ma la guerra continua lo stesso.

Francesco torna a casa con l’idea che non serve a niente conquistare quel pezzo di terra dove è nato Gesù. Che la terra è tutta uguale e che Betlemme è solo un posto di povera gente che somiglia a tanti altri nel mondo. Così nel 1223 fa il suo presepe a Greccio, un altro posto di povera gente. Un borgo dell’alto Lazio. La notte di Natale di otto secoli fa qualche centinaio di persone sono state in Terra Santa senza muoversi dalla Sabina.

Dopo ottocento anni quella terra è ancora un posto di poveri cristi. Qualcuno ha fatto il calcolo dei bambini uccisi da Erode. Se gli abitanti di Betlemme erano un migliaio potevano esserci circa trenta neonati. Ma volendo uccidere solo i maschi il numero si riduce ulteriormente.

A settanta chilometri a sud-ovest assistiamo a una strage moderna. I numeri sono altri perché la tecnologia ci permette di essere più performanti dei soldati di Erode.

Secondo l’Oms: «A Gaza muore in media un bambino ogni dieci minuti». I morti in totale oggi arrivano a 18.000 e i bambini sono quasi un terzo.

Cioè se lasciamo fuori dal numero gli adulti ci rendiamo conto che i bambini uccisi dall’esercito di Israele sono cinque volte il totale degli israeliani uccisi dai miliziani di Hamas.

Non sono un esperto e non conosco in maniera profonda la storia di quella terra e della gente che la abita. Se devo aggiungere la mia opinione a quella di altri commentatori preferisco farlo al bar dove siamo tutti consapevoli della nostra ignoranza, dove sappiamo che abbiamo solo opinioni.

Infatti mi capita di commentare i numeri di questo conflitto. Mi capita di farlo al bar. Non è un discorso circostanziato, non sto a ricordare che prima del 7 ottobre la guerra era iniziata da un pezzo, che Gaza è una galera, che Hamas esiste almeno dalla fine degli anni ’80 e che è stata sostenuta persino da Israele per contrastare al-Fatah.

No. Parlo solo del numero dei morti. Siamo tragicamente oltre una proporzione che fa spavento: più di 10 palestinesi uccisi per ogni israeliano.

Il bar nel quale discuto con altri clienti sta a Roma. Nella mia città questi numeri ricordano il marzo del 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Uno mi fa: «Vogliamo dire che gli israeliani sono nazisti?»

No. Non lo direi mai, non dobbiamo dirlo mai. E per tante ragioni. Per esempio non voglio dire che i militanti di Hamas sono partigiani. E tantomeno voglio che si pensi ai partigiani romani del ’44 come a una banda di terroristi.

Eppure la sproporzione è evidente. E pesa la giustificazione secondo la quale Israele ha il diritto/dovere di reagire e che, nonostante mezzo mondo dichiari che è una carneficina sproporzionata, Israele può considerarla un’operazione militare perfettamente legale per colpire i terroristi.

E poi chiedo agli altri clienti del bar: «Secondo voi come sono morti i palestinesi?»

Hamas ha bruciato i bambini e squartato il corpo delle donne. E l’esercito israeliano come li ammazza i bambini palestinesi? Con le caramelle avvelenate? E le donne palestinesi non sono squartate quando un razzo israeliano gli sfonda la casa? Anche l’esercito israeliano brucia e squarcia i corpi, ma non li mostra. I bambini fatti a pezzi dalle armi israeliane sono molti di più di quelli israeliani morti il 7 ottobre, ma non vengono filmati.

Ecco la differenza. Hamas deve dimostrare che può reagire. E deve mostrare ogni singolo assassinio per farlo pesare come un macigno. A Israele non basta reagire, deve dimostrare che la propria forza è dieci volte più grande, ma senza mostrare i morti. Come se fosse un atto di giustizia. Una naturale conseguenza. Che, anzi, bisogna nascondere per non mettere in secondo piano la “vera” motivazione, cioè il diritto/dovere di reagire.

«Il primo buco nero è quello che sta accadendo ora a Gaza – scrive Gideon Levy di Haaretz – L’infinita verbosità dei media israeliani quasi ignora l’orribile bagno di sangue. Non una parola sul disastro di Gaza. Non che sia giustificato o ingiustificato: semplicemente non esiste. Il disinteresse è deliberato. Non ci sono resoconti. Nessuna immagine. A malapena un accenno».

Cosa succederebbe se Israele mostrasse i corpi sventrati di quei 18.000 palestinesi?

Recentemente gli Stati Uniti hanno bloccato l’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite che chiedeva “un cessate il fuoco umanitario immediato” nella Striscia di Gaza. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ringrazia «il presidente Biden per essere stati fermamente al nostro fianco, oggi, e per aver dimostrato la loro leadership e i loro valori».

Quando domani al bar qualcuno mi chiederà «vuoi dire che gli israeliani sono nazisti?» continuerò a rispondere «No», questo abbiamo il dovere morale di dire con forza, ma aggiungerò che l’analogia mi spaventa perché vedo la stessa arma che usano i regimi peggiori: nascondere i morti e legalizzare il crimine.

Nel presepe di Greccio pensato da Francesco c’era la mangiatoia, l’asino e il bue. Nient’altro. Non voleva mettere in scena la nascita di Gesù, ma ricordare a tutti che era nato povero in un posto di povera gente identica a tanti poveri cristi in ogni parte del mondo.

Oggi anche Gaza è un presepe vuoto come quello di Francesco. In quella guerra ci sono tutte le guerre. Tra quei morti ci sono tutti i morti che non possiamo giustificare.

(*) Ascanio Celestini è in tournée teatrale per la sua ultima opera “Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato”


(Il manifesto, 12 dicembre 2023)

di Giada Storelli


Nel gennaio 2014, sul sito web della Bbc, apparve un articolo dal titolo “Whatever happened to the term New Man?” a firma del giornalista Tom de Castella. Nell’articolo si ripercorreva la storia dell’espressione “New Man” che, a partire dagli anni Ottanta, descriveva una nuova e «exotic new species of man, happy to do the washing up or change a nappy» [una nuova specie esotica di uomini, felici di lavare i piatti o cambiare un pannolino].

Per l’Oxford English Dictionary, come riportato anche nell’articolo, per “New Man” s’intende colui che «rejects sexist attitudes and the traditional male role, especially in the context of domestic responsibilities and childcare, and who is (or is held to be) caring, sensitive, and non-aggressive» [rifiuta gli atteggiamenti sessisti e il tradizionale ruolo maschile, soprattutto nel contesto delle responsabilità domestiche e della cura dei figli, e che è (o è ritenuto essere) premuroso, sensibile e non aggressivo]. Non è un caso che tale cambiamento riguardo le mansioni dell’uomo all’interno del ménage familiare maturò negli anni Ottanta. In questo periodo, infatti, i ruoli di genere e il mercato del lavoro erano in profonda evoluzione, risultato delle lotte femministe, delle proteste giovanili e delle trasformazioni sociali del periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Come in ogni rivoluzione che si rispetti però, ci sono sempre delle figure che precorrono i tempi, segnando la strada dei grandi cambiamenti prima che questi maturino all’interno della coscienza di massa. È il caso, in questo contesto, dello scrittore inglese George Orwell, al secolo Eric Arthur Blair, un “New Man” ben prima che tale termine fosse coniato.

Nel sito theOrwellSociety.com sono raccolti una serie di saggi firmati da Richard Lance Keeble, suddivisi in tre parti, dal titolo “The Heart of the Matter” dove viene ricostruito un aspetto poco noto della figura dello scrittore, eppure fondamentale nelle sue opere come nella vita privata: la paternità. «Orwell – si legge nel terzo capitolo – had long expressed his wish to become a father. For instance, in April 1940, when his friends Rayner and Margaret Heppenstall celebrated the birth of a daughter, he said: “What a wonderful thing to have a kid of ones own. Ive always wanted one”» [aveva espresso da tempo il desiderio di diventare padre. Ad esempio, nell’aprile del 1940, quando i suoi amici Rayner e Margaret Heppenstall festeggiarono la nascita di una figlia, disse: “Che cosa meravigliosa avere un figlio proprio. Ne ho sempre desiderato uno”]. Dopo anni di tentativi infruttuosi di concepire un figlio, George Orwell e la moglie Eileen O’Shaughnessy vennero informati dal loro medico della disponibilità all’adozione di un bambino e nel giugno 1944 accolsero quello che venne ribattezzato Richard Horatio Blair. Passò poco più di un anno dell’arrivo del figlio ed Eileen morì prematuramente, all’età di 39 anni, all’ospedale di Newcastle.

Fu così che Orwell si ritrovò a crescere il bambino da solo, padre single di un figlio adottivo, una sorta di deformazione della figura paterna per la società di metà Novecento. Nonostante il consiglio di amici, che dopo la morte di Eileen cercano di persuadere lo scrittore a dare indietro il bambino, Orwell rifiutò con fermezza il loro invito e dimostrò di «padroneggiare le arti domestiche della paternità con abilità e piacere» applicandosi in mansioni assolutamente insolite, per quel periodo, al ruolo paterno. «My father – racconta Richard Horatio Blair a Richard Lance Keeble – was completely devoted to me. When Eileen died, he really cared for me, which was very rare at that time. He fed me, changed my clothes and nappies, he gave me baths: most fathers at that time never did that sort of thing» [Mio padre… mi era completamente devoto. Quando Eileen morì, si prese davvero cura di me, cosa molto rara a quel tempo. Mi dava da mangiare, mi cambiava i vestiti e i pannolini, mi faceva il bagnetto: la maggior parte dei padri a quel tempo non faceva mai cose del genere]. Non è di certo una novità la sensibilità anticipatrice di Orwell riguardo ai temi della società moderna – il caso più famoso è senza dubbio la contemporaneità delle questioni che trattò nel suo romanzo 1984 – ma altrettanto significativo è stato il suo contributo a dimostrare, con il suo esempio monogenitoriale, che una forma alternativa di uomo, padre e famiglia era possibile.

L’idea progressista di Orwell riguardo la paternità nasceva come reazione al rapporto difficile con suo padre – l’approvazione del quale lo scrittore ha sempre ossessivamente rincorso – e alla sua vicinanza al pensiero anarchico riguardo l’educazione dei bambini. Tale pensiero Orwell lo condivideva con un fotografo di origini italiane, Vero Recchioni, naturalizzato inglese con il nome di Vernon Richards. I due non solo sostenevano le idee del movimento anarchico inglese, ma convenivano anche nell’ideologia relativa alla funzione e all’uso dell’immagine, in particolare sul ruolo di quella fotografica nella costruzione di una nuova società. Fu così che nel 1946 Richards realizzò in una serie di scatti George Orwell con il figlio, foto uniche nel loro genere e rimaste inedite fino al 1992 per via della refrattarietà dello scrittore all’obiettivo fotografico. Vernon dunque documentò la spontaneità e l’affetto di un padre mentre gioca con suo figlio in intimità o spinge per strada il passeggino. Secondo lo scrittore farsi ritrarre in posa sarebbe stata una palese distorsione della realtà, perché il suo intento, e quello di Richards, era di trasmettere quel moment of truth, quel frammento di verità, che costituiva la base del credo fotografico di entrambi. Oggi tutta la serie di scatti originali è conservata alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel Fondo Fotografico Vernon Richards, che si compone anche di un nucleo di immagini relative alla famiglia del fotografo e di alcuni amici anarchici, pervenuto grazie a Fiamma Chessa curatrice dell’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa.

Una di queste fotografie, e altre di Richards, sono le protagoniste di alcuni dipinti dell’artista Giulia Andreani nell’esposizione LImproduttiva, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, visitabile fino al 10 marzo 2024. In questo corpus di dipinti l’artista ha rielaborato fotografie del periodo intorno alla Seconda guerra mondiale attraverso il patrimonio documentale di Istoreco (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea), dell’archivio privato dell’Ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro conservato presso la biblioteca scientifica Carlo Livi e della Biblioteca Panizzi. «Quando stavo lavorando alla mostra – spiega l’artista Giulia Andreani – mi sono imbattuta nel Fondo Vernon Richards. Il nucleo di foto di Orwell con il figlio adottivo mi colpirono particolarmente per due aspetti: il primo perché ritraggono un George Orwell diverso dalla solita narrazione di uomo schivo e freddo e dall’altra per il suo essere padre in un modo assolutamente rivoluzionario per l’epoca».

I temi della genitorialità, del femminismo e della divisione dei ruoli di genere per Andreani sono molto importanti nel suo lavoro e da qui la scelta di produrre questi dipinti: «Mi interessano particolarmente questi temi non solo a livello politico e sociologico ma anche nella rappresentazione nella storia dell’arte. Infatti sono molto rare le immagini di padri affettuosi, che esulano lo stereotipo biblico, perché considerato poco virile e quindi raramente raffigurati nella storia dell’arte occidentale». Le opere che ripercorrono la storia e l’intreccio di queste famiglie sono ospitate all’interno dell’ultima sala dell’esposizione alla Collezione Maramotti, dove sono raccolti alcuni ritratti che Andreani ha riprodotto di Orwell con il figlio, della moglie Eileen O’Shaughnessy e di Vernon Richards con sua moglie Maria Luisa Berneri, pensandola «come una grande famiglia anarchica allargata».


(Rivista Studio, 11 dicembre 2023. Traduzioni tra parentesi quadre di Umberto Varischio)

di Antonella Mariani


La sedia che domenica 10 dicembre a Oslo resterà vuota durante la consegna del Premio Nobel per la Pace renderà evidente al mondo la ferocia del regime iraniano, che punisce duramente i suoi cittadini, e in particolar modo le donne, per il loro anelito di libertà.

L’assenza fisica di Narges Mohammadi – così come il prossimo 13 dicembre a Strasburgo quella dei familiari di Mahsa Amini, la cui memoria è stata onorata con il Premio Sakharov – sarà però tutt’altro che muta: sarà un grido al mondo e ricorderà che godere dei diritti umani fondamentali, contenuti nella Dichiarazione universale che proprio oggi compie 75 anni, in troppe parti del pianeta richiede lotta, impegno, sacrificio personale, talvolta la vita e spesso senza risultati apprezzabili nell’arco della propria esistenza.

L’attivista cinquantunenne si è battuta per i diritti delle donne e ne è stata privata, per l’abolizione della pena di morte e assiste impotente allo stillicidio di esecuzioni di giovani connazionali nel suo Paese. Il Premio assegnato dal Comitato di Oslo è a lei e a chi insieme a lei porta avanti il movimento nonviolento “Donne vita libertà”, sbocciato proprio dopo la morte di Mahsa Amini.

Alla brutalità del regime di Teheran, Narges e gli altri attivisti oppongono coraggio, forza d’animo, idealismo e resistenza. Ci piace immaginare però che la poltrona destinata a Narges a Oslo rappresenti il “vuoto” di altri milioni di donne che non hanno voce per gridare il proprio dolore. Il “vuoto” delle afghane rinchiuse da oltre due anni nel carcere immateriale dell’apartheid di genere teorizzato e realizzato dai taleban nella (quasi) indifferenza del mondo. Il “vuoto” delle israeliane brutalizzate nell’assalto dei terroristi di Hamas dello scorso 7 ottobre, le cui verità faticano a trovare il giusto riconoscimento. Il “vuoto” delle palestinesi uccise a migliaia sotto i bombardamenti israeliani nella Striscia di Gaza. Il “vuoto” delle yemenite senza nome vittime di una guerra dai contorni oscuri e pressoché ignorata, delle dissidenti russe e bielorusse che si oppongono all’autocrazia e sono rinchiuse dietro le sbarre, delle ragazze stuprate a migliaia nella guerra fratricida del Tigrai… Anche per loro, oggi, per la loro resistenza che pochi conoscono e che ancora meno vogliono conoscere, è quella sedia vuota, quel baratro immenso in cui annegano diritti, libertà, dignità.

Narges Mohammed, in qualche modo, le rappresenta tutte, con la sua assenza e il sacrificio di sé. La sappiamo in una prigione, malata ma non arresa, e immaginiamo che oggi il riconoscimento che il mondo le riserva possa essere condiviso da milioni di altre donne sconosciute, la cui vita è costellata di fatica, di diritti negati e di futuro calpestato.

Il Nobel per la pace a Narges Mohammadi offre lo spunto anche per riflettere su altro “vuoto”. La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, Nobel per la letteratura 2015, scriveva che «la guerra non ha un volto di donna», intendendo che non ne sono le artefici ma le vittime incolpevoli. Potremmo chiosare che nemmeno la pace lo ha, purtroppo. Il Comitato di Oslo quest’anno ha premiato con il massimo riconoscimento una attivista che lotta per i diritti umani, nella convinzione che senza il rispetto di essi non ci può essere nemmeno pace.

Ma dobbiamo osservare che dalla Libia alla Siria, passando per il Sudan, nei processi di pacificazione attivi nel 2022 in cui l’Onu ha avuto una parte, la rappresentanza politica femminile si è fermata al 16 per cento (era del 19% nel 2021 e del 23 per cento nel 2020). Dunque la “sedia” della storia rimane priva di donne non solo perché esse sono le vittime misconosciute e addirittura ignorate di conflitti e discriminazioni, ma anche perché ad esse non viene riconosciuto un ruolo e un interesse nella costruzione della pace. Troppi “vuoti”, troppe assenze sono condensate in quella poltrona su cui nessuna, domenica, si siederà.


(Avvenire, 11 dicembre 2023)