di Francesca Coin, sociologa


Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, più di ottanta scrittrici e giornaliste italiane hanno lanciato una campagna per tenere alta lattenzione sulla violenza di genere. Dal 3 gennaio al 3 marzo appariranno sui giornali italiani articoli e racconti per definire la violenza e nominarla. Ognuna userà la sua voce e la sua esperienza personale per descrivere un fenomeno complesso e multiforme, perlopiù tollerato dalla società.

Era la fine degli anni novanta. Ero una studente al primo anno d’università. Quell’estate lavoravo in un locale per pagarmi gli studi. Mi davano vitto e alloggio, il che mi permetteva di vivere lontana dalla famiglia e di conquistare un po’ di libertà. Lui aveva trent’anni, faceva il cameriere. Era alto, muscoloso e si muoveva tra i clienti come un gigante capace di superare ogni ostacolo per portare pile di piatti e bicchieri a destinazione. Quelle settimane ci siamo trovati a lavorare e ad abitare insieme.

Capita spesso che gli stagionali vivano in strutture fornite dai datori di lavoro, di solito inadeguate, fatiscenti o da condividere. In questo caso, l’alloggio era un monolocale in una mansarda in cui c’erano tre letti singoli: uno per me, uno per il Gigante e uno per l’Alto, un uomo sui quaranta, alto e magro con i capelli lunghi, che aveva la brutta abitudine di addormentarsi con la sigaretta accesa. Ero a disagio a vivere con due uomini che non conoscevo, molto più grandi di me. Con turni di dodici ore ogni giorno, tuttavia, mi ero detta che avrei passato a casa poco tempo e avevo provato a ignorare quella sensazione d’insicurezza.

Un giorno, le valigie dell’Alto non ci sono più. Si mormorava che avesse problemi di dipendenza dall’eroina e che se ne fosse andato. Da quel momento, nel monolocale siamo rimasti solo io e il Gigante.

Paralisi

Il Gigante era una persona politicamente impegnata, con precedenti penali, che ogni tanto farneticava di fare la rivoluzione o la marcia su Roma, come se fossero la stessa cosa. Ostentava la propria forza fisica con un retrogusto di prepotenza, un atteggiamento che nel locale in cui lavoravamo era considerato una virtù, una risorsa da usare nelle serate di maggiore affluenza per tenere a bada clienti ubriachi o fastidiosi.

Una sera io e il Gigante eravamo entrambi di riposo. Lui era sul suo letto e io sul mio. Poi lui si è spostato nel mio. E io non sono riuscita più a fermarlo.

È chiamato freezing, quella reazione per cui durante una violenza la vittima resta paralizzata, come gli animali aggrediti che si fingono morti per evitare di essere uccisi dai predatori. Nel freezing il suo corpo è paralizzato e lei è come assente, come se si sforzasse di essere altrove.

Quando sono riuscita a divincolarmi ho cercato rifugio da un amico e per qualche giorno sono rimasta lì. Ho tenuto la valigia in auto e fino a fine stagione ho cercato ospitalità dove possibile per evitare di tornare in quella mansarda.

Quasi trent’anni fa non avevo le parole per spiegare quello che era successo. Se non c’è consenso è stupro, ma all’epoca io non lo sapevo e nessuno me lo aveva spiegato. La vita mi aveva insegnato, al contrario, con i fatti, se non con le parole, che una donna dev’essere conciliante, accomodante e possibilmente accondiscendente, perché dire no è un atto sovversivo che alle donne non è concesso.

La mia generazione è nata negli anni della grande trasformazione, quando furono riconosciuti il diritto al divorzio (1970) e quello all’aborto (1978), e fu abrogato il delitto d’onore (1981). Ciò che la legge stabiliva, tuttavia, nella cultura restava un tabù, anche per via di un modello educativo fondato sull’idea della brava bambina, della figlia obbediente e mansueta, che le generazioni precedenti avevano eletto a unico modello legittimo di femminilità. In questo contesto, per articolare quello che era successo nella società bisognava avere gli strumenti per capire che dire no era uno strumento di libertà, il mattoncino su cui le donne hanno costruito la loro autonomia, un istinto da celebrare.

Nella mia esperienza, tuttavia, dire no non era considerato così. Era l’atteggiamento provocatorio di un’adolescente arrogante che andava inibito con la disapprovazione, punito, represso e corretto. “Lo stato ideale proposto per le donne è la docilità”, scriveva Susan Sontag in un articolo del 1972. Questo ideale non prevede che la donna abbia una sua volontà ma che esista come contenitore di desideri e volontà altrui. Ai miei tempi la donna era il contenitore della volontà altrui e questo era ribadito con l’esortazione alla remissività e all’obbedienza con cui molte di noi venivano educate. È chiaro che, in questo contesto, strappare uno scampolo di libertà significava esporsi a situazioni di pericolo senza avere gli strumenti per affrontarle. L’alternativa ancora peggiore, tuttavia, era arrendersi a una cultura e a un ruolo sociale passivo e subalterno, cosa che per me non era possibile.

È così che, per molte di noi, affinare gli strumenti necessari è stato un processo lungo e faticoso, di cui il dibattito sul consenso è stato uno snodo fondamentale.

Il consenso, inteso come libertà di acconsentire o meno a una precisa azione o relazione, presuppone che la volontà di una donna sia riconosciuta socialmente come tale. È per questo che, ponendo al centro la questione del consenso, il movimento #MeToo è stato terapeutico. Viviamo ancora, spiega Judith Butler in Corpi che contano (Castelvecchi 2023), in un contesto culturale dominato da norme sociali patriarcali che relegano la volontà della donna in una posizione subalterna. Non è raro, dunque, che questa volontà sia oggetto di tentativi di sequestro da parte di chi vorrebbe ignorarla, imbrigliarla e sovrascriverla con la propria. Il concetto di consenso, in questo senso, è complesso, come spiega bene la filosofa Maria Borrello, perché si colloca all’interno di una lunga tradizione in cui «la disposizione al rapporto sessuale era considerata come un atto dovuto della donna per soddisfare il desiderio dell’uomo». In questo senso, scrive la filosofa, la storia del rifiuto all’interno di un rapporto sessuale è recente e complessa. Per esempio, scrive Borrello, «accade non di rado, che una donna non dica “no” poiché sente di non avere mezzi per porre fine al comportamento dell’uomo, o di non averne il diritto».

Succede anche che una donna dica no, ma che il suo rifiuto non sia accettato, perché le diffuse rappresentazioni della donna come soggetto subalterno permettono all’uomo di «assumere una posizione direttiva rispetto alla relazione in corso e quindi escludere che quel “no” sia da intendere in senso proprio, come un rifiuto». In questi casi, si parla spesso di “disabilitazione illocutoria”, perché il fallimento del rifiuto passa attraverso la negazione della legittimità della volontà della donna.

Considerate tutte le affascinanti e tragiche complessità del dibattito sul consenso, è stata proprio la sua capacità d’illuminare le relazioni di forza che implica a essere terapeutica, perché la dimensione collettiva di questa discussione ha permesso, almeno a me, di capire che non era colpa mia. Tra tutte le cose che il consenso non è, la «forzata adesione a una richiesta posta entro condizioni che rendono difficile il rifiuto» sicuramente non è consenso. E questo, a volte, è sufficiente per capire e per perdonarsi.

Trent’anni dopo, è triste constatare che quello che è successo a me non è un caso isolato. Se guardiamo solo al settore alberghiero e della ristorazione, i dati recenti sono spaventosi: nove donne su dieci, tra quelle che lavorano in questo campo, hanno subìto aggressioni o molestie sessuali, contro una media di tre su dieci negli altri settori.

Da almeno quindici anni diverse inchieste provano a chiedersi come mai in questo settore i casi di violenza siano così alti. Le risposte sono sempre le stesse, e la più importante ha a che fare con un contesto culturale in cui la fortuna di un locale è spesso legata alla capacità di ammiccare alla possibilità dei clienti di soddisfare tutti i loro desideri.

È una cultura che non trova argine nelle norme culturali promosse dai datori di lavoro. E se poi aggiungiamo elementi come il sommerso, i pochi controlli o la ricattabilità salariale o abitativa (cioè la situazione in cui mi trovavo anch’io), non sorprende che l’obbligo del datore di lavoro di garantire l’integrità psicofisica del personale previsto dalla legge sia spesso disatteso, creando così le condizioni per traumi che hanno una durata molto più lunga di un lavoro stagionale.


(Internazionale.it, 15 gennaio 2024)


Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

di Giulia Caminito*


Quando ero in quinta elementare nella nostra classe c’era un bambino di nome P.

P. era seguito da una insegnante di sostegno e sedevano insieme al fondo della classe. Io non ho mai saputo la vera storia di P., sapevo solo che aveva problemi di linguaggio e apprendimento.

P. a un certo punto si innamorò di me, non so come mai. Non avevamo mai interagito molto e non eravamo amici, ma lo vedevo spesso nel suo mondo, nel suo spazio personale invalicabile.

Insomma, io non ricambiavo P. e lui si fece presto insistente sia nel modo in cui mi fissava, che nelle frasi che mi diceva. A volte mi seguiva o voleva a ogni costo sedere con me sul pulmino che ci riportava a casa. Io non volevo, continuavo a dire di no, gli ripetevo che preferivo sedere da sola. Ma lui non voleva saperne, durante la ricreazione era la mia ombra. Finché una volta glielo dissi ad alta voce che non volevo essere seguita da lui.

Fu allora che P. mi prese a pugni.

Tornai a casa con un occhio nero e dei graffi e ai miei genitori venne detto che P. aveva problemi di comportamento, tutti rimasero costernati dall’episodio, P. stesso non ne fu felice, mi chiese scusa e da quel momento non solo io mi tenni alla larga, ma anche lui non si avvicinò più. La violenza aveva sancito un confine, quella volta.

Per molto tempo mi sono dimenticata di questo episodio e di come ho smesso di fidarmi dei maschi e delle loro attenzioni se non volute.

Alle scuole medie divenni molto più insicura, chiusa e impaurita. Ero convinta di essere in costante pericolo di venir rapita e venduta all’estero. Immaginavo qualcuno che facesse la posta a noi ragazzine per attirarci con una scusa e poi farci sparire come quelle donne o bambine che a un certo punto non si sa più dove trovarle. La televisione era piena di questi smarrimenti, di appelli e tentativi di farle tornare vive a casa. In molti casi queste giovani donne, se sono tornate, lo hanno fatto da morte.

Ogni volta che vedevo un furgone bianco sotto la scuola correvo disperata verso le mie compagne di classe, quando mi fermavano per strada avevo l’istinto di scappare e nascondermi, mi tormentavo all’idea di rimanere da sola nei camerini dei negozi, nei sottoscala, nei giardini pubblici, ovunque potesse esserci un rapitore seriale pronto a occuparsi di me.

Divenni molto consapevole del fatto, da me ignorato nell’infanzia, di poter essere oggetto di stupro, di violenza. Ero così inquieta di finire in situazioni di pericolo che avevo ansia di avvicinarmi a qualcuno e poi capire che presto avrebbe preteso da me qualcosa. Sviluppai un senso del pudore claustrofobico, un disagio pervasivo nei confronti di ragazzi o uomini sconosciuti. Non volevo trovarmi a dover dire di no ancora, e che quel no non sarebbe servito e non mi avrebbe difesa

Da quel momento è diventato normale per me preoccuparmi dei luoghi in cui vado, evitare situazioni di troppa esposizione, non intrattenermi con chi non conosco, chiedere di essere riaccompagnata alla macchina, parcheggiarla preventivamente vicino al posto dove mi sto recando, non superare certi orari serali, visualizzare, sempre, quanti uomini ci sono nella via, cosa stanno facendo, cosa stanno guardando e se stanno guardando me provare un brivido di terribile angoscia, sperare che finisca presto, quella sensazione di tormento.

Ma oggi mi accorgo che si tratta perlopiù di un riflesso automatico, un sistema di considerazioni che scatta senza che io debba preventivamente ragionarci sopra, è diventato inconscio per me fare caso a tutta una serie di comportamenti che potrebbero evitarmi una occasione di violenza.

In questi giorni mi è capitato di vedere un documentario del 2020, e ora disponibile su Netflix, dal titolo Beyond Men and Masculinity del regista Alex Gabbay. Nel lungometraggio si parla dell’educazione anti-emotiva che viene data agli uomini fin da piccoli e di quali pratiche oggi si stanno attuando per cercare una riconnessione tra quelle emozioni infantili soppresse e i soggetti frustrati, depressi, violenti, che sentono di averle perdute. Psicologhe, mediatori, pedagogisti si confrontano sulle diverse età del maschio e le fasi della formazione dell’individuo, provando a capire come spezzare la linea del patriarcato. Il desiderio di connessione viene individuato quale movente primario di comportamenti aggressivi e dispotici, come può capitare ai bambini o agli adolescenti per far parte di un gruppo, essere riconosciuti da altri. La connessione, infatti, fatica a muoversi per i giovani uomini sul piano delle emozioni condivise, verso le quali c’è grande soggezione. I ragazzi che risultano più emotivi, docili, gentili vengono presi di mira, invitati a uscire dal gruppo per avvicinarsi alle femmine. La loro sessualità è messa in dubbio immediatamente e la loro attrattiva per giochi e leadership ridotta a zero.

Spesso questa soppressione è stata attuata dai padri e prima dai nonni, in una catena di responsabilità, da cui emerge una visione degli uomini parziale, dove non c’è molto spazio per il fallimento e la debolezza. I padri, nel corso della Storia, hanno sempre teso a sgridare i figli maschi quando non raggiungevano degli obiettivi, quando per colpa dei loro problemi psicologici o delle loro fragilità non rispondevano in modo adeguato al ruolo sociale che avrebbero dovuto ricoprire.

Questi studi e testimonianze sottolineano che se il gruppo maschile tende a non saper riconoscere la fragilità e a sopportarla, i ragazzi e poi gli uomini sono portati a cercarla altrove presso le donne, che diventano allora fulcro dell’attività sentimentale. Emozioni soppresse con gli altri uomini vengono convogliate verso il soggetto femminile, a volte investendo la donna di frustrazioni enormi, problematiche psicologiche gravi, ossessioni di possesso, pulsioni aggressive, violente. La donna-specchio dove si riflettono le emozioni, la donna-testimone della parte più fragile e mai espressa in alcuni casi deve essere colpita, eliminata, diventa insostenibile. Soprattutto quando dice di no, quando si allontana. E reclama per sé stessa non il ruolo di “funzione” ma la libertà di una persona.

Un episodio del documentario mi ha particolarmente colpita: un bambino sta giocando a una partita di hockey ma non fa del suo meglio, la squadra alla fine perde, il padre, che era nel pubblico, lo umilia davanti a tutti facendogli notare che non si è impegnato abbastanza e il bambino piange, ha un momento di vergogna e sconforto, va allora a sedersi sugli spalti accanto alla madre che, come farebbero molte, si avvicina per confortarlo: è in quel momento che il bambino scatta e dà un pugno in faccia alla madre.

Ecco in una scena manifestato il meccanismo della rivalsa, della aggressione e dello specchio: la madre che cerca sul piano emotivo l’avvicinamento e la cura è la più facile da colpire, la più esposta, quando il padre e gli altri maschi in campo non lo sono e anzi negano la possibilità del pianto, del dispiacere e dello sfogo, considerati comportamenti vili, infantili.

Noi donne in qualche modo sappiamo che essere prese a pugni è una cosa che ci riguarda. Non nel senso che veramente ognuna di noi ne riceve o ne riceverà o che gli uomini ricorrono tutti alle proprie nocche in caso di difficoltà. Ma nel senso che noi lo sappiamo, noi profondamente da un certo momento in poi della vita lo sappiamo che saremo sempre potenzialmente corpi considerati utili allo sfogo di vergogne, frustrazioni, inettitudini, depressioni. E che quegli sfoghi potrebbero essere fisici, potrebbero essere violenti. Noi camminiamo nel mondo sapendo che non avremo presumibilmente la prontezza, la forza fisica, la determinazione per reagire con un altro pugno, ma faremo come ho fatto io a dieci anni quando P. si è sentito rifiutato e mi ha picchiata: sono rimasta immobile, intontita e poi ho cominciato a piangere e a sentirmi svuotata e incapace.

Quando si parla di patriarcato, di un sistema che vede dei ruoli ben distinti per uomini e donne nella società, un sistema che è stato messo in discussione nel secolo scorso e che ha subito scossoni, rese e modifiche, si tende a dimenticare il lato umano ed emotivo, il lato profondo e meno visibile del patriarcato che riguarda le individualità, le loro dinamiche piccole e quotidiane. Il lavoro comune per il superamento è grande, è faticoso, è doloroso, la morte del patriarcato sta avvenendo molto lentamente e intanto rimangono a terra i corpi di quelle donne specchio-testimone, che senza saperlo lo hanno messo in crisi, lo hanno sfidato coi loro no, coi loro gesti di autonomia.


*Giulia Caminito, scrittrice, è ideatrice dell’azione letteraria “#unite” contro la violenza sulle donne. Ha vinto il Premio Campiello nel ‘21 e collabora con il quotidiano La Stampa


L’iniziativa Un’azione letteraria contro la violenza sulle donne


La scrittrice Giulia Caminito e la giornalista Annalisa Camilli hanno ideato la campagna di scrittura “#unite”, invitando autrici italiane a scrivere un articolo o un racconto sulla violenza contro le donne. Hanno aderito oltre 80 scrittrici e giornaliste (alcune: Daria Bignardi, Chiara Gamberale, Loredana Lipperini, Rossana Campo) che, fino alla fine di febbraio, pubblicheranno su quotidiani e riviste il proprio contributo. «Un’azione di gruppo – scrivono Camilli e Caminito – che nasce dalla volontà di trovare insieme parole più giuste per parlare di violenza sulle donne». A cominciare da oggi, La Stampa farà la sua parte. Il secondo step del progetto (che si può seguire su Instagram @unite_azioneletteraria) verrà comunicato a marzo.


(La Stampa, 14 gennaio 2024)

di Umberto Folena


Ci sono due motivi per essere grati a Margherita II di Danimarca, domani ex regina, o forse regina emerita, comunque non più sovrana del suo piccolo regno del nord. Il primo è che abdica, cedendo la corona a suo figlio Frederik. I sovrani quasi sempre abdicano perché costretti: una guerra persa, uno scandalo. Abdicano perché non possono farne a meno, senza nascondere la convinzione di essere vittime di un’ingiustizia. Di solito abdicano accompagnati dal sospiro di sollievo dei loro sudditi: finalmente s’è tolto di mezzo. Margherita II, prossima agli 84 anni, portati egregiamente, abdica perché ritiene sia il momento giusto per farlo. Forse anche perché è meglio che il figlio maggiore Frederik diventi re prima dell’età pensionabile (è nato nel 1968, non è più un ragazzino). E i sudditi non gioiscono affatto, anzi sono dispiaciuti perché a Margherita vogliono bene.

Bisogna insomma esserle grati perché è uno dei rari esempi di non attaccamento morboso alla poltrona; e la sua poltrona era un trono vero, non metaforico, suo per ben 52 anni, non lontanissima dal record di longevità della cugina (di terzo grado) Elisabetta II d’Inghilterra: entrambe hanno un’antenata del calibro della regina Vittoria, ed è tutto dire. Chissà che non serva d’esempio a chi occupa altri “troni” da cui non riesce a scollarsi, in genere obiettando che nessuno sia dotato di terga adeguate all’arduo compito. Abdicherà come ha regnato, ossia in modo sobrio ed essenziale. Domani alle 14 firmerà l’atto ufficiale al Castello di Christiansborg, alle 15 la proclamazione, alle 17 il trasferimento delle insegne reali al palazzo di Amalienborg, residenza di Federico IX. Questa la scarna cronaca. Il secondo motivo di gratitudine è che la regina non si è limitata a regnare, ma ci ha lasciato quadri e illustrazioni – è una vera maestra del decoupage – tra cui quelle che accompagnano l’edizione danese del Signore degli anelli. Di recente ci ha lasciato un piccolo film delizioso come sanno esserlo certe piccole fiabe, opera di cui ha curato – maniacalmente, come è palese nel documentario che ne racconta la genesi – costumi e scenografie. È un film progettato per più di dieci anni; e vien da domandarsi che se pure una regina ci mette così tanto a trovare un produttore, be’, sarà sì potente ma assai poco invadente.

Il film, prodotto da Netflix, è Ehrengard – Larte della seduzione, tratto da una novella scritta nel 1962 da Karen Blixen e diretto da Bille August, non più un ragazzino neppure lui, ma dal ragguardevole pedigree, avendo vinto per due volte la Palma d’oro a Cannes e pure un Oscar. Ambientato in un regno immaginario della Mitteleuropa, ha un titolo ingannatore: il seduttore finisce amabilmente sconfitto e deriso e il personaggio forte non è lui, Cazotte, pittore francese, ma Ehrengard, la ragazza che lo mette nel sacco, ben più forte e sicura, eppure priva di spocchia. Resta fedele al fidanzato, con il quale tira di scherma (tanto per capire di che pasta sia fatta) ed è un modello di donna terribilmente seducente, paladina di un “femminismo” orgoglioso ma non aggressivo né ostile verso il maschio, che non ha bisogno di umiliare perché la sua arma è l’ironia lieve di chi è consapevole della propria forza.

Va da sé che tanta passione per il progetto e tanto amore per la fiaba di Karen Blixen inducono a pensare che Margrethe si identifichi in Ehrengard, la senta “sua”. Lei ha regnato come avrebbe regnato Ehrengard, ed Ehrengard avrebbe regnato come Margrethe. E alla soglia degli 84 anni avrebbe abdicato. Continuando comunque a tirare di spada, perché dalle ottime abitudini non si abdica.


(Avvenire, 13 gennaio 2024)

di Francesca Lazzarato


Il sostantivo spagnolo nero possiede significati in buona parte affini a quelli che “genere” ha in italiano, ma ce n’è almeno uno del tutto diverso: il termine, infatti, vuol dire anche “stoffa, tessuto”, ed è questo il senso che viene spontaneo attribuirgli, incontrandolo in (D)istruzioni duso per una macchina da cucire (pp. 80, euro 14) di Eugenia Prado Bassi, singolare scrittrice, editrice, grafica e drammaturga cilena, presentata per la prima volta in italiano da Edicola Edizioni nell’ottima traduzione di Laura Scarabelli, cui si deve anche una puntuale prefazione.

L’autrice, tuttavia, ha inserito la parola nero, insieme alla figura di un’antica macchina da cucire a manovella, in una paginetta dove leggiamo una definizione ben lontana da quella che ci si aspetterebbe, in un testo che si occupa di sarte, sartine e cucitrici: «Genere: artefatto creato dall’uomo che definisce o riduce la specie umana in due categorie, secondo le quali la femmina deve investire tutte le sue energie per imparare ad aspettare il suo turno. Dicesi anche di un insieme di entità o cose con caratteristiche comuni, parti di un tutto fondato e determinato dal padre. Le conseguenze si riproducono nei secoli dei secoli, sistematicamente».

Un simile gioco linguistico (che rimanda alla differenza sessuale e che in italiano va perduto, com’è inevitabile) è destinato a spiazzare il lettore, a ribaltarne le attese, a farlo muovere tra metafore visive e testuali, e soprattutto a definire il tono di una narrazione plurima, autentico collage di scrittura e immagini, ma soprattutto di significati. Una “confezione” complessa, precisa e perfetta nella sua apparente semplicità, che sfrutta il frammento e accosta voci di donne rinchiuse in una stanza, in un capannone, in una fabbrica più o meno clandestina, più o meno squallida, dove siedono per ore e ore davanti alle macchine da cucire, per poi tornare in case dove le aspettano il lavoro domestico, la cura della famiglia e altri “lavoretti” di sartoria, eseguiti in privato per integrare un salario insufficiente.

Eugenia Prado Bassi (che dice di sé stessa «non vengo dalla letteratura, i miei processi creativi risiedono altrove, leggo, disegno, comunico via web. Lavoro con altre logiche, vivo la maggior parte della giornata davanti allo schermo di un computer, transitando da un luogo all’altro») è, come sottolinea Laura Scarabelli, una «scrittrice eccentrica», che infrange le strutture narrative tradizionali per aprirle a un’infinità di letture e interpretazioni, servendosi di procedimenti audaci come quello che ha dato vita al suo romanzo-installazione Hembros: Asedios a lo Post Humano, opera capace di fondere teatro, musica, letteratura, video, in perpetua evoluzione e costantemente rielaborata in un arco di quasi vent’anni.

Nel lavoro dell’autrice, dunque, troviamo l’eco della sperimentazione che tutt’ora connota parte della letteratura cilena (da Diamela Eltit a Cynthia Rimsky a Juan Pablo Sutherland), e che, in queste (D)istruzioni per luso, ci rimanda a quel che scrive una straordinaria esponente della poesia argentina, Tamara Kamenszain, nel saggio Bordado y costura del texto: «La possibilità femminile di osservare le cuciture per vederne la costruzione dal rovescio, apre alla donna, nel suo rapporto con la scrittura, il cammino dell’avanguardia».

In questo breve, frammentario racconto, Eugenia Prado Bassi esamina in modo nuovo e originale un personaggio che nel corso del tempo ha sedotto scrittori e artisti e che è stato così a lungo presente nella cultura popolare da diventare quasi un archetipo, ma che qui emerge con forza inconsueta grazie all’uso di linguaggi diversi, cuciti insieme da un ago simbolico: spiegazioni tecniche, definizioni dei punti più usati, descrizioni di utensili e macchinari, voci tratte da un dizionario reinventato e allusivo, figurine in bianco e nero (antichi corsetti, manichini, mostruose crinoline), pagine di diario e appunti. Il tutto fuso in un testo che rivendica ogni sua riga come intensamente politica e mette in luce la contraddizione non risolta tra l’orgoglio per il salario guadagnato e l’esercizio della propria abilità, e l’annullamento di ogni possibile tempo di vita da parte di un capitalismo estremo e vorace.

Il libro si presenta in primo luogo come un taccuino, un quaderno privato sul quale la sarta Mercedes («che scrive bene», che ama leggere e guardarsi intorno) incolla immagini ritagliate, conserva cartamodelli e annota frasi, impressioni, episodi, vicende, voci, lamentele, astuzie e ribellioni delle venticinque compagne con cui condivide giornate interrotte da un’unica ora di pausa, e lo spazio di uno stanzone che dilata l’angolo o l’ambiente destinati al cucito nelle case di un tempo, non importa se borghesi o proletarie.

Modellati da gesti ripetuti all’infinito, i corpi delle costureras affiorano dalla scrittura, sottoposti a un controllo costante che va di pari passo con quello dei tempi di produzione, e che nelle illustrazioni è simboleggiato da un occhio onniveggente, intento a osservare abiti e manichini.

Corpi precari, sfruttabili e sfruttati, costretti a identificarsi e quasi a fondersi con lo strumento che usano, corpi addestrati sin dall’infanzia alla «femminile» e «naturale» attività del taglio-e-cucito, nati «con una naturale tendenza a divenire macchine», dice Mercedes, perché i loro corpi costituiscono una potentissima forza produttiva, e in più di un senso.

Non è solo il vorace mercato del fast fashion, infatti, a dover essere rifornito: i doveri della biologia, ricordati da una delle compagne di Mercedes, impongono anche la produzione di altri corpi, di altra forza lavoro, di nuovi consumatori.

Nell’ultimo capitolo, «Altre pratiche femminili», un ulteriore collage di voci racconta perciò la disperazione di chi deve, e non vuole, «sopportare feti troppe volte incubati a forza», e la trama del testo (o del corpo) si increspa, cucendo con punti fittissimi l’aborto segreto e clandestino alla prima definizione di un metaforico dizionario sartoriale, che apre il libro: «Rammendare: riparare un tessuto o una stoffa, livida, ferita, graffiata, rotta, devastata».

A far da sfondo, mai ricordate da Prado Bassi ma ineludibili, le presenze fantasmatiche delle messicane morte nella fabbrica tessile di Chimalpopoca, un edificio pericolante e abusivo crollato nel 2018; delle cucitrici perite nel crollo del Rana Plaza nel 2013, in Bangladesh; delle donne e delle ragazze scomparse nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York nel 1911 (l’otto marzo nasce e continua a nascere dai loro corpi bruciati).

La voce di Mercedes, però, è anche quella della burla, della rabbia, della gioia, della consapevolezza, dell’abilità, di un legame tra donne che va e viene come l’ago nella stoffa, delle piccole rivincite che ciascuna e tutte si prendono su sorveglianti e padroni. In (D)istruzioni per l’uso di una macchina da cucire, Prado Bassi è riuscita a concentrare tutto questo: non solo forbici che tagliano e separano, ma fili che possono unire, legare, tessere, aiutare a resistere.


(Il manifesto, 13 gennaio 2024)

di Maria Luisa Agnese


Una mente brillante fiorita nel ’700, e apprezzata in tutta Europa. A ventun anni già voleva farsi monaca ma gli obblighi famigliari prevalsero sulla vocazione. Rifiutò una cattedra universitaria a Bologna per stare tra i bisognosi e i malati come infermiera


Maria Gaetana Agnesi ha battuto tutti i primati. Intanto era la prima di ventun figli che il padre aveva avuto da tre matrimoni diversi. Poi, educata in casa da fior di precettori come tutte le fanciulle altolocate del tempo (i suoi erano facoltosi commercianti di seta), a nove anni era già soprannominata «oracolo settelingue»: parlava infatti italiano, tedesco, francese, latino, greco, spagnolo ed ebraico. Plafonata nello studio delle lingue passò presto a quello della filosofia e della matematica, guadagnandosi un altro primato, pioniera di quelle che oggi sono le materie Stem (scienza tecnologia ingegneria e matematica), cioè gli studi scientifici allora non proprio ritenuti roba per signorine. Su questo a undici anni Maria Gaetana teneva banco a casa degli Agnesi che nel frattempo era diventata uno dei salotti più in vista di Milano: il padre Pietro aspirava a un’ulteriore elevazione sociale, e dopo aver sposato una nobile, Anna Fortunato Brivio, la mamma di Maria Gaetana, ed essere diventato professore di matematica all’Università di Bologna, lanciava con giusto orgoglio la figlia di prodigiosa intelligenza nei suoi convivi culturali.

Attrazione da salotto

Così la piccola Maria Gaetana impressionava gli invitati con un discorso di un’ora in latino in cui esprimeva il diritto delle donne all’educazione, conquistandosi un ulteriore primato sul fronte dell’affermazione femminile. E diventando assieme alla sorella Maria Teresa l’attrazione del salotto Agnesi, in mezzo a intellettuali delle varie accademie letterarie come Cesare Beccaria, Giuseppe Parini, Pietro Verri, Paolo Frisi. Incrociando quel salotto delle meraviglie, il filosofo e politico francese Charles de Brosses scrisse che a Milano aveva visto «una cosa più bella del Duomo». Pioniera anche in questo, come riconosce l’attrice Maria Eugenia d’Aquino che ancora nel 2022 ha messo in scena uno spettacolo in onore di questa donna «rivoluzionaria», Agnesi costruiva i propri salotti come delle drammaturgie: c’erano gli interventi degli ospiti, l’intermezzo musicale e il rinfresco. Tutto ruotava intorno a un copione che cambiava a seconda degli invitati. Innovatrice settecentesca ma suo malgrado, e a dispetto della sua vera vocazione, perché Maria Gaetana non amava quell’esposizione mondano-sociale che aveva sempre assolto con una certa riluttanza, divisa fra la passione per lo studio, l’impegno educativo e la forte vocazione religiosa e assistenziale: già a ventun anni aveva chiesto al padre il permesso di diventare monaca. Poi si era convinta a restare per accudirlo, ma barattando il suo sacrificio con l’esenzione dagli obblighi mondani. Così, «tranquillata nell’animo», si era da allora dedicata a matematica e teologia.

Forse per aiutare i suoi fratelli nello studio, in quel periodo inizia la stesura del suo testo più importante, Istituzioni Analitiche ad uso della Gioventù Italiana, pubblicato poi nel 1748 e dedicato all’imperatrice Maria Teresa. Il testo è un manuale di studio, semplice e conciso, su algebra, geometria e calcolo differenziale e integrale. È il primo lavoro sistematico di questo genere aggiornato con le teorie dell’epoca. L’opera, in due volumi, viene conosciuta e apprezzata in tutta Europa e diventa subito famosa, tradotta in francese e in inglese. L’imperatrice Maria Teresa d’Austria le invia una composizione di brillanti in un prezioso cofanetto; il papa Benedetto XIV le manda benedizioni e altrettanti doni; Carlo Goldoni le rende omaggio ne Il Medico olandese.

La vocazione della carità

La donna dei primati (porta il suo nome una curva algebrica, la versiera di Agnesi) se ne assicura un altro: nel 1750 sostituisce il padre nell’insegnamento della matematica, subito dopo il papa le offre una cattedra sempre a Bologna, ma lei rifiuta. Si ritira ancora di più dalla vita pubblica, per quella sua vocazione primaria, le opere di carità, seguendo il primato del cuore più che della sua mente geniale. Cura i malati, istruisce i fratelli e i domestici. Ormai morto il padre, trasforma casa Agnesi da brillante salotto per l’intellighenzia del tempo in un rifugio per malati e bisognosi e diventa lei inserviente e infermiera: apre un piccolo ospedale, va a vivere con le malate e, per far fronte alle spese, dopo aver venduto tutti i suoi averi, compresi i gioielli di Maria Teresa, si rivolge ai conoscenti, alle autorità, alle opere pie. Finalmente quando nel 1771, grazie a una donazione, viene istituito il Pio Albergo Trivulzio, ne diventa direttrice, rifiuta i pareri scientifici che ancora le vengono sollecitati, cortesemente scoraggia, per esempio, l’Accademia di Torino che le chiede di esaminare i lavori di Lagrange intorno al calcolo delle variazioni: si sottrae, mettendo in campo «le sue serie occupazioni». Continua a lavorare al Trivulzio fino alla morte per polmonite, il 9 gennaio 1799.


(Corriere della Sera – 27esimaora, 13 gennaio 2024)


Riportiamo le parole significative che il sindaco di Trento ha postato su Facebook lo scorso 11 gennaio, a seguito dell’ennessimo femminicidio avvenuto a Valfloriana, in Trentino.
Redazione


Ancora un femminicidio nel nostro Trentino. Ancora una tragedia che pare aver seguito l’identico, atroce copione. Il pensiero ora va alle vittime, una donna barbaramente uccisa, i tre figli piccoli rimasti orfani, i familiari straziati dal dolore.È un’emergenza e ci riguarda tutti, soprattutto noi uomini spesso incapaci di accettare la libertà e l’autonomia delle donne. Aiutiamoci a uscire da questa spirale di violenza, deponiamo le pretese di possesso e controllo, impariamo un nuovo alfabeto emotivo. Scendiamo tutti in campo, istituzioni, associazioni, cittadini, con iniziative concrete di educazione e prevenzione e sostegno. Voltiamo pagina, al più presto.

Franco Ianeselli


(facebook.com, 11 gennaio 2024)

di Raffaella Chiodo Karpinsky


Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.

Una prova di questo sentire è quanto accaduto a Mosca dove le mogli dei mobilitati dell’associazione “La strada verso casa”, arrivate nella capitale da altre regioni, hanno deposto fiori sulla Tomba del Milite ignoto vicino alle mura del Cremlino e organizzato picchetti nel centro della città e vicino al palazzo del Ministero della Difesa. Altrettanto a San Pietroburgo, dove sul Campo di Marte i fiori sono stati deposti vicino alla Fiamma eterna.


(Avvenire, 10 gennaio 2024)

di Paola Centomo


Osservatori, think thank, progetti partecipativi e non solo… Ecco i luoghi più interessanti da conoscere sul tema del femminismo oggi: sono reali e virtuali, istituzionali oppure di frontiera, storici o nati da poco



Il femminismo oggi non è solo parità di genere. È un’economia che guarda ai divari da una prospettiva di genere, osservatori che mettono i dati al servizio delle persone, think tank intergenerazionali e reti tessute per affermare le competenze femminili o per affermare le tante nuove forme d’amore. Luoghi dove sperimentare progetti partecipativi e luoghi dove proteggere dalla violenza di genere, spazi digitali dove combattere tutti i razzismi e spazi fisici dove immaginare un’umanità “libera, allegra e consapevole”. Qui alcuni dei tanti luoghi – fisici e non, istituzionali e di frontiera, storici o sbocciati da poco – che può essere interessante conoscere per capire da vicino come evolve la galassia femminista.

L’economia di genere è qui 

Un sito di divulgazione, Ladynomics.it, che parla di economia e politica dalla prospettiva delle donne e che mira dritto ad affermare una visione di genere che trasformi il Paese. «Millenni a prenderci cura delle persone non possono essere passati invano», scrivono nel manifesto le due fondatrici, le economiste e ricercatrici Giovanna Badalassi e Federica Gentile. «È ora che questo sentire si traduca in presa di coscienza pubblica, per un’economia al servizio delle persone e non al loro comando». Da seguire se si hanno cuore da pasionaria e sguardo acceso e si cerca una lettura facilitata delle grandi questioni che coinvolgono la metà del pianeta.

La voce di tutte 

Una startup sociale dal respiro internazionale, un media civico impetuoso contro le discriminazioni di genere, un progetto partecipativo di attivismo ed elaborazione di contenuti a opera di firme prestigiose: tutto questo è Le Contemporanee (lecontemporanee.it), una voce autorevole e pragmatica che sa farsi ascoltare nei luoghi che contano, come quando le sue attiviste si sono battute perché il PNRR riconoscesse la crucialità degli asili nidi – che sono numericamente una miseria – per favorire l’occupazione femminile, modesta anch’essa. Delle donne Contemporanee piace la capacità di attraversare tutti i femminismi e connettere le generazioni.

Fuori dagli stereotipi 

Qui pulsa un femminismo intersezionale molto vitale, grazie al team di scriventi Millennial e GenZ che più vorticoso ed eterogeneo di così non si potrebbe: è bossy.it, nato quasi dieci anni fa dalla passione di una ragazza visionaria, Irene Facheris. Sorellanza, diritti LGBTQ+, erotismo, razzismi, politica e tutte le forme della violenza di genere: ogni tema è buono per accendere una storia fuori dagli stereotipi e dagli schemi. Sono banditi i maschili sovraestesi, benvenute le schwa.

Contro la violenza

D.i.Re – Donne in rete contro la violenza è la rete italiana di Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne. 106 i centri antiviolenza, 62 le case rifugio per le donne e i figli minorenni, più di 20mila le donne ascoltate in un anno. Le parole chiave: auto-aiuto, autodeterminazione, empowerment, segretezza e antidiscriminazione, gratuità.

Luoghi simbolo/Milano 

La Libreria delle donne (nella foto in alto, da Facebook), dal 1975 luogo storico di elaborazione teorica del femminismo della differenza, con sede prima in via Dogana 2 e ora in via Pietro Calvi 29, e la Casa delle Donne, altra istituzione del femminismo della seconda ondata, convivono con i luoghi abitati dalle ragazze e i ragazzi del femminismo intersezionale più di frontiera: questi ultimi si incontrano oggi al Csoa Lambretta, allo Zam e al PianoTerra del quartiere Isola. 

Luoghi simbolo/Roma 

La Casa internazionale delle donne è centro congressi, foresteria, ristorante e mette al centro l’autodeterminazione e le scelte libere sulla salute riproduttiva, il sostegno alle donne vittime di violenza, il contrasto al sessismo. TUBA è, invece, libreria, bar e bazar ed è costruita quotidianamente da un gruppo di femministe e lesbiche che, dicono, «credono in una società libera, allegra e consapevole e lottano contro le discriminazione di genere, orientamento sessuale, classe, colore della pelle, provenienza geografica». 

Più competenze, meno pregiudizi 

Per togliere ogni alibi a chi organizza panel con solo uomini o scrive articoli senza mai citare una donna esperta (“perché di donne esperte in questo campo non se ne trovano”, dice lo stereotipo) nasce 100esperte.it, che propone profili, competenze e cv di professioniste della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica internazionale, della storia e della filosofia (grazie all’Osservatorio di Pavia e all’associazione Gi.U.Li.A). L’ultima sezione nata è quella dedicata alle donne esperte di sport. Perché femminismo è oggi più che mai anche lotta agli stereotipi e ai pregiudizi. 

La politica si fa con i dati 

Period è il think tank femminista intersezionale (thinktankperiod.org) che usa i dati per monitorare le azioni della politica. Da seguire gli Osservatori femministi che ha costituito sul territorio per fare il punto sull’andamento dei progetti del PNRR e valutare l’impatto che hanno sulle donne e i giovani.

Mobilitazione permanente 

Non Una Di Meno è un grande movimento femminista e transfemminista, un intreccio di reti, un flusso di assemblee e sit-in, una mobilitazione permanente contro le tante forme che assume il patriarcato. Il prossimo 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lancia i cortei nazionali a Roma e Messina Transfemministǝ ingovernabili contro la violenza patriarcale.

Un concentrato di approfondimenti 

«L’economia ha bisogno di essere riletta con uno sguardo che assuma la differenza tra i sessi e denunci le disuguaglianze»: è il manifesto del documentatissimo webmagazine ingenere.it, forziere di dati, studi, analisi e approfondimenti a opera di economiste, docenti universitarie, studiose delle scienze sociali, giornaliste che tengono il punto sul panorama nazionale e internazionale. 

Più vie dedicate alle donne 

Il 40% delle vie e delle piazze del nostro Paese sono intestate a uomini, appena il 3% a donne, sostanzialmente martiri e sante. Toponomastica femminile (toponomasticafemminile.com) è un’associazione che punta a svegliare le amministrazioni affinché mettano in luce il valore delle tante donne che hanno contribuito a costruire il Paese e leggano la storia non dal solito punto di vista.


Nella foto: Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo alla Libreria delle donne di Milano, durante l’incontro dal titolo “Orientarsi con l’amore” organizzato dalla rivista Via Dogana Tre l’11 giugno 2023.


(StartupItalia.eu, 9 gennaio 2024)

di Farah Barqawi


Ero un’adolescente quando vivevo a Gaza vent’anni fa. Ricordo che un giorno avevo un ciclo pesante. Ero alla fermata dell’autobus al valico di Rafah, che aveva sedili di plastica bianca. Ho traboccato e ho macchiato il sedile. Una donna anziana mi ha chiamato e mi ha indicato il sangue. Sono una femminista e sono cresciuta bene con mia madre femminista. Indossavo addirittura un assorbente e avevo preso tutte le precauzioni. Eppure, ricordo quanto fu stigmatizzante per me quel momento.

Oggi, seduta a Brooklyn, negli Stati Uniti, guardando la mia città ridotta in macerie, continuo a pensare a quel giorno alla fermata dell’autobus e mi chiedo cosa stiano attraversando le donne mestruate in questo momento a Gaza, che è sotto assedio israeliano da quasi tre mesi. Posso sentire la vergogna e l’umiliazione che devono provare. Molte di queste ragazze e donne portavano con sé solo uno zaino quando se ne andavano. Cosa potrebbero portare in quello zaino? Non sorprende sentire che a Gaza la richiesta di pillole per bloccare le mestruazioni e contraccettivi è aumentata dopo questa invasione. Le donne non vogliono avere le mestruazioni perché non c’è acqua.

Mi chiamo Farah Barqawi. Attualmente sto terminando un MFA [Master of Fine Arts, cioè in belle arti, Ndt] in scrittura creativa saggistica e sono una poeta. Scrivo di Gaza, del confine, di mia madre e dell’ULFA [University of Lethbridge Faculty Association]. È tutto sconvolgente perché mia madre Zainab al Ghonaimy, settant’anni, ora è a Gaza City. Attivista femminista e difensora dei diritti umani, è stata lì fin dall’inizio, sopravvivendo all’artiglieria israeliana, alle bombe e al fosforo bianco. Ha co-fondato un rifugio per donne sopravvissute a violenza domestica e abusi. Nonostante gli immani bombardamenti è rimasta nel suo appartamento a Gaza City. Nel bel mezzo del conflitto, deve sopravvivere da sola e anche gestire il rifugio. Non so quando e se potrò rivederla.

Da queste parti, la guerra ha un impatto sulle donne a molti livelli. Naturalmente stiamo perdendo un gran numero di uomini, giovani, ragazzi e anziani, e questo è devastante. Ma in queste guerre, le donne che sopravvivono si trovano arretrate di decenni nelle condizioni di vita. Le donne devono diventare le principali fonti di sostentamento per i loro figli e dovranno prendersi cura per tutta la vita dei loro familiari maschi mutilati o invalidi. Bisogna anche ricordare che, nonostante l’enorme autonomia delle donne palestinesi, la nostra è una società alquanto conservatrice e la maggior parte delle donne non si sente a proprio agio nel cambiarsi, fare il bagno o anche fare pipì negli spazi pubblici.

Ora pensate a tutte le migliaia di donne sfollate a causa di questa guerra che attualmente trovano rifugio in appartamenti o stanze anguste che condividono con altri rifugiati, uomini e donne. E si tratta pur sempre di donne della classe media o medio-alta. I poveri vivono in tende di plastica o in baracche improvvisate. Non c’è acqua, essenziale per mantenere l’igiene genitale. Ristrette in questi spazi o rimaste orfane o sfollate a causa dei bombardamenti, molte giovani donne sono anche a rischio di abusi sessuali. Ci sono così tante donne incinte e così pochi servizi di emergenza ancora sopravvissuti.

Intenzionalmente o no, l’esercito di occupazione israeliano ha preso di mira gli ospedali. L’ospedale arabo Al Ahli, che disponeva delle migliori strutture di maternità e parto di Gaza, è stato uno dei primi a essere bombardato. Molti dei miei cugini erano nati lì. Tante donne incinte hanno avuto aborti dolorosi a Gaza a causa della mancanza di strutture per il parto e di medicinali.

Alcune delle mie compagne di scuola sfollate dalla zona di Al-Remal a Gaza sono madri giovani o di mezza età con tre-quattro figli ciascuna. Le loro case sono state completamente demolite. Mi dicono che la situazione nei rifugi di fortuna e nei campi degli sfollati è orribile. Si mettono in fila per l’acqua e per l’uso del bagno e poiché non c’è acqua potabile, molti vengono umiliati e trattati come animali e costretti a bere l’acqua non potabile del bagno.

Questo è il motivo per cui mia madre si è rifiutata di lasciare la sua casa a Gaza City. Ha detto che è vecchia e che le fanno male le ginocchia, e che preferirebbe morire a casa piuttosto che vivere una vita di umiliazione come sfollata abusiva, per sempre in fuga. Mi preoccupo per lei. Tutti mi dicono di portare via mia madre da Gaza. Ma lei è forte e la sua forza dà forza anche a me.

L’organizzazione di mia madre rappresenta e difende le donne che divorziano, vengono private dell’eredità e combattono per l’affidamento dei figli. Nei giorni normali ha un team di avvocate che lavora con lei. Per tutta la vita ha lavorato duramente per creare spazi umani in cui le donne potessero interagire tra loro e con i loro figli, in particolare le donne divorziate in causa per l’affidamento.

Tutto questo lavoro ora è stato interrotto. Il rifugio è ancora in funzione, ma è un rifugio antiaereo. Non sappiamo quando potrebbe essere bombardato.

Io stessa ho seguito un corso per formatrici della CEDAW [Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, Ndt], un’iniziativa delle Nazioni Unite in base alla quale le organizzazioni per i diritti delle donne si trovano a marzo di ogni anno e discutono di protezione delle donne. Ma qual è il punto adesso? Chi formerò? A Gaza sono stati violati tutti gli accordi per i diritti minimi indispensabili delle donne.

Di tutti i servizi che Gaza ha sviluppato nel corso degli anni, come l’assistenza sanitaria, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e la sensibilizzazione sui diritti, il cambiamento di uomini e donne – tutte le generazioni che sono cambiate o che ci stavano lavorando – metà degli operatori e operatrici sono morte o non sono più lì. Chi penserà ai diritti adesso? Al femminismo? È un passo indietro in tutti i sensi per il movimento femminista. Eppure le donne – le femministe – di tutto il mondo stanno ancora decidendo da che parte stare. Ciò che sta accadendo a Gaza è una punizione collettiva e le donne sono quelle che la subiscono.

Mentre sto scrivendo, mia madre è a Gaza e così la sua famiglia: due delle mie zie, tutti i miei cugini e le mie cugine da parte di madre sono a Gaza, solo un paio di noi è all’estero. Non sappiamo cosa ne sarà di loro, ma finora mi è stata risparmiata la tragedia di perdere una persona cara. Per questa volta. Ma due anni fa, nella guerra di maggio a Gaza, ho perso mia cugina, suo marito e due figli. Il suo unico figlio sopravvissuto ora ha dodici anni.

Continuo a pensare a cosa deve passare oggi quel dodicenne. Quali immagini gli passano per la testa? È sopravvissuto una volta. È sopravvissuto sotto le macerie come tante persone adesso a Gaza. Le donne forti di Gaza tengono duro e continuano a combattere. Ma per quanto tempo? Rivedrò mai mia madre? Per ora non ho risposte.


(Outlook India, 7 gennaio 2023. Traduzione nostra, qui l’originale.

di Alice Facchini


C’è chi parla di radere al suolo la striscia di Gaza. Chi chiede di non avere nessuna pietà “per i crudeli”. Chi invoca l’uso della bomba nucleare. È l’escalation verbale che si sta verificando nel discorso pubblico in Israele, escalation che accompagna quella delle violenze e dei bombardamenti nella striscia di Gaza. Un gruppo di personaggi pubblici israeliani ha inviato una lettera per prendere posizione contro questo incitamento “esteso e palese” al genocidio e alla pulizia etnica e chiedere al procuratore generale e ai procuratori statali di intervenire per fermare la normalizzazione di un linguaggio che viola la legge israeliana e internazionale. Tra i firmatari ci sono scienziati, accademici, ex diplomatici, ex parlamentari, giornalisti e attivisti.

«Per la prima volta da quando abbiamo memoria, gli appelli espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati una parte legittima e ordinaria del discorso israeliano», scrivono. «Oggi, appelli di questo tipo sono quotidiani in Israele».

La lettera, lunga undici pagine, contiene numerosi esempi del «discorso di annientamento, espulsione e vendetta». L’elenco di israeliani che hanno incitato ai crimini di guerra include ministri del governo e membri del parlamento israeliano, ex alti ufficiali militari, accademici, personaggi famosi e influencer. Tra i commenti citati nella lettera c’è quello del parlamentare Yitzhak Kroizer, che ha dichiarato in un’intervista radiofonica: «La Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, e per tutti loro c’è solo una sentenza, ed è la morte».

Tally Gotliv, del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha chiesto al primo ministro di usare una bomba nucleare su Gaza come «deterrente strategico», si legge nella lettera, «prima di considerare l’inserimento di truppe di terra, arma del giorno del giudizio». Un altro deputato del Likud, Boaz Bismuth, ha evocato il massacro biblico di Amalek, nemica dell’antico Israele. «È vietato avere pietà dei crudeli, non c’è posto per alcun gesto umanitario», ha detto riferendosi a Gaza, aggiungendo poi il riferimento alla Bibbia: «La memoria di Amalek deve essere cancellata».

Non sono solo i politici a portare avanti il discorso d’odio: il giornalista Zvi Yehezkeli ha dichiarato in televisione: «Avremmo dovuto uccidere 20mila persone molte volte, [avremmo dovuto] iniziare con una botta da 100mila».

La lettera è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, Michael Sfard, che si è detto stupito dalla velocità con cui l’incitamento al genocidio e altri discorsi estremisti sono stati normalizzati in Israele. «Non avrei mai immaginato di dover scrivere una lettera del genere», ha dichiarato.

«Il fatto che questo tipo di discorso sia entrato nel mainstream in modo così massiccio per me è incomprensibile. Il primo pericolo è che le persone agiscano in accordo con questo tipo di discorso, e poi mi chiedo che tipo di società saremo dal momento che questo è il discorso che regola il nostro trattamento dei palestinesi. Ci sono 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali è minorenne». Anche nella lettera si sottolinea come «il linguaggio del genocidio rischia di influenzare il modo in cui Israele conduce la guerra. Un discorso normalizzato che invoca l’annientamento, la cancellazione, la devastazione può influenzare il modo in cui i soldati si comportano».

Se, da un lato, è mancata un’azione giudiziaria anche sui casi più gravi e pericolosi di incitamento all’odio contro gli abitanti di Gaza, dall’altro si sta verificando un’intensa campagna da parte della magistratura nei confronti di chi, nei suoi discorsi, avrebbe mostrato sostegno ad Hamas, prosegue la lettera. Alla fine di novembre, erano state aperte 269 indagini e 86 incriminazioni. «È sorprendente il numero di indagini penali, quando si tratta di cittadini palestinesi che vivono in Israele», ha detto Sfard, che ha sottolineato come nella maggior parte dei casi si tratti di persone comuni che non hanno alcun seguito nel discorso pubblico. «Il divario tra questo trattamento e la libertà e l’impunità per coloro che sostengono ogni genere di cose – pulizia etnica, uccisioni di civili, bombardamenti di aree civili e persino genocidio – non quadra. Le autorità devono spiegare».

La lettera è stata inviata poco prima che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte internazionale di giustizia per aprire una causa contro Israele, accusando il paese di genocidio. «Abbiamo inviato questa lettera la settimana scorsa, prima che il Sudafrica presentasse la sua denuncia e senza sapere che l’avrebbe fatto», ha detto Sfard. Le accuse di istigazione mosse dal Sudafrica includono il linguaggio citato nella lettera e sottolineano l’incapacità delle autorità di intraprendere un’azione giudiziaria in risposta. Adesso sarà il procuratore generale a doversi esporre e prendere posizione: «Vogliamo dare alle autorità l’opportunità di fare qualcosa», ha concluso Sfard.


(Valigia Blu, 4 gennaio 2024)

di Beppe Pavan


È stata una piacevole sorpresa la richiesta, da parte di Paolo Ferrero, coordinatore del gruppo di Unione Popolare di Pinerolo, di raccontare per la rivista del PRC [Partito della Rifondazione Comunista] la storia e le iniziative per il cambiamento del maschile che anche a Pinerolo si sono andate consolidando. Trascrivo qui il mio racconto, a cui ho dato un titolo di cui quarant’anni fa faticavo a cogliere il senso, e che adesso, invece, sento che mi rappresenta pienamente. Lo faccio per lasciare una traccia del nostro cammino e per dire riconoscimento e riconoscenza agli amici uomini che hanno accolto l’invito e alle donne che ci hanno dato la spinta decisiva.

Credo che quanto vado a raccontare darà conto del titolo che ho scelto.

Cambiare si può, cambiare conviene

Per me tutto è cominciato nel ’75. Ci siamo sposati nel ’71 e il primo febbraio del ’73 ho cominciato a fare l’operatore sindacale a tempo pieno. Con mia moglie partecipavo alle manifestazioni e ai cortei in cui le femministe urlavano i loro slogan. Che noi maschi compagni non commentavamo neppure. Non li capivamo proprio! Io ero impegnatissimo soprattutto con le fabbriche tessili che stavano chiudendo, una dopo l’altra: assemblee, trattative, scioperi, occupazioni… Ero proprio a tempo pieno e vivevo il sindacato come quella “missione” che era sempre stata il senso della mia vita da quando, a dieci anni, avevo scelto di entrare in seminario per farmi prete. Ne ero uscito a ventun anni, nel ’68, per fare l’operaio: anche quella era stata una scelta. Dopo neanche un anno ho dovuto partire per la naja e sei mesi dopo il congedo ci siamo sposati. Perché racconto questi particolari? Perché – ne ho preso consapevolezza più tardi – seminario, fabbrica, esercito, sindacato… erano tutti luoghi rigorosamente maschili, impregnati di cultura patriarcale e misogina, di cui non ero consapevole di dovermi liberare. Ecco perché è importante il ’75: l’anno in cui Carla, mia moglie, mi ha improvvisamente messo di fronte a una scelta; l’ennesima, e anche questa volta toccava a me compierla: cambiare o veder naufragare la nostra relazione. Cambiare voleva dire far convivere il sindacalista a tempo pieno con il marito e il padre cooperativo negli impegni domestici e familiari. Non ho preso in considerazione neppure per un attimo l’ipotesi della separazione da lei, quindi ho cominciato a pensare seriamente al cambiamento della mia quotidianità. E, facendolo, ho cominciato a rendermi conto che non solo dovevo, ma che aveva ragione lei: voleva un compagno di vita, che rendesse possibile anche a lei vivere e realizzare i propri desideri, al di là dell’oblatività e dello spirito di sacrificio a cui i doveri di moglie e madre la costringevano e ai quali era stata educata in famiglia, al catechismo e alla scuola delle suore. E sono andato rafforzandomi in quella convinzione leggendo volantini e giornali scritti da femministe, che lei mi portava a casa. Avevano – hanno – ragione le donne del femminismo a chiedere a noi uomini di cambiare le nostre modalità di stare nelle relazioni: imparando la cura, la condivisione… abbandonando la competizione e tutti i complessi di superiorità. Quando, molto presto, ho trovato il coraggio di dirglielo che aveva ragione lei, che toccava a me cambiare e, soprattutto, ho cominciato ad apportare piccoli cambiamenti concreti negli orari del sindacalista e nella cooperazione del marito e del padre, da quel momento la nostra relazione ha ripreso slancio, slancio che dura tuttora. Ecco perché posso testimoniare che cambiare si può e, soprattutto, conviene: perché poi è tutto più bello.

Rimettere al mondo il mondo

Un altro pensiero si è fatto strada, subito dopo aver capito che il cambiamento che stavo operando in me non rispondeva solo al desiderio di Carla e mio di poter proseguire serenamente il nostro cammino di vita insieme. Quel cambiamento era anche una risposta positiva al desiderio delle donne femministe di avere al proprio fianco uomini capaci di cooperare al progetto di “rimettere al mondo il mondo”, liberandolo dai pesi mortiferi della cultura e delle prassi patriarcali e rendendolo di nuovo abitabile e accogliente per tutti e tutte. Ho cominciato a pensare che non era sufficiente che cambiassi io: per rendere davvero possibile rimettere al mondo il mondo era necessario che l’intero genere maschile operasse quel cambiamento. Le donne, da sole, non ce la potevano fare. Ma perché l’intero genere maschile si metta in cammino per il proprio cambiamento… beh, non esistono formule magiche né riti tanto potenti. Non c’è che una strada: ogni singolo uomo deve decidersi e scegliere di fare proprio quel cammino di cambiamento di sé. Se sono cambiato io può cambiare chiunque. Quando tutti gli uomini avranno fatto quella scelta il mondo si ritroverà rimesso a nuovo. Utopia? Certamente: è un desiderio non ancora realizzato. Ma quando l’ho proposto ad alcuni amici e qualcuno di loro ha accolto l’invito, ho capito che è possibile. Ma non è stato facile. Ci ho messo diciotto anni prima di trovare il coraggio di fare quella proposta. Ci avevo già provato negli anni dell’attività sindacale. Anche nel Sindacato c’erano donne femministe: delegate e operatrici a tempo pieno che mettevano per iscritto e facevano circolare le loro riflessioni. Non solo con volantini in occasione di scadenze particolari… Ricordo un piccolo libro, Il Sindacato di Eva, di cui conservo gelosamente una copia. E ricordo perfettamente un’assemblea precongressuale della CISL di Pinerolo. Nel mio intervento ho accennato alle riflessioni di quelle nostre compagne, alle richieste di cambiamento che ci rivolgevano: ho detto che avremmo dovuto ascoltarle, perché per cambiare il mondo non bastava la rivoluzione dei proletari. Anche l’ultimo sfruttato sottopagato delle nostre boite [fabbrichetta, posto di lavoro], tornato a casa arrabbiato dopo una giornata di merda, si sentiva autorizzato a pretendere, con la violenza se necessario, di essere servito dalla moglie: c’era sempre una donna sottomessa o da sottomettere all’ultimo degli uomini! Ma quell’appello non ebbe in risposta che qualche battuta spiritosa, qualche risatina e un silenzio tombale: nessuno, neanche i miei amici tra i compagni presenti, ha ripreso l’argomento nel dibattito. Quello che pensavano le donne non interessava agli uomini, tranne quando si affrontavano questioni tecnicamente sindacali e venivano inserite nell’elenco dei problemi da affrontare, con i disoccupati, i giovani e i meridionali. Quel silenzio mi ha intimorito: solo dopo diciotto anni ho trovato il coraggio di riparlarne.

Convertirsi è cambiare vita

Siamo nel 1993, aprile. Durante una delle riunioni periodiche della nostra Comunità di Base. Le “Comunità cristiane di base” (CdB) erano nate sull’onda delle speranze e degli input al rinnovamento che il Concilio Vaticano Secondo aveva suscitato all’interno della Chiesa cattolica: comunità di popolo libere dal peso opprimente delle gerarchie che continuavano a dettare legge, soffocando la libertà individuale di ricerca e di espressione. Quella di Pinerolo era nata alla fine del ’73 e con Carla mi ci ero coinvolto da subito. In quella domenica dell’aprile del ’93 qualcuno sollevò il problema del sessismo nelle pubblicità stradali e televisive; un altro richiamò l’attenzione sul maschilismo imperante nella Chiesa cattolica… Era il momento che aspettavo! Sono intervenuto riassumendo quanto andavo pensando dentro di me da quel lontano’75 e ho concluso proponendo agli amici maschi presenti di continuare a parlare tra di noi di quei problemi, per aiutarci a capire e cambiare. Con mia grande gioia alcuni di loro hanno accolto l’invito… ed è nato il “gruppo uomini di Pinerolo”. Non è stato difficile arrivare a capire, insieme, che il cambiamento delle nostre modalità maschili di stare al mondo e nelle relazioni era la risposta più coerente all’invito alla conversione che ci rivolgeva Gesù dalle pagine del Vangelo, che leggevamo e studiavamo con impegno settimanale. Conversione non significa cambiare religione, ma cambiare vita, dedicandoci alla giustizia in tutte le relazioni. Mai da nessuna parte avevo sentito questo richiamo, questa “attualizzazione”, come si diceva, del messaggio evangelico. Come ogni altra, anche la conversione di vita è una pratica sessuata, diversa per le donne e per gli uomini: per le donne significa liberarsi dalla sottomissione agli uomini, per gli uomini liberarsi dalla cultura della superiorità e del dominio sulle donne. Questo è il vero peccato originale dell’umanità, “l’infamia originaria” illustrata da Lea Melandri in un libro. L’invito ci veniva direttamente dalle donne: dal femminismo e dai gruppi di donne che già si erano formati in alcune CdB, a cominciare dalla nostra, e che anche nelle CdB faticavano a trovare ascolto. L’invito da uomo a uomo ha avuto esito positivo perché la comunità era un terreno che si stava fertilizzando grazie alle donne.

Uomini in cammino

Quando abbiamo cominciato a riunirci tra uomini non sapevamo bene di cosa parlare e come farlo. Sessismo e maschilismo erano stati il primo input, ma ben presto ci siamo resi conto che non ci soddisfaceva parlare di questioni astratte, teoriche, da intellettuali che non eravamo; invece ci piacque subito la proposta di provare a parlare dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. Scoprimmo così, a poco a poco, un mondo fino allora sconosciuto: il nostro intimo. Un operaio di una grande fabbrica raccontò il disagio che provava ogni volta che avrebbe voluto comunicare un proprio problema personale agli amici del Consiglio di Fabbrica e si vedeva respinto dal disinteresse di chi si occupava solo di sindacato e di contrattazione. Non c’era amicizia tra i ribelli al capitalismo… Quando nel gruppo ci dicemmo che ci piaceva parlare finalmente di noi, mi fu facile proporre di adottare le “regole” che avevo imparato a riconoscere utili leggendo resoconti sull’autocoscienza praticata dalle donne femministe: parlare partendo da sé, evitando generalizzazioni e intellettualismi; ascoltare chi parla e racconta di sé; senza giudicare mai qualunque cosa un altro racconti; e mantenendo il segreto sulle cose dette nel gruppo. Ci siamo presto resi conto che tra noi si andava realizzando un clima di intimità che ci permetteva, a poco a poco, di raccontare cose mai dette a nessuno: esperienza assolutamente nuova per uomini educati fin da piccoli a non piangere, a non manifestare le proprie emozioni, le proprie fragilità, a manifestarsi sempre forti, sempre all’altezza di ogni situazione, assertivi, dominanti, superiori… Riconoscerci fragili e “parziali” – ciascuno è “solo un uomo” – ci ha aiutati a ripensare alle nostre relazioni, cominciando da quelle fondamentali con le donne. Stare in cerchio, riconoscendo la pari dignità di chi è in relazione con noi, si è a poco a poco rivelato una pratica di aiuto reciproco a imparare a stare nelle relazioni con rispetto e cura, quindi anche come prevenzione della violenza contro le donne. Uomini in cammino di cambiamento di sé: da trent’anni ogni quindici giorni ci incontriamo con grande desiderio di continuare. Dal 2015 i gruppi sono due, perché c’è sempre qualcuno che decide di provare se è vero che poi si vive meglio… In questi trent’anni sono nati tanti altri gruppi in giro per l’Italia, è nata l’associazione nazionale Maschile Plurale…

Liberi dalla violenza

I pensieri germogliano continuamente, quando non scegli di reprimerli. Presto ho cominciato a riflettere sul fatto che al desiderio di Carla avrei potuto reagire con violenza invece che con ascolto: come fanno molti uomini le cui violenze sono cronaca quotidiana. Cambiare si può, ma cambiare è una scelta. Se vogliamo davvero collaborare con le donne femministe a rimettere al mondo il mondo non basta che cambino gli uomini degli ancora troppo pochi e piccoli “cerchi maschili di autocoscienza”: è necessario che cambino anche quegli uomini che commettono violenze in nome della loro pretesa di dominio e superiorità, che la diffusa cultura patriarcale autorizza. Questo pensiero si è fatto sempre più impellente, finché nel 2015 con Renato Galetto e Magda Ferrero abbiamo condiviso il desiderio di avviare anche a Pinerolo un Centro per uomini che commettono violenze nelle loro relazioni intime, di coppia e familiari, e che vorrebbero cambiare. Abbiamo così cominciato a convocare incontri con associazioni, gruppi, professionisti/e e rappresentanti di istituzioni (ASL, Comuni, CISS…), per condividere le ragioni del progetto e studiarne la fattibilità. Dopo la prima inevitabile scrematura ci siamo ritrovati/e un buon gruppo di uomini e donne decisi/e a proseguire e tra il 2016 e la prima metà del 2017 abbiamo organizzato un corso di formazione, molto articolato e condotto da persone che avevano già maturato esperienza e conoscenza in “Centri per uomini maltrattanti”.

Terminato il corso abbiamo deciso di proseguire, dando vita all’Associazione Liberi dalla Violenza OdV (organizzazione di volontariato). Comune di Pinerolo e ASL TO3 ci hanno messo a disposizione gratuitamente i due locali di Via Bignone 40, che dal mese di ottobre 2017 sono la sede del Centro di ascolto del disagio maschile. Volontariato puro, il nostro: gli unici soldi che entrano sono le quote-tessera di soci e socie, alcune donazioni liberali e i proventi di alcuni bandi a cui abbiamo partecipato. In questi sei anni di attività, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia da Covid-19, abbiamo accolto oltre 70 uomini. Dopo i primi casi di accesso volontario, la legge 69/19, nota come Codice Rosso, obbliga sempre più uomini a bussare ai Centri come il nostro, perché la loro partecipazione a un percorso di riflessione e cambiamento è alternativa al carcere a cui sono stati condannati. È intuitivo che quella motivazione – evitare il carcere – non è garanzia di impegno convinto nel percorso di cambiamento personale, anche perché la legge non prescrive le necessarie verifiche sull’effettivo cambiamento maturato. Ma l’esperienza fatta in questi anni mi fa essere moderatamente ottimista: non tutti, ma alcuni di loro li vedo cambiare, a cominciare dal linguaggio e dai propositi di vita che spontaneamente dichiarano. Il nostro protocollo operativo prevede: prima accoglienza a cura di volontari e volontarie di turno al Centro nelle due fasce orarie settimanali (lunedì 18-20, giovedì 16-18); ciclo di almeno 10-12 colloqui individuali motivazionali con le due psicologhe; training psico-educativo di gruppo della durata di nove mesi: 33/35 incontri settimanali di due ore. Al termine proponiamo loro un percorso di accompagnamento, invitandoli a incontri più o meno bimestrali e telefonate periodiche, per mantenere il contatto e il dialogo.

Non è un lavoro per volontari

Di una cosa abbiamo preso consapevolezza da quasi subito: che si tratta di un lavoro estremamente impegnativo, che le istituzioni pubbliche non possono continuare a delegare al volontariato. La più banale e intuitiva delle ragioni è che quando un volontario non ce la fa più, o decide di dedicarsi ad altro, nessuno può costringerlo a restare; mentre una psicologa o un assistente sociale dipendente di un’istituzione pubblica viene sostituita/o e il servizio continua nel tempo. Quando alcuni/e hanno lasciato la nostra associazione il problema si è fatto urgente, anche perché non è facile trovare professionisti/e disponibili a lavorare gratuitamente in un servizio così impegnativo. Ma è un servizio indispensabile per migliorare la qualità di vita della comunità, intervenendo sulle cause culturali e individuali di tanta violenza maschile contro donne e minori. Forti di questa consapevolezza, nell’ottobre del 2021 abbiamo avviato un confronto con la Dirigenza dell’ASL TO3. Un primo incontro con la Direttora Generale Franca Dall’Occo ci ha confortato, perché abbiamo registrato la sua condivisione del nostro progetto di coinvolgimento dell’ASL nel servizio svolto da LdV. Nel mese di settembre del ’22 l’ASL ha organizzato un convegno formativo all’Hotel Barrage di Miradolo, dove abbiamo potuto raccontare la nostra esperienza e ribadire le motivazioni del nostro progetto, accompagnate dalla sottolineatura delle nostre fragilità. Proprio in quel periodo ha visto la luce un’Intesa tra Stato e Regioni che fissa i requisiti minimi che dovranno avere, a partire dal 2024, tutti i Centri per Uomini Autori di Violenza (CUAV) operanti sul territorio nazionale. La nostra associazione non può trasformarsi in CUAV perché non ha le risorse per ottemperare ai requisiti minimi richiesti: almeno 12 ore settimanali di apertura, qualifiche professionali adeguate, locali idonei, richiesta di una quota di partecipazione (ticket) agli uomini presi in carico. Mentre sono previsti dall’Intesa CUAV gestiti direttamente da istituzioni pubbliche o in forma mista con il privato sociale. L’ASL TO3 ha deliberato nei mesi scorsi un proprio progetto e stiamo conducendo la trattativa con la referente incaricata per arrivare quanto prima alla nascita di un CUAV a Pinerolo gestito in prima persona dall’ASL, con la collaborazione dell’associazione Liberi dalla Violenza.

Non ho conclusioni da trarre

Sono grato a Paolo Ferrero di avermi chiesto di condividere il racconto di questo cammino di vita. E mi auguro che chi lo leggerà scelga di approfondire e coinvolgersi, perché sono convinto che questo delle relazioni tra uomini e donne sia un terreno formidabilmente politico: da anni sogno che i prossimi presidenti di USA, Cina, Russia – e Italia, Francia, Ucraina… – si formino anche in gruppi di autocoscienza maschile, dove imparino la cooperazione invece della competizione, il rispetto invece della superiorità, la convivialità di tutte le differenze invece dell’imposizione della propria particolarità. Ognuno di noi è “solo un uomo”: solo uno alla pari di ogni altro e solo uomo alla pari di ogni donna. Non ci deve più essere spazio per le piramidi gerarchiche, ma solo per i cerchi tra pari. E sarà la pace. Se ognuno comincia da sé e dalle proprie relazioni.


Beppe Pavan – luglio 2023


P.S. Come vedete dalla data, questo testo l’ho scritto in estate. Un aggiornamento è doveroso: la trattativa con l’ASL per un CUAV misto si è inopinatamente interrotta, non per scelta nostra, e dallo scorso mese di settembre abbiamo dovuto interrompere l’accoglienza di altri uomini. Restiamo in stand-by in attesa di un segnale da parte dell’istituzione.


(Uomini in Cammino n. 3-2023, 3 gennaio 2024)

di Micol Maccario


«Nessuno può prevedere come inizia una rivoluzione. Né può sapere quando un’ingiustizia farà in modo che la furia di un popolo superi la sua paura». Così scriveva a fine settembre 2022 la giornalista americana-iraniana Roya Hakakian sull’Atlantic

Erano i giorni dell’inizio delle proteste dopo l’uccisione di Mahsa Jîna Amini, la ventiduenne curda morta il 16 settembre all’ospedale Kasra di Teheran. L’episodio era stato definito dalla guida suprema dell’Iran, ’Alī Khāmeneī, «un terribile incidente, un evento doloroso».

In realtà Mahsa Amini era stata caricata su una camionetta e portata in un centro di riabilitazione, dove le chadorì (termine che in questo caso indica le filogovernative con lo chador nero integrale) insegnano alle bad-hejabi (le mal velate) come indossare il velo.

Dopo essere stata picchiata è entrata in coma ed è morta. Nel giro di qualche giorno ottanta città e quasi tutte le province iraniane sono state coinvolte nelle manifestazioni, che si sono allargate ovunque: le strade e le piazze di tutto il mondo si sono riempite al grido di «donna, vita, libertà».

I motivi delle manifestazioni

Subito dopo il 16 settembre le proteste hanno chiesto giustizia per la morte della ventiduenne curda. Con il tempo hanno assunto sempre più un carattere intersezionale. Non rivendicando solo maggiori libertà personali e diritti civili, ma anche economici e sociali per tutti.

I manifestanti hanno dato voce a un dissenso più ampio rivolto contro Khāmeneī e, più in generale, contro la Repubblica islamica. Come scrive la giornalista Farian Sabahi in Noi donne di Teheran (2022), «contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione. In prima linea ci sono i giovani, anche adolescenti: non vedono prospettive, sanno che i loro sogni verranno spenti da un regime autoritario».

Cosa è successo questanno

«Le proteste in Iran continuano ancora oggi. Però la forma delle manifestazioni di massa nelle strade si è trasformata – dice l’attivista iraniana Rayhane Tabrizi – diventando disobbedienza sociale attuata principalmente dalle donne. Continuano a distribuire volantini, scrivere sui muri slogan, urlare dalle finestre la sera, svuotare i conti correnti per creare una debolezza economica nella struttura del regime. Il popolo iraniano non si è fermato, adesso agisce in profondità, anche creando contatti con politici e giornalisti».

Le donne cercano, nonostante tutti i rischi, di sfidare il regime, anche rimanendo in pubblico senza il velo e indossando la gonna. «Questa disobbedienza è un atto fortemente politico. Il regime in risposta ha introdotto multe pesanti, frustate e incarcerazioni da cinque a dieci anni».

Nel 2023 è successo ciò che era già accaduto nel 2022. Questa volta il nome è quello della sedicenne Armita Geravand. Dopo essere stata ferita da un’addetta al controllo delle leggi sul velo in un vagone della metropolitana di Teheran, aveva perso conoscenza ed era entrata in coma.

È stata sepolta nella capitale il 29 ottobre sotto la sorveglianza delle autorità. Secondo quanto riporta Radio free Europe, il giorno del funerale circa quindici persone sono state picchiate e arrestate, tra queste c’era anche Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista per i diritti umani, vincitrice del premio Sacharov nel 2012.

Armita è solo uno dei tanti nomi di giovani, uomini e donne, uccisi perché non hanno rispettato le regole della morale e le imposizioni del regime. Un anno dopo l’inizio delle proteste il bilancio è di 23.497 persone arrestate, 639 uccise, di cui 79 minori (dati della Foundation for defense of democracies aggiornati al 17 dicembre).

Inoltre, si contano sette vittime giustiziate in relazione alle proteste secondo la commissione d’inchiesta internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite. La pena di morte è utilizzata come strumento di repressione e paura, alcune delle vittime sono state uccise come punizione anche per reati minori, come il danneggiamento di beni pubblici.

A questi numeri si aggiungono maltrattamenti, torture, stupri delle detenute e intimidazioni nei confronti delle famiglie che chiedono verità e giustizia. La portata delle violenze sessuali è difficile da stimare perché molte vittime non si rivolgono alle autorità per denunciare. Nonostante ciò, Amnesty International ha documentato almeno 45 casi in più della metà delle province iraniane.

Nei mesi scorsi, inoltre, centinaia di scuole in tutto il paese hanno riportato più di un migliaio di casi di avvelenamento probabilmente da gas tossico diffusi soprattutto tra le ragazze, causando il ricovero di alcune di loro in ospedale con sintomi respiratori e neurologici. L’obiettivo al momento rimane ignoto, ma l’ipotesi è quella di intimidazione nei confronti delle studentesse, protagoniste delle proteste contro il regime.

Nei mesi anche l’attacco ai diritti umani e civili di donne e uomini è continuato. Secondo Iran human rights, diciotto donne sono state giustiziate nel 2023. L’ultima è stata Samira Sabzian, il 20 dicembre, una donna costretta a sposarsi all’età di 15 anni e vittima di violenze domestiche accusata di aver avvelenato il marito.

Tra il 2010 e il 2021 sono state condannate a morte almeno 164 donne, nel 66 per cento dei casi la motivazione era quella di aver ucciso il marito o il partner. Un dato che contribuisce a rendere la Repubblica iraniana il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite a livello mondiale.

I riconoscimenti

Che la situazione in Iran sia stata centrale a livello globale quest’anno l’hanno dimostrato due tra i più importanti riconoscimenti mondiali: il premio Nobel per la pace e il premio Sacharov per la libertà di pensiero.

Il 131esimo Nobel per la pace è stato conferito all’attivista iraniana Narges Mohammadi «per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti». Mohammadi è stata arrestata dodici volte, la prima nel 1998. Il premio è stato ritirato dai suoi due figli che vivono in esilio in Francia perché l’attivista è attualmente detenuta nel carcere di Evin.

Il premio Sacharov, invece, è stato assegnato a Mahsa Jîna Amini e al movimento Donna, vita, libertà. Alla cerimonia però non hanno potuto partecipare i membri della famiglia Amini perché l’8 dicembre sono stati fermati all’aeroporto di Teheran dalle autorità iraniane e i loro passaporti sono stati confiscati.

Con il passare dei mesi la cronaca relativa a ciò che succede in Iran è passata sempre più in secondo piano, nonostante nel paese le proteste e le violazioni dei diritti umani non siano finite.

«Purtroppo, l’Iran sta vivendo quello che succede sempre quando ci sono delle guerre – dice Tabrizi – tutto rientra all’interno di una fase quotidiana, ci si abitua e se ne parla sempre meno. Era successo già con l’Afghanistan. Ormai sembra normale che una donna afghana rimanga chiusa in casa. Noi cerchiamo in tutti i modi di tenere l’attenzione elevata, non vogliamo essere ignorati e dimenticati».


(Domani, 31 dicembre 2023)

di Paola Centomo


Spinta dal coraggio e dall’esempio di Gino Cecchettin, nei cortei del 25 novembre c’è stata per la prima volta un’alta partecipazione maschile. Un episodio che va oltre l’onda dell’emozione e segna il primo, timido passo di un cambiamento. Ce lo spiegano alcuni di loro, impegnati a vario titolo a operare un salto di qualità. Convinti che, «anche se si è persone perbene, si fa parte di un genere che la violenza la esercita»


Un mese fa, un 25 novembre molto diverso da quelli venuti prima ha colmato le piazze del Paese, trasfigurandole in maree umane che mai avremmo detto. Una sorta di miracolo collettivo, perché non si erano mai viste moltitudini sfilare in nome di una donna uccisa dal suo ex e in nome delle tantissime finite come lei, e perché quelli che sino a quel momento si erano tenuti fuori – gli uomini – quel giorno, invece, avevano voluto essere proprio lì, insieme. Uomini chiamati dalle parole di un padre che diceva una cosa evidente, in fondo: la violenza sulle donne è un problema che chiama in causa gli uomini, tutti gli uomini.


Gino Cecchettin: «Noi uomini agenti di cambiamento contro la violenza sulle donne»

«Mi rivolgo agli uomini perché per primi dobbiamo essere agenti di cambiamento» disse Gino Cecchettin, padre di Giulia, che in quei giorni divenne figlia di ogni genitore.

Poi il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, è passato. Cos’è rimasto? E dove sono, adesso, gli uomini? Abbiamo raccolto le voci vibranti di quei giorni, soprattutto ne abbiamo cercate di nuove. Le abbiamo messe in sequenza, senza volerle decifrare, senza trarre, intenzionalmente, conclusioni. Si tratta di parole che cominciano a lambire la scena pubblica e sembrano iniziare a smantellare qualcosa.


Gli uomini e la sopraffazione, le opinioni di scrittori e intellettuali (maschi)

Riavvolgiamo per qualche secondo il filo di quei giorni e del confronto molto mosso tra scrittori e intellettuali che hanno ragionato sul Corriere della Sera e Repubblica.

Per lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo non esistono maschi progressisti in quanto maschi. Anzi, quanto più perderanno il predominio, tanto più si sentiranno fragili e quanto più si sentiranno fragili tanto più combatteranno disperatamente.

Per lo scrittore Paolo Giordano la possibilità della sopraffazione «è il segreto meglio custodito degli uomini», ai quali occorrerebbe, almeno, una nuova alfabetizzazione sentimentale con cui conoscere e affrontare le tortuosità delle relazioni.

Per il semiologo Stefano Bartezzaghi, il Dna non condanna affatto gli uomini a sopraffare. Detto questo serve una forte ostinazione collettiva verso chi quella sopraffazione la esercita contro la convivenza civile.


Bisogna essere sentinelle sociali contro la violenza sulle donne

Michele Serra apre alla sfida di generare nuove forme dell’essere maschi che siano più civili e più gentili. Mentre Aldo Cazzullo mette in chiaro che se è vero che i violenti sono la minoranza, la maggioranza se ne deve in qualche modo occupare.

Che poi è il messaggio che manda da sempre agli uomini il magistrato Fabio Roia, oggi Presidente del Tribunale di Milano e da anni in prima linea contro i femminicidi anche attraverso l’impegno di studioso e formatore (ha scritto per FrancoAngeli il libro Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche). Per Roia gli uomini devono condannare in maniera chiara la violenza sulle donne e trasformarsi, ciascuno, in sentinella sociale.


Reagire alle battute sessiste di amici e colleghi

«Se un uomo entra in contatto con un violento, deve respingere l’idea che il problema non sia suo e, anzi, deve intervenire: può, per esempio, informarlo dell’esistenza di centri che aiutano gli uomini che hanno agiti violenti» spiega Roia.

«Trovo che esporsi in prima persona sia necessario anche sul piano dell’evoluzione culturale. Se si sente un amico o un collega pronunciare una battutaccia sessista, non dobbiamo più fare finta di niente, ma rimarcarla come tale, perché sia riconosciuta inattuale e inadeguata in un contesto che punta a evolvere. Non è facile: io stesso, quando faccio notare a qualche “collega di genere” che si è espresso in maniera inadeguata, genero reazioni tra lo stupore e lo scherno, ma proprio questo tipo di reazione evidenzia l’urgenza di agire».

Per Roia esiste un filo che connette la violenza sulle donne a una cultura più generale che tende a sminuire le donne, «direi una coltura dove germogliano e crescono atti ostili al rispetto di parità, come quando in fase di assunzione si esclude surrettiziamente una donna perché ha una legittima prospettiva di maternità e, in genere, quando non la si valorizza, proprio perché donna, per quanto merita».


Apparteniamo al genere che esercita la violenza sulle donne. Anche se siamo brave persone

«Le donne sanno quanto sia ingiusto sopraffare, ma sono stanche di essere loro a dirlo. Per gli uomini è il momento di farsi sentire» dice Luca Dini, direttore del settimanale F che, insieme al
Comune di Milano e al suo sindaco Beppe Sala, ha sottoscritto il manifesto Uomini che amano le donne, per incoraggiare gli uomini a fare fronte contro la violenza sulle donne e le discriminazioni (hanno firmato, tra gli altri, Alessandro Baricco, Mahmood, Giorgio Armani, Rosario Fiorello, Roberto Bolle, Luciano Fontana, Gianmarco Tamberi, Gabriele Salvatores).

«Affermare che il mondo si divide tra persone perbene e persone che non lo sono è giusto, ma è insufficiente. Voglio dire che da maschio ci si può anche dissociare dalla violenza, ma si deve essere consapevoli di appartenere al genere che quella violenza la esercita» dice Dini, che dal suo giornale, dopo lo stupro di branco di Palermo la scorsa estate, ha lanciato la campagna #IoNonSono-Carne, ricordando la frase pronunciata dall’istigatore dello stupro: “la carne è carne”.

«Si tratta di parole ripugnanti, che mortificano le donne, ma che mortificano anche gli uomini, perché neanche gli uomini vogliono più essere ridotti a pura carne, a un presunto codice genetico o ormonale che dice loro di aggredire. Lavorando in quei mesi sulla campagna, io stesso sono cambiato: non ho difficoltà a dire che da direttore ho affrontato, solo fino a cinque anni fa, temi che adesso non affronterei più nello stesso modo».


Il patriarcato non è un’esclusiva maschile

Per Dini ci si sbaglia, però, a pensare che il patriarcato sia un’esclusiva maschile: «Il patriarcato è una cultura che appartiene agli uomini e alle donne. Se è vero che negli uomini c’è una maggiore tendenza alla prevaricazione, da parte delle donne c’è una maggiore tendenza ad accettare la prevaricazione se viene da un uomo. Dobbiamo fare un cammino insieme».

Conclude Dini: «Gli uomini si facciano carico del dovere di partecipare a un grande processo di cambiamento. E le donne, tutte, accettino la partecipazione degli uomini».


Riconoscere i propri privilegi

Intanto, gli italiani si confessano all’Istat. La nuova indagine Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza consegna un’Italia che prova a essere più equa. Rispetto al passato, gli italiani e le italiane hanno meno stereotipi, anche se ad averli superati sono soprattutto le donne, ed emerge una minore tolleranza della violenza fisica nella coppia.

Ma il 48,7% ha ancora almeno uno stereotipo sulla violenza sessuale, il 39,3 per cento pensa che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 20% crede che la violenza sia provocata dal modo di vestire della vittima.


Le campagne di uomini per gli uomini contro la violenza sulle donne

Per dire quanto sia urgente disinnescare le trappole di normale patriarcato quotidiano, germogliano campagne di uomini per gli uomini.

L’associazioneMaschi che si Immischiano – Violenza sulle donne: il problema siamo noilancia la campagna “Scegli che uomo 6”, prospettando sei situazioni-bivio: «Un padre che ascolta o che spaventa?», «Un partner attento o che si fa servire?». «Un collega che valorizza o che svaluta le donne?», «Insegni il rispetto o denigri le donne?», «Aiuti un amico che si separa o sono affari suoi?», «In pubblico ascolti le donne o le mortifichi?».

Gli uomini di RTL102.5, di Radio Zeta e Radio Freccia, invece, hanno lanciato la campagna #Percambiare, esortando a gesti di cambiamento concreti. «#Per cambiare non chiediamo mai più a una donna di smettere di lavorare, #Per cambiare dobbiamo essere felici se una ragazza fa serata con chi vuole, #Per cambiare non chiediamo a una donna durante un colloquio di lavoro se intende diventare madre».


Femminismo, maschile

Anche chi scende in campo in ordine sparso lo fa in nome di un cambiamento di sostanza. E divulga, spiega, contamina in una cornice di femminismo pop che certamente è al centro di qualche critica, ma è entrato nelle aziende e nelle istituzioni.

Lorenzo Gasparrini è autore del libro Perché il femminismo serve anche agli uomini (Eris). Conduce seminari e laboratori in aziende, scuole, ordini professionali per smascherare i ruoli stereotipati che, dice, pesano, oltre che sulle donne, sugli uomini, «anche se loro non lo ammetterebbero mai», chiarisce. «Ammettere un condizionamento culturale è per noi difficilissimo, perché significa ammettere che non si è padroni delle proprie intenzioni».


Il privilegio goduto da un uomo è uno svantaggio per una donna

Davide Rossi, bolognese, 39 anni, operaio specializzato, è referente su Bologna della campagna Mezzi Per Tutte, creata da Roadto50%, associazione paneuropea per la parità di genere in politica. «Gli uomini devono riconoscere, collettivamente, con un’unica voce, che godono di privilegi non più accettabili, perché ogni privilegio goduto è uno svantaggio procurato a qualcun’altra. È il sistema intero che va messo in discussione».

In nome della campagna Mezzi Per Tutte lanciata contro le molestie sui mezzi pubblici, Rossi ha seguito una formazione presso i Centri Antiviolenza e oggi va nelle scuole per sensibilizzare i ragazzi e le ragazze. «Sono entrato nell’associazione perché volevo rendermi utile. L’inizio è stato duro, anche sul piano personale, specie quando ho cominciato a rendermi conto che io stesso agivo con la mentalità patriarcale di chi sente che gli spetti tutto. Lavorando sulla conoscenza e sulla consapevolezza, sono cambiato. E andando nelle scuole ho capito che possiamo fare moltissimo».


L’attivismo contro la violenza sulle donne

«La storia non procede in modo lineare ma per salti, specialmente quando si tratta di incidere sulle culture. E io penso che stiamo attraversando una svolta». A parlare è Michel Martone, professore ordinario di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali all’università La Sapienza di Roma, uomo attento ai temi di genere, padre di un bambino piccolo da cui – racconta con una gioia che sembra riordinare tutto – si è lasciato trasformare.

«Le piazze del 25 novembre hanno mostrato la necessità, sentita collettivamente, di un salto di qualità, anche da parte degli uomini che non vogliono essere assimilati al grande magma del maschilismo. In tanti hanno capito che è necessario fare di più e passare dalla tolleranza silenziosa a un attivismo responsabile, dalle parole ai fatti.

La parità tra i generi è un valore ormai condiviso, ma richiede l’impegno da parte di ciascuno a non tollerare più: se viene pronunciata una battuta maschilista, è giusto dire che quella battuta è sbagliata e che non va fatta. Ecco, credo che lo scorso 25 novembre molti uomini hanno affermato la consapevolezza collettiva di dover prendere posizione. Lo leggo come un viatico perché prendere posizione diventi una costante negli ambiti privati e pubblici, e anche nei luoghi di lavoro, dove effettivamente stigmatizzare i comportamenti maschilisti di qualche collega e magari di un superiore, non è affatto semplice».


Incontrarsi tra uomini per liberarsi dal sessismo

In Italia, intanto, crescono i gruppi di uomini che si incontrano per liberarsi dal sessismo, dalla cultura del controllo e del possesso, per migliorare le relazioni tra uomini e donne, ma anche quelle tra maschi.

Il sociologo Marco Deriu è tra i motori diMaschile Plurale, rete di gruppi che fanno comunicazione, educazione, formazione su questi temi: «Gli uomini hanno introiettato sul piano culturale l’epocale passaggio da relazioni di impronta patriarcale a modelli più orizzontali e paritari. Ecredo che in via teorica nessun uomo obietti più nulla davanti ai diritti avanzati dalle donne. Ma quanto ad accettare in maniera reale, profonda, sentita la soggettività e l’alterità delle donne dentro la relazione, penso siano in difficoltà. In questi casi, molte coppie vanno bene finché c’è intesa. Quando l’equilibrio si crepa, tracimano, qualche volta prendendo la strada della violenza vendicativa o dell’ossessione di controllo, favorita dall’incapacità degli uomini di comprendere i propri vissuti».


La paternità non sia un affiancamento

«Per di più, gli uomini fanno oggi i conti con le fatiche della loro vita – separazioni, delusioni, fallimenti – senza parlarne con gli altri, perché non hanno costruito spazi emotivi e di intimità in cui possano comunicare le loro esperienze esistenziali non in astratto, ma in maniera autentica» spiega Deriu, che insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma.

«Quando abbiamo condotto interviste in coppie segnate dalla violenza, abbiamo registrato come i racconti dei maschi durassero la metà, se non un terzo rispetto a quelli della partner o della ex e fossero scarni, privi di struttura. Vedo due vie possibili verso il cambiamento: in primo luogo, l’educazione all’affettività dei bambini e dei ragazzi nelle scuole.

«E poi la paternità, a condizione che non sia vissuta solo come un affiancamento alle cure materne, ma che sia reinventata, attraverso l’esplorazione delle dimensioni profonde delle emozioni, della fisicità, dell’intimità, della vulnerabilità». E conclude: «Più in generale, credo che gli uomini debbano lavorare sulla consapevolezza della propria parzialità, per non pretendere più di parlare a nome di tutti. Sono sempre state degli uomini l’economia e la politica, e la norma è sempre stata dettata dagli uomini: questa supremazia ha reso il nostro punto di vista universale e ciò ci ha regalato potere, ma ci ha escluso da tutto il resto».


(Io Donna, 30 dicembre 2023)


La deputata del Partito democratico Cecilia Guerra, durante la discussione sulla manovra alla Camera, si rivolge al presidente di turno, Giorgio Mulè di Forza Italia, chiamandolo “Signora presidente”



BOTTA E RISPOSTA TRA MULÈ E CECILIA GUERRA CHE LO CHIAMA SIGNORA PRESIDENTE – YouTube

di Eugenio Giannetta


A conclusione dell’anno del centenario della nascita escono le lettere scambiate tra la poetessa premio Nobel e Filipowicz, anche lui scrittore


Si conclude tra pochi giorni, con la fine del 2023, il centesimo anniversario dalla nascita di Wisława Szymborska, poetessa, Nobel per la Letteratura nel 1996, con un volume che bene raccoglie tutta la sua ironia, la sagacia, l’acume e l’intelligenza, ma anche lo sguardo sul mondo, la profondità, la sensibilità, mostrando non solo la scrittrice ma la persona dietro alla scrittura, nonché il tempo e il luogo in cui viveva. Il volume si intitola Wisława Szymborska e Kornel Filipowicz – Meglio di tutti al mondo sta il tuo gatto. Lettere 1966-1985, pubblicato da Elliot edizioni (pagine 448, euro 25,00) con la traduzione dal polacco di Giulia Olga Fasoli.

Se Szymborska non ha bisogno di presentazioni, è bene invece dire brevemente due note su Kornel Filipowicz, scrittore, romanziere, sceneggiatore e poeta polacco, noto per la scrittura in forma breve. I due, Szymborska e Filipowicz, intrattennero un legame stretto e si amarono per oltre vent’anni, senza però mai abitare insieme. Questa distanza stimolò perciò un’intensa corrispondenza di lettere in cui si alternano toni divertenti a momenti lirici, elementi del quotidiano (il prezzo della carne, le medicine da prendere, i risultati delle battute di pesca di Filipowicz, ma anche personaggi di fantasia o secondari, come la signora delle pulizie, e alcune buffe schermaglie su piccole cifre di denaro che si devono a vicenda: «Kornel, mi devi 3,75». «Scusami, Wisława, ma ti ho già restituito 25 grosz!»), fino alle considerazioni sulla loro scrittura o su quella degli amici, poeti, scrittori, intellettuali.

Scritte in un lungo arco di tempo (1966-1985), le lettere attraversano alcuni grandi eventi storici come l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 (avvenimento che fu per entrambi particolarmente drammatico) e alcuni piccoli momenti della vita, matra le tante cose e figure, in queste lettere, emerge quella che dà il titolo al libro, ovvero il gatto di Kornel Filipowicz, che dopo la morte del suo padrone diventerà anche protagonista della celebre poesia di Szymborska Il gatto in un appartamento vuoto: «Morire – questo a un gatto non si fa».

Per meglio comprendere il tono delle lettere, per esempio, in Lettera per Striato, Szymborska scrive che «il mondo è senza pietà per i giovani gattini che tendono a fantasticare», e Filipowicz risponde: «La tua lettera a “Striato” è arrivata ieri, gliel’ho letta, ma non gliel’ho data in mano (nella zampa) perché avevo paura che la perdesse da qualche parte o che la nascondesse in modo tale che non la si sarebbe più trovata».

Nel volume, inoltre, sono riprodotti anche i collages, le cartoline e i disegni che spesso accompagnavano queste lettere, mostrando – ancora una volta – un lato meno conosciuto dell’universo della poetessa, che pochi mesi fa è stata anche protagonista di una mostra monografica a Genova proprio sui collage e le opere grafiche: è bene ricordare che Szymborska ha frequentato le avanguardie, era amica di Tadeusz Kantor, pittore, scenografo e regista teatrale polacco, uno dei grandi artefici dell’arte polacca contemporanea, e fin da giovane si è cimentata nel mondo dell’illustrazione, passando dai collages – ovvero quella che per lei era la dimensione più conviviale della creatività – realizzati con diverse combinazioni di parole e immagini.

Questo libro però è soprattutto un dialogo epistolare d’amore, un discorso ininterrotto fra due persone in là con gli anni (all’inizio della corrispondenza Szymborska aveva più di quarant’anni e Filipowicz più di cinquanta) colte nel mezzo della loro vita da un sentimento inaspettato, durato fino alla morte, perché «non si può vivere senza legami», per citare Baumgartner, protagonista dell’ultimo libro di Auster.

Per meglio contestualizzare il mondo in cui si muovevano queste lettere è necessario inoltre «ricordare che si tratta di una realtà precedente ai cellulari e a internet. Persino una telefonata da Zakopane a Cracovia costituiva un’impresa. Le uniche forme per comunicare – è scritto nella prefazione – rimanevano le lettere o i telegrammi e le uniche fonti di informazioni non censurate erano le trasmissioni radio occidentali e la stampa occidentale che non arrivava con regolarità, oppure una conversazione privata con qualcuno».

Come è spiegato nella nota all’edizione polacca, tutta la corrispondenza dei due si trova attualmente, per volere della Premio Nobel, nella Biblioteca Jagellonica a Cracovia e fa parte della fondazione che porta il suo nome. L’edizione italiana del carteggio, altresì, segue la struttura dell’edizione polacca, in cui alle lettere si alternano i commenti in corsivo, fondamentali per ricostruire il contesto dei riferimenti culturali, che comunque talvolta restano indecifrabili, poiché appartenenti al segreto del sentimento custodito dai due protagonisti delle missive.

«Ti bacio, amore, e ricorda le nostre conversazioni, Kornel». E così Wisława: «Desidero tanto che tu sia in buona salute e di buon umore. Il miagolio del tuo gatto attraversa la quiete della notte e arriva fino alla mia strada. Chi sta meglio di tutti al mondo è il tuo gatto, perché sta con te».


(Avvenire, 29 dicembre 2023)

di Michela A.G. Iaccarino


«Ci chiamiamo Mesarvot, vuol dire “noi rifiutiamo” declinato al femminile, perché siamo anche un’organizzazione femminista», dice al telefono il portavoce della rete di obiettori di coscienza israeliani di cui fa parte Tal Mitnick, il giovanissimo refusnik che ha rifiutato di indossare la divisa perché «un massacro non mette fine a un altro massacro». Il suo video è finito su tutti i media del mondo, ma non in Israele: «C’è su Haaretz in lingua inglese e su qualche altro piccolo giornale, non sul resto dei media israeliani che sono impegnati nello sforzo bellico. Tal è stato mostrato brevemente in tv ma solo per essere sbeffeggiato». Nata nel 2016, Mesarvot riunisce quanti «rifiutano di combattere e protestano contro l’occupazione da molti anni» e aiuta legalmente i giovani che preferiscono andare in carcere piuttosto che nei ranghi. Anche alcuni riservisti si sono rifiutati di combattere: «Noi abbiamo seguito casi simili, ma loro di solito non finiscono in prigione».

Nemmeno l’organizzazione sa quanti siano gli obiettori israeliani in totale e non lo sa nemmeno l’esercito: «Molti decidono di non servire, ma non ne fanno un atto pubblico, non fanno quello che ha fatto Tal. Persone come lui sono rare. Lo ha fatto per dire a tutti: guardate che un’altra via, oltre alla militarizzazione della società, esiste. Ma la gioventù israeliana da tempo è stata radicalizzata a destra».

Netanyahu, secondo i giovani di Mesarvot, non sarà rovesciato solo dai refusnik, ma da molti segmenti della società che stanno capendo che «la guerra è una bugia e non risolverà il problema, che riguarda l’occupazione prolungata dei territori». Racconta il portavoce che «tutte le voci di sinistra, critiche della guerra, ora vengono attaccate. Ai pacifisti viene solo detto “andate a Gaza” o “voi supportate i terroristi”». In questo momento «Tal sui social israeliani viene chiamato codardo e traditore». Molti israeliani continuano a servire nell’esercito anche se hanno dubbi: «Non combattere non è un’opzione, anche per la pressione pubblica».


(Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2023)

di Nicola Miretti


Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ho cominciato a curiosare nel diario di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Cercavo, nelle pagine di questa donna che ha iniziato il femminismo italiano scrivendo un libro formidabile – Sputiamo su Hegel – un riferimento al massacro del Circeo, il più tremendo dei femminicidi del suo tempo. Protagonisti tre ragazzi della borghesia romana. Rapirono due adolescenti, le picchiarono e le violentarono per 36 ore e poi le uccisero (anzi credettero di averle uccise entrambe, invece una si salvò). Ancora oggi si parla di quel delitto. Ma all’epoca la discussione fu enorme. Chissà cosa ne aveva pensato, mi chiedevo, Lonzi. Pubblicamente, è noto, niente. Ma sono stato sorpreso di scoprire che nemmeno nelle pagine del suo diario ne fa cenno. Sorpresa moltiplicata dal fatto che, mentre sfoglio, deluso, le pagine di quell’autunno del 1975, mi accorgo che un altro episodio di cronaca irrompe nel diario e lo occupa per giorni. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

Scrive: “Adesso che sei stato ucciso fratello mio, anima mia, ti piango”. Sono le prime parole che le vengono in mente appena appresa la notizia al telegiornale delle 13.30 che lo scrittore era morto nella notte tra l’1 e il 2 novembre. I sostantivi che usa sono eclatanti. “Fratello”, lo chiama: una donna che aveva scritto nel luglio del 1970 il manifesto di Rivolta femminile, la cui ultima frase, gelidamente, recitava: “Comunichiamo solo con donne”. Un riconoscimento mai concesso a nessun altro. E poi, “anima mia”: detto da una lettrice di Carl Gustar Jung, secondo cui “l’anima” è la componente femminile della psiche di ogni uomo. È un rispecchiamento piuttosto significativo: la più importante delle critiche del patriarcato che si identifica con un maschio. Ancora più rilevante se si considera che Pasolini, in gran parte, aveva ignorato il femminismo, e anzi si era convinto che la componente femminile della rivolta degli anni Settanta fosse l’elemento più negativo della rivolta stessa. E che inoltre aveva fantasticato – in una delle sue tarde poesie, La Couvade – il parto maschile. Un mondo che si rigenera senza donne. Fatto solo di maschi. 
Teoricamente, avrebbe dovuto sputargli in un occhio. Almeno quanto a Hegel. Invece si sente sua sorella. Lo percepisce come parte di sé (“anima mia”). Ma perché? Da dove viene questa attrazione? È noto che il 21 gennaio del 1975 spedisce a Pasolini una lettera. Lui aveva scritto un articolo che il Corriere della Sera sintetizza con questo titolo: Sono contro l’aborto. Ma Pasolini aveva parlato anche, e soprattutto, di ciò che viene prima: cioè, il coito. Da omosessuale temeva che l’aborto avrebbe sacralizzato la sessualità della maggioranza, la cosiddetta normalità, escludendo tutto ciò che “è sessualmente diverso”. Com’era lui, per esempio: omosessuale. Su questo Lonzi è d’accordo. La legalizzazione dell’aborto, pensa, avrebbe lasciato intatto il rapporto sessuale basato sul piacere maschile. Lei stessa aveva abortito due volte: in entrambi i casi, nel rapporto sessuale non aveva raggiunto l’orgasmo. Perciò, interpreta la legalizzazione come “una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. E a Pasolini dice: “Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fratello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua a arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo ma perché non voglio lasciare incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera”. 
Da tempo Lonzi desiderava instaurare un rapporto con Pasolini. Un desiderio talmente profondo che affiora anche nei sogni, e ben due volte, prima che si decida a spedire quella lettera. Il primo sogno lo annota nel diario il 29 dicembre del 1974. “Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono a poco a poco”. Lei nel sogno appare cosi: “Faccio la calza e sono molto calma”. E certo bisogna esercitare la fantasia al massimo per immaginarsi Lonzi placida, con i ferretti in mano. “A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla”. Poi, prima del risveglio, la sensazione finale: “Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci”. Il secondo sogno è del 11 gennaio del 1975, dieci giorni prima della lettera. “Pasolini su una povera strada di campagna”. Lei continua a percepire la difficoltà di entrare in contatto con lui. “Intuisco di dover condurre gli approcci in modo molto delicato”. Pian piano però si apre un varco. “Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro”. Finché Pasolini diventa “sempre più allegro, più loquace”. E il gioco è fatto. “Non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini”.

Il giorno dopo l’invio della lettera, Lonzi si libera di colpo di ogni dilemma su cui si era arrovellata in precedenza: scrivergli, non scrivergli, cosa penserà, risulterò “ingenua”, oppure “machiavellica”. “E una gran sensazione”, essersi lasciata i dubbi alle spalle. Pensa al rapporto fratello-sorella, a San Francesco e Santa Chiara. È convinta: “Un incontro si prepara”. Ma mentre passano i giorni, e lui non risponde, è assalita dall’incertezza: “Cosa può avere capito da quella lettera?”. Ma subito la respinge. “Per me è, in assoluto, la cosa più importante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste”. La delusione si abbatte su di lei il 30 gennaio. Pasolini risponde sul Corriere della Sera. Ma non a lei. Bensì ad Alberto Moravia. Il “patriarca” delle lettere italiane. Confessa che vorrebbe dargli del “fascista”. Respinge, sdegnato, l’accusa di essere un “cattolico”. M agli dice anche che, in parte, sono “affratellati”. 
La stessa vicinanza offerta a lui da Lonzi. Che ne deduce: “Non dà spazio per me e per quelle come me”. Se “il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato”. Ne ricava una regola generale: “Viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo”. E descrivendo una dinamica che considera tipica: la donna promuove la battaglia, come quella sull’aborto, “ma poi, al momento opportuno, come sempre, l’uomo la impugna, la gestisce, la con-trolla”.

Pasolini non risponderà mai alla lettera di Lonzi. In tutto il suo corpus letterario, composto da dieci volumi di meridiani Mondadori, più un grande tomo di lettere, non c’è un riferimento a Lonzi. Per Pasolini, Lonzi, semplicemente, non esiste. Non è mai esistita. Lei, invece, continuerà a sentirsi ferita ogni volta che lo legge, a ridimensionarlo, ad accusarlo di sentirsi al centro delle ingiustizie del mondo, mentre, per cecità calpesta chi sta più in basso di lui, come le donne, come lei. Si convince che lui sia in cerca del riconoscimento dei fratelli, e che le sorelle non lo interessino, La disillusione giunge al culmine 18 ottobre, quando scrive: “Cosa ho da spartire con Pasolini?”. È una domanda a cui vorrebbe rispondere: “Nulla”. Ma sa che non è così. Tornando un po’ indietro nel tempo, nelle pagine del diario, si trova un’altra lettera a Pasolini. Ancora più lunga. Ma pochissimo nota. È dell’agosto del 1974. E non risulta essere stata mai spedita. 
Dopo aver visto il suo film, Il fiore della mille e una notte, Lonzi gli scrive che la sua mitizzazione del sottoproletariato è destinata a fallire. La comprende benissimo, sia chiaro: l’ha vissuta anche lei. L’ha cercata “nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi, infine nelle donne”. Ma ha capito che non funziona: è solo nostalgia di un paradiso terrestre. E il paradiso è irrimediabilmente perso. C’è poco da fare. “Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza”, gli scrive, “ho finalmente imboccato la strada della felicità”. Colpisce, in questa lettera, il fatto che Lonzi anticipi un fallimento che nella vita di Pasolini avrà conseguenze catastrofiche: il crollo del mito dei sottoproletari, che gli aprirà le porte di una disperazione feroce. Ma non è solo questo, ci sono altri due elementi notevoli. Il primo è che in pochi ebbero la lucidità di avvertirlo in diretta. Mentre tutto ciò avveniva. Il secondo è che dei pochi che glielo fecero notare (per esempio, Franco Fortini) nessuno si era posto, come Lonzi, al suo stesso livello: senza guardarlo dall’alto in basso, trincerato nella sicurezza ideologica, dicendogli piuttosto: “Guarda che anche io ho provato la stessa cosa”. È una delle testimonianze delle qualità intellettuali di Carla Lonzi (disgraziatamente ancora non accolta nell’esclusivo mondo dei pensatori italiani del Novecento).

Ed è anche una testimonianza del suo metodo. Che parte innanzitutto da sé. E dice: ti critico, sì. Ma mettendo in gioco anche me stessa. Non puntando il dito. Non in astratto. Non solo in teoria.

Quando Pasolini viene ucciso, alcune femministe prendono le parti del ragazzo che lo aveva assassinato. Si mettono nei panni del borgataro che aveva dovuto offrirsi sessualmente al maschio con più potere di lui e pensano: in fondo se l’è meritato, quella del ragazzo è una ribellione comprensibile. Carla Lonzi si arrabbia. “Donne del Padre”, scrive, “mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie”. Osserva che nessuna di loro conosceva il ragazzo che lo aveva assassinato. Ignoravano perché lo avesse fatto. Cos’era scattato in lui.

Si schieravano, cioè, in maniera dottrinaria. 
Come Moravia: che non garantiva di “sentire” in termini femministi, ma garantiva di “pensare” in termini femministi. Proprio ciò su cui lei sputava: l’astrattezza teorica, anziché il vissuto. In questo, la voce di Pasolini era diversa, e lei l’aveva sentita come quella di un fratello. Perché “ci aveva parlato di sé”, scrive, per questo “possiamo avere delle relazioni personali”. 
Mi spiega Annarosa Buttarelli, tra le maggiori studiose di Lonzi, filosofia e curatrice della riedizione delle opere lonziane per La Tartaruga della Nave di Teseo, che questo punto è centrale per comprendere cosa sia, nell’universo lonziano, la battaglia contro il patriarcato. “Significa anche disobbedire alle regole imposte da un ruolo, agli imperativi sociali, alle parole dette da altri. Per trovare, invece, la propria lingua. Parlarla. Dire, appunto, di sé”. Ho chiuso il diario di Carla Lonzi mentre era diventato impossibile non discutere della morte di Giulia Cecchettin con gli amici a cena, con la propria compagna, con le colleghe al lavoro, con gli sconosciuti in metro. La novità è che parecchi uomini hanno parlato di una responsabilità della cultura maschile. Mentre altri l’hanno respinta, credendo che la colpa sia solo e soltanto di quel ragazzo che ha ucciso Giulia, Filippo Tu-retta. Personalmente mi sento più vicino ai primi che ai secondi. Ma ho imparato un criterio che distingue i maschi che ne parlano veramente dai maschi che ne parlano retoricamente. Questi ultimi tendenzialmente prendono la parola a nome della categoria: “Noi uomini”, eccetera. Gli altri invece raccontano cosa sin la cultura maschile nella loro vita – come la esercitano, come ne sono ricattati – usando la prima persona singolare. Il sé, avrebbe detto Carla Lonzi. 


(Review-Il Foglio, 28 dicembre 2023)

di Chiara Severgnini e Valentina Santarpia


Le donne del 2023 secondo il Corriere della Sera

a cura di Chiara Severgnini


Cosa ricorderemo del 2023? Guerre, attentati, alluvioni. Ma anche moti di solidarietà, grandi innovazioni, primati. E poi romanzi, film, concerti. E tante, tante donne. I giornalisti e le giornaliste del Corriere ne hanno scelte 102: quelle (viventi o mancate nel corso dell’anno) che più hanno lasciato il segno negli ultimi dodici mesi.

Non potevano mancare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, quarta donna più potente al mondo secondo Forbes, e la segretaria del Pd Elly Schlein: con loro al vertice, nel 2023, per la prima volta in Italia sia la maggioranza, sia l’opposizione sono a guida femminile. Né potevano mancare le leader europee: Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, Christine Lagarde, prima donna a presiedere la Bce, e Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo.

Ma ad aver segnato l’anno sono state anche intellettuali come Michela Murgia, sindacaliste come Fran Drescher, attiviste come Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace imprigionata in Iran. E, a proposito di Nobel, indispensabile citare l’economista Claudia Goldin, che ha studiato gli svantaggi sistemici che penalizzano le donne sul lavoro, e la biochimica Katalin Kariko, madre dei vaccini a mRna. E poi atlete come Sofia Goggia e Federica Brignone, campionesse in competizione che sono da stimolo l’una per l’altra, e registe come Paola Cortellesi, che con C’è ancora domani ha riportato l’Italia al cinema con un’emozionante storia di forza femminile.

In questo 2023, però, hanno fatto notizia anche le donne costrette a subire atrocità. Quelle brutalizzate dai terroristi il 7 ottobre, quelle ostaggio di Hamas, quelle costrette a partorire sotto le bombe a Gaza. E quelle uccise da chi non rispetta la loro libertà, come Giulia Cecchettin. Per questo tra le donne del 2023, secondo noi, c’è anche lei. Non da sola, ma con la sorella Elena, che con le sue parole ha acceso un’ondata di indignazione – anche maschile – che nel nostro Paese non ha precedenti.


NOTA: noi della Redazione del sito vi invitiamo a leggere e scoprire le donne che segnala il Corriere, ma vogliamo qui segnalare le amiche di Labodif, che sono presenti in rete e nei social con intelligenza, maestria ed efficacia. Una relazione duale che produce mondo!


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Giovanna Galletti e Giovanna Mazzini

Carica: fondatrici di Labodif

Anni: 62

Paese: Italia


C’è un grande “mancante”, oggi. È lo sguardo autorevole femminile. Che è necessario portare alla luce. Il Mondo è, quanto meno, a due. Non si tratta di stabilire chi vince, ma smettere di uniformarsi a un pensiero unico, ormai insufficiente. Prendere spazio non significa toglierlo a qualcun altro, ma arricchire l’umanità intera


di Valentina Santarpia


Una Giovanna (Galletti) milanese, bocconiana, economista; l’altra Gianna (Mazzini) toscana, regista, documentarista. Si conoscono nel ’93, quando la prima dirige un istituto di ricerca e l’altra realizza storie inventandosi l’uso della seconda camera, per immaginare altri punti di vista. I loro mondi si incrociano in una consapevolezza: troppo di quello che una donna è resta inespresso. Un concetto che, dopo quasi dieci anni di studio si trasforma in Labodif, Istituto di ricerca e formazione, che cerca di comunicare e insegnare il valore delle differenze in un mondo che ha come unica soluzione l’omogeneità. L’atto di nascita? È una ricerca su scala nazionale, “Espressioni di Soggettività Femminile”, che ha permesso di fare emergere il potenziale nascosto, invisibile ai metodi di rilevazione della realtà fino a quel momento neutri, cioè declinati sul maschile. Da allora Labodif ne ha fatta di strada, basta guardare le migliaia di commenti ai loro post su Facebook, e oggi ha una scuola attivissima, seguita da persone di ogni estrazione sociale dai 17 agli 82 anni: una scuola per femmine, come dicono loro, ma richiestissima dai maschi, che senza essere divisiva prova a portare consapevolezza in un mondo dove le donne rappresentano la metà della popolazione mondiale ma continuano a faticare per modificare equilibri che non ci appartengono.


(Corriere della Sera, 27 dicembre 2023)

di Mariacristina Pianta


Che cosa significa conversare sull’orizzonte? Non è facile rispondere perché i testi della raccolta non si limitano a descrivere o trattare argomenti significativi, ma cercano di andare oltre, di superare la realtà fenomenica per cogliere il nucleo della vita e delle cose. Le sezioni del libro presentano, in particolare, un elemento comune perché l’inizio del primo verso, in posizione di anafora, si ripete in molte poesie del medesimo gruppo: Capita, La luna lo sa, questo corpo a corpo, Anna, Vincent, Poi, In pagine mai scritte, Per certi versi. Questa tecnica ha l’obiettivo di sottolineare l’importanza di determinati argomenti e situazioni. Trovare aspetti che, analogicamente, si collegano vuol dire scoprire, nelle contraddizioni del nostro tempo e nell’angoscia dell’assurdo, delle coordinate di orientamento. È come se il famoso varco montaliano fosse vicino, quasi tangibile. Pensiamo a I limoni o a La casa dei doganieri, in cui pare di decodificare un messaggio o di dipanare l’aggrovigliata matassa nelle nostre mani. Allo stesso modo Antonella Doria, per mezzo di immagini incisive, affronta problemi, che coinvolgono il nostro io più profondo, ed enuncia tragedie di carattere sociale che si verificano quotidianamente: «Capita a volte / in un agosto come questo / con il cielo azzurro / corpi clandestini in / vortici di verdiblu cristalli / danzano una danza circolare». Sgomento, antitesi tra una natura amena (cielo azzurro) e corpi di migranti alla deriva sono maggiormente sottolineati dall’uso dell’enjambement (in /vortici), dai lemmi danza-danzano e dalla quasi totale assenza di punteggiatura. La parola è essenziale in un simile percorso, segnato da drammi personali e collettivi, perché travalica il suo potenziale espressivo. Come avviene nelle tele di Munch e di Bacon, una forza di notevole impatto cattura l’attenzione e permette di superare un discorso esclusivamente razionale per indurre ad effettuare un’analisi metalinguistica dell’opera.


(Odissea, 24 novembre 2023)


Antonella Doria                                               

Conversazioni sull’orizzonte                                               

Con una nota di Maria Enrica Castiglioni

Book editore pagg. 92 € 16,00

di Rita Bompadre


Traduzione italiana per la poetessa e mistica che sfidò le convenzioni e i pregiudizi della Persia dell’800: lasciò l’islam per la fede baha’i, fu imprigionata e uccisa per rappresaglia.

“Mostra il tuo Sole senza nubi, /scosta il velo dalla Tua bellezza. /Si smarriranno i saggi, /gli stolti rinsaviranno. /I dissennati si ravvedranno, /i sobri perderanno il senno inebriati. /Servi e padroni in un solo abbraccio; /non più servi, non più padroni.”

Questi versi appartengono alla poetessa iraniana Tahereh, nel libro Il tesoro nascosto a cura di Julio Savi e Faezeh Mardani (Jouvence, 2023, pp. 132, € 12.00). L’invocazione profetica della poesia di Tahereh riecheggia nelle pagine, nutrite dalla difesa di un percorso consacrato all’arte, nell’interpretazione mistica della vita, conferma il significato precursore dell’elevazione spirituale della preghiera rivoluzionaria, presenta un’orazione alla rivelazione, nei suoi versi, di un pensiero audacemente innovatore, traduce la voce del coraggio esibito in difesa della propria dignitosa fede. Il talento poetico di Tahereh sovrappone la forza della seduzione, nella lusinga di un’esultante femminilità, rincorre la via appassionata e provocatoria dell’emancipazione, sfida l’oscurità di un opprimente retaggio della mentalità, avvalora l’affascinante e luminosa promessa dell’indipendenza etica ed estetica, affrancata dalla tirannide, redenta dalla condanna remissiva delle convenzioni sociali e dai crudeli pregiudizi nell’Iran del XIX secolo.

La poetessa protegge il suo tesoro nascosto, simbolo di una costante e radicata lotta contro la sottomissione delle donne e le costrizioni severe delle superstizioni, tutela la venerazione della bellezza, assiste l’intensa esperienza di partecipazione all’identità divina del movimento del babismo, sostiene il rinnovamento morale e comunitario dell’Islam attraverso la viva attestazione del senso profondo della benevolenza. L’incontro con il Maestro fondatore della fede Bābi sovverte i canoni prestabiliti dell’esistenza della poetessa, rappresenta l’insegnamento fondamentale dei contenuti delle sue poesie, nell’esortazione a credere nell’attesa di un nuovo tempo, nella preparazione liturgica ed emotiva di una redenzione universale, nella catarsi interiore, nel riscatto della giustizia, nella soppressione della tirannia. Le poesie di Tahereh innalzano il valore metaforico di questi contenuti, edificano la purezza di una riflessione che assolve la sua finalità espressiva nell’assecondare l’amore contro l’odio, nel proteggere la sincerità della resistenza e soccorrere l’ardente verità dell’interiorità contro l’inganno dell’effimero. Tahereh con i suoi vividi testi porta alla luce la magnificenza dello splendore ascetico, nobilita l’entità essenziale della vita virtuosa, indica la sublime tendenza stilistica alla resurrezione della memoria e delle idee, recupera il rilievo intellettuale nella radicale necessità di una educazione che sollecita la parità dei diritti. Lo spirito sensuale e l’intensità dell’immaginario alimentano la grazia dell’incontro e il desiderio dell’amore, fanno da sfondo alla colta e raffinata cultura dei riferimenti celebrativi della scrittura che scorge la concessione dell’armonia, assecondando l’indugio nel sospiro sovrumano e il tormento nel mondo terreno. L’attualità suprema delle poesie di Tahereh coniuga l’autonomia esegetica del coinvolgente linguaggio, precede l’ammaliante devozione nei confronti di suppliche amorevoli e la brillantezza irresistibile dell’anima. “Il tesoro nascosto” è un recupero letterario prezioso, che oltrepassa le teorie apocalittiche del destino della condanna a morte e recupera la tenace perennità del messaggio che continua a esistere nella sconfinata, imperitura sovranità delle parole.


(satisfiction.eu, 24 dicembre 2023)


Nota della Redazione del sito: riguardo alla poetessa iraniana e la traduzione italiana dei suoi versi segnaliamo la trasmissione del 24 dicembre 2023 su RadioTre per la rubrica “Uomini e profeti”, un interessante colloquio con la traduttrice e il traduttore disponibile qui https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/Uomini-e-Profeti-del-24122023-265db120-2f15-4a0f-9f10-f37b322f7fb2.html