di Micol Maccario


Il fondatore dell’anatomia moderna Andrea Vesalio studiava il corpo maschile e poi applicava le conclusioni anche a quello femminile, come se il fisico delle donne fosse uguale a quello degli uomini, solo un po’ più piccolo. Non era l’unico a pensarla così: per secoli la ricerca medica si è basata sull’idea che i corpi maschili rappresentassero l’umanità intera. Di conseguenza, il sesso femminile è stato a lungo escluso dagli studi scientifici, ma uomini e donne non si ammalano allo stesso modo e rispondono diversamente alle terapie e ai farmaci.

Il rapporto “Verso un’equità di genere nella salute e nella ricerca”, realizzato da Fondazione Onda con il contributo di Farmindustria, presentato il 17 gennaio, riconosce l’importanza di una medicina diversificata. «Negli uomini le malattie cardiovascolari si manifestano intorno ai quarant’anni mentre nelle donne la loro incidenza aumenta dopo la menopausa», si legge nell’indagine a proposito della principale causa di morte nei paesi industrializzati. Queste differenze non riguardano unicamente le diagnosi, ma anche cure, farmaci e terapie. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, alcuni farmaci usati in caso di infarto possono causare «emorragie importanti» nelle donne. Altre medicine contro l’ipertensione riducono le probabilità di infarto negli uomini, ma aumentano il rischio di morte da patologie cardiache nel sesso femminile. Inoltre, si è a lungo ritenuto erroneamente che alcune malattie fossero tipicamente maschili, come la cardiopatia ischemica, escludendo le donne dal percorso di prevenzione e di cura.

Nonostante queste differenze siano ormai note, ancora oggi non sempre il sesso e il genere sono considerati in modo appropriato nella ricerca. «Ci sono tanti motivi che spiegano perché il sesso femminile spesso non è stato incluso nelle ricerche», dice Daniele Coen, medico e coautore di Quella voce che nessuno ascolta. La via della medicina di genere alla salute per tutti (Giunti, 2023). «Le donne hanno una ciclicità ormonale che può influenzare tanti fattori e rendere più difficile valutare i dati. Gli studi dimostrano anche che manifestano un numero più elevato di effetti collaterali ai farmaci, quindi è più semplice escluderle a priori. C’è anche la possibilità che siano incinte e che si sottopongano a studi farmacologici che potrebbero creare problemi al feto».

Negli anni la situazione è migliorata anche se, secondo la direttrice del Centro di medicina di genere Elena Ortona, «nei lavori scientifici non sempre vengono presentati i dati disaggregati per sesso. Negli studi che utilizzano gli animali spesso le ricerche sono effettuate su esemplari di sesso maschile per evitare la variabilità ormonale, che richiederebbe un numero di casi più elevato e spese maggiori. Questo vale anche per le ricerche sul genere umano. Nelle prime fasi di sperimentazione dei farmaci vengono arruolati quasi sempre esclusivamente soggetti uomini, ma così non si può valutare l’effetto su entrambi i sessi».

Prendere in considerazione le differenze è utile per dare una risposta specifica alla persona: «A lungo termine questo approccio porterà anche un risparmio al sistema sanitario nazionale perché garantirà un migliore stato di salute e meno effetti avversi causati dai farmaci», dice Ortona.

La medicina di genere

Le evidenze scientifiche hanno portato alla nascita della medicina di genere (Mdg) o genere-specifica, definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona». Non è una branca medica a sé stante, ma un approccio interdisciplinare, che parte dal presupposto che esistono diversità tra uomini e donne nella risposta ai trattamenti terapeutici, nella nascita e nello sviluppo di patologie. La Mdg non tiene quindi unicamente conto delle diversità legate al sesso, che dipendono da fattori genetici e ormonali maschili, femminili o intersessuali, ma anche dei fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali.

Come sottolinea Coen, la medicina di genere è un passo culturalmente importante. Mettere in evidenza le differenze e individuare percorsi specifici deve essere l’obiettivo del sistema sanitario nazionale per assicurare l’equità e la pari opportunità in ambito di prevenzione, diagnosi e cura. «Ma equità non significa uguaglianza», spiega Ortona. «La medicina di genere è proprio la medicina della diversità, mette in risalto le differenze». La denuncia che la medicina non fosse una scienza neutra risale agli anni Settanta. In Italia, a livello normativo, si è iniziato a parlare di genere come «determinante di salute» dal 2016, due anni dopo che l’Oms lo aveva individuato come tema fondamentale della programmazione 2016-2019. «In Italia siamo all’avanguardia in questo», dice Ortona. Con l’approvazione della legge 3/2018, “Applicazione e diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, per la prima volta in Europa è stato garantito l’inserimento del genere nelle specialità mediche, nella sperimentazione dei farmaci, nella ricerca, nelle terapie e nella divulgazione. La legge prevedeva anche la predisposizione di un “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”, del 2019. Nel 2020, poi, è stato istituito l’Osservatorio per la medicina di genere presso l’Istituto superiore di sanità, che monitora le azioni di intervento e ne promuove la corretta applicazione.


(Domani, 29 gennaio 2024)

di Giovanna Cifoletti*


Nota della redazione: sì, ma non sempre chi non vota è indifferente.


All’indomani del 27 gennaio 2024 e della presa di posizione di chi ha direttamente subito e superato la Shoah, la senatrice a vita Liliana Segre, il nostro compito è anzitutto darle ascolto. Nel ricevere la laurea honoris causa in storia all’Università Statale di Milano, Segre ha proposto con la sua autorevole semplicità un serissimo programma politico, degno di una lectio magistralis. Anzitutto ha affermato che viviamo in un tempo in cui le è difficile far parte degli ottimisti. Ma non si è fermata qui. Ha detto che quello che sta succedendo e quello che è successo dal 7 ottobre l’ha messa in una condizione che non aveva vissuto prima. In quanto mamma e nonna vede i bambini come un bene preziosissimo. Ora ci sono bambini (di tutte le appartenenze, sottolinea Segre) uccisi per l’odio degli adulti che non si ferma mai, eppure proprio quei bambini sarebbero il futuro di popoli fratelli. «Questo mi ha dato una forma di, quasi di disperazione serale». La notte allora è la notte dell’indifferenza generale. «L’indifferenza è legata al buio delle menti». Indifferenza è la scritta che Segre ha voluto sul muro del memoriale della Shoah di Milano. Ma la stessa indifferenza si traduce oggi nell’astensione dal voto. Ci ha ricordato che il quaranta per cento degli elettori delega agli altri il proprio voto stesso, rinuncia alla democrazia. Così la critica democratica del male non ha voce e grazie all’indifferenza il ciclo delle ingiustizie non si chiude. Eppure la democrazia è costata il sacrificio di tante vite.

La lezione di Segre ci chiede di onorare nella sostanza la memoria degli uccisi. Al di là delle cerimonie, ci invita a prendere sul serio la Shoah non come bandiera identitaria ma come scandalo per l’umanità di tutti. La memoria è necessaria per spingerci a creare le condizioni perché la catastrofe non si ripeta. Le tragedie che tengono sveglia una delle coscienze più profonde del nostro tempo, come tengono svegli molti di noi, devono essere combattute e in futuro evitate. Bisogna allora esercitare i propri diritti democratici pagati duramente dalla sua generazione, primo fra tutti il voto.

Le ragioni dell’astensionismo in Italia sono molteplici. Per le donne esso esprime anche una nuova consapevolezza della distanza tra la politica istituzionale e la società e in particolare delle donne. Oggi poi è comune a uomini e donne la frustrazione rispetto alla legge elettorale, con la constatazione che addirittura milioni di voti vengono dispersi dai premi di maggioranza o che non si possa scegliere di confermare o eliminare un candidato attraverso il voto. Ma per quanto numerose siano le ragioni per non votare, la rinuncia a votare è una rinuncia alla democrazia. E rinunciare alla democrazia non è innocuo, perché lo spazio viene immediatamente riempito dall’ingiustizia e dall’incitamento all’odio, cioè dalla guerra. La guerra e i suoi fautori sono ben svegli e tutt’altro che indifferenti.

Molti aspetti della crisi geopolitica attuale cominciarono nel 2001 e proseguirono con la risposta statunitense all’attacco terroristico delle WTC. Recentemente Biden l’ha ricordata come grave errore da non ripetere, riferendosi alle guerre contro Al Qaida. Ma non bisogna dimenticare l’altro aspetto della risposta statunitense: la politica interna securitaria e la riduzione dei diritti civili. Fino al 2018 l’Europa fu esclusa dalle guerre ma subì in primo luogo il terrorismo diffuso e le relative politiche securitarie e d’altro lato l’immigrazione dai paesi colpiti direttamente dalle guerre. Dopo la pandemia globale, la guerra in Ucraina, poi quella a Gaza e Cisgiordania hanno reso illusori il benessere e la libertà in Europa. Noi Europei non siamo più padroni delle nostre vite: i giovani non sanno se possono fare progetti. I meno giovani stentano a riconoscere le proprie esistenze se paragonate al secondo Novecento. Impoveriti dal finanziamento delle guerre e dal conseguente costo delle energie, abbiamo meno servizi, quindi meno tempo, più preoccupazioni, meno vita politica a causa delle restrizioni dovute al terrorismo. Se si aggiungono i problemi di politica ambientale e la crisi del modello agricolo europeo, il quadro delle necessità si amplia e quello delle risorse a disposizione si restringe. Come uscire da questa impasse? È evidente che chi vuole dominare con la paura ha buon gioco. Eppure l’impasse deriva anzitutto dalla premessa che la guerra sia la soluzione militare dei conflitti, sia necessaria per non avere più paura. O che partecipare alla guerra di altri con le armi in pugno possa risolvere dei problemi. Invece non ne ha mai risolti, solo creati, mentre è la politica a essere necessaria, la libertà politica, premessa della pace come le restrizioni ai diritti politici e la conseguente rinuncia alla democrazia sono premesse delle guerre.

Libertà politica e pace vanno insieme: se si rispettassero i principi della Costituzione non si sottrarrebbe ai cittadini il bene principale, cioè la vita. Quindi si farebbe di tutto per conservare la pace. Ma per realizzare questo ci vuole più partecipazione politica, che invece è resa sempre più marginale dalle restrizioni, dalla politica securitaria interna. La ministra degli esteri del Sudafrica Pandor ha reagito all’ordinanza della corte di giustizia dell’Aja dicendo che essa dimostra che questa corte è uno tra gli strumenti dei popoli per far sentire la loro voce. Pandor ha detto anche che i popoli sanno che per la sopravvivenza del pianeta la violenza deve diventare meno facile, la guerra deve diventare meno facile, e deve essere sostituita dai negoziati. Il ricorso alla violenza e alla guerra, cioè il disprezzo per il diritto internazionale, invece è proprio di chi controlla i popoli e non rispetta i loro diritti, tra cui la libertà politica.

In quanto Europee ed Europei dobbiamo riprendere la consapevolezza che alla fine della Seconda guerra mondiale ci aveva fatto ripudiare la guerra e gli stermini. Perché di questo da sempre continua ad avere bisogno il mondo. È questo impegno che oggi va privilegiato! Ma intanto, in Italia come altrove la partecipazione politica e il voto stesso si è drasticamente ridotto. In realtà è stato un lento processo di costruzione dell’astensionismo. Nel 2001, all’inizio di questa fase geopolitica, in Italia votavamo all’ 82,35%. Ora votiamo al 63,91%. Ciò significa che ha votato un quarto di percentuale di elettori in meno. E si tratta del risultato di una progressione, interrotto soltanto dalla vittoria della sinistra del 2006: 2001: 81,35%; 2006: 84,24%; 2008: 80,63%; 2013: 75,20%; 2018: 72,94; 2022: 63,91%.

Si tratta di votare e di votare contro le armi, le distruzioni, contro l’aggravarsi del clima e alla sussistenza dei popoli proprio a causa delle guerre. Occorre riprendersi il voto. In questo momento, dobbiamo premere sulle elezioni per ottenere una scelta di pace dell’Italia nei confronti dei conflitti in corso, russo-ucraino e israelo-palestinese. Molti Stati investono nelle guerre nel dispregio degli impegni internazionali sulla coesistenza e la mediazione tra sistemi politici. Si tratta di una scelta patriarcale di scontro totale per vincere un nemico e affermare una sola autorità nel mondo. Come madri e nonne sappiamo che le guerre colpiscono i bambini. Come donne sappiamo anche che l’altro che cerca di dominarci non è qualcuno che vogliamo né possiamo eliminare. Sappiamo che la vittoria non è sull’altro, in un meccanismo del duello in cui per vincere bisogna che l’altro perda. La vittoria è il successo di un negoziato utile, di un compromesso accettabile, mentre un’ingiustizia non farà che crearne altre. In tempo di elezioni il nostro desiderio di fare qualcosa per la pace è interrogare chi si propone come rappresentante del nostro futuro sulla risoluzione pacifica dei conflitti, sulla comprensione delle ragioni che lo creano e sulla capacità di privilegiare la soluzione pacifica delle intenzioni dei contendenti, invece di voler vincere rispetto a questioni di principio o far prevalere interessi economici sulle risorse naturali anziché il diritto internazionale. Comprendiamo le motivazioni legittime di russi e di ucraini. All’inizio della guerra molti aderivano alle decisioni di governo, si parlava addirittura di Resistenza. Ma scrissi che non era proprio il caso di ragionare come se bisognasse farla pagare a Putin. Ora Zelenski vuole indietro i suoi seimila profughi, e soprattutto quelli in grado di combattere. Come possiamo considerare democratico un paese che li considera disertori? Ora è pressante la necessità di riconoscere i diritti dei Palestinesi, come è stato riconosciuto lo stato di Israele. Le azioni terroristiche di Hamas non giustificano l’attuale carneficina contro un territorio assediato o occupato da decenni. Il terrorismo va sanzionato ma anche l’espansionismo e l’occupazione militare e coloniale di Israele. Si tratta di azioni che vanno oltre la ferocia, sono frutto della determinazione a non vedere l’altro esistente come tale. Ci si determina a uccidere chi “non c’è”. E la determinazione a uccidere chi “non c’è” non ha limite quando non esiste un limite esterno, come nel caso di Gaza, perché si tratta di un territorio occupato e poi assediato, senza esercito. Perfino in Vietnam c’erano due eserciti. Una tale carneficina di bambini tiene sveglia Segre come molti di noi, ci rende responsabili e impotenti.

Siamo responsabili e impotenti soprattutto perché da almeno alcuni decenni non partecipiamo più. Non riconosciamo affatto l’esigenza di spingere a un conflitto occidentale contro altri Stati e privilegiamo il contenimento delle pretese in favore di un equilibrio complessivo che risparmi vite, beni, ambiente, relazioni internazionali. E per tornare alle parole di Segre direi che le nonne e le mamme devono tornare a votare: tutte le persone che credono che il futuro dell’umanità sta nei bambini e chi se ne sente responsabile deve tornare a votare scegliendo i candidati contro la guerra.

Onorare la memoria della Shoah è fare in modo che le vittime non siano morte invano. Segre ha detto che i recenti avvenimenti la fanno dubitare dell’utilità della propria esistenza. Facciamo in modo che l’esperienza della Seconda guerra mondiale non sia annullata da altre atrocità. E se la generale disumanizzazione non basta, si pensi agli insostenibili costi economici e ambientali della guerra. Passare dalla carestia politica e morale a quella fisica per esaurimento delle risorse del pianeta? Forse ce lo meritiamo, ma almeno se l’abbiamo capito facciamo di tutto per evitarlo. In questo non faremo che applicare il nostro patrimonio culturale, la Costituzione italiana.


(*) Giovanna Cifoletti è docente presso la EHESS (École de Hautes Études en Sciences Sociales) di Parigi e fa parte dei Disarmisti esigenti.


(noidonne.org, 29 gennaio 2024)

di Narges Mohammadi, testo raccolto da Greta Privitera


Questa è una lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace, Narges Mohammadi, cinquantun anni, ha scritto dal carcere di Evin, a Teheran, per chiedere alle Nazioni Unite di inserire l’apartheid di genere nella lista dei crimini contro l’umanità «perché in tutto e per tutto simile all’apartheid razziale». Fare uscire dalla prigione le sue parole non è mai semplice e comporta per l’attivista altre punizioni e mesi dietro le sbarre. Pubblichiamo per intero la sua lunga missiva mandata in esclusiva per l’Italia al Corriere della Sera.


Ad António Guterres, segretario generale dell’Onu, e agli onorevoli rappresentanti degli Stati membri delle Nazioni Unite, è venuto il momento di condannare ufficialmente l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Per decenni, le donne iraniane si sono scontrate con varie forme di discriminazione in base al sesso e al genere, istigate dal governo della Repubblica islamica. Sistematicamente e deliberatamente, l’Iran ha imposto la sottomissione delle donne con tutti gli strumenti e i poteri dello Stato, in particolare tramite le leggi, al fine di perpetuare la negazione dei diritti umani delle donne.

Sotto tali circostanze, non sono solo le donne, bensì l’intera società iraniana porta il fardello delle conseguenze strazianti e irreparabili di discriminazioni diffuse e profondamente radicate. In una società dove metà della popolazione vede negati i suoi diritti naturali, ogni dibattito sulla democrazia, sui diritti umani, sulla libertà e uguaglianza appare irrilevante.

In Iran e in Afghanistan, entrambi i governi della Repubblica islamica e dei talebani hanno sfruttato con cinismo la sottomissione delle donne come mezzo per instaurare i loro programmi oppressivi ed esercitare controllo e repressione sull’intera società civile. Costoro si servono della religione per camuffare le mire dittatoriali e il loro governo totalitario. E tutto ciò accade mentre si compiono atrocità inenarrabili contro la popolazione femminile, sotto gli occhi di un mondo incredulo.

Le discriminazioni di genere, economiche e sociali contro i singoli individui, a causa del loro sesso o genere, vengono compiute direttamente attraverso mezzi fisici o legali allo scopo di relegare costoro a posizioni di inferiorità: questo si chiama apartheid di genere, che sfocia non soltanto in fragilità sociali ed economiche, ma porta anche a danni fisici, talvolta irreversibili e mortali.

Pertanto, siamo convinti che l’apartheid di genere debba essere riconosciuto come vero e proprio crimine contro l’umanità, in tutto e per tutto simile all’apartheid fondato sull’appartenenza razziale. Ci appelliamo con urgenza alla comunità internazionale, affinché si affronti tale questione e si intraprendano interventi decisivi per metter fine a questa discriminazione in Iran e Afghanistan. È indispensabile intraprendere misure per assicurare la vittoria della giustizia e dell’uguaglianza. Quindi, ci aspettiamo che le Nazioni Unite dichiarino l’apartheid di sesso e genere un crimine contro l’umanità in tutti i documenti legali internazionali. Noi affermiamo che questi governi – tra i quali la Repubblica islamica – hanno perpetrato questi crimini contro le donne a causa del loro sesso o genere, e i nostri argomenti poggiano sulla comprovata esistenza di politiche a scapito della popolazione femminile in ogni settore, politico, economico, sociale, culturale e scolastico, così come nelle loro leggi discriminatorie.

Le leggi del governo:

Questa è una panoramica delle leggi emanate a scapito delle donne per illustrare gli elementi della segregazione e sottomissione delle donne nella società iraniana.

1. Per ottenere un passaporto e viaggiare all’estero, la donna necessita del permesso del suo tutore legale, che corrisponde al padre per le figlie e al marito per le mogli.

2. Alle donne iraniane viene categoricamente vietato il diritto allo studio in certe facoltà universitarie, come l’ingegneria aerospaziale.

3. Deposizioni e testimonianze degli uomini nei tribunali iraniani vengono considerate pari a quelle di due donne.

4. Il prezzo di sangue (diyah) e l’eredità spettante alle donne corrisponde alla metà di quanto garantito agli uomini.

5. Da oltre quarant’anni vige il divieto di ingresso per le donne allo stadio, mentre le scarse deroghe elargite ultimamente non sono assolutamente allo stesso livello degli spettatori maschi. Inoltre, tali cambiamenti non sono validi in tutte le città.

6. In Iran, gli uomini possono contrarre matrimonio con quattro donne contemporaneamente. Il numero è notevolmente più elevato per i matrimoni provvisori, conosciuti con il termine di sigheh. Al contempo, la punizione per una donna sposata che intrattenga una relazione adulterina con un altro uomo consiste nell’esecuzione capitale. In questo momento, mentre scrivo queste righe, una donna di nome Mitra in Iran è stata condannata a morte perché il marito l’ha denunciata per una relazione extraconiugale. Vale la pena sottolineare come l’uomo che ha intrattenuto questa relazione con Mitra è stato condannato alla fustigazione.

7. Gli uomini in Iran, grazie alla legge, possono divorziare agevolmente dalle consorti se queste diventano cieche in entrambi gli occhi. Dal canto loro, le donne non godono di pari diritto.

8. Varie forme di violenza di genere in Iran, abbinate all’inadeguatezza e all’inefficienza del sistema legale, costringono le donne in situazioni assai precarie. Ciò comprende le molestie in strada, la violenza coniugale, come pure violenza di genere sul posto di lavoro e nelle università.

9. Lo stupro coniugale non solo non è considerato un reato in Iran, ma gli uomini iraniani possono denunciare le mogli per «inadempienza» se rifiutano il rapporto sessuale. La legge in questione è a favore degli uomini e definisce le donne come «inadempienti».

10. La cittadinanza in Iran viene riconosciuta esclusivamente attraverso i legami di sangue e la legge iraniana garantisce al padre ogni diritto come tutore legale. Una legge precedente sull’argomento è stata respinta, di fatto negando al bambino nato dal matrimonio di una donna iraniana con un uomo straniero il diritto ad ottenere documenti di identità come il certificato di nascita.

11. Negli ultimi quarantacinque anni, il tasso di femminicidi, specie i cosiddetti delitti d’onore, è in crescita in tutto l’Iran. Secondo le organizzazioni dei diritti umani, dal marzo 2023 a oggi sono stati registrati in Iran oltre 52 casi di femminicidi, venti dei quali delitti d’onore. Di queste 52 donne, undici, ovvero il 21 percento, non avevano ancora compiuto i diciotto anni. La legge e i tribunali sotto questo aspetto si sono macchiati di inefficienza e di comportamento irresponsabile.

12. L’iscrizione a vari tipi di specializzazione medica e di assistente di odontoiatria per le donne in Iran è possibile solo con il consenso del marito.

13. Il mancato rispetto delle leggi sull’hijab per le donne è punito in Iran con 74 frustate, punizione che sarà inasprita con l’approvazione della legge sulla castità e sul velo.

14. Non è necessario ottenere l’autorizzazione al matrimonio per le ragazze minorenni in Iran se l’unione è stata approvata dal padre o dal nonno paterno. Le statistiche rivelano una preoccupante tendenza al rialzo nel numero delle spose bambine in Iran. Secondo il Centro statistico iraniano, durante i primi tre trimestri del 2022, oltre 20.000 matrimoni hanno coinvolto spose sotto i quindici anni di età, e 1.085 sono state le nascite da madri di età inferiore ai quindici anni. Nella primavera del 2021, il numero di matrimoni di ragazze tra i 10 e i 14 anni ha fatto registrare un balzo del 32 percento, rispetto all’anno precedente. E queste cifre rappresentano esclusivamente le statistiche ufficiali.

15. La legge sulla giovinezza della popolazione, con il divieto esplicito di aborto su richiesta e criminalizzazione della pratica, oltre a un aumento delle sanzioni contro dottori, operatori e facilitatori dell’aborto, ha portato a un incremento negli aborti clandestini. Una situazione che mette in pericolo la vita delle donne per i metodi poco sicuri utilizzati e il timore di rivolgersi agli ospedali e alle cliniche. I metodi contraccettivi liberamente in vendita in passato sono stati limitati ed è stato avviato negli ospedali un sistema di registrazione delle gravidanze e di monitoraggio delle donne incinte.

16. Se un uomo causa la morte di una donna in Iran e la famiglia (gli eredi legali) chiedono un risarcimento secondo i principi della qesas, il responsabile è obbligato a pagare la metà del prezzo di sangue (diyah) di un uomo. Nel sistema legale iraniano non esiste parità tra i cittadini, e il valore della vita di un uomo è considerato equivalente a quello di due donne.

17. La pena per la donna sposata che intrattiene relazioni adulterine con un altro uomo è la lapidazione, e benché la condanna non venga eseguita attualmente in Iran, le donne subiscono tuttora la minaccia della lapidazione. Secondo una nuova direttiva, i tribunali oggi hanno il potere di eseguire la condanna alla lapidazione.

18. L’età legale dell’obbligo religioso in Iran per le ragazze parte dai nove anni, imponendo loro l’osservanza di pratiche come la preghiera, il digiuno e l’uso dell’hijab. Malgrado l’età legale per l’obbligo religioso sia fissato a nove anni per le bambine, il ministero dell’istruzione ha imposto alle bambine l’utilizzo dell’hijab sin dai sei anni, vale a dire, dal primo anno di scuola elementare.

19. Il parlamento iraniano in questo momento sta studiando una proposta di legge per suddividere i libri scolastici in maschili e femminili. I testi scolastici si propongono di rafforzare i ruoli di genere tradizionali e confinare le donne ai compiti di future mogli e madri.


[…]


Il resto dell’articolo si può leggere sul sito del Corriere, a questo link:

La premio Nobel per la pace Mohammadi alle Nazioni Unite: «Inserite l’apartheid di genere nei crimini contro l’umanità» (msn.com)


(Corriere.it, 26 gennaio 2024)

di Luciano Moia


Oltre cento famiglie dell’associazione GenerAzioneD lanciano un appello a scuola e medici: aiutate i ragazzi con problemi di identità a trovare la propria strada. Non tutti devono diventare trans

No ai farmaci come la triptorelina, no agli ormoni. Sì alla “vigile attesa”. Che vuol dire prudenza, rispetto e cautela nei confronti dei ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Anzi delle ragazze, visto che sono loro, nel 75 per cento dei casi, le vittime di questa nuova emergenza esistenziale. È l’appello, straziante per il dolore e la partecipazione emotiva che lo pervade, che arriva dai genitori di “GenerAzione D”, un centinaio di famiglie, che si sono messe insieme per scambiare esperienze, riferimenti, consigli lungo un percorso difficile e per certi versi perfino sconvolgente come quello dell’incongruenza di genere dei loro figli.

Nel lungo e complesso dibattito di questi giorni, che ha visto gli ispettori del ministero all’ospedale Careggi di Firenze per verificare il corretto uso del farmaco che blocca la pubertà, i genitori chiedono di essere ascoltati e di lasciare da parte il carico ideologico di un confronto che non dovrebbe avere come obiettivo l’affermazione di un principio o la rivendicazione di diritti – che loro non si sognano neppure di contestare – ma solo il bene delle ragazze e dei ragazzi.

La maggioranza di ragazze disforiche di cui parlano i genitori di “GenerAzioneD” – dove “D” sta per disforia – sono tutte giovanissime, tutte confuse da una serie di sollecitazioni stereotipate secondo cui ogni disagio con il proprio corpo femminile si risolverebbe passando al maschile. E lo stesso accade per i ragazzi.

Non è così naturalmente. Eppure succede, perché il clima culturale in cui siamo immersi non solo ha declassato a scelta ordinaria la cosiddetta “transizione sociale” – dichiararsi maschio se si è femmine e viceversa – ma ha accolto come via privilegiata per risolvere il disagio dei ragazzi il ricorso a ormoni, farmaci e intervento chirurgico. Approdo che i genitori non escludono. «Non abbiamo nulla contro le persone transessuali, binarie o non binarie, ma lasciamo ai nostri figli il tempo di capire, di comprendere quale sia davvero la loro strada, senza soluzioni già pronte, senza condizionamenti, senza pressioni ideologiche».

Il clima culturale

Oggi il clima culturale, a sentire queste mamme, è pesantemente segnato da un atteggiamento che loro definiscono “affermativo”. Il disagio legato all’identità di genere non può che avere, in questa logica, un solo sbocco. Ma non è così, spiegano, le statistiche ci dicono che almeno in 8 casi su 10 il disagio legato a corpi non allineati con la mente, per quanto riguarda la percezione della sessualità, si risolve durante l’adolescenza. Sempre che nel frattempo, seguendo le indicazioni che piovono loro addosso da tutte le parti, non sia già partito un percorso che prevede tra l’altro visita psicologica, visita con l’endocrinologo, assunzione di ormoni e infine mastectomia. E a questo punto non c’è possibilità di ritorno.

Le mamme con cui parliamo – insieme a un papà – sono tutte informatissime, tutte convinte che le loro figlie siano finite in un tritacarne che ha numerose fonti di alimentazione. Non solo i social, dove ormai si trovano indicazioni dettagliatissime, con tanti influencer “esperti” su tutto quello che occorre fare, subito, senza perdere troppo tempo, quando si comincia a percepire quel tipo di disagio interiore, ma anche la scuola e, purtroppo, la scienza.

L’indifferenza della scuola

Cominciamo dalla scuola. Racconta una mamma che è anche medico: «Ma come è possibile che nell’istituto superiore che frequenta mia figlia i casi di disforia-incongruenza siano raddoppiati da un anno all’altro? Solo nella classe di mia figlia ci sono 7 ragazze che hanno avviato la carriera alias, 3 in un’altra classe, 4 in quell’altra. Forse si è scatenato un contagio per emulazione?». Il problema della carriera alias è citato da molte mamme. Si tratta del regolamento che permette allo studente di farsi chiamare con un nome diverso rispetto a quello registrato alla nascita. Maschile se si è donne, e viceversa. La scuola accetta la decisione e tutto finisce lì.

Regolamenti del genere sono stati già approvati in quasi 200 istituti superiori e in 51 università. «Sembra un particolare trascurabile – spiegano ancora le mamme – ma quello è l’inizio della transizione sociale. Tornare indietro poi è difficilissimo». Anche in assenza di protocolli, alla gran parte degli istituti dà credito ai ragazzi senza informare i genitori. Tutto può avvenire a loro insaputa. E non è previsto neppure un certificato o perlomeno una comunicazione di un medico o di uno psicologo che attesti la presenza di un problema di disforia o l’avvio di un percorso di transizione. Basta la dichiarazione del ragazzo o della ragazza. «Una scelta sbagliata – sostengono le mamme – perché non si vive solo a scuola e in ogni caso sulle spalle dei ragazzi ricade una responsabilità pesantissima che quasi sempre loro non sono in grado di gestire. Sono decisioni molto importanti e dovrebbero essere prese insieme, con il coinvolgimento della famiglia e del medico curante o dello specialista». Su cui però la maggior parte delle mamme esprime riserve pesanti. Vediamo perché.

Psicologi a senso unico

Le storie di queste ragazze sono molto simili. Un malessere che esplode improvvisamente – almeno agli occhi dei genitori – un disagio crescente verso il proprio corpo, la decisione di abbandonare abbigliamento femminile, brillantini e cosmetici per vestire i panni del “maschiaccio”. E fin qui i genitori comprendono e approvano. «La maggior parte delle ragazze, tra i 12 e 15 anni, vive questo disagio, troppo grassa, troppo magra, troppo alta, brufoli, cappelli lunghi, capelli corti. Difficile trovare una ragazzina che viva con serenità il rapporto con il proprio corpo». Ma quando il malessere cresce, arrivano depressione, anoressia, autolesionismo, talvolta propositi di farla finita, allora scatta l’allarme e si finisce dallo psicologo. E qui cominciano i problemi. Nella maggior parte dei casi – qui le mamme sembrano tutte concordi – la prima esperienza è purtroppo negativa. Lo specialista si limita a prendere atto della situazione, consiglia di assecondare i desideri della figlia, spiega che la disforia segue un percorso stabilito, che è inutile contrastare. E fissa gli appuntamenti successivi, compresa la visita con l’endocrinologo che, alla luce di quanto attestato dallo psicologo, si limita a prescrivere gli ormoni del caso. A questo punto il cammino sembra segnato. Anche perché, come detto, dall’altra parte i ragazzi hanno il “conforto” della classe, degli amici, dei social, di un clima che sembra costruito per dire loro: vai avanti, sei sulla strada giusta, tutto si risolverà cambiando sesso. Una soluzione facile che però, argomentano ancora i genitori, non è detto sia quella la migliore per tutte.

Le esperienze

«Dopo quasi un anno di cure ormonali – racconta una mamma – mia figlia continuava a stare male. I problemi non solo non erano scomparsi, ma erano diventati più gravi. Il disagio si era trasformato in psicosi. Lo specialista non sembrava adeguato per fronteggiare la situazione». A questo punto, per tante famiglie, è stato decisivo il passaparola. Psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, per fortuna, non solo tutti uguali. Se tanti sono allineati con il politicamente e scientificamente “corretto”, anche perché le associazioni di categoria spesso esprimono un indirizzo uniforme da cui è difficile derogare, ci sono molti specialisti, spesso di indirizzo cognitivo-comportamentale, capaci di mettere al primo posto il bene dei pazienti, non l’affermazione di diritti espressi a prescindere dalla serenità della persona. «Per le nostre figlie vogliamo solo soltanto una situazione di benessere. E siamo consapevoli che questo benessere può andare in diverse situazioni, transessualità compresa, ma dev’essere una decisione ponderata, presa con calma, senza affrettare i tempi». Oggi, tante famiglie, grazie anche alle informazioni che arrivano da “GenerAzioneD”, hanno incontrato specialisti preparati e prudenti.

Quale via di uscita?

«Ci sono ragazze – riferiscono ancora – che hanno seguito percorsi di psicoterapia mirati, non terapie riparative naturalmente, e hanno cominciato a stare bene. Alcune stanno pian piano superando i problemi legati all’identità di genere, altre si trovano ancora in mezzo al guado e forse sarà proprio questa verifica interiore, attenta e accurata, ad accompagnarle verso l’approdo che darà loro serenità e tranquillità, qualunque esso sia». Nessun pregiudizio, nessuna preclusione – ci tengono a ribadirlo – verso omosessualità e transessualità, ma la volontà di affrontare con cautela e prudenza situazioni delicate che, in nessun caso, hanno soluzioni facili o predefinite. E anche, in alcuni casi, la capacità di fare autocritica. Alcune mamme, per esempio, si interrogano sui modelli femminili, talvolta troppo accentuati, troppo caratterizzati da un alone di sessualità precoce, suggeriti più o meno consapevolmente alle figlie. Altre parlano per le loro figlie di omofobia interiorizzata che le ragazze si sarebbero illuse di risolvere con la volontà di “diventare” maschio. Solo ipotesi, certamente, che confermano però la volontà di tutti questi genitori – e l’associazione si allarga giorno dopo giorno (www.generAzioned.org) – di riflettere insieme, di confrontarsi, di trovare alleanze educative importanti, di non accettare soluzioni preconfezionate e troppo semplici. «Cerchiamo un dibattito serio, informato e consapevole per i nostri figli e per tutti i ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Vogliamo offrire loro la possibilità di crescere, maturare e fare le scelte giuste senza condizionamenti e suggestioni a senso unico».


(Avvenire.it, 26 gennaio 2024)

di Marika Ikonomu


I primi gruppi sono nati negli anni Novanta per mettere in discussione il modello culturale patriarcale. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin l’interesse verso queste realtà è cresciuto. Dal sud al nord.

Se pensata sulle relazioni, la forma del cono ha un significato molto diverso rispetto al cerchio. La prima è verticale e gerarchica. La seconda è orizzontale e paritaria. È con questa immagine che Domenico Matarozzo spiega nel film del 2023 “Nel cerchio degli uomini” la rappresentazione di maschile imposta e il desiderio di creare uno spazio nuovo, e di abbassare il cono per formare un cerchio. Il film prende il nome dal gruppo di autocoscienza maschile di Torino nato nel 1999 che porta lo stesso nome: Il cerchio degli uomini, appunto.

«Avevamo l’interesse di interrogarci sul maschile e sulla gestione del potere nelle relazioni», spiega a Domani Matarozzo. «Abbiamo provato a disegnare – continua – quali sono le forme di mascolinità tossica che andavano riviste nei rapporti tra uomini, con le donne, con i figli e in famiglia».

Lui fa parte della vecchia guardia, della trentina di persone che alla fine degli anni Novanta ha avviato il cerchio di condivisione. Oggi sono circa una cinquantina gli uomini che gravitano attorno al gruppo di Torino.

Autocoscienza o decostruzione

La pratica politica dell’autocoscienza è stata avviata dai collettivi femministi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, come momento di condivisione delle proprie esperienze personali, di scambio intellettuale ed emotivo, di riflessione politica e presa di coscienza sulle relazioni di potere.

Dagli anni Novanta in Italia anche alcuni gruppi di uomini hanno sentito il bisogno di aprirsi a questa pratica per mettere in dubbio la costruzione sociale assegnata, anche se nominandoli diversamente: «Non abbiamo voluto chiamarli gruppi di autocoscienza per non appropriarci di un termine che è proprio del movimento femminista, ma si tratta di partire dalla propria condizione personale, conoscerne la natura politica e farne un terreno di condivisione con altri», spiega Stefano Ciccone, tra i fondatori della rete Maschile plurale e membro del gruppo di Roma.

Uno spazio in cui non ci si giudica, prosegue Ciccone, ma che non si limita all’autoaiuto o al compiacimento, perché «ci si mette in discussione». Si prova a lavorare su un certo tipo di identità di genere, spiega Mattia Scorzini, ventiquattro anni, anche lui del gruppo di Roma, che non significa aiutarsi «a risolvere i problemi personali».

Ma c’è chi preferisce definirlo «un cerchio di decostruzione», precisa Enrico Francone, trentadue anni, che dal 2018 fa parte del Cerchio degli Uomini di Torino: «Autocoscienza significa essere coscienti ma può non portare a nessun cambiamento, mentre la decostruzione porta a ripensarsi».

L’esigenza che porta le persone a creare questi spazi o ad avvicinarsi a gruppi già esistenti è personale ma in comune c’è la volontà di uscire dallo stereotipo maschile. Ed è questo elemento a dare continuità anche ai gruppi storici: «Riconoscere una parzialità maschile, una costruzione sociale da mettere in discussione, contrastare il vittimismo maschile, non porsi in una posizione volontaristica, come amici delle donne, e riconoscere il fatto che esiste un privilegio maschile», racconta Ciccone, sottolineando che questo privilegio produce una miseria nella vita degli uomini.

Questo significa che per molti uomini dover rientrare in un determinato modello non è accettabile: non poter esprimere emozioni, l’imposizione per cui “gli uomini non piangono”, non partecipare al lavoro di cura nella crescita dei figli e nella gestione della casa, non considerarla una responsabilità condivisa, o ancora, dover performare sul piano lavorativo e manifestare in un certo modo la rabbia.

Il Gruppo nonviolento di autocoscienza Maschile di Milano (Gnam) è nato all’inizio degli anni Novanta «per necessità», racconta Roberto Raimondo, tra i fondatori, perché «le donne avevano fatto il loro percorso, quello del femminismo, e gli uomini no. Noi abbiamo cercato di farlo nel nostro piccolo». Riusciamo a esprimere le nostre emozioni? Come agiamo in momenti di crisi? Come possiamo rapportarci in modo davvero paritario con le donne? Queste le domande da cui è partito Gnam, che è sempre stato un gruppo piccolo senza una figura di leader «e questo è fondamentale», aggiunge Raimondo, «perché contraddice lo stereotipo maschile».

In un periodo in cui il berlusconismo aveva oggettificato la figura della donna, «il maschio era considerato vincente», spiega. Negli incontri settimanali o bisettimanali da una decina di persone, i temi portati all’interno del cerchio fin dall’inizio sono quelli della quotidianità, delle relazioni, di come rapportarsi in modo paritario con le donne, della paternità consapevole, di come esprimere le emozioni. O ancora della rabbia, della performatività, della sessualità e della distribuzione del lavoro di cura tra i generi.

I gruppi che Gnam è riuscito a censire nel libro “Maschilità mascherata” sono 17, la maggior parte centro nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana – un gruppo è a Roma e alcuni al sud, in Puglia e Sicilia. Alcuni hanno creato associazioni e svolgono anche attività di formazione, altri invece sono gruppi informali, nati ad esempio all’interno di realtà sociali. Secondo il libro di Gnam in totale i gruppi sono tra i venti e trenta in tutta Italia.

Le nuove generazioni

La differenza di età all’interno di alcuni gruppi è tanta: a Bologna il gruppo va dai 20 ai 70 anni, a Torino dai 28 agli 80 anni circa, a Roma dai 24 ai 70, a Milano tra i 40 e i 60 anni. «Riusciamo a creare dei ponti e a parlare di TikTok come del servizio di leva», racconta Michele che fa parte del gruppo di Maschile Plurale di Bologna da dieci anni. Sottolinea però l’importanza delle parole, che devono essere comprensibili per tutti, e tutte le esperienze devono essere tradotte nei vissuti: ad esempio si parla di figli anche con chi non ne ha.

Da gruppi di uomini eterosessuali che facevano un lavoro sulla violenza di genere, queste realtà si sono poi allargate, anche con l’ingresso delle nuove generazioni e di una componente Lgbtq, «che ha permesso di cambiare l’approccio anche sul corpo maschile», dice Ciccone.

I giovani hanno poi contribuito a introdurre un linguaggio e riferimenti teorici nuovi, come quello della comunità Lgbtq, dell’intersezionalità – l’interazione tra diverse forme di oppressione, legate al genere, alla razza, alla classe – e del non binarismo, non accettare la rigida separazione dei generi maschile e femminile.

La violenza di genere

Portando avanti progetti culturali nelle scuole e lavori con la cittadinanza, il Cerchio degli Uomini ha incontrato la difficoltà di interrogarsi sul tema della violenza maschile sulle donne, «era importante capire quello che noi producevamo e non solamente stare ad ascoltare quello che le donne subivano», continua Domenico Matarozzo. È fondamentale parlare di femminicidi, ma, secondo l’associazione di Torino, occorre anche «lavorare sulla prevenzione e quindi sulle prevaricazioni quotidiane, sulla violenza psicologica, su quello che sta sotto la punta dell’iceberg».

«Quando accade qualcosa, la frase più giusta da dire è “avrei potuto essere io”», sottolinea Francone del gruppo di Torino, perché «il maltrattante non è così distante da quello che è il mio mondo, non solo perché sono maschio».

Il femminicidio è l’apice di una spirale che è fatta di catcalling – molestie che le donne ricevono per strada, soprattutto verbali – violenza psicologica, economica, stalking, possesso, lesioni o minacce, spesso non semplici da intercettare e insiti nei modelli culturali imposti, basati su dominio e potere. Strutture messe in dubbio dagli uomini che partecipano a questi gruppi: «Per quanto uomini consapevoli, dobbiamo mettere in discussione il nostro ruolo e quello che noi stessi riproduciamo», precisa Michele di Maschile Plurale Bologna.

L’attenzione mediatica

Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin c’è stato un cambio radicale nella narrazione pubblica della violenza di genere, anche per la posizione presa dalla famiglia, che ha trasformato un dolore privato in rabbia collettiva, mettendo in luce la responsabilità di tutti gli uomini e le mancate tutele da parte delle istituzioni. 

«Nelle ultime settimane ci hanno contattato diverse persone interessate a entrare nel gruppo», dice Scorzini, riferendosi al territorio di Roma. Un’attenzione che è emersa anche a Bologna e Torino. Nel capoluogo emiliano, dal femminicidio di Cecchettin, «hanno iniziato ad arrivare persone che chiedono “io cosa posso fare?”. Casi in cui ne hanno parlato nella coppia e sono stati invitati dalle compagne ad avvicinarsi ai gruppi di autocoscienza», spiega Michele, che ha notato in generale un forte aumento delle richieste nel 2023.

Oltre alle richieste ai gruppi già esistenti, sono nati diversi piccoli gruppi di autocoscienza informali, legati a realtà sociali. L’attenzione mediatica però non sempre rende la complessità del fenomeno. Per Matarozzo da un lato aiuta a parlarne, portando più uomini a farsi domande e a mettersi in discussione. Ma raccontare il fenomeno concentrandosi esclusivamente sulla punta dell’iceberg «mette l’accento solo su un tipo di violenza, senza colpire la radice del problema: tutti quei messaggi di prevaricazione quotidiani che non si vedono ma che creano un sistema di potere», in quasi tutte le relazioni.


(Domani, 26 gennaio 2024, apparso con il titolo Uomini che marciano per le donne: «Decostruiamo il superuomo»)

di Umberto Varischio


Benissimo ha fatto Marina Terragni, in un intervento intitolato Quando l’aborto è una violenza apparso su FeministPost, a mettere ancora una volta in primo piano la responsabilità di noi uomini nella prevenzione di un concepimento e nel caso di un aborto.

La deresponsabilizzazione maschile nei confronti dei mezzi anticoncezionali e nel percorso che segue la libera scelta della donna di abortire può avere diverse cause, ma è una delle ragioni che porta la scienza a non porsi seriamente il problema di anticoncezionali maschili e a sviluppare farmaci come la pillola RU486, che rappresentano uno stimolo alla deresponsabilizzazione stessa.

La RU486 ha contribuito a rafforzare la convinzione che questo farmaco si assuma come un comune antinfiammatorio: così la gravidanza sembra magicamente svanire e noi uomini non veniamo certo responsabilizzati da questa facile scappatoia!

Non meno importante, in particolare per le giovani generazioni, è la scarsa propensione maschile all’utilizzo di profilattici che oltre a rappresentare un anticoncezionale sono anche una prevenzione per quanto riguarda la trasmissione di malattie sessuali.

Nella letteratura su anticoncezionali e interruzione di gravidanza, quella di orientamento antiabortista si inventa sindromi maschili anche per giustificare la deresponsabilizzazione degli uomini. Secondo questi indirizzi per un uomo contribuire al concepimento di un figlio rappresenterebbe il nucleo centrale della virilità, costituendo l’essenza dell’essere veramente uomini. Facendo riferimento a un disturbo chiamato Male Post-abortion Trauma (trauma post-aborto maschile), che causerebbe nell’uomo sofferenza con conseguenti reazioni a catena nella sua psiche sia nella fase di scelta di eventuali anticoncezionali sia in quella post-aborto.

Al contrario di quanto affermato, non è dimostrata alcuna correlazione tra il disagio maschile in questi casi e l’ipotetica sindrome post-aborto descritta dagli attivisti.

Quando si parla di prevenzione del concepimento e di aborto molto spesso gli uomini scompaiono dalla scena: la limitata partecipazione che osserviamo da parte del partner maschile nell’ambito del percorso che segue la libera decisione della donna di abortire (in Italia attestata al 20%, corrispondente a un uomo su cinque) si riscontra anche in altri aspetti della salute riproduttiva, come la decisione sui metodi contraccettivi o la gestione della diagnosi di infertilità.

Quello che però continuo a non trovare in quasi tutti gli interventi pubblici di uomini è un ragionamento che parta dal concepimento e porti a una elaborazione maschile sulla nostra sessualità e sul ruolo di noi maschi nella contraccezione. Se esiste una rimozione e un’assenza, secondo me è proprio questa.

Non posso che fare mio il disagio espresso da Alberto Leiss in un articolo scritto per Il manifesto del 25 ottobre 2022 nei confronti di uomini, magari di orientamento politico di sinistra, che difendono appassionatamente il diritto all’aborto senza mai menzionare la propria responsabilità in caso di gravidanza.

Chi ha la capacità, attraverso il proprio seme, di causare la gravidanza dovrebbe forse interrogarsi sulla propria responsabilità e riflettere su come comportarsi in situazioni in cui non c’è un accordo condiviso sulla prospettiva di avere un figlio o una figlia.


(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2024)

a cura di Bretema e Alessio Grazioli


Scheda della conferenza stampa organizzata a Roma il 25 gennaio 2024 dai Disarmisti esigenti

Le sette “magnifiche” campagne per un’Europa disarmata e in pace con la Natura, fondamentali per aprire un dialogo tra “popolo della pace” e “popolo” tout-court e per inserirsi in un quadro strategico in cui l’Europa possa essere proposta come sogno positivo, capace di estinguere le alleanze militari e di lavorare per la “dedollarizzazione”.

1) No armi, no aiuti militari” nella guerra Ucraina.

2) Comitato per liberare Marwan Barghouti.

3) Cessate il fuoco immediato e l’avvio contestuale di negoziati senza condizioni in Ucraina,

4) No all’aumento delle spese per la difesa (da tagliare subito di un terzo in conformità con la difesa difensiva costituzionale), un’altra difesa difensiva che ripudi la guerra è possibile

5) Object war. Sostegno al diritto all’obiezione di coscienza, alle diverse obiezioni di coscienza, obiezioni ovunque nel mondo.

6) Denuclearizzazione militare e civile. Contrasto dell’inquinamento da attività militare da inserire negli accordi di Parigi sul clima.

7) Cultura della pace nelle scuole e nelle Università contro la militarizzazione in atto della stessa formazione.

In aggiunta, emerse dagli interventi:

1) ricorso al TAR con eccezione di incostituzionalità sui dpcm per le armi al governo ucraino

2) opposizione all’imperialismo linguistico dell’inglese.


(Radio radicale, 25 gennaio 2024. Il video o l’audio completo della conferenza stampa si possono seguire qui: https://www.radioradicale.it/scheda/718783/le-magnifiche-7-campagne-per-uneuropa-che-promuova-la-pace-con-la-natura)

di Rosella Postorino


Nel libro A Woman in Berlin, diario della primavera del 1945 a Berlino, che pubblicò in forma anonima dopo la guerra, Marta Hillers racconta che, in attesa dell’arrivo dei russi, le donne tedesche dicevano, per esorcizzare la minaccia di stupro: meglio un russo addosso che un americano sulla testa. Purtroppo – lo sappiamo – la minaccia divenne realtà; gli stupri di massa dell’Armata Rossa furono probabilmente intorno ai due milioni, ma ai processi di Norimberga quasi non se ne parlò. Ai piani alti degli edifici pericolanti venivano nascoste le vergini, come se a dover essere tutelata fosse la verginità, non il corpo, la dignità di una donna. Una signora teneva la fede nelle mutande per non farsela rubare: tanto, diceva, se arrivano lì non conterà più – come se un matrimonio perdesse validità perché la moglie è stata posseduta da un altro (è di possesso, di proprietà, che si tratta?).

Al ritorno dal fronte, scoprendo ciò che lei e altre donne avevano vissuto (le violenze, ma anche la possibilità di ottenere cibo in una città in macerie, se diventavano l’“amante” fissa di un soldato Ivan), il fidanzato di Marta le definì spudorate come cagne. Pochi giorni dopo ripartì.

Perché non riusciva a provare empatia? Perché gli uomini, e spesso pure le donne, ritengono (anche quando non ne sono consapevoli, anche se non lo dichiarano) che lo stupro implichi una colpevolezza della vittima? Lo penserebbero, della tortura di un prigioniero? Di qualunque altra forma di violenza fisica? È per tutti comprensibile che qualcuno subisca le botte senza reagire, restando inerte pur di salvarsi; invece una donna deve opporsi con ogni forza, rischiando di morire, pur di non essere stuprata. L’ha spiegato bene Alice Sebold in Lucky: «Chi dice che preferirebbe lottare fino alla morte piuttosto che farsi violentare è un idiota […]. Io diventai tutt’uno con quell’uomo. Quell’uomo teneva in mano la mia vita».

C’è qualcosa nella violenza sessuale che impedisce di vedere la vittima come vittima e basta, ed è proprio il sesso. Quella violenza passa per il sesso: qualcosa di misterioso, che attinge ai fantasmi dell’inconscio; soprattutto: qualcosa che, nell’immaginario comune, riguarda il piacere, per questo associarlo all’abuso crea un cortocircuito.

Come Catharine A. MacKinnon – la giurista e filosofa americana che, dopo la guerra in Bosnia, ha ottenuto il riconoscimento internazionale dello stupro come crimine di guerra – io non credo che la violenza sessuale sia separata dal sesso (altrimenti, chiede MacKinnon, perché lui non l’ha semplicemente picchiata?).

Stando ad alcuni antropologi, la frequenza degli stupri in una società si potrebbe prevedere in base alla propensione della stessa a entrare in guerra. Ho letto testimonianze di reduci sul libro Ho paura di me, della psicoanalista Marina Valcarenghi.

«Lo facciamo quasi tutti, non sei obbligato, ma se non lo fai non sei ben visto, anche questo fa parte dello spirito di corpo», dice uno, «raramente si desiderano le donne che si violentano […], si desidera violentare in sé». Il reduce che più mi ha colpito confessa: «Era qualcosa che si fa perché c’è il desiderio, non era la donna, la donna non c’entra, ma lo stupro in sé, come se quello fosse un desiderio che di solito se ne sta nascosto da qualche parte e in guerra viene fuori».

In Stupro, Joanna Bourke ricorda i risultati di un’inchiesta del 1981, in cui un terzo degli studenti di un college ammetteva che avrebbe violentato una donna se fosse stato sicuro di non essere arrestato. Valcarenghi sostiene che la violenza faccia parte del patrimonio istintivo, perché è istintivo cercare di soddisfare un desiderio anche quando è avversato. Il problema non è nel desiderio violento, ma nel «fallimento dell’inibizione», che dovrebbe derivare dal processo educativo, ossia dalla cultura.

Il punto è che la cultura in cui viviamo è sempre stata ambivalente nei confronti della violenza sessuale sulle donne. Secondo MacKinnon non si possono scindere le relazioni di genere dalla loro dimensione sessuale. La dominazione sessuale degli uomini sulle donne struttura il mondo sociale nel suo insieme, e viceversa.

La società patriarcale è fondata su un rapporto di potere e sfruttamento; questo la rende gerarchica, razzista, classista e misogina. Desessualizzare lo stupro offuscherebbe il suo ruolo nella costruzione della gerarchia dei sessi, anziché indebolirlo, come scrisse la filosofa Ann J. Cahill. Se, come MacKinnon, riconosciamo una reciprocità tra la sessualità e l’organizzazione sociale, allora crediamo anche che modificare la società possa contribuire a modificare i comportamenti sessuali, i quali sono stati storicamente stabiliti dal maschile: iniziano quando lui ha un’erezione e finiscono quando ha un orgasmo. «Lo vuoi come lo voglio io»: quante di noi se lo sono sentito dire? Davvero gli uomini sono così incapaci di riconoscere la condizione emotiva della donna che hanno davanti? «Quali sono le puttane?» chiese Valcarenghi a un sex offender che in seduta le aveva appena menzionate. «Quelle che mi attizzano». È evidentemente necessaria, in primis, l’educazione relazionale. Ma in generale bisogna rovesciare la subordinazione sociale ed economica delle donne, combattere la loro subalternità come status dato per scontato, ritenuto “naturale”, perché naturale sembra nel sesso la sottomissione femminile. A differenza di quello fra animali, però, il sesso fra persone è sempre un fenomeno culturale. La complessità della sessualità maschile nei confronti delle donne trapela in un’indimenticabile scena de La Storia di Elsa Morante, perché solo la letteratura consente un’intelligenza così profonda delle cose umane, della loro contraddittorietà inestricabile. Prima il soldato della Wehrmacht dice a Ida che vuole «fare amore» in uno «sfogo fanciullesco» – è un ragazzo irrequieto, ingordo, rapace: non è troppo diverso da suo figlio Nino – e poi la violenta con rabbia, «come se volesse assassinarla». Ma dopo l’orgasmo, placato, liberato dalla smania, la riempie di baci sul viso, esplorandola «al centro della sua dolcezza materna».


(la Repubblica, 24 gennaio 2024)

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo


Da più di cento giorni la Striscia di Gaza è sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. Oltre 25mila vittime, il 40% bambini, un terzo donne, molti gli anziani. Un milione e settecentomila persone, l’80% dei gazawi, ha dovuto lasciare casa e vaga in cerca di un riparo dalle bombe in un fazzoletto di terra che va progressivamente ridimensionandosi. La sanità è al collasso con 32 dei 36 ospedali fuori uso: 180 donne che partoriscono ogni giorno senza anestesia né assistenza, numerosi gli interventi e le amputazioni senza farmaci di supporto nei pochi ospedali rimasti, che versano in condizioni disumane. Nel perdurare della crisi umanitaria, con una popolazione tagliata fuori dai rifornimenti essenziali, l’unico tentativo di far cessare il fuoco lo ha compiuto la Repubblica del Sudafrica, intentando una causa di genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Abbiamo chiesto a Suad Amiry, architetta e scrittrice palestinese autrice di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” (Feltrinelli) e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori) che cosa ne pensa della situazione attuale.

Amiry, per i palestinesi la causa di genocidio rappresenta una forma di riconoscimento di un torto cominciato nel 1948. Riconoscimento che non proviene da una democrazia liberale occidentale ma da una giovane democrazia che con Nelson Mandela ha raggiunto la fine dell’apartheid nel 1994. Che cosa significa questo per lei?

Grazie a dio la causa di genocidio non è stata portata alla Corte internazionale di giustizia da una democrazia occidentale: l’Occidente è complice dei crimini di guerra commessi a Gaza. Chi meglio del Sudafrica conosce l’orrore del razzismo, dell’apartheid, della violenza e della distruzione? Chi se non il Sudafrica simboleggia la necessità di porre fine alla supremazia bianca e all’egemonia occidentale? Chi se non Mandela simboleggia la dignità umana e il desiderio di uguaglianza, libertà e giustizia? Chi altri avrebbe potuto difendere con tanta dignità i palestinesi contro lo Stato di apartheid israeliano e chiamarlo con il suo nome? La lotta sudafricana per smantellare uno dei sistemi di apartheid più radicati è sempre stata fonte di ispirazione per i palestinesi. Semmai, il genocidio a cui assistiamo oggi a Gaza è solo un promemoria di dove si posiziona l’Occidente rispetto a Israele e ai suoi crimini.

Non c’è da stupirsi, perché la creazione stessa dello Stato di Israele (che ha portato all’espulsione del popolo palestinese nel 1948) è stata ed è tuttora un progetto coloniale occidentale fallito. Chiedo ai Paesi occidentali: che cosa vi abbiamo fatto noi palestinesi per meritare che ci voltiate le spalle? Che cosa abbiamo fatto al governo italiano, a quello francese, a quello tedesco o a quello britannico per meritare questo? Vi è stato solo chiesto di firmare un appello per il cessate il fuoco per salvare migliaia di civili innocenti e non siete ancora stati in grado di farlo. Vergognatevi. La guerra a Gaza non solo ha messo in luce l’aspetto criminale dell’occupazione israeliana che dura da oltre 76 anni, ma anche l’ipocrisia del mondo occidentale.

Nella sua letteratura la narrazione incrocia diversi periodi storici della vicenda palestinese; in alcuni casi il confronto generazionale avviene nella medesima biografia, eppure per molti sembra che la tragedia delle 1.200 vittime israeliane, così come delle 25.000 vittime palestinesi sia cominciata il 7 ottobre del 2023. Quale causa legale, quale azione morale e quale iniziativa politica pensa debba essere intentata per rendere giustizia ai palestinesi?

La cosa più importante è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto internazionale. I Paesi occidentali devono mettere fine ai loro doppi standard nei confronti di Palestina e Israele. Finché Israele godrà di quest’impunità continuerà la sua occupazione. Come nel caso del Sudafrica, Israele deve essere boicottato e sanzionato dalla comunità internazionale; se non fosse stato per le sanzioni contro i “bianchi” il Sudafrica non sarebbe stato liberato. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero smettere di sostenere a parole la soluzione dei due Stati, questa adesione formale sta dando agli israeliani il via libera per continuare ad accaparrarsi più terre e costruire insediamenti. Come successo con la creazione di Israele nel 1947, l’Onu dovrebbe dichiarare uno Stato palestinese sui confini del 1967 e costringere gli israeliani a ritirarsi. In mancanza di ciò il ciclo di violenza continuerà finché persisteranno l’occupazione, l’assedio di Gaza e la costruzione di insediamenti ebraici. State certi che il desiderio di libertà, uguaglianza e indipendenza non scomparirà mai.

Nessuno accetta che gli vengano tolti la casa, i campi, i villaggi e le città con qualsiasi pretesto ideologico, politico o religioso. I palestinesi vogliono porre fine all’ingiustizia che si è abbattuta su di loro dal giorno in cui Israele è stato creato sulla Palestina. Nessuno vuole vivere come cittadino di seconda o terza classe in un sistema di apartheid con supremazia ebraica, dove gli ebrei hanno più diritti dei palestinesi. È ovvio che i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno scelto di rubare le terre palestinesi piuttosto che fare la pace. È ovvio se si sceglie di costruire insediamenti ebraici e di trasferire 700mila coloni in Cisgiordania e di dare loro terre palestinesi gratuitamente. I coloni israeliani utilizzano il 90% dell’acqua della Cisgiordania, lasciandone il 10% a tre milioni di palestinesi. La guerra contro Gaza ha dimostrato la crudeltà del governo israeliano e i suoi atti criminali contro i civili: la sicurezza dei civili, il cibo, l’acqua, l’elettricità e le medicine vengono usati come armi contro la popolazione di Gaza. Lo sfollamento di due milioni di palestinesi dalle loro case è un altro crimine di guerra collettivo. Abbiamo bisogno di una soluzione politica, che si tratti di uno Stato palestinese indipendente o della fine dell’apartheid e la creazione di uno Stato con uguali diritti per tutti. Chiamatela Repubblica delle banane o Repubblica dell’anguria, non ha importanza.

Lei ha creduto e preso parte al processo di pace e agli Accordi di Oslo, per tre anni ha partecipato alle delegazioni a Washington. Perché quella proposta di pace non ha avuto seguito?

Come il tempo ha dimostrato, nessuno dei governi israeliani ha mai voluto riconoscere il diritto palestinese all’autodeterminazione. In altre parole Israele non è mai stata disposta a pagare il prezzo della pace, la restituzione delle terre che occupa dal 1967: Cisgiordania, Striscia di Gaza e la Gerusalemme araba. Nessuno dei governi israeliani che ha negoziato con i palestinesi per trent’anni (1991-2021) ha mai smesso di costruire insediamenti sulle terre occupate. Il che significa che Israele non ha mai seriamente voluto raggiungere una soluzione pacifica. Dopo Camp David, Israele ha previsto l’autogoverno del popolo ma non della terra, ciò che Netanyahu suggerisce anche oggi.

I palestinesi possono amministrare i propri affari civici, i servizi, ma nessun controllo sulla terra, sull’aria, sulle risorse e sulla sicurezza. Netanyahu continua a dire «Non ci sarà nessuno Stato palestinese. La terra tra il fiume e il mare sarà sotto il dominio israeliano». Noi palestinesi e il mondo dobbiamo affrontare questa dura realtà e agire di conseguenza: senza la pressione della comunità mondiale non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente. E finché gli Stati Uniti e l’Europa considereranno Israele al di sopra della legge, assisteremo solo a ulteriori violenze.


(Altraeconomia, 24 gennaio 2024)

di Donatella Borghesi


E ora che l’Enciclopedia Treccani sceglie “femminicidio” come parola dell’anno appena finito, ora che il film di Paola Cortellesi è tra i più visti nella storia del cinema italiano, ora che la consapevolezza femminile della propria forza propositiva comincia a essere coscienza condivisa, ora che dopo l’emozione seguita alla morte di Giulia Cecchettin gli uomini hanno cominciato a interrogarsi sulla cultura patriarcale o post-patriarcale che dir si voglia, qual è lo stato delle cose del rapporto tra i sessi? “E ora?” è anche il titolo del primo capitolo del saggio appena uscito – politicamente scorretto, lo definisce l’autrice – della filosofa Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore). Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” con il suo libro Sovrane e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Buttarelli si chiede da tempo perché gli uomini non ascoltano, non si interessano al pensiero delle donne. Fermi alla “questione femminile”, ragionano solo in termini di parità, diritti, quote, cooptazione. Di emancipazione, insomma, di integrazione nel sistema, senza rendersi conto che da due secoli le donne chiedono sì uguaglianza e libertà, ma “fanno” anche filosofia, propongono una diversa concezione delle relazioni e della politica, e soprattutto un altro approccio di pensiero, che possa diventare valido per tutti, uomini e donne. «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente del momento?», si chiede Buttarelli. «È il risultato di una misoginia millenaria, che ha svalutato la donna come essere umano pensante, e ha sempre considerato il pensiero maschile come universale».

Quanti docenti di filosofia maschi hanno letto Nonostante Platone di Adriana Cavarero o Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi? Di questa misoginia che esclude le pensatrici dal canone filosofico accademico Buttarelli ne trova conferma anche nell’ultima opera di Massimo Cacciari, Metafisica concreta (edito da Adelphi), che vede la sopravvivenza della filosofia – da tempo in crisi rispetto alla sua funzione – in un legame con l’essere nel momento in cui vive, non l’essere astratto ma “l’essente”. «Peccato che le pensatrici hanno sempre riflettuto proprio sulla metafisica concreta della vita quotidiana: la cura, la ricettività interiore, i sentimenti, l’ascolto sono patrimonio della differenza femminile, un pensiero che parte dall’esperienza e si fonda sulla relazione, ma di questo nel lavoro di Cacciari non c’è riconoscimento», osserva Buttarelli, che nel suo libro affronta il grande tema etico del bene e del male, oggi così sensibile, con pensatrici come Simone Weil e Hannah Arendt, María Zambrano e Carla Lonzi, come la psicoanalista Françoise Dolto o la scrittrice Flannery O’Connor, voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della crisi attuale della civiltà europea-occidentale.

«È venuto il tempo che anche gli uomini si occupino delle opere delle donne: le leggano, le guardino, le studino, ne scrivano». Sono le parole di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, stanca di vedere come a studiare le autrici siano quasi sempre le donne. «Come se per molti uomini di cultura fosse un’impresa da cervello balzano occuparsi delle opere delle autrici, facendo quello che noi invece facciamo da sempre con gli autori». Daniela Brogi fa parte di quella generazione femminile che negli ultimi dieci anni è entrata in gran numero nelle università, nell’editoria, nell’informazione e nelle professioni, una generazione ancora giovane da cui ci si aspetta una rivoluzione culturale segnata dalla loro identità di genere. Nel suo saggio Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) analizza quanto è stato concesso loro nei secoli. Oltre alla violenza primaria che è stata esercitata vietando o svalutando la loro possibilità di occupare da soggetti uno spazio pubblico, si è aggiunta una seconda violenza, la svalutazione della narrativa che racconta gli spazi marginali del loro mondo: «E così raccontare di luoghi domestici, di memorie famigliari, del mondo della madre, dell’autobiografia, di storie d’amore o del corpo, è stata a lungo una scrittura creduta inferiore, se praticata dalle autrici». Oggi, dopo aver man mano conquistato gli interstizi, le smarginature nel sistema maschile, le donne che scrivono e che pensano sono in uno stato di “fuori campo attivo”, per usare un’immagine cinematografica. «Non si tratta più di abbattere il tetto di cristallo, ma anche le pareti», dice ancora Daniela Brogi. «E invece nel sistema universitario domina ancora l’automatismo della cultura patriarcale. Perché il patriarcato non è solo un sistema giuridico ma una postura culturale, una mentalità che riguarda il simbolico, e sopravvive quindi al mutare delle leggi. Anche se le donne sono presenti in università, gli uomini tendono a parlarsi, ascoltarsi e riconoscersi solo tra loro. Per cui quando si cerca un intellettuale per un convegno o un seminario è quasi sempre senza apostrofo…».

Appartiene alla generazione delle quarantenni anche Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca, ora in libreria con La società esiste (Tempi Nuovi). «Quando ho studiato io, ricordo di non aver mai letto un libro scritto da una donna, eppure eravamo alla fine degli anni Novanta… Allora l’unico nome che bucava era quello della Arendt. Oggi con i fondi del Pnrr ci saranno 17 borse di studio per gli studi di genere, che sta gestendo Francesca Recchia Luciani dell’Università di Bari. Partiti prima nelle scienze sociali, gli studi di genere hanno portato un grande cambiamento nel tessuto accademico. Il problema è che questo patrimonio di ricerca realizzato dalle docenti che si mettono in rete, che si sostengono e si scambiano informazioni, non suscita interesse da parte degli uomini. Perché in loro domina ancora il pregiudizio per cui, parlando solo di donne si perde di interesse generale, e loro, le donne, rimangono situate nella loro parzialità. Lo aveva capito bene Simone De Beauvoir, parlando dell’uomo che si considera il Soggetto e vede nella donna l’Altro: la donna non può assurgere a voce universale, perché non riesce a separarsi dalla propria specificità di genere. Molte donne nel passato ci hanno rinunciato per essere considerate alla pari, per non essere sbalzate fuori dai giochi. Il femminismo ha cambiato però le carte. Oggi penso che quello che può venire di buono nella politica verrà dalle donne e che un cambio di passo sta già avvenendo. Non per le qualità essenzialiste dell’essere donna, ma per la maggiore sensibilità a capire i cambiamenti, a captare anche i segnali invisibili. È possibile che ai politologi sfugga che il movimento delle donne è il più grande movimento collettivo e che ha una forza dirompente? Si analizzano i motivi per cui si è rotto l’ordine neoliberista, i populismi di destra e di sinistra, la crisi della democrazia… Ma a nessuno viene in mente di prendere in considerazione nella discussione politica anche il pensiero femminista».

Qualche uomo però ci sta provando a misurarsi con il pensiero delle donne. Tra questi, Riccardo Fanciullacci, quarantacinque anni, docente di Filosofia morale all’Università degli studi di Bergamo. «Oggi non è più così raro trovare corsi dedicati a una pensatrice importante come Hannah Arendt o che discutono le posizioni di Judith Butler o di Martha Nussbaum. Giusto l’anno scorso, ho dedicato le mie lezioni a Iris Murdoch e Simone Weil. Resta però da capire quanto ci si lasci trasformare dal loro pensiero e non ci si limiti a includere nuove figure in uno schema che è sempre lo stesso. Per questo mi torna spesso in mente quando Luisa Muraro ha chiesto se gli accademici siano disposti a imparare da una donna che non sia morta e che dunque non voglia farsi trattare come un monumento. Per imparare da qualcuno bisogna saper dare autorità alla sua parola, ma in questo caso bisogna essere diventati capaci di dare autorità a una donna, e questo vuol dire aver fatto un passo oltre le abitudini e gli schemi patriarcali. Si tratta di una nuova etica, nel senso di un nuovo modo di abitare le relazioni tra i sessi. Ho avuto la fortuna di incontrare il pensiero della differenza sessuale non solo attraverso i libri ma frequentando i luoghi in cui viene elaborato, come il Seminario organizzato ogni autunno all’Università di Verona dalla comunità di Diotima e la Libreria delle donne di Milano. Grazie alle relazioni nate in questi luoghi, ho imparato a non slegare il movimento del pensiero dal riferimento a ciò che ci capita e arriva a toccarci nella vita. E questo lo porto anche nei miei corsi». Fanciullacci ha curato con Stefania Ferrando il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes 2020. Nel dialogo conclusivo, Cigarini sostiene che la politica maschile ha mancato l’appuntamento con il pensiero delle donne e quindi con l’occasione di elaborare in maniera positiva la fine del patriarcato. È d’accordo? «In riferimento alla politica, soprattutto quella istituzionale, direi senz’altro di sì. E davanti alle grandi novità di oggi, a volte mi domando se noi uomini saremo capaci di una risposta all’altezza. Le studentesse chiedono che si parli delle donne in filosofia, in letteratura, nelle scienze, e molti dei loro compagni sono d’accordo: diventa difficile non confrontarsi con queste richieste. E se qualcuno prosegue imperterrito con il vecchio canone, ecco che quelle stesse studentesse danno vita a blog o a riviste. Questa è una bella eredità del movimento delle donne». Di femminismi, però, ce ne sono tanti sulla scena, da Non una di meno alla galassia delle teoriche del gender, al movimento Lgbtq+… «Sì, è vero, ma preferisco non entrare nel dibattito, che ha spesso un forte carattere ideologico. Ho imparato a non farmi catturare dal discorso corrente e cerco di offrire la possibilità di non prendere posizioni preconfezionate. Preferisco portare l’attenzione su alcuni temi: la politica non si riduce a lotta per il potere, o il conflitto alla guerra o il linguaggio a strumento di regolazione e controllo. In questo modo ottengo un risveglio di creatività piuttosto che schieramenti». «Tutto è nato un po’ per caso, tipo tre amici al bar. Ci si diceva: ma vi rendete conto che nei manuali universitari non ci sono donne?». A iniziare il racconto dell’avventura del programma di video-lezioni “Donne e pensiero politico” dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino è il suo responsabile scientifico, il torinese anche lui quarantenne Federico Trocini, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Bergamo. Quando è scoppiato il Covid, in tre si sono messi a lavorare al progetto delle conferenze: oltre a Trocini, Cristina Cassina dell’Università di Pisa e Giuseppe Sciara dell’Università di Bologna. Il risultato, 70 video su YouTube – uno alla settimana – e 100mila visualizzazioni, un successo imprevisto e imprevedibile. «Credo che il progetto abbia funzionato perché abbiamo lavorato molto sul format: stessa grafica, sigla riconoscibile, evitare toni professorali e scegliere lo stile diretto della comunicazione social. E una struttura uguale per tutte e 70 le pensatrici: focus biografico, contesto storico-sociale e infine approfondimento del pensiero politico». La scelta delle protagoniste è stata fatta attraverso le proposte che venivano dalla rete accademica su tutto il territorio nazionale ma anche dalle reti personali, e per i relatori – quasi tutti giovani, in gran parte ragazze – si è puntato sui dottorandi e gli assegnisti. «Il nostro è un programma divulgativo», precisa Trocini, «con un’impostazione chiara: solo pensatrici e non attiviste, non solo occidentali e non solo bianche, e senza guardare al loro schieramento di parte. Abbiamo scelto tra pensatrici di matrice liberale, cattolica, socialista, sfidando la consuetudine di considerare il pensiero femminista coincidente con l’appartenenza a sinistra. E anche che fossero necessariamente femministe: Madame de Staël, per esempio, non ha mai parlato delle donne ma è stata una grande pensatrice politica…». Qualche nome, oltre alle tante già note come Rosa Luxemburg o Carole Pateman: dall’afroamericana Kimberlé Crenshaw, che ha coniato il termine di “intersezionalità”, all’egiziana Nawal El Saadawi. Certo i tre ragazzi al bar non si aspettavano questo successo: dopo pochi mesi il programma è stato acquistato da un editore spagnolo (Altamarea), e in Italia Carocci sta comprando i diritti. Nel 2025 avremo così la prima collana Storia del pensiero politico femminile, con oltre 16 volumi. Seguirà un manuale per Mondadori Università. Chapeau. E segno che una nuova generazione di intellettuali uomini si sta muovendo accanto alle loro compagne di studio e di insegnamento. Forse il cambiamento di passo tanto desiderato è davvero avviato.


(Il Foglio, 22 gennaio 2024)

di Linda Laura Sabbadini


Non siamo l’unico Paese a bassa fecondità. C’è chi sta peggio di noi, come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, ai più bassi livelli al mondo. Non saranno proclami contro l’individualismo, o appelli, anche pop, alle donne a essere madri a cambiare la situazione. La bassa fecondità non può essere affrontata in modo ideologico. La bassa fecondità è l’effetto di politiche tardive e che non hanno puntato sulla centralità dei bisogni delle donne e sul desiderio dei giovani a una vera qualità della vita. È la conseguenza di uno sviluppo non centrato sulle persone.

Il problema si sta estendendo. Ormai circa i due terzi della popolazione mondiale vivono in Paesi al di sotto di 2,1 figli per donna. Non Africa sub-sahariana e Medio Oriente. Corea del Sud, Taiwan e Singapore sono Paesi con un ritmo di crescita e sviluppo elevati ed in poco tempo hanno conosciuto un tracollo della fecondità, proprio a seguito dello sviluppo. Ciò ha comportato cambiamenti culturali profondi, specie nel livello di istruzione, con una crescita della partecipazione femminile al mondo del lavoro, a cui non ha corrisposto un cambiamento della stessa intensità nei rapporti tra uomo e donna e nella cultura del lavoro, con orari di lavoro massacranti e spesso mal pagati. Con molte donne, altamente istruite, costrette a dover scegliere fra la realizzazione sul lavoro ed il fare figli.

Tanto è che la Corea si trova a guidare la classifica nel mondo per bassa fecondità con 0,78 figli per donna.

Anche Taiwan vive una situazione simile. Con la sua presidente donna ha investito su sviluppo dei servizi per la prima infanzia, congedi, assegni, ma con il risultato del raggiungimento di un più alto tasso di occupazione femminile rispetto alla Corea del Sud (80% delle 20-30enni), pur restando ad un tasso basso di fecondità. Lo squilibrio tra l’affermazione delle donne nella sfera pubblica e l’arretratezza del ruolo delle donne nella sfera privata è il nodo segnalato proprio dal dibattito scientifico nel Paese.

E non è esente da questa dinamica il Giappone che ha un numero di figli per donna pari a 1,24, vicino al nostro, ed ha raggiunto il numero più basso di nascite nel 2022 come noi, dopo 12 anni di continuo calo.

Anche lì la divisione dei ruoli in famiglia è rigida, come l’organizzazione del lavoro, ed i servizi scarsi.

La bassa fecondità riguarda anche la Cina, in tutt’altro contesto, dove lo Stato autoritario pretende di passare a suo piacimento dall’imporre prima un solo figlio per coppia e ora due o più, cercando di programmare le donne come macchine da riproduzione. Ma con scarsissimi risultati.

Le nascite, infatti, diminuiscono da sette anni, e non c’è propaganda ad essere brave madri-modello che tenga, né incentivi a fare figli. Pensate, nel 2016 i nati erano 18 milioni, ora sono 9 milioni 600mila, quasi la metà, in seguito alla drastica diminuzione dei primi matrimoni. E la vecchia politica draconiana del figlio unico ha ristretto il numero di donne oggi in età riproduttiva, molto più basso del passato.

La bassa fecondità è arrivata persino in Iran, che ha conosciuto un crollo veloce, il più rapido di tutti: negli anni ’50, 7 figli per donna. Trent’anni dopo, 6,5. Vent’anni ancora dopo, 1,8 figli per donna. Nel 2022 1,7. Ciò preoccupa non poco il regime iraniano, che lo imputa, non a torto, al forte incremento dell’istruzione femminile, e a una nuova consapevolezza delle donne che attraversa il Paese, non solo nelle zone urbane. E che vede le ragazze determinate a perseguire la propria libertà pure su questo piano.

Il fattore D della volontà delle donne di realizzarsi su tutti i piani, libere di scegliere come vivere, con o senza figli, è un nodo cruciale con cui i governi di tutto il mondo devono fare i conti, se vogliono rialzare la bassa fecondità. Non serve una singola misura.

Servono un cambiamento di modello di sviluppo e politiche stabili nel tempo. Serve un investimento finanziario serio sullo sviluppo dei servizi per la prima infanzia e per l’assistenza di anziani e disabili, tempo pieno a scuola, congedi di paternità paritari, congedi parentali retribuiti adeguatamente, cambiamento dell’organizzazione del lavoro, investimenti permanenti per combattere gli stereotipi di genere.

Serve sostegno economico e dare ai giovani una speranza di vita migliore, dignitosa e libera, senza che qualcuno prescriva quanti figli fare, e come vivere, ma creando le condizioni perché abbiano i figli e la vita che desiderano. Più tardi i governi lo capiranno, più ne pagheranno le conseguenze.


(la Repubblica, lunedì 22 gennaio 2024)

di Maria Elena Viggiano


Dopo la perdita improvvisa del marito, Umabathi viveva con i tre figli nel villaggio di Manuvakottai, nel cuore del Tamil Nadu in India. Apparteneva alla casta degli intoccabili (dalit) e non riusciva a mantenerli. Tutto è cambiato quando ha ricevuto in dono una capra tramite i Toolkit di Interlife, un modello di sviluppo economico che nasce per creare opportunità di lavoro in contesti di estrema povertà. Umabathi ha avviato la sua attività e ha passato il testimone del Toolkit a Single Mary, appartenente a una casta superiore, che poi ha offerto il suo supporto a Josephine Kulanda, di un’altra casta ancora.

Si è innescata così una catena di solidarietà tra donne. «È inusuale questo passaggio tra caste ma è emerso in modo spontaneo, un esempio straordinario», racconta Giorgia Gambini, presidente di Interlife Onlus, un’organizzazione di cooperazione internazionale che dal 2008 opera in Africa e Asia per contribuire a ridurre la povertà, promuovere la sicurezza alimentare, offrire opportunità formative e lavorative.

Jayaseeli Mary invece viveva in un appartamento piccolissimo senza servizi igienici con le sue tre bambine. Il marito, non riuscendo a pagare i debiti, si era tolto la vita davanti alla sua famiglia. Con il Toolkit Sartoria, Jayaseeli Mary ha ricevuto la formazione e una macchina da cucire per avviare la sua attività mentre con il «Sostegno a distanza a 360°» la prima figlia Sara ha iniziato a frequentare la scuola. «Ho visto i suoi disegni bellissimi – dice Gambini che ha raccolto direttamente la testimonianza -. Intanto la madre è riuscita a pagare i debiti, mi ha colpito la grande voglia di riscatto». La stessa di una donna con un figlio con disabilità che, dopo aver avviato un allevamento di capre, è stata considerata dalla comunità «autonoma e indipendente riuscendo a superare anche il tabù legato alla disabilità».

A differenza del microcredito basato su un prestito economico, il Toolkit Interlife offre formazione, materie prime e strumenti necessari per avviare un’attività imprenditoriale, commerciale o produttiva. Dopo 12 o 24 mesi dall’avvio dell’attività, con i proventi il beneficiario di prima generazione sostiene la formazione di un altro beneficiario innescando così «una serie di processi scalabili e replicabili». Partito nel 2012 in India dove sono state avviate oltre 600 attività, questo modello di sviluppo dal 2018 è presente anche in Africa con più di 4 mila attività e il coinvolgimento della quinta generazione di beneficiari.

«In questo modo è possibile prevenire anche le migrazioni verso altri Paesi – sottolinea Gambini -. Prima di avviare un progetto vengono fatti studi di fattibilità e i beneficiari devono rispondere a specifici requisiti, di solito sono persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. In India il tessuto sociale prevede dei self-help group costituiti da donne che segnalano situazioni critiche o di sfruttamento».

Per Gambini, «bastano poche centinaia di euro per trasformare queste persone in imprenditori. Il nostro obiettivo ora è avere più fondi e interlocutori a livello governativo, un’opportunità potrebbe essere partecipare al Piano Mattei (il progetto del governo per l’aiuto ai Paesi africani, ndr)». Inoltre il modello Toolkit ha obiettivi di sostenibilità poiché valorizza le risorse naturali, favorisce la riscoperta di pratiche locali e la riforestazione di aree sub-sahariane a rischio di desertificazione.


(Corriere della Sera, la 27esima ora, 22 gennaio 2024)

di Michelina Borsari


Rilettura di un titolo, “Sputiamo su Hegel”, ora dalla Tartaruga, in cui lo sdegno di rivolta trascina concetti e consuetudini davanti al tribunale della condizione asservita delle donne


Nella presa di parola di Carla Lonzi – anno 1970 – si concentra una carica sovversiva che il tempo pare non logorare, e i suoi primi scritti restano portatori di un pathos di rivolta che non solo li conferma come innesco originale e dirompente del femminismo italiano, ma ne proietta la potenza critica dentro lo stato presente del patriarcato.

A calco della raccolta del 1974, curata dalla stessa Lonzi nei libretti verdi di «Rivolta Femminile», e come prima tappa dell’opera omnia, La Tartaruga – ora nel catalogo della Nave di Teseo – ripubblica Sputiamo su Hegel e altri scritti, a cura di Annarosa Buttarelli (pp. 144, € 16,00).

Deliberatamente privi di commento critico – «che spegnerebbe la loro forza travolgente» – i testi della raccolta sfidano la possibilità di una ricezione apatica, si tratti di lettura o rilettura: la loro speciale eloquenza porta il marchio di un’autenticità che cattura, quasi fossero scritti performativi, che rendono fattuale ciò che nominano.

Sulla pagina, si presentano composti da periodi brevi e folgoranti, distanziati come le strofe poetiche da stacchi silenziosi in cui il pensiero prende fiato, e sterzate inattese verso imprevisti «punti di coscienza». Non procedono, in altri termini, secondo l’andamento argomentativo di un sapere oggettivante e universale, e neppure secondo quello narrativo che racconta storie personali immediatamente vissute. Esito di rivelazione e di rivolta – «Il problema femminile mette in questione tutto l’operato e il pensato dell’uomo assoluto, dell’uomo che non aveva coscienza della donna come di un essere umano alla sua stessa stregua» – le affermazioni di Carla Lonzi hanno un registro diretto e affermativo, privo di vaghezze, in cui resta l’eco del gran lavoro di sottrazione e di sgombero servito a modellare la sua lingua come appena nata, idioma di un paese che parla da fuori.

Da una simile riva extraterritoriale, l’oggettività ricompare come un’impostura che ha mutilato la metà della terra. Una delusione cocente accompagna in particolare la consapevolezza che la cultura maschile, in ogni suo aspetto, ha teorizzato l’inferiorità della donna: «Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto, noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero» che hanno «giustificato nella metafisica, ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna».

In un titolo che ha fatto, e fa, scandalo – Sputiamo su Hegel – prende corpo linguistico uno sdegno di rivolta che agguanta i concetti alla nuca e li trascina davanti al tribunale della condizione asservita della donna: al principio femminino «mancano le premesse per scindersi dall’ethos della famiglia», la dialettica servo-padrone – figura chiave del corso storico – si rivela «una regolazione di conti tra collettivi di uomini»; l’inversione tra causa ed effetto, natura e storia, riattiva il millenario dispositivo patriarcale.

Hegel non è che una sagoma, dietro la quale subito si stagliano quelle di Marx e di Engels, di Lenin e della lotta di classe: «Le donne hanno coscienza del legame politico che esiste tra l’ideologia marxista-leninista e le loro sofferenze, bisogni e aspirazioni. Ma non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione». L’oppressione della donna è il risultato di una eredità millenaria, che il capitalismo non ha dunque prodotto bensì fatto propria, e non riconoscerlo impedisce al materialismo storico di risalire all’archetipo della «patologia possessiva» che vede la donna come preda sessuale.  

I responsabili – ai quali si aggiungono Freud e Reich, altri «rinnovatori patriarcali» – vengono smascherati sul loro terreno, ma soprattutto messi fuori gioco da un passo laterale che non attende superamenti dialettici e celebra una concezione aperta della storia: «Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che eccezionale».

Gli scatti e gli scarti della scrittura di Lonzi sono alfieri di questa apertura, accolgono l’inatteso e l’inaudito, la libera insubordinazione agli schemi pregiudicati e «l’affinità caratteriale che troviamo con gli artisti».

Vi si avverte una certa fierezza giovanile e la carica erotica che proviene dall’assunzione del piacere femminile come punto di rivolta. «Ci preme moltissimo che venga salvaguardato nella donna quello scatto straordinario di baldanza emotiva che fa parte del periodo vitale della giovinezza e con cui gli individui gettano le basi della creatività che darà l’impronta alla loro vita».

Si comprende così che il vero imprevisto, il tesoro inimmaginato e impensato, è il soggetto che parla in questa scrittura, la donna: né ricompresa in un genere umano che mistifica la differenza sessuale, né impegnata a eguagliare il suo oppressore sulla strada dell’emancipazione.

Come si attiva questo soggetto radicale e sovversivo, grazie al quale «potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita»?

La sua postura imprevista è resa possibile dal riconoscimento di altre donne all’interno dei gruppi di autocoscienza femminile, dove autocoscienza non nomina la stazione mediana dello schema dialettico di Hegel, ma la pratica di relazioni vissute in piccoli gruppi separatisti – «Trattiamo solo con donne» – che hanno preso congedo dalla politica come mobilitazione e lotta organizzata di massa.

Non a caso la raccolta apre con il Manifesto di Rivolta Femminile, e chiude con Il significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, a firma collettiva.


(Il manifesto, Alias edizione del 21 gennaio 2024)

di Annarosa Buttarelli*


Circola da qualche tempo un appello che richiede firme a sostegno della denuncia di “femminicidio di massa” avvenuto il 7 ottobre scorso ad opera di Hamas, in Israele. Ci mancava anche questo appello tra gli altri che stanno dilaniando l’ormai variegata frammentazione interna al femminismo italiano. Ci sono donne, come quelle firmatarie dell’appello che, senza se e senza ma, sostengono, anche senza intenzione precisa, la causa complessiva dello Stato israeliano. Ci sono donne che ricusano l’appello perché non cita anche le stragi di donne e di bambini in quel che rimane della Palestina, ma soprattutto queste stesse fanno opposizione all’appello perché usa la formulazione “femminicidio” per le donne vittime nel kibbutz. Dobbiamo parlarne, sia perché esiste una posizione diversa dalle due descritte, sia perché si tratta non solo di definire meglio quello che è accaduto, ma perché è esatta la parola “femminicidio”, in ogni caso.

Questa intensa parola si è diffusa in Europa soltanto a partire dai primi anni del XXI secolo grazie da un lato alla divulgazione a livello mondiale dei gravi fatti di Ciudad Juárez, la città messicana divenuta dal 1993 teatro di innumerevoli sparizioni e uccisioni di donne, e dallaltro grazie alle lotte e alle proteste dei movimenti femministi, specialmente di quelli latino-americani, contro queste pratiche. Femminicidio è poi stato accolto in Europa come la parola adatta a indicare luccisione di donne in quanto donne. Una parola nuova per un crimine millenario orrendo. Per questo motivo sostengo la pertinenza di questa parola anche al disprezzo dei corpi femminili, alle mutilazioni, agli stupri a cui segue molto spesso l’uccisione di una donna in quanto donna, anche in guerra. Per questo motivo i femminicidi, pure se rientrano nella cornice oscena di una guerra, non possono essere mescolati, confusi, sovrapposti agli omicidi, alle stragi generali, agli infanticidi, all’uccisione di donne che si trovano sotto le bombe nel luogo della strage generale. Non si può nemmeno definire quello che è accaduto nel kibbutz israeliano o a quello che è seguito sul corpo delle donne ebree uccise come “femminicidio di massa” perché non lo è stato, e perché è stato progettato per un’area determinata. Questo esercizio di discernimento è legittimo e utile perché può portarci ad un altro esercizio necessario: quello della memoria.

Da che c’è un mondo conosciuto attraverso varietà di fonti, lo stupro e l’uccisione delle donne in quanto donne è sempre stato una delle prassi ordinarie del modo maschile di fare la guerra. Quella donna che, il 7 ottobre, urla e invoca aiuto dal mezzo di trasporto dei guerriglieri di Hamas non ha forse rievocato il rapimento di donne più famoso: il ratto delle Sabine? E che trattamento pensiamo sia stato fatto alle Sabine dopo il ratto? Lo stupro di guerra (dall’Oriente all’Occidente) è una pratica consueta dei conflitti armati da sempre, programmata come nessun’altra azione militare. La storica Joanna Bourke nel libro, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza) scrive che sempre gli stupri degli eserciti sono stati incoraggiati, legittimati o tollerati da precisi ordini militari impartiti dai comandi o da permessi dei superiori. Questo ci obbliga a diffondere con tutti i mezzi la consapevolezza che lo stupro durante le guerre non può e non deve essere considerato come inevitabile, quasi fosse un corollario automatico nel rapporto con chi è considerato un nemico. E, aggiungo, occorre rilanciare nel dibattito l’esistenza della “questione maschile” che perdura nel presente, evitando di inserire lo stupro e l’uccisione di donne nel mucchio indistinto delle violenze sui civili, prescindendo dal preciso obiettivo presente in ogni guerra. Sarebbe un errore di pensiero. Allo stesso modo sottolineo che, da parte mia, non è un errore unire stupro e uccisione di donne, perché chi tra noi se la sentirebbe di estrapolare lo stupro dal femminicidio quando esperiamo ogni giorno l’unità psicofisica nel momento in cui si subisce violenza? Femminicidio è un esatto nome nuovo per un orrore millenario.


(“Lo Specchio” de La Stampa, 21 gennaio 2024)


(*) Buttarelli, Direttrice Scientifica della Scuola di Alta Formazione Donne di Governo

di Marco Ferrante


L’edizione originale in tedesco e francese prevedeva 101 oggetti per raccontare una storia delle donne. L’edizione italiana (Annabelle Hirsch, Una storia delle donne in 100 oggetti, Corbaccio, pp.416) si ferma a 100, l’unesimo – se potessimo decidere noi lettori italiani alla fine di quest’anno che ha segnato una accelerazione della consapevolezza di donne e uomini sulla condizione dei loro reciproci rapporti – potrebbe essere il libro illustrato trovato accanto al corpo senza vita di Giulia Cecchettin, la giovane donna uccisa per una assurda epperò ancora ordinaria negazione della libertà da parte di un uomo. La libertà e la difesa della libertà delle donne è uno dei principali argomenti di questo libro. In una presentazione romana Annabelle Hirsch insieme alla scrittrice Ilaria Gaspari ha scelto alcuni oggetti per spiegare il senso del libro. Il primo: lo spillone da cappello in voga nei primi anni del ’900 per fissare i grandi copricapo alla moda alle sottostanti acconciature femminili. Lo spillone divenne un oggetto di autodifesa nella doppia transizione delle donne lavoratrici e dei mezzi di trasporto pubblici. Il 28 maggio del 1903 – scrive Hirsch – Leoti Blaker del Kansas salì su un autobus molto affollato sulla Fifth Avenue di New York e dopo pochi minuti, per difendersi dalle molestie di un passeggero gli piantò il suo spillone da otto centimetri nel braccio. Fu trattata come un’eroina. E così per qualche tempo le sue emulatrici. Ma dopo alcuni anni, all’inizio degli anni ’10, in America, Francia e Germania vennero approvate nuove norme per limitare le dimensioni degli spilloni. Nella coscienza pubblica – generata ed elaborata dai maschi – le vittime erano diventate aggressori.

In una sequenza serrata – contemporaneamente informativa e letteraria (cosa alla quale, almeno qui da noi, non siamo più abituati nella innaturale separazione tra forme di scrittura che non dialogano più tra loro) – Hirsch definisce due ambiti di racconto e di riflessione. C’è una storia dell’indipendenza femminile quasi autonoma rispetto alle spinte della componente maschile dell’universo. E poi una storia della lotta trai sessi: il conflitto feroce per stabilire equilibri in costante cambiamento determinati dalla Storia Maggiore, dalla Tecnologia, dal Progresso (e Regresso), dalla Democrazia.

Le due storie si intrecciano e si rincorrono. Ogni oggetto può servire alla prima o alla seconda o a entrambe. È un percorso che sceglierà il lettore. Qui si parte da un oggetto molto emblematico della lotta tra i sessi, un settecentesco piccolo gruppo in porcellana di Gottlieb Glück, intitolato La buona madre. È un genere di soprammobile borghese, una madre e tre figli, il più piccolo in allattamento. Per Jean-Jacques Rousseau la madre dedicata principalmente alla cura diretta dei figli è l’unico modello di madre. E la donna che allatta è perfettissima. Hirsch spiega come in quegli anni, in pieno Illuminismo, nasce l’immagine «tuttora ancora molto diffusa in diverse parti del mondo, della buona madre contrapposta alla cattiva madre», uno stereotipo di controllo costruito dall’uomo. È un lungo cammino sociale che si svolge lungo il libro e approda, per esempio, quasi duecento pagine più avanti alla copertina di Il Piacere di vivere da sola, una specie di guida o manuale per donne single, successo editoriale del 1936 di Marjorie Hillis, all’epoca quarantasettenne redattrice di Vogue. Basta principi azzurri e relative angoscianti attese, si può stare da sole. Per Hirsch, Marjorie Hillis è sostanzialmente la progenitrice di Sex and the city, per quanto in Il piacere di vivere da sola non si parli in modo esplicito di sesso. Vi si allude solo nel capitolo dedicato ai piaceri del letto singolo. Ottanta anni dopo Hillis, Hirsch invece affronta la questione della sessualità, perché è insieme al Lavoro uno dei punti più delicati degli equilibri avanzati, nella relazione tra autonomie di genere che si fronteggiano. I maschi antimodernisti a cavallo dei due secoli trascorsi asseriscono che alcune nuove invenzioni che rafforzano l’indipendenza femminile come la bicicletta e la macchina da cucire siano sessualmente eccitanti a causa del movimento continuo. Nel Novecento molti simboli dell’identità femminile da Chanel n.5, al rasoio per le ascelle al rossetto investono contemporaneamente la sfera dei consumi e quella della sessualità in un balletto contraddittorio che non ci è ancora completamente chiaro. Una strana combinazione di vecchio e nuovo che nei macchinosi tempi attuali complica la vita degli adolescenti – ragazze e ragazzi – ai primi passi nel gioco della seduzione. Alcuni oggetti descritti nel libro affrontano direttamente il tema, un dildo in vetro del XVI secolo e il VHS di Gola profonda (1972) con l’ingresso della fellatio nell’immaginario pop occidentale e relative conseguenze.

Naturalmente c’è anche molta, moltissima politica. Il manifesto delle 343 donne francesi che nel 1971 rendono pubblico il loro aborto e il poster con la faccia di Golda Meir e la frase in basso: ma sa battere a macchina? Golda Meir è un archetipo. Per Margaret Thatcher è lei l’esempio di capo politico femminile, da lei nasce tutto. È una fondatrice dello Stato d’Israele, la donna della raccolta fondi del 1948 si fa ritrarre con la borsetta al braccio. Dopo lo choc iniziale di Yom Kippur ferma l’esercito israeliano alle porte del Cairo, fondamento necessario della pace del 1979. Hirsch racconta un bellissimo aneddoto. Conferenza stampa congiunta con Richard Nixon, lei accavalla le gambe, accende una sigaretta (GM fuma anche in Munich di Steven Spielberg) e dice: allora, cosa pensa di fare riguardo agli aeroplani di cui ha bisogno Israele? C’è in lei un elemento tipicamente femminile, va fatto quel che è necessario fare, spingere il bottone in ascensore perché – spiega Golda – nessun altro lo fa in quel momento (cit. Antonio Funiciello, Leader per forza, Rizzoli 2023). La questione a volte non è così semplice. E il potere femminile si confronta con quello maschile non tanto nella pretesa diversità nell’esercitarlo, ammesso che ci sia una simile diversità, ma quasi per la fonte da cui origina e cioè il mondo a misura d’uomo. La statua di Hatshepsut racconta la storia della figlia di Thutmose I che per complicate questioni dinastiche resse il regno d’Egitto per vent’anni nella seconda metà del 1500 avanti Cristo. Fu donna e uomo contemporaneamente, la statua la rappresenta come donna (il seno) e come uomo (la testa e il copricapo) e fu un/una Faraone importante. Per riferirsi a lei si usavano elaborate combinazioni di genere “sua maestà la regina sovrano” che ricordano l’attuale dibattito italiano su come rivolgersi al/alla presidente del Consiglio. La memoria di Hatshepsut fu cancellata forse perché era un esempio di cui gli uomini avevano paura. 

La storia del potere femminile è accidentata, diseguale, procede per strappi. Questo – da questa prospettiva – è il succo del libro. Anna Morandi Mazzolini fu un’anatonoma settecentesca bolognese, una delle prime scienziate della modernità. Insieme al marito introdusse la tecnica della ceroplastica per lo studio del corpo umano. Realizzò un celebre autoritratto nella sua specialità: un busto di cera, lei in taffetà rosa, collana di perle, acconciatura d’ordinanza, ma con uno scalpello e una pinza tra le mani e in grembo un cranio appena dissezionato, il cervello in vista. Il busto fu un atto affermativo della sua identità. Una storia emblematica già ai suoi tempi. Caterina la Grande, la modernizzatrice che studiava Beccaria e Montesquieu, ne teneva una miniatura nel suo appartamento nella formidabile reggia di Peterhof e a chi le chiedeva chi fosse rispondeva: mia nonna. Quel cervello così in vista assumeva un altro significato e diventava un monito spiritoso della crudeltà.

Politico è il più emblematico dei racconti di questo libro. Una fotografia di Robert Capa scattata nell’agosto del 1944. Il titolo, La donna rasata di Chartres. Una delle migliaia di collaborazioniste francesi (oltre 20.000 si stima) cui dopo la liberazione furono tagliati i capelli a zero, sottoposte a linciaggio ed espulse dai centri d’origine. La ragazza della foto si chiamava Simone Toseau, aveva ventitré anni, aveva avuto una bambina da un soldato tedesco durante l’occupazione. Quando la foto viene scattata, Simone ha la bambina di tre mesi in braccio. È rasata a zero, semicircondata da un gruppo di uomini e donne che minacciosi la accompagnano fuori dalla cittadina di Chartres. «Punire le donne era un modo per ricostruire la mascolinità scalfita: ecco perché la resistenza doveva avere il viso di un uomo, mentre la collaborazione con i nazisti il volto di una donna». La questione femminile e l’antifemminismo durante la resistenza e dopo la guerra è un tema molto delicato in molti paesi d’Europa (sulla parte relativa al nostro paese vedi il recentissimo Uomini contro la lunga marcia dellantifemminismo italiano, Mirella Serri, Longanesi 2023). Ma la foto di Chartres è terribile anche perché quasi controintuitiva. Anche di fronte ai torti della storia, c’è un trattamento diseguale, spiega Hirsch. Nel momento dell’attribuzione della colpa, gli uomini fucilati dietro i muri, le donne umiliate pubblicamente.

Non tutto è un dramma in quello che leggerete, il tono del resto è volutamente privo di effetti – a tratti quasi conviviale – anche nelle storie più cruente. E a questo proposito un’ultima nota. C’è in generale un’atmosfera molto seduttiva per il lettore, che viene dalla combinazione dell’elenco come idea – una lista di 100 – e dal gusto della selezione: 100 cose, artefatti, oggetti da vedere, toccare, sentire. Francesca Rigotti (Il domenicale del Sole 24ore del 10 dicembre) ha scritto che l’idea di una storia in cento oggetti è la base di un fantastico libro di Neil MacGregor sulla storia del mondo. (Qui si autodenuncia nell’elenco di MacGregor una preferenza per la meravigliosa storia di un piatto prodotto dalla russa manifattura imperiale di porcellana qualche mese prima del 1917 e decorato con simboli costruttivisti dalla sovietica manifattura di porcellana qualche mese dopo il 1917). Sì, l’idea dei 100 oggetti è ormai quasi un fattore aritmetico permanente, MacGregor continuerà a influenzarci. Però Hirsch ha raccontato che per vocazione lei è un’appassionata di marginalità e di fatti minori. Con lo stesso ritmo naturale scandito dalla sua intelligenza di analista della realtà avrebbe potuto selezionare altri 100 o 200 oggetti, e ha detto che il libro avrebbe potuto essere “Una storia delle donne in 300 oggetti”. Gli elenchi vivono in se stessi e le singole cose anche. La sacca di Ashley, la Récamier (chi non vorrebbe dare il suo nome a un mobile?), la Remington, il bikini, la copertina di Sur – l’iconica rivista di Victoria Ocampo – l’autoritratto di Sarah Goodridge, il gioco di Hnefatafl e l’arazzo di Bayeux. Tutto di corsa. Buona lettura. Annabelle Hirsch fa riflettere.


(Doppiozero, 20 gennaio 2024)

di Franca Fortunato


Ci sono ricordi che a un certo punto della propria vita bussano alla memoria e chiedono di essere raccontati per lasciare testimonianza. È quello che fa Dacia Maraini col suo ultimo libro Vita mia – Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, edito Rizzoli. Memorie di un pezzo della sua vita, scritte a «una età in cui il cuore diventa un cimitero» per le tante persone care che non ci sono più. Torna alla bambina di sette anni che insieme al padre, Fosco, alla madre, Topazia, e alle sorelle minori, Yuri e Toni, venne rinchiusa in un campo di concentramento per antifascisti italiani, considerati “traditori della patria”. I genitori, infatti, si erano rifiutati di firmare e giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e al governo nazifascista. Nonno Antonio aveva cacciato di casa Fosco per aver rifiutato la tessera del fascio. Ricorda con nostalgia gli anni sereni prima del campo e l’amata tata, che «nel suo cantilenare giapponese» insegnava alle sorelline stornelli, ninne nanne, filastrocche e raccontava le più belle favole della tradizione giapponese. Un’infanzia interrotta nel campo di concentramento, nelle baracche, dove torna con la memoria per raccontare il dolore, le sofferenze, la paura, le privazioni, il freddo, la fame e le malattie che li «consumavano». Di notte per tenersi caldi e consolarsi dormivano abbracciati e lei, quando non sopportava i crampi della fame, mangiava le formiche. Al centro del racconto c’è l’opera della madre, di sua madre, divenuta la sarta del campo. Cuciva per distrarsi, per non pensare, cuciva per la comunità, anche per le guardie per avere un po’ di riso in più da dare alle sue figlie. Cuciva nonostante il dolore continuo alle gambe e gli edemi che le gonfiavano le caviglie e i polpacci, nonostante le macchie che offuscavano lo sguardo. E intanto cuciva e rammendava legami, sentimenti, relazioni e si faceva carico della serenità delle figlie. «Raccontava del pane ancora caldo, “un profumo da re” diceva e io tiravo su col naso e chiudevo gli occhi per immaginare quell’odore. “Lo senti l’odore che sale dalla crosta appena uscita dal forno?” Ma io faticavo a immaginare il suo pane. Il pane lo conoscevo poco essendo arrivata in Giappone ad appena due anni». Aveva una bella voce, come sua madre, nonna Sonia, e insegnava alla figlia le canzoni siciliane, mentre il padre intonava canzoni montanare. Per farle addormentare cantava loro l’aria del coro muto della Butterfly. A Natale del ’43 costruì delle bambole con gli stracci, realizzò dei teatrini col cartone e addobbò l’albero di ciliegio del cortile. «Le bambine erano felici». La sera della vigilia cantarono tutti. Lei, unica donna, cercava di mettere pace tra i compagni di prigionia che nel suo diario, che tenne fino a quando durò il «moncone di matita», paragona a dei bambini capricciosi che bisticciavano per un nonnulla. Partecipava alle infinite discussioni degli internati continuando a lavorare al cucito. Ogni tanto interveniva per mettere pace oppure diceva la sua. Ascoltava le poesie del marito, poi le nascondeva nella pancia dello spelacchiato orsacchiotto che «passava le notti tra le braccia della piccola Yuri». Arrivò la fine della guerra, la tragedia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la resa del Giappone. Era tutto finito, volevano dimenticare. Tornano in Italia, a Bagheria, a casa della nonna paterna, nonna Yoi, la viaggiatrice e scrittrice. Erano ancora poveri ma felici per la ritrovata libertà e a casa della nonna nella sua ricca biblioteca la scrittrice scopre un’altra fame, quella dei libri. L’esperienza del campo non le impedisce di amare il Giappone e i giapponesi, per aver conosciuto allora la gentilezza, generosità e solidarietà della gente comune.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 20 gennaio 2024)

di Stefano Ciccone – Associazione Maschile Plurale


È trascorso più di un mese dal funerale di Giulia Cecchettin. In quell’occasione le parole del padre Gino e la presenza di migliaia di persone hanno segnato un cambiamento nella percezione pubblica della violenza maschile contro le donne. Nel frattempo, altre donne sono state uccise dal marito o dall’ex compagno, altre ferite gravemente, sfigurate, minacciate.

L’emozione, la rabbia, l’indignazione che hanno attraversato il paese non hanno fermato, e sarebbe stato ingenuo aspettarselo, la violenza contro le donne, nemmeno per pochi giorni. L’indignazione è una risorsa importante, se non si limita all’emozione estemporanea e produce un’assunzione di responsabilità. La condanna urlata rischia soprattutto di allontanare da sé il problema, di ridurlo a una patologia estranea alla nostra realtà, da delegare alle forze dell’ordine: mettere in galera gli autori e, soddisfatti, tornare alla propria normalità.

Più volte, in passato, l’indignazione per la violenza è stata strumentalizzata per alimentare politiche xenofobe e securitarie che nulla avevano a che fare con la libertà delle donne. E la narrazione mediatica ha alimentato l’immagine di donne deboli, “minori”, bisognose di protezione, oscurando la rivoluzione prodotta dalla libertà femminile e riproponendo un ruolo maschile di protezione, tutela e controllo.

Quando la denuncia della violenza mette in discussione “l’ordine di genere” che ne è alla radice si incontra meno accoglienza. Anzi, si scatenano, come avvenuto verso la famiglia Cecchettin, gli odiatori da tastiera, ma anche editorialisti e professionisti del linciaggio. La “vittima” o la sua famiglia devono esporre la propria sofferenza senza pretendere di avere un proprio punto di vista su ciò che ha provocato quella sofferenza: devono stare al loro posto senza contraddire il senso comune. Negli ultimi anni i luoghi comuni diffusi da media mainstream e dalla comunicazione informale hanno alimentato la rappresentazione di un cambiamento ostile agli uomini, un femminismo che avrebbe “esagerato” in una furia ideologica e in conflittualità. Le reazioni, soprattutto maschili, propongono tre paradossi: il primo è il “vittimismo dei dominanti”, la narrazione di uomini in crisi, depressi, discriminati o minacciati da un cambiamento ostile e pericoloso. Sono sempre più diffuse le espressioni sociali di uomini che si rappresentano come vittime. Populismi e nazionalismi fanno leva, come ciclicamente in passato, sulla frustrazione, sul rancore maschile, e sulla promessa di un riferimento identitario, revanscista ed escludente, un conformismo omologante come risorsa per salvare dall’angoscia generata da questo smarrimento.

Il secondo paradosso è la “trasgressione conformista”: quell’atteggiamento che ripropone battute misogine od omofobe, vecchie come il cucco, spacciandole per espressione di un coraggioso anticonformismo. La “rivolta contro la dittatura del politicamente corretto” in realtà ripropone soltanto l’arcaico dominio del politicamente indecente. Il terzo paradosso, forse quello oggi più insidioso, è quello che accompagna la condanna della violenza, frutto di ordine di genere gerarchico e oppressivo, proprio con la nostalgia per un ordine perduto. La vulgata da talk show propone quello che ripeteva una mia vecchia zia: «non ci sono più gli uomini di una volta», quelli che sapevano virilmente dominarsi e rispettare le donne.

L’uccisione di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta e, poco prima, lo stupro di gruppo a Palermo e la storia di abusi e violenze a Caivano coinvolgono ragazzi giovanissimi di ambienti sociali diversissimi tra loro, e questo impedisce di ridurre la violenza patriarcale a espressione di situazioni degrado e marginalità. La violenza maschile nelle relazioni intime e nelle relazioni sociali è un dato strutturale, ma si evolve nel tempo. Ma a volte un evento produce una frattura nelle narrazioni dominanti. L’uccisione di Giulia Cecchettin ha avuto questo effetto, e dovremmo capire come tenere aperta questa frattura. Per questo la presa di parola di Gino Cecchettin è preziosa: perché si sottrae al richiamo dell’autorità paterna che dovrebbe riportare ordine in una società violenta e confusa. Chiede ai padri di essere “agenti del cambiamento”. Ma gli uomini possono esserlo?

Antropologia negativa

Se la violenza è frutto di una cultura radicata e di un sistema di relazioni di potere, la soluzione non può essere neutra né indolore. Oggi molti uomini si pongono la necessità di un’iniziativa visibile maschile contro la cultura che è alla radice della violenza. Ma le posture maschili di condanna della violenza sono tra loro diverse. Se la sessualità e il desiderio maschile sono per loro natura ferini, oppressivi e annichilenti, cosa fare? Coprire i corpi delle donne, preservarli con un burqa dallo sguardo? Affidarsi alla tradizionale capacità virile di autocontrollo? Sono prospettive apparentemente lontanissime, ma fondate su una comune “antropologia negativa” di un maschile scisso tra pulsione bestiale e dominio razionale del corpo. Forse è più utile provare a indagare il desiderio: è un dato naturale («la carne è carne») o è socialmente costruito, colonizzato, conformista e mimetico?

Riconoscerne la natura sociale apre un terreno di trasformazione. Come uomini, veniamo educati a un continuo esercizio di negoziazione della dipendenza, della relazionalità, del legame. Il ragazzo incitato ad “allontanarsi dalle gonne della madre per diventare un uomo”, l’ironia dei compagni di calcetto per chi, fidanzandosi o, peggio, sposandosi, ha rinunciato alla propria libertà, ma anche il tecnico, l’esperto, che afferma l’autorevolezza del proprio giudizio a partire dalla capacità di prescindere dalle proprie emozioni. Come se riconoscere che le relazioni sono fondative della nostra esistenza, che non siamo autosufficienti, fosse uno scacco insopportabile e non una consapevolezza necessaria.

Il rancore maschile verso un femminile rappresentato come opportunista e manipolatorio svela questa finzione. La frustrazione che porta molti uomini a uccidere, e non di rado a fare violenza su sé stessi e sui figli, per l’impossibilità di tollerare una separazione. La rimozione della vulnerabilità o la sua rappresentazione come minaccia, perdita, mancanza, si rivela un vicolo cieco; produce una spinta distruttiva e autodistruttiva. L’accettazione del limite, il riconoscimento della dimensione relazionale della nostra esperienza umana, ci permette di uscire dalla solitudine alienata e incapace di relazione in cui la strategia fondata sul potere ci ha relegati. Per contrastare la violenza maschile contro le donne, insomma, serve un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare le relazioni e noi stessi. Un cambiamento che non si può affidare all’intervento di presunti “esperti” che educhino ragazzi e ragazze nella scuola. Per questo è importante la frattura che si è aperta e che ha portato uomini come il segretario della CGIL ad affermare che la trasformazione e il cambiamento «chiamano in causa noi uomini: dobbiamo mutare anche dal punto di vista culturale, perché dietro ai femminicidi ci sono gli uomini». Landini si chiede come costruire atti concreti e non occasionali per promuovere questo cambiamento.

Dovremmo lavorare per tenere aperta questa frattura che si è generata: dare visibilità e spazio alle esperienze di impegno maschile contro la violenza, ai ragazzi che scelgono percorsi di studio critici sui modelli di genere, agli uomini che nella propria vita cercano di essere padri differenti, agli uomini che hanno scoperto. Potremmo cominciare costruendo un appuntamento di confronto pubblico tra uomini. Uomini dell’informazione e della comunicazione, sindacalisti, scrittori, padri, figli, omosessuali ed eterosessuali, uomini impegnati nelle associazioni attive da tempo nel contrasto della violenza, o uomini che oggi cominciano a vedere la miseria che si cela nel potere e nel privilegio e vogliono essere “agenti di cambiamento”. Della società ma, per una volta anche delle proprie vite.


(Domani, 19 gennaio 2024)

di Luisa Vicinelli


Presentazione dell’ultimo testo pubblicato in italiano della studiosa tedesca Heide Goettner-Abendroth. Un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente

«Greci, Romani, Celti e Germani si sono imbattuti in culture matriarcali più antiche ed evolute nel corso delle loro guerre di conquista, innescando conflitti di larga portata di cui sia i reperti archeologici che le fonti storiche offrono testimonianza, e che troviamo riflessi nelle rispettive mitologie di questi popoli. Le antiche civiltà non indoeuropee si possono facilmente riconoscere nelle culture megalitiche del Neolitico e dellEtà del bronzo dellEuropa Antica, nonché nelle prime culture estremamente evolute del bacino danubiano e dellarea egea. Gli elementi matriarcali non costituiscono quindi il “mistero” dei popoli indoeuropei che sono arrivati dopo, ma sono stati semplicemente adottati da culture precedenti, ovviamente matriarcali.»

Il nuovo libro di Heide Goettner-Abendroth Le società matriarcali Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (Mimesis) indaga sulla nostra storia più antica. Ci parla delle sue origini nel Paleolitico, perché è all’inizio di questa lunga epoca durata come minimo due milioni di anni che risalgono i primi ritrovamenti di utensili e di ripari costruiti dagli esseri umani. Sempre seguendo la traccia dei reperti, le prime statuette dalla fisionomia rigorosamente femminile sono datate più di 500.000 anni fa. Si denota fin dalle origini la preponderanza delle rappresentazioni di donne, a indicare l’alta considerazione attribuita al nostro sesso, probabilmente dovuta alla raccolta di cibo, alla capacità di rigenerare la specie e di giocare un importante ruolo di guida nelle società che si stavano formando. Anche dopo, quando sorgono le prime formazioni templari e si moltiplicano le pitture rupestri, le immagini di uomini e animali che iniziano a comparire mantengono un significato sacro che le collega a una visione religiosa incentrata sul materno e la rinascita, quindi al femminile. Questa lettura inedita della spiritualità che albergava nelle nostre antenate e nei nostri antenati capovolge gli assunti della narrazione ufficiale: i primi esseri umani non erano tanto interessati alla sopravvivenza materiale quanto alla continuità della vita, la loro, degli animali e del luogo dove vivevano, in cui vedevano la presenza di una madre terra che sostentava la vita e accoglieva nella morte, in attesa della rigenerazione. Erano i cicli infiniti delle stagioni – e prima ancora quelli della luna – che li informavano di questa eternità immanente, in cui l’esistenza rinasceva incessantemente. Nella descrizione abendrottiana i “cavernicoli” appaiono molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere nei libri scolastici e nei musei: sono “esseri umani” come noi, con un’alta capacità cognitiva in grado forse anche più di noi di esprimere una visione organica e consapevole del mondo circostante.

Ma com’è possibile formulare una ricostruzione storica di epoche lontanissime non potendo quasi mai contare sulla conservazione dei reperti e sull’univocità delle interpretazioni? Heide Goettner-Abendroth ha potuto avvalersi di una pietra di paragone decisiva, grazie agli Studi Matriarcali moderni da lei fondati nel 1982 per studiare i matriarcati del presente e del passato. Arrivati in Italia agli inizi degli anni 2000 ed esposti nel suo primo libro tradotto nella nostra lingua (Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013) sono stati in grado di restituirci la struttura di società totalmente diverse da quelle patriarcali, i cui modelli sono rintracciabili anche nelle prime comunità umane. Le accomuna la cura per i vivi e per i morti, e per il territorio, e la preoccupazione di mantenere bilanciato ogni aspetto della vita, affinché nulla sia d’ostacolo all’armonia e alla pace. L’assenza di potere, di gerarchia, l’uso collettivo delle terre e dei beni gestito dalle madri dei clan, un’attenta ridistribuzione delle risorse per il benessere di tutti e una politica del consenso che dà voce a ogni persona rendono queste società davvero ugualitarie e pacifiche, così come lo erano le genti del Paleolitico e del Neolitico, nonostante molti archeologi si ostinino a vedere in ogni sepoltura collettiva un massacro. Abendroth smonta una dopo l’altra queste congetture senza fondamento fornendo una visione organica delle società umane del periodo. Diventa particolarmente d’attualità lo studio dell’autrice sulla guerra, nata con le invasioni dei pastori guerrieri patriarcali che scesi dalle steppe euroasiatiche hanno portato un nuovo ordine sociale e spazzato via le pacifiche società matriarcali preesistenti. Da allora la nostra storia è stata un succedersi di imperi e potentati nati e poi collassati nel corso di guerre senza fine, e ancora non sappiamo come liberarcene. Forse i modelli di società che siamo stati in grado di creare in un lontano passato possono essere d’ispirazione.

Ma quello della guerra non è l’unico tema su cui possiamo trarre insegnamento: Abendroth, narrando la nascita del patriarcato, ripercorre tutti i passi che hanno portato alla domesticazione delle donne e poi alla loro sottomissione, e alla conseguente sottomissione di tutte le classi non egemoni. Nonostante una credenza diffusa, non è stato con la clava che il potere maschile si è affermato, bensì con il mercimonio delle donne, indispensabile ai guerrieri invasori per assicurarsi una progenie a cui trasmettere proprietà e potere. Il degrado dello status femminile è proceduto di pari passo con l’affermarsi del potere del padre di famiglia, con l’emergere di dei maschili tuonati e rabbiosi fino ai monoteismi che hanno definitivamente affossato la religione della dea e la centralità femminile. Ovunque, sebbene con modalità differenti legate alla peculiare storia di ogni territorio, si sviluppa la famiglia patriarcale in sostituzione del clan matrilineare. Popolazioni come i Celti, che vengono oggi portati a esempio per il potere concesso alle donne, in realtà s’iscrivono totalmente nel sistema parentale proprio di tante società guerriere. Nemmeno le Amazzoni, di cui l’autrice rivendica l’esistenza storica dando credito alle numerose testimonianze degli scrittori dell’antichità, riescono a fermare l’avanzata del nuovo modello sociale, sebbene oppongano una strenua resistenza armata per difendere la loro libertà. Solo pochi gruppi etnici sono in grado di mantenere in alcune credenze e costumi quelle che non sono altro che permanenze degli antichi matriarcati. Eppure è a queste antiche società, e a quelle che sono riuscite a sopravvivere non senza fatica in varie parti del mondo fino a oggi – come ad esempio i Moso e i Minangkabau – che dobbiamo guardare se vogliamo risolvere i problemi creati da questi relativamente pochi millenni di patriarcato. Come aveva già detto Mary Daly, siamo chiamate a creare un Futuro Arcaico. E l’arcaico che ci viene in aiuto è quello narrato da Heide Goettner Abendroth in questo libro.


(Noi donne, 19 ottobre 2023)


(*) Heide Goettner-Abendroth, filosofa e ricercatrice socio-culturale, è nata l’8 febbraio 1941 a Langewiesen ed è considerata una delle pioniere degli studi delle donne della Germania occidentale. Dopo aver insegnato Filosofia Moderna all’Università di Monaco, ha abbandonato la carriera universitaria per fondare nel 1986 l’INTERNATIONAL ACADEMY HAGIA (www.hagia.de) per gli Studi Moderni sul Matriarcato e la Spiritualità Matriarcale, che dirige ancora oggi. Per la sua ricerca durata più di trent’anni è stata riconosciuta negli ambienti progressisti e femministi come la fondatrice degli Studi Matriarcali moderni, un nuovo campo epistemologico per la definizione strutturale della forma sociale matriarcale che è stato presentato nel corso di diversi convegni internazionali: nel 2003 in Lussemburgo, nel 2005 a San Marcos (Texas), nel 2009 a Roma, Milano e Bologna e nel 2012 a San Gallo in Svizzera. È stata eletta una delle mille Donne di Pace del mondo e candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace. Dei suoi numerosi libri sono stati tradotti in inglese “The Dancing Goddess. Principles of a Matriarchal Aesthetic” e “The Goddess and Her Heros. Matriarchal Religion in Mythology, Fairy-Tales and Poetry”.In Italia sono stati pubblicati: Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo” (Venexia, 2013), “Società di pace. Matriarcati del passato, presente e futuro” (Castelvecchi, 2018) e “Madri di saggezza” (Castelvecchi, 2020).

di Antonella Nappi e Alfonso Navarra


Antonella Nappi, nella sua qualità di femminista storica, è intervenuta alla conferenza stampa sulla proposta di corpi civili di pace europei, organizzata dai Disarmisti esigenti.

Levento si è svolto a Roma, il 10 gennaio 2024, presso il CESV di via Liberiana 17, dalle ore 11.00 alle ore 13.00, in contemporanea con il voto delle mozioni parlamentari, sulle comunicazioni del ministro Crosetto, che hanno dato indirizzo al governo per continuare a portare avanti gli aiuti militari allUcraina in guerra.

Lo scopo della conferenza: presentare la proposta al Parlamento europeo, che aprirà la sua prima sessione del 2024 il 15 gennaio, di istituzionalizzare ambasciate di pace e corpi civili di pace a livello europeo, come da idea originaria (1994) di Alex Langer.

Sono intervenuti: Alfonso Navarra – coordinatore dei Disarmisti esigenti; Cosimo Forleo – Associazione Per la scuola della Repubblica; Marianella Sclavi – referente del progetto MEAN.

Contributi scritti: Giuseppe Paschetto – tra i responsabili pace del M5S; Alessandro Capuzzo – Tavola della Pace del Friuli-Venezia Giulia; Maria Carla Biavati – già vicepresidente dei Berretti Bianchi; Tonino Drago – già presidente del Comitato per la difesa civile non armata e nonviolenta.

La conferenza precede anche il presidio, che si svolgerà la settimana successiva, dei digiunatori per coerenza pacifista, al Pantheon contro il decreto-legge ombrello che consente gli aiuti militari allUcraina mediante semplici atti amministrativi comunicati al COPASIR.

Sotto riportata la trascrizione del suo discorso, che è ascoltabile al seguente link dal sito di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/717677/conferenza-stampa-sulla-proposta-di-corpi-civili-di-pace-europei-per-un-modello-di

Per maggiori info e approfondimenti, ecco un link: https://osmdpn.webnode.it/corpi-civili-di-pace/

Qui di seguito la trascrizione dell’intervento di Antonella Nappi.

(Alfonso Navarra)


Sono Antonella Nappi, femminista da sessant’anni. Frequento molte organizzazioni di donne in lotta, in particolare abbiamo fatto molti incontri e scritto testi alla Libreria delle donne di Milano, quindi nel sito vi troverete i resoconti di essi. Le donne sono la dimostrazione più evidente di quanto spazio e quante libertà si sono prese, in una storia lunga e in Italia in questi sessant’anni, facendo battaglie del tutto pacifiche. Argomentando le loro analisi, i loro sentimenti, i loro desideri e sviluppando tra loro una relazionalità che non nega l’altro ma lo riconosce e accetta di rispettarlo e mediare, dove è il caso di farlo perché utile. Lo stesso le donne fanno con gli uomini, coinvolgendoli in questa capacità di lotta pacifica che è sostanzialmente proprio il non negare l’altro, volerlo tacitare, definirlo nemico, ma entrare con l’altro in comunicazione e sviluppare una contrattazione che dia valore alla sostanza che li vede in accordo. Ecco quindi I Corpi Civili di Pace: sono molto desiderati da tutte le associazioni che frequento e ho sentito. Sono invocati perché non si può sopportare di vedere le carneficine cui attualmente stiamo assistendo in Palestina, senza sconvolgerci, e dunque anche poi reagire (indurendoci). Noi stesse perdiamo umanità, nel dover assistere a queste cose orrende. Quando Zelenski, due anni fa, domandò agli Italiani, agli Europei, di entrare in guerra con lui, con loro, per difendere l’Ucraina dalla Russia, noi rimanemmo veramente allibite, come il 95% della popolazione italiana immediatamente quell’anno lì, perché con un’abitudine alla pace, con l’esperienza fatta nella capacità di confliggere in pace, chi ci invitava a combattere era anacronistico. Noi abbiamo subito detto che volevamo votare la pace, volevamo poter scegliere, nelle nostre elezioni imminenti, candidati che si distanziassero da queste assurde richieste. Per di più da un popolo che da molti anni era in conflitto con la Russia e non cercava mediazioni, contrattazioni, aiuti internazionali di pace. Ma in qualche modo, assurdamente, voleva proprio fare la guerra. Noi siamo molto favorevoli a Corpi di Pace perché bisogna rompere questa cultura egoistica e delirante di chi vuole vincere e annientare il nemico. Di chi si attacca a chi è stato il primo, oppure alle Leggi, quelle poche che sono state disattese e mira a scatenare la sua personale violenza, i suoi problemi non chiariti, dentro un conflitto già esistente. Schierandosi con chi gli pare, o con chi si identifica secondo una sua esperienza passata di conflitti che invece sarà bene che veda per sé stesso o per sé stessa, noi questo invitiamo a fare. Le siciliane, le catanesi, proprio in una riunione nazionale femminista organizzata dalla Libreria delle donne dicevano: «Il corpo di pace deve essere prima di tutto il mio, il tuo, il nostro. Fare spazio alle attenzioni per gli altri contendenti, per le altre forze, per gli altri desideri, così da poterli organizzare in una mediazione».

A seguito delle conclusioni che Alfonso Navarra trae, dove facendo lesempio della pace europea propone lobiettivo di cercare che cosa unisce tutti i popoli («la pace con la natura cambiando il nostro modello di malo sviluppo») perché lavorando per comuni interessi si possa trascendere i conflitti, conclusioni che invito ad ascoltare, mi sono voluta aggiungere con altre due parole che trascrivo:

Dobbiamo imparare dalle donne: ascoltare le donne, copiarle, per creare una società che non sia di soli uomini che non riconoscono gli altri da sé stessi, ma riconoscano le donne. Con loro si aprano ai sentimenti, alla riflessione, alla comunicazione, alla mediazione.


(www.libreriadelledonne.it, 18 gennaio 2024)

di Roberta De Monticelli


Israele a processo davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. E la pronunzia di quel nome terribile che squarcia tutti i tabù e gli interdetti, genocidio, suscitando raffiche di riprovazioni e negazioni sparate dai politici, israeliani e no. Anthony Blinken in testa, secondo il quale l’azione legale sudafricana «distrae il mondo». Da cosa? Come se un’accusa di genocidio fosse una fola che non merita di essere presa sul serio!

E invece proprio all’Aja l’umanità è al bivio, per citare Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022). Lo è la nostra comune umanità, quella già macchiata dai cento giorni di bombe su Gaza, secondo il capo dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. È a un bivio fra l’abisso e la speranza. E non solo per la sorte di Gaza, o la speranza che la Corte accolga la richiesta di misure precauzionali, fra cui il cessate il fuoco, se riterrà plausibile l’accusa: perché ne seguirebbe l’obbligo di fermare l’eventuale consumazione di questo reato dei reati. La nostra umanità è al bivio fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra. Ma è proprio lì, in quell’ammasso di dolore e rovina che è la Striscia di Gaza, che ora brucia l’anima del mondo. Perché lì si consuma quotidianamente una strage che non è solo di corpi e di anime, è di significato e verità. Forse in nessun altro osservatorio tragico del mondo si vede così bene quanto il bivio fra la speranza e l’abisso, fra la civiltà e la guerra mondiale, prenda avvio dal linguaggio.

La prima biforcazione è lì: fra chi lo usa sentendosi impegnato a riconoscere il vero – impegno con cui comincia l’etica – e chi delle parole abusa, per ignorare il vero senza neppure confessarlo a se stesso. Per cancellare i nomi dell’altro. Per chiamare democratico uno Stato che si regge sull’esclusione di una parte dei suoi cittadini dai diritti di nazionalità (Nation-State Act del 2018) e sulla soggezione degli altri, non-cittadini, a un regime d’occupazione sempre più feroce, in quella terra che Israele sognò «senza popolo».

E soprattutto per chiamare «guerra», ora, ciò che «guerra» non è e non può essere, perché il nemico, Hamas, non è uno Stato; perché non ha il controllo sul territorio, sulla moneta, sulle frontiere, sull’energia, sull’economia e perfino sulle basi della sopravvivenza: l’acqua, il pane, il lavoro. Perché prima di questa ecatombe Gaza ne ha subite altre cinque, minori certo in estensione e durata, ma simili nell’impossibilità per gli innocenti di fuggire dalla «più grande prigione a cielo aperto». Perché chiamare «guerra» questa ecatombe di civili, quando il territorio bombardato è a tutti gli effetti soggetto alla potenza occupante (cui il diritto internazionale accolla invece responsabilità di protezione nei confronti dei civili, per severa che possa essere la pena per i responsabili delle milizie di resistenza armata), è una violazione della logica e dell’etica dagli effetti devastanti. Pari solo allo sdoganamento, nel linguaggio prima e negli atti poi, di ciò che viene prima dell’assetto civile delle società umane, che appartiene al loro strato più arcaico e tribale: la vendetta.

Se cancellassimo la distinzione radicale fra la violenza senza limiti di legge (come quella di Hamas il 7 ottobre) e quella soggetta a tutti i vincoli di uno Stato di diritto e del diritto internazionale, se la cancellassimo anche dal linguaggio (sempre più cinico e corrivo) della maggior parte dei politici e dei commentatori, cosa resterebbe della civiltà rinata dalle ceneri della guerra, cosa resterebbe perfino della memoria delle vittime della Shoah? Più nulla.

Ed ecco perché la voce dell’accusa che si è levata l’11 gennaio alla Corte dell’Aja è parsa a molti «più intima del proprio intimo» – come il richiamo di una possibile salvezza. Grandi attori di tutto il mondo ne hanno rilanciato in rete le frasi cruciali. A molte orecchie esse sono parse, come altre già incise nella memoria umana universale, «legiferanti». Che è molto, molto di più di «giuridicamente stringenti». Perché parevano una restitutio, una re-instaurazione del mondo nato da quel «mai più»: quel patto di convivenza pacifica fra tutti i popoli della terra che fu stipulato con la carta dell’Onu nel 1945 e con la Dichiarazione universale nel 1948. 
Una questione di memoria, come scrisse Kant all’inizio dell’età dei diritti. Non si dimentica più, diceva, la proclamata «primazia del diritto» sulla forza. E mentre l’Europa tace e gli Usa mandano bombe, è come se nelle parole dei sudafricani fosse risuonata la voce profonda di Nelson Mandela, che già una volta aveva rinnovato il mondo. «E farò nuovi cieli, e nuova terra»: all’Aja parve possibile una renovatio mentis, che strappava l’anima del mondo a quella catastrofe intellettuale prima che morale che è la menzogna politica, mostrando come la politica senza il diritto non sia solo cieca, ma anche criminale.

E la difesa di Israele? Una questione di memoria, anche questa. Tragica. Non la memoria del diritto, ma la politica della memoria. Anche di questa bisognerà parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria.


(il manifesto, 17 gennaio 2024)