di Maria Elena Viggiano


Dopo la perdita improvvisa del marito, Umabathi viveva con i tre figli nel villaggio di Manuvakottai, nel cuore del Tamil Nadu in India. Apparteneva alla casta degli intoccabili (dalit) e non riusciva a mantenerli. Tutto è cambiato quando ha ricevuto in dono una capra tramite i Toolkit di Interlife, un modello di sviluppo economico che nasce per creare opportunità di lavoro in contesti di estrema povertà. Umabathi ha avviato la sua attività e ha passato il testimone del Toolkit a Single Mary, appartenente a una casta superiore, che poi ha offerto il suo supporto a Josephine Kulanda, di un’altra casta ancora.

Si è innescata così una catena di solidarietà tra donne. «È inusuale questo passaggio tra caste ma è emerso in modo spontaneo, un esempio straordinario», racconta Giorgia Gambini, presidente di Interlife Onlus, un’organizzazione di cooperazione internazionale che dal 2008 opera in Africa e Asia per contribuire a ridurre la povertà, promuovere la sicurezza alimentare, offrire opportunità formative e lavorative.

Jayaseeli Mary invece viveva in un appartamento piccolissimo senza servizi igienici con le sue tre bambine. Il marito, non riuscendo a pagare i debiti, si era tolto la vita davanti alla sua famiglia. Con il Toolkit Sartoria, Jayaseeli Mary ha ricevuto la formazione e una macchina da cucire per avviare la sua attività mentre con il «Sostegno a distanza a 360°» la prima figlia Sara ha iniziato a frequentare la scuola. «Ho visto i suoi disegni bellissimi – dice Gambini che ha raccolto direttamente la testimonianza -. Intanto la madre è riuscita a pagare i debiti, mi ha colpito la grande voglia di riscatto». La stessa di una donna con un figlio con disabilità che, dopo aver avviato un allevamento di capre, è stata considerata dalla comunità «autonoma e indipendente riuscendo a superare anche il tabù legato alla disabilità».

A differenza del microcredito basato su un prestito economico, il Toolkit Interlife offre formazione, materie prime e strumenti necessari per avviare un’attività imprenditoriale, commerciale o produttiva. Dopo 12 o 24 mesi dall’avvio dell’attività, con i proventi il beneficiario di prima generazione sostiene la formazione di un altro beneficiario innescando così «una serie di processi scalabili e replicabili». Partito nel 2012 in India dove sono state avviate oltre 600 attività, questo modello di sviluppo dal 2018 è presente anche in Africa con più di 4 mila attività e il coinvolgimento della quinta generazione di beneficiari.

«In questo modo è possibile prevenire anche le migrazioni verso altri Paesi – sottolinea Gambini -. Prima di avviare un progetto vengono fatti studi di fattibilità e i beneficiari devono rispondere a specifici requisiti, di solito sono persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. In India il tessuto sociale prevede dei self-help group costituiti da donne che segnalano situazioni critiche o di sfruttamento».

Per Gambini, «bastano poche centinaia di euro per trasformare queste persone in imprenditori. Il nostro obiettivo ora è avere più fondi e interlocutori a livello governativo, un’opportunità potrebbe essere partecipare al Piano Mattei (il progetto del governo per l’aiuto ai Paesi africani, ndr)». Inoltre il modello Toolkit ha obiettivi di sostenibilità poiché valorizza le risorse naturali, favorisce la riscoperta di pratiche locali e la riforestazione di aree sub-sahariane a rischio di desertificazione.


(Corriere della Sera, la 27esima ora, 22 gennaio 2024)

di Michelina Borsari


Rilettura di un titolo, “Sputiamo su Hegel”, ora dalla Tartaruga, in cui lo sdegno di rivolta trascina concetti e consuetudini davanti al tribunale della condizione asservita delle donne


Nella presa di parola di Carla Lonzi – anno 1970 – si concentra una carica sovversiva che il tempo pare non logorare, e i suoi primi scritti restano portatori di un pathos di rivolta che non solo li conferma come innesco originale e dirompente del femminismo italiano, ma ne proietta la potenza critica dentro lo stato presente del patriarcato.

A calco della raccolta del 1974, curata dalla stessa Lonzi nei libretti verdi di «Rivolta Femminile», e come prima tappa dell’opera omnia, La Tartaruga – ora nel catalogo della Nave di Teseo – ripubblica Sputiamo su Hegel e altri scritti, a cura di Annarosa Buttarelli (pp. 144, € 16,00).

Deliberatamente privi di commento critico – «che spegnerebbe la loro forza travolgente» – i testi della raccolta sfidano la possibilità di una ricezione apatica, si tratti di lettura o rilettura: la loro speciale eloquenza porta il marchio di un’autenticità che cattura, quasi fossero scritti performativi, che rendono fattuale ciò che nominano.

Sulla pagina, si presentano composti da periodi brevi e folgoranti, distanziati come le strofe poetiche da stacchi silenziosi in cui il pensiero prende fiato, e sterzate inattese verso imprevisti «punti di coscienza». Non procedono, in altri termini, secondo l’andamento argomentativo di un sapere oggettivante e universale, e neppure secondo quello narrativo che racconta storie personali immediatamente vissute. Esito di rivelazione e di rivolta – «Il problema femminile mette in questione tutto l’operato e il pensato dell’uomo assoluto, dell’uomo che non aveva coscienza della donna come di un essere umano alla sua stessa stregua» – le affermazioni di Carla Lonzi hanno un registro diretto e affermativo, privo di vaghezze, in cui resta l’eco del gran lavoro di sottrazione e di sgombero servito a modellare la sua lingua come appena nata, idioma di un paese che parla da fuori.

Da una simile riva extraterritoriale, l’oggettività ricompare come un’impostura che ha mutilato la metà della terra. Una delusione cocente accompagna in particolare la consapevolezza che la cultura maschile, in ogni suo aspetto, ha teorizzato l’inferiorità della donna: «Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto, noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero» che hanno «giustificato nella metafisica, ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna».

In un titolo che ha fatto, e fa, scandalo – Sputiamo su Hegel – prende corpo linguistico uno sdegno di rivolta che agguanta i concetti alla nuca e li trascina davanti al tribunale della condizione asservita della donna: al principio femminino «mancano le premesse per scindersi dall’ethos della famiglia», la dialettica servo-padrone – figura chiave del corso storico – si rivela «una regolazione di conti tra collettivi di uomini»; l’inversione tra causa ed effetto, natura e storia, riattiva il millenario dispositivo patriarcale.

Hegel non è che una sagoma, dietro la quale subito si stagliano quelle di Marx e di Engels, di Lenin e della lotta di classe: «Le donne hanno coscienza del legame politico che esiste tra l’ideologia marxista-leninista e le loro sofferenze, bisogni e aspirazioni. Ma non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione». L’oppressione della donna è il risultato di una eredità millenaria, che il capitalismo non ha dunque prodotto bensì fatto propria, e non riconoscerlo impedisce al materialismo storico di risalire all’archetipo della «patologia possessiva» che vede la donna come preda sessuale.  

I responsabili – ai quali si aggiungono Freud e Reich, altri «rinnovatori patriarcali» – vengono smascherati sul loro terreno, ma soprattutto messi fuori gioco da un passo laterale che non attende superamenti dialettici e celebra una concezione aperta della storia: «Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che eccezionale».

Gli scatti e gli scarti della scrittura di Lonzi sono alfieri di questa apertura, accolgono l’inatteso e l’inaudito, la libera insubordinazione agli schemi pregiudicati e «l’affinità caratteriale che troviamo con gli artisti».

Vi si avverte una certa fierezza giovanile e la carica erotica che proviene dall’assunzione del piacere femminile come punto di rivolta. «Ci preme moltissimo che venga salvaguardato nella donna quello scatto straordinario di baldanza emotiva che fa parte del periodo vitale della giovinezza e con cui gli individui gettano le basi della creatività che darà l’impronta alla loro vita».

Si comprende così che il vero imprevisto, il tesoro inimmaginato e impensato, è il soggetto che parla in questa scrittura, la donna: né ricompresa in un genere umano che mistifica la differenza sessuale, né impegnata a eguagliare il suo oppressore sulla strada dell’emancipazione.

Come si attiva questo soggetto radicale e sovversivo, grazie al quale «potremmo scoprire qualcosa di essenziale, qualcosa che cambia tutto, il senso di noi, dei rapporti, della vita»?

La sua postura imprevista è resa possibile dal riconoscimento di altre donne all’interno dei gruppi di autocoscienza femminile, dove autocoscienza non nomina la stazione mediana dello schema dialettico di Hegel, ma la pratica di relazioni vissute in piccoli gruppi separatisti – «Trattiamo solo con donne» – che hanno preso congedo dalla politica come mobilitazione e lotta organizzata di massa.

Non a caso la raccolta apre con il Manifesto di Rivolta Femminile, e chiude con Il significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, a firma collettiva.


(Il manifesto, Alias edizione del 21 gennaio 2024)

di Annarosa Buttarelli*


Circola da qualche tempo un appello che richiede firme a sostegno della denuncia di “femminicidio di massa” avvenuto il 7 ottobre scorso ad opera di Hamas, in Israele. Ci mancava anche questo appello tra gli altri che stanno dilaniando l’ormai variegata frammentazione interna al femminismo italiano. Ci sono donne, come quelle firmatarie dell’appello che, senza se e senza ma, sostengono, anche senza intenzione precisa, la causa complessiva dello Stato israeliano. Ci sono donne che ricusano l’appello perché non cita anche le stragi di donne e di bambini in quel che rimane della Palestina, ma soprattutto queste stesse fanno opposizione all’appello perché usa la formulazione “femminicidio” per le donne vittime nel kibbutz. Dobbiamo parlarne, sia perché esiste una posizione diversa dalle due descritte, sia perché si tratta non solo di definire meglio quello che è accaduto, ma perché è esatta la parola “femminicidio”, in ogni caso.

Questa intensa parola si è diffusa in Europa soltanto a partire dai primi anni del XXI secolo grazie da un lato alla divulgazione a livello mondiale dei gravi fatti di Ciudad Juárez, la città messicana divenuta dal 1993 teatro di innumerevoli sparizioni e uccisioni di donne, e dallaltro grazie alle lotte e alle proteste dei movimenti femministi, specialmente di quelli latino-americani, contro queste pratiche. Femminicidio è poi stato accolto in Europa come la parola adatta a indicare luccisione di donne in quanto donne. Una parola nuova per un crimine millenario orrendo. Per questo motivo sostengo la pertinenza di questa parola anche al disprezzo dei corpi femminili, alle mutilazioni, agli stupri a cui segue molto spesso l’uccisione di una donna in quanto donna, anche in guerra. Per questo motivo i femminicidi, pure se rientrano nella cornice oscena di una guerra, non possono essere mescolati, confusi, sovrapposti agli omicidi, alle stragi generali, agli infanticidi, all’uccisione di donne che si trovano sotto le bombe nel luogo della strage generale. Non si può nemmeno definire quello che è accaduto nel kibbutz israeliano o a quello che è seguito sul corpo delle donne ebree uccise come “femminicidio di massa” perché non lo è stato, e perché è stato progettato per un’area determinata. Questo esercizio di discernimento è legittimo e utile perché può portarci ad un altro esercizio necessario: quello della memoria.

Da che c’è un mondo conosciuto attraverso varietà di fonti, lo stupro e l’uccisione delle donne in quanto donne è sempre stato una delle prassi ordinarie del modo maschile di fare la guerra. Quella donna che, il 7 ottobre, urla e invoca aiuto dal mezzo di trasporto dei guerriglieri di Hamas non ha forse rievocato il rapimento di donne più famoso: il ratto delle Sabine? E che trattamento pensiamo sia stato fatto alle Sabine dopo il ratto? Lo stupro di guerra (dall’Oriente all’Occidente) è una pratica consueta dei conflitti armati da sempre, programmata come nessun’altra azione militare. La storica Joanna Bourke nel libro, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza) scrive che sempre gli stupri degli eserciti sono stati incoraggiati, legittimati o tollerati da precisi ordini militari impartiti dai comandi o da permessi dei superiori. Questo ci obbliga a diffondere con tutti i mezzi la consapevolezza che lo stupro durante le guerre non può e non deve essere considerato come inevitabile, quasi fosse un corollario automatico nel rapporto con chi è considerato un nemico. E, aggiungo, occorre rilanciare nel dibattito l’esistenza della “questione maschile” che perdura nel presente, evitando di inserire lo stupro e l’uccisione di donne nel mucchio indistinto delle violenze sui civili, prescindendo dal preciso obiettivo presente in ogni guerra. Sarebbe un errore di pensiero. Allo stesso modo sottolineo che, da parte mia, non è un errore unire stupro e uccisione di donne, perché chi tra noi se la sentirebbe di estrapolare lo stupro dal femminicidio quando esperiamo ogni giorno l’unità psicofisica nel momento in cui si subisce violenza? Femminicidio è un esatto nome nuovo per un orrore millenario.


(“Lo Specchio” de La Stampa, 21 gennaio 2024)


(*) Buttarelli, Direttrice Scientifica della Scuola di Alta Formazione Donne di Governo

di Marco Ferrante


L’edizione originale in tedesco e francese prevedeva 101 oggetti per raccontare una storia delle donne. L’edizione italiana (Annabelle Hirsch, Una storia delle donne in 100 oggetti, Corbaccio, pp.416) si ferma a 100, l’unesimo – se potessimo decidere noi lettori italiani alla fine di quest’anno che ha segnato una accelerazione della consapevolezza di donne e uomini sulla condizione dei loro reciproci rapporti – potrebbe essere il libro illustrato trovato accanto al corpo senza vita di Giulia Cecchettin, la giovane donna uccisa per una assurda epperò ancora ordinaria negazione della libertà da parte di un uomo. La libertà e la difesa della libertà delle donne è uno dei principali argomenti di questo libro. In una presentazione romana Annabelle Hirsch insieme alla scrittrice Ilaria Gaspari ha scelto alcuni oggetti per spiegare il senso del libro. Il primo: lo spillone da cappello in voga nei primi anni del ’900 per fissare i grandi copricapo alla moda alle sottostanti acconciature femminili. Lo spillone divenne un oggetto di autodifesa nella doppia transizione delle donne lavoratrici e dei mezzi di trasporto pubblici. Il 28 maggio del 1903 – scrive Hirsch – Leoti Blaker del Kansas salì su un autobus molto affollato sulla Fifth Avenue di New York e dopo pochi minuti, per difendersi dalle molestie di un passeggero gli piantò il suo spillone da otto centimetri nel braccio. Fu trattata come un’eroina. E così per qualche tempo le sue emulatrici. Ma dopo alcuni anni, all’inizio degli anni ’10, in America, Francia e Germania vennero approvate nuove norme per limitare le dimensioni degli spilloni. Nella coscienza pubblica – generata ed elaborata dai maschi – le vittime erano diventate aggressori.

In una sequenza serrata – contemporaneamente informativa e letteraria (cosa alla quale, almeno qui da noi, non siamo più abituati nella innaturale separazione tra forme di scrittura che non dialogano più tra loro) – Hirsch definisce due ambiti di racconto e di riflessione. C’è una storia dell’indipendenza femminile quasi autonoma rispetto alle spinte della componente maschile dell’universo. E poi una storia della lotta trai sessi: il conflitto feroce per stabilire equilibri in costante cambiamento determinati dalla Storia Maggiore, dalla Tecnologia, dal Progresso (e Regresso), dalla Democrazia.

Le due storie si intrecciano e si rincorrono. Ogni oggetto può servire alla prima o alla seconda o a entrambe. È un percorso che sceglierà il lettore. Qui si parte da un oggetto molto emblematico della lotta tra i sessi, un settecentesco piccolo gruppo in porcellana di Gottlieb Glück, intitolato La buona madre. È un genere di soprammobile borghese, una madre e tre figli, il più piccolo in allattamento. Per Jean-Jacques Rousseau la madre dedicata principalmente alla cura diretta dei figli è l’unico modello di madre. E la donna che allatta è perfettissima. Hirsch spiega come in quegli anni, in pieno Illuminismo, nasce l’immagine «tuttora ancora molto diffusa in diverse parti del mondo, della buona madre contrapposta alla cattiva madre», uno stereotipo di controllo costruito dall’uomo. È un lungo cammino sociale che si svolge lungo il libro e approda, per esempio, quasi duecento pagine più avanti alla copertina di Il Piacere di vivere da sola, una specie di guida o manuale per donne single, successo editoriale del 1936 di Marjorie Hillis, all’epoca quarantasettenne redattrice di Vogue. Basta principi azzurri e relative angoscianti attese, si può stare da sole. Per Hirsch, Marjorie Hillis è sostanzialmente la progenitrice di Sex and the city, per quanto in Il piacere di vivere da sola non si parli in modo esplicito di sesso. Vi si allude solo nel capitolo dedicato ai piaceri del letto singolo. Ottanta anni dopo Hillis, Hirsch invece affronta la questione della sessualità, perché è insieme al Lavoro uno dei punti più delicati degli equilibri avanzati, nella relazione tra autonomie di genere che si fronteggiano. I maschi antimodernisti a cavallo dei due secoli trascorsi asseriscono che alcune nuove invenzioni che rafforzano l’indipendenza femminile come la bicicletta e la macchina da cucire siano sessualmente eccitanti a causa del movimento continuo. Nel Novecento molti simboli dell’identità femminile da Chanel n.5, al rasoio per le ascelle al rossetto investono contemporaneamente la sfera dei consumi e quella della sessualità in un balletto contraddittorio che non ci è ancora completamente chiaro. Una strana combinazione di vecchio e nuovo che nei macchinosi tempi attuali complica la vita degli adolescenti – ragazze e ragazzi – ai primi passi nel gioco della seduzione. Alcuni oggetti descritti nel libro affrontano direttamente il tema, un dildo in vetro del XVI secolo e il VHS di Gola profonda (1972) con l’ingresso della fellatio nell’immaginario pop occidentale e relative conseguenze.

Naturalmente c’è anche molta, moltissima politica. Il manifesto delle 343 donne francesi che nel 1971 rendono pubblico il loro aborto e il poster con la faccia di Golda Meir e la frase in basso: ma sa battere a macchina? Golda Meir è un archetipo. Per Margaret Thatcher è lei l’esempio di capo politico femminile, da lei nasce tutto. È una fondatrice dello Stato d’Israele, la donna della raccolta fondi del 1948 si fa ritrarre con la borsetta al braccio. Dopo lo choc iniziale di Yom Kippur ferma l’esercito israeliano alle porte del Cairo, fondamento necessario della pace del 1979. Hirsch racconta un bellissimo aneddoto. Conferenza stampa congiunta con Richard Nixon, lei accavalla le gambe, accende una sigaretta (GM fuma anche in Munich di Steven Spielberg) e dice: allora, cosa pensa di fare riguardo agli aeroplani di cui ha bisogno Israele? C’è in lei un elemento tipicamente femminile, va fatto quel che è necessario fare, spingere il bottone in ascensore perché – spiega Golda – nessun altro lo fa in quel momento (cit. Antonio Funiciello, Leader per forza, Rizzoli 2023). La questione a volte non è così semplice. E il potere femminile si confronta con quello maschile non tanto nella pretesa diversità nell’esercitarlo, ammesso che ci sia una simile diversità, ma quasi per la fonte da cui origina e cioè il mondo a misura d’uomo. La statua di Hatshepsut racconta la storia della figlia di Thutmose I che per complicate questioni dinastiche resse il regno d’Egitto per vent’anni nella seconda metà del 1500 avanti Cristo. Fu donna e uomo contemporaneamente, la statua la rappresenta come donna (il seno) e come uomo (la testa e il copricapo) e fu un/una Faraone importante. Per riferirsi a lei si usavano elaborate combinazioni di genere “sua maestà la regina sovrano” che ricordano l’attuale dibattito italiano su come rivolgersi al/alla presidente del Consiglio. La memoria di Hatshepsut fu cancellata forse perché era un esempio di cui gli uomini avevano paura. 

La storia del potere femminile è accidentata, diseguale, procede per strappi. Questo – da questa prospettiva – è il succo del libro. Anna Morandi Mazzolini fu un’anatonoma settecentesca bolognese, una delle prime scienziate della modernità. Insieme al marito introdusse la tecnica della ceroplastica per lo studio del corpo umano. Realizzò un celebre autoritratto nella sua specialità: un busto di cera, lei in taffetà rosa, collana di perle, acconciatura d’ordinanza, ma con uno scalpello e una pinza tra le mani e in grembo un cranio appena dissezionato, il cervello in vista. Il busto fu un atto affermativo della sua identità. Una storia emblematica già ai suoi tempi. Caterina la Grande, la modernizzatrice che studiava Beccaria e Montesquieu, ne teneva una miniatura nel suo appartamento nella formidabile reggia di Peterhof e a chi le chiedeva chi fosse rispondeva: mia nonna. Quel cervello così in vista assumeva un altro significato e diventava un monito spiritoso della crudeltà.

Politico è il più emblematico dei racconti di questo libro. Una fotografia di Robert Capa scattata nell’agosto del 1944. Il titolo, La donna rasata di Chartres. Una delle migliaia di collaborazioniste francesi (oltre 20.000 si stima) cui dopo la liberazione furono tagliati i capelli a zero, sottoposte a linciaggio ed espulse dai centri d’origine. La ragazza della foto si chiamava Simone Toseau, aveva ventitré anni, aveva avuto una bambina da un soldato tedesco durante l’occupazione. Quando la foto viene scattata, Simone ha la bambina di tre mesi in braccio. È rasata a zero, semicircondata da un gruppo di uomini e donne che minacciosi la accompagnano fuori dalla cittadina di Chartres. «Punire le donne era un modo per ricostruire la mascolinità scalfita: ecco perché la resistenza doveva avere il viso di un uomo, mentre la collaborazione con i nazisti il volto di una donna». La questione femminile e l’antifemminismo durante la resistenza e dopo la guerra è un tema molto delicato in molti paesi d’Europa (sulla parte relativa al nostro paese vedi il recentissimo Uomini contro la lunga marcia dellantifemminismo italiano, Mirella Serri, Longanesi 2023). Ma la foto di Chartres è terribile anche perché quasi controintuitiva. Anche di fronte ai torti della storia, c’è un trattamento diseguale, spiega Hirsch. Nel momento dell’attribuzione della colpa, gli uomini fucilati dietro i muri, le donne umiliate pubblicamente.

Non tutto è un dramma in quello che leggerete, il tono del resto è volutamente privo di effetti – a tratti quasi conviviale – anche nelle storie più cruente. E a questo proposito un’ultima nota. C’è in generale un’atmosfera molto seduttiva per il lettore, che viene dalla combinazione dell’elenco come idea – una lista di 100 – e dal gusto della selezione: 100 cose, artefatti, oggetti da vedere, toccare, sentire. Francesca Rigotti (Il domenicale del Sole 24ore del 10 dicembre) ha scritto che l’idea di una storia in cento oggetti è la base di un fantastico libro di Neil MacGregor sulla storia del mondo. (Qui si autodenuncia nell’elenco di MacGregor una preferenza per la meravigliosa storia di un piatto prodotto dalla russa manifattura imperiale di porcellana qualche mese prima del 1917 e decorato con simboli costruttivisti dalla sovietica manifattura di porcellana qualche mese dopo il 1917). Sì, l’idea dei 100 oggetti è ormai quasi un fattore aritmetico permanente, MacGregor continuerà a influenzarci. Però Hirsch ha raccontato che per vocazione lei è un’appassionata di marginalità e di fatti minori. Con lo stesso ritmo naturale scandito dalla sua intelligenza di analista della realtà avrebbe potuto selezionare altri 100 o 200 oggetti, e ha detto che il libro avrebbe potuto essere “Una storia delle donne in 300 oggetti”. Gli elenchi vivono in se stessi e le singole cose anche. La sacca di Ashley, la Récamier (chi non vorrebbe dare il suo nome a un mobile?), la Remington, il bikini, la copertina di Sur – l’iconica rivista di Victoria Ocampo – l’autoritratto di Sarah Goodridge, il gioco di Hnefatafl e l’arazzo di Bayeux. Tutto di corsa. Buona lettura. Annabelle Hirsch fa riflettere.


(Doppiozero, 20 gennaio 2024)

di Franca Fortunato


Ci sono ricordi che a un certo punto della propria vita bussano alla memoria e chiedono di essere raccontati per lasciare testimonianza. È quello che fa Dacia Maraini col suo ultimo libro Vita mia – Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, edito Rizzoli. Memorie di un pezzo della sua vita, scritte a «una età in cui il cuore diventa un cimitero» per le tante persone care che non ci sono più. Torna alla bambina di sette anni che insieme al padre, Fosco, alla madre, Topazia, e alle sorelle minori, Yuri e Toni, venne rinchiusa in un campo di concentramento per antifascisti italiani, considerati “traditori della patria”. I genitori, infatti, si erano rifiutati di firmare e giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e al governo nazifascista. Nonno Antonio aveva cacciato di casa Fosco per aver rifiutato la tessera del fascio. Ricorda con nostalgia gli anni sereni prima del campo e l’amata tata, che «nel suo cantilenare giapponese» insegnava alle sorelline stornelli, ninne nanne, filastrocche e raccontava le più belle favole della tradizione giapponese. Un’infanzia interrotta nel campo di concentramento, nelle baracche, dove torna con la memoria per raccontare il dolore, le sofferenze, la paura, le privazioni, il freddo, la fame e le malattie che li «consumavano». Di notte per tenersi caldi e consolarsi dormivano abbracciati e lei, quando non sopportava i crampi della fame, mangiava le formiche. Al centro del racconto c’è l’opera della madre, di sua madre, divenuta la sarta del campo. Cuciva per distrarsi, per non pensare, cuciva per la comunità, anche per le guardie per avere un po’ di riso in più da dare alle sue figlie. Cuciva nonostante il dolore continuo alle gambe e gli edemi che le gonfiavano le caviglie e i polpacci, nonostante le macchie che offuscavano lo sguardo. E intanto cuciva e rammendava legami, sentimenti, relazioni e si faceva carico della serenità delle figlie. «Raccontava del pane ancora caldo, “un profumo da re” diceva e io tiravo su col naso e chiudevo gli occhi per immaginare quell’odore. “Lo senti l’odore che sale dalla crosta appena uscita dal forno?” Ma io faticavo a immaginare il suo pane. Il pane lo conoscevo poco essendo arrivata in Giappone ad appena due anni». Aveva una bella voce, come sua madre, nonna Sonia, e insegnava alla figlia le canzoni siciliane, mentre il padre intonava canzoni montanare. Per farle addormentare cantava loro l’aria del coro muto della Butterfly. A Natale del ’43 costruì delle bambole con gli stracci, realizzò dei teatrini col cartone e addobbò l’albero di ciliegio del cortile. «Le bambine erano felici». La sera della vigilia cantarono tutti. Lei, unica donna, cercava di mettere pace tra i compagni di prigionia che nel suo diario, che tenne fino a quando durò il «moncone di matita», paragona a dei bambini capricciosi che bisticciavano per un nonnulla. Partecipava alle infinite discussioni degli internati continuando a lavorare al cucito. Ogni tanto interveniva per mettere pace oppure diceva la sua. Ascoltava le poesie del marito, poi le nascondeva nella pancia dello spelacchiato orsacchiotto che «passava le notti tra le braccia della piccola Yuri». Arrivò la fine della guerra, la tragedia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la resa del Giappone. Era tutto finito, volevano dimenticare. Tornano in Italia, a Bagheria, a casa della nonna paterna, nonna Yoi, la viaggiatrice e scrittrice. Erano ancora poveri ma felici per la ritrovata libertà e a casa della nonna nella sua ricca biblioteca la scrittrice scopre un’altra fame, quella dei libri. L’esperienza del campo non le impedisce di amare il Giappone e i giapponesi, per aver conosciuto allora la gentilezza, generosità e solidarietà della gente comune.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 20 gennaio 2024)

di Stefano Ciccone – Associazione Maschile Plurale


È trascorso più di un mese dal funerale di Giulia Cecchettin. In quell’occasione le parole del padre Gino e la presenza di migliaia di persone hanno segnato un cambiamento nella percezione pubblica della violenza maschile contro le donne. Nel frattempo, altre donne sono state uccise dal marito o dall’ex compagno, altre ferite gravemente, sfigurate, minacciate.

L’emozione, la rabbia, l’indignazione che hanno attraversato il paese non hanno fermato, e sarebbe stato ingenuo aspettarselo, la violenza contro le donne, nemmeno per pochi giorni. L’indignazione è una risorsa importante, se non si limita all’emozione estemporanea e produce un’assunzione di responsabilità. La condanna urlata rischia soprattutto di allontanare da sé il problema, di ridurlo a una patologia estranea alla nostra realtà, da delegare alle forze dell’ordine: mettere in galera gli autori e, soddisfatti, tornare alla propria normalità.

Più volte, in passato, l’indignazione per la violenza è stata strumentalizzata per alimentare politiche xenofobe e securitarie che nulla avevano a che fare con la libertà delle donne. E la narrazione mediatica ha alimentato l’immagine di donne deboli, “minori”, bisognose di protezione, oscurando la rivoluzione prodotta dalla libertà femminile e riproponendo un ruolo maschile di protezione, tutela e controllo.

Quando la denuncia della violenza mette in discussione “l’ordine di genere” che ne è alla radice si incontra meno accoglienza. Anzi, si scatenano, come avvenuto verso la famiglia Cecchettin, gli odiatori da tastiera, ma anche editorialisti e professionisti del linciaggio. La “vittima” o la sua famiglia devono esporre la propria sofferenza senza pretendere di avere un proprio punto di vista su ciò che ha provocato quella sofferenza: devono stare al loro posto senza contraddire il senso comune. Negli ultimi anni i luoghi comuni diffusi da media mainstream e dalla comunicazione informale hanno alimentato la rappresentazione di un cambiamento ostile agli uomini, un femminismo che avrebbe “esagerato” in una furia ideologica e in conflittualità. Le reazioni, soprattutto maschili, propongono tre paradossi: il primo è il “vittimismo dei dominanti”, la narrazione di uomini in crisi, depressi, discriminati o minacciati da un cambiamento ostile e pericoloso. Sono sempre più diffuse le espressioni sociali di uomini che si rappresentano come vittime. Populismi e nazionalismi fanno leva, come ciclicamente in passato, sulla frustrazione, sul rancore maschile, e sulla promessa di un riferimento identitario, revanscista ed escludente, un conformismo omologante come risorsa per salvare dall’angoscia generata da questo smarrimento.

Il secondo paradosso è la “trasgressione conformista”: quell’atteggiamento che ripropone battute misogine od omofobe, vecchie come il cucco, spacciandole per espressione di un coraggioso anticonformismo. La “rivolta contro la dittatura del politicamente corretto” in realtà ripropone soltanto l’arcaico dominio del politicamente indecente. Il terzo paradosso, forse quello oggi più insidioso, è quello che accompagna la condanna della violenza, frutto di ordine di genere gerarchico e oppressivo, proprio con la nostalgia per un ordine perduto. La vulgata da talk show propone quello che ripeteva una mia vecchia zia: «non ci sono più gli uomini di una volta», quelli che sapevano virilmente dominarsi e rispettare le donne.

L’uccisione di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta e, poco prima, lo stupro di gruppo a Palermo e la storia di abusi e violenze a Caivano coinvolgono ragazzi giovanissimi di ambienti sociali diversissimi tra loro, e questo impedisce di ridurre la violenza patriarcale a espressione di situazioni degrado e marginalità. La violenza maschile nelle relazioni intime e nelle relazioni sociali è un dato strutturale, ma si evolve nel tempo. Ma a volte un evento produce una frattura nelle narrazioni dominanti. L’uccisione di Giulia Cecchettin ha avuto questo effetto, e dovremmo capire come tenere aperta questa frattura. Per questo la presa di parola di Gino Cecchettin è preziosa: perché si sottrae al richiamo dell’autorità paterna che dovrebbe riportare ordine in una società violenta e confusa. Chiede ai padri di essere “agenti del cambiamento”. Ma gli uomini possono esserlo?

Antropologia negativa

Se la violenza è frutto di una cultura radicata e di un sistema di relazioni di potere, la soluzione non può essere neutra né indolore. Oggi molti uomini si pongono la necessità di un’iniziativa visibile maschile contro la cultura che è alla radice della violenza. Ma le posture maschili di condanna della violenza sono tra loro diverse. Se la sessualità e il desiderio maschile sono per loro natura ferini, oppressivi e annichilenti, cosa fare? Coprire i corpi delle donne, preservarli con un burqa dallo sguardo? Affidarsi alla tradizionale capacità virile di autocontrollo? Sono prospettive apparentemente lontanissime, ma fondate su una comune “antropologia negativa” di un maschile scisso tra pulsione bestiale e dominio razionale del corpo. Forse è più utile provare a indagare il desiderio: è un dato naturale («la carne è carne») o è socialmente costruito, colonizzato, conformista e mimetico?

Riconoscerne la natura sociale apre un terreno di trasformazione. Come uomini, veniamo educati a un continuo esercizio di negoziazione della dipendenza, della relazionalità, del legame. Il ragazzo incitato ad “allontanarsi dalle gonne della madre per diventare un uomo”, l’ironia dei compagni di calcetto per chi, fidanzandosi o, peggio, sposandosi, ha rinunciato alla propria libertà, ma anche il tecnico, l’esperto, che afferma l’autorevolezza del proprio giudizio a partire dalla capacità di prescindere dalle proprie emozioni. Come se riconoscere che le relazioni sono fondative della nostra esistenza, che non siamo autosufficienti, fosse uno scacco insopportabile e non una consapevolezza necessaria.

Il rancore maschile verso un femminile rappresentato come opportunista e manipolatorio svela questa finzione. La frustrazione che porta molti uomini a uccidere, e non di rado a fare violenza su sé stessi e sui figli, per l’impossibilità di tollerare una separazione. La rimozione della vulnerabilità o la sua rappresentazione come minaccia, perdita, mancanza, si rivela un vicolo cieco; produce una spinta distruttiva e autodistruttiva. L’accettazione del limite, il riconoscimento della dimensione relazionale della nostra esperienza umana, ci permette di uscire dalla solitudine alienata e incapace di relazione in cui la strategia fondata sul potere ci ha relegati. Per contrastare la violenza maschile contro le donne, insomma, serve un cambiamento profondo nel nostro modo di pensare le relazioni e noi stessi. Un cambiamento che non si può affidare all’intervento di presunti “esperti” che educhino ragazzi e ragazze nella scuola. Per questo è importante la frattura che si è aperta e che ha portato uomini come il segretario della CGIL ad affermare che la trasformazione e il cambiamento «chiamano in causa noi uomini: dobbiamo mutare anche dal punto di vista culturale, perché dietro ai femminicidi ci sono gli uomini». Landini si chiede come costruire atti concreti e non occasionali per promuovere questo cambiamento.

Dovremmo lavorare per tenere aperta questa frattura che si è generata: dare visibilità e spazio alle esperienze di impegno maschile contro la violenza, ai ragazzi che scelgono percorsi di studio critici sui modelli di genere, agli uomini che nella propria vita cercano di essere padri differenti, agli uomini che hanno scoperto. Potremmo cominciare costruendo un appuntamento di confronto pubblico tra uomini. Uomini dell’informazione e della comunicazione, sindacalisti, scrittori, padri, figli, omosessuali ed eterosessuali, uomini impegnati nelle associazioni attive da tempo nel contrasto della violenza, o uomini che oggi cominciano a vedere la miseria che si cela nel potere e nel privilegio e vogliono essere “agenti di cambiamento”. Della società ma, per una volta anche delle proprie vite.


(Domani, 19 gennaio 2024)

di Luisa Vicinelli


Presentazione dell’ultimo testo pubblicato in italiano della studiosa tedesca Heide Goettner-Abendroth. Un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente

«Greci, Romani, Celti e Germani si sono imbattuti in culture matriarcali più antiche ed evolute nel corso delle loro guerre di conquista, innescando conflitti di larga portata di cui sia i reperti archeologici che le fonti storiche offrono testimonianza, e che troviamo riflessi nelle rispettive mitologie di questi popoli. Le antiche civiltà non indoeuropee si possono facilmente riconoscere nelle culture megalitiche del Neolitico e dellEtà del bronzo dellEuropa Antica, nonché nelle prime culture estremamente evolute del bacino danubiano e dellarea egea. Gli elementi matriarcali non costituiscono quindi il “mistero” dei popoli indoeuropei che sono arrivati dopo, ma sono stati semplicemente adottati da culture precedenti, ovviamente matriarcali.»

Il nuovo libro di Heide Goettner-Abendroth Le società matriarcali Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (Mimesis) indaga sulla nostra storia più antica. Ci parla delle sue origini nel Paleolitico, perché è all’inizio di questa lunga epoca durata come minimo due milioni di anni che risalgono i primi ritrovamenti di utensili e di ripari costruiti dagli esseri umani. Sempre seguendo la traccia dei reperti, le prime statuette dalla fisionomia rigorosamente femminile sono datate più di 500.000 anni fa. Si denota fin dalle origini la preponderanza delle rappresentazioni di donne, a indicare l’alta considerazione attribuita al nostro sesso, probabilmente dovuta alla raccolta di cibo, alla capacità di rigenerare la specie e di giocare un importante ruolo di guida nelle società che si stavano formando. Anche dopo, quando sorgono le prime formazioni templari e si moltiplicano le pitture rupestri, le immagini di uomini e animali che iniziano a comparire mantengono un significato sacro che le collega a una visione religiosa incentrata sul materno e la rinascita, quindi al femminile. Questa lettura inedita della spiritualità che albergava nelle nostre antenate e nei nostri antenati capovolge gli assunti della narrazione ufficiale: i primi esseri umani non erano tanto interessati alla sopravvivenza materiale quanto alla continuità della vita, la loro, degli animali e del luogo dove vivevano, in cui vedevano la presenza di una madre terra che sostentava la vita e accoglieva nella morte, in attesa della rigenerazione. Erano i cicli infiniti delle stagioni – e prima ancora quelli della luna – che li informavano di questa eternità immanente, in cui l’esistenza rinasceva incessantemente. Nella descrizione abendrottiana i “cavernicoli” appaiono molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere nei libri scolastici e nei musei: sono “esseri umani” come noi, con un’alta capacità cognitiva in grado forse anche più di noi di esprimere una visione organica e consapevole del mondo circostante.

Ma com’è possibile formulare una ricostruzione storica di epoche lontanissime non potendo quasi mai contare sulla conservazione dei reperti e sull’univocità delle interpretazioni? Heide Goettner-Abendroth ha potuto avvalersi di una pietra di paragone decisiva, grazie agli Studi Matriarcali moderni da lei fondati nel 1982 per studiare i matriarcati del presente e del passato. Arrivati in Italia agli inizi degli anni 2000 ed esposti nel suo primo libro tradotto nella nostra lingua (Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013) sono stati in grado di restituirci la struttura di società totalmente diverse da quelle patriarcali, i cui modelli sono rintracciabili anche nelle prime comunità umane. Le accomuna la cura per i vivi e per i morti, e per il territorio, e la preoccupazione di mantenere bilanciato ogni aspetto della vita, affinché nulla sia d’ostacolo all’armonia e alla pace. L’assenza di potere, di gerarchia, l’uso collettivo delle terre e dei beni gestito dalle madri dei clan, un’attenta ridistribuzione delle risorse per il benessere di tutti e una politica del consenso che dà voce a ogni persona rendono queste società davvero ugualitarie e pacifiche, così come lo erano le genti del Paleolitico e del Neolitico, nonostante molti archeologi si ostinino a vedere in ogni sepoltura collettiva un massacro. Abendroth smonta una dopo l’altra queste congetture senza fondamento fornendo una visione organica delle società umane del periodo. Diventa particolarmente d’attualità lo studio dell’autrice sulla guerra, nata con le invasioni dei pastori guerrieri patriarcali che scesi dalle steppe euroasiatiche hanno portato un nuovo ordine sociale e spazzato via le pacifiche società matriarcali preesistenti. Da allora la nostra storia è stata un succedersi di imperi e potentati nati e poi collassati nel corso di guerre senza fine, e ancora non sappiamo come liberarcene. Forse i modelli di società che siamo stati in grado di creare in un lontano passato possono essere d’ispirazione.

Ma quello della guerra non è l’unico tema su cui possiamo trarre insegnamento: Abendroth, narrando la nascita del patriarcato, ripercorre tutti i passi che hanno portato alla domesticazione delle donne e poi alla loro sottomissione, e alla conseguente sottomissione di tutte le classi non egemoni. Nonostante una credenza diffusa, non è stato con la clava che il potere maschile si è affermato, bensì con il mercimonio delle donne, indispensabile ai guerrieri invasori per assicurarsi una progenie a cui trasmettere proprietà e potere. Il degrado dello status femminile è proceduto di pari passo con l’affermarsi del potere del padre di famiglia, con l’emergere di dei maschili tuonati e rabbiosi fino ai monoteismi che hanno definitivamente affossato la religione della dea e la centralità femminile. Ovunque, sebbene con modalità differenti legate alla peculiare storia di ogni territorio, si sviluppa la famiglia patriarcale in sostituzione del clan matrilineare. Popolazioni come i Celti, che vengono oggi portati a esempio per il potere concesso alle donne, in realtà s’iscrivono totalmente nel sistema parentale proprio di tante società guerriere. Nemmeno le Amazzoni, di cui l’autrice rivendica l’esistenza storica dando credito alle numerose testimonianze degli scrittori dell’antichità, riescono a fermare l’avanzata del nuovo modello sociale, sebbene oppongano una strenua resistenza armata per difendere la loro libertà. Solo pochi gruppi etnici sono in grado di mantenere in alcune credenze e costumi quelle che non sono altro che permanenze degli antichi matriarcati. Eppure è a queste antiche società, e a quelle che sono riuscite a sopravvivere non senza fatica in varie parti del mondo fino a oggi – come ad esempio i Moso e i Minangkabau – che dobbiamo guardare se vogliamo risolvere i problemi creati da questi relativamente pochi millenni di patriarcato. Come aveva già detto Mary Daly, siamo chiamate a creare un Futuro Arcaico. E l’arcaico che ci viene in aiuto è quello narrato da Heide Goettner Abendroth in questo libro.


(Noi donne, 19 ottobre 2023)


(*) Heide Goettner-Abendroth, filosofa e ricercatrice socio-culturale, è nata l’8 febbraio 1941 a Langewiesen ed è considerata una delle pioniere degli studi delle donne della Germania occidentale. Dopo aver insegnato Filosofia Moderna all’Università di Monaco, ha abbandonato la carriera universitaria per fondare nel 1986 l’INTERNATIONAL ACADEMY HAGIA (www.hagia.de) per gli Studi Moderni sul Matriarcato e la Spiritualità Matriarcale, che dirige ancora oggi. Per la sua ricerca durata più di trent’anni è stata riconosciuta negli ambienti progressisti e femministi come la fondatrice degli Studi Matriarcali moderni, un nuovo campo epistemologico per la definizione strutturale della forma sociale matriarcale che è stato presentato nel corso di diversi convegni internazionali: nel 2003 in Lussemburgo, nel 2005 a San Marcos (Texas), nel 2009 a Roma, Milano e Bologna e nel 2012 a San Gallo in Svizzera. È stata eletta una delle mille Donne di Pace del mondo e candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace. Dei suoi numerosi libri sono stati tradotti in inglese “The Dancing Goddess. Principles of a Matriarchal Aesthetic” e “The Goddess and Her Heros. Matriarchal Religion in Mythology, Fairy-Tales and Poetry”.In Italia sono stati pubblicati: Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo” (Venexia, 2013), “Società di pace. Matriarcati del passato, presente e futuro” (Castelvecchi, 2018) e “Madri di saggezza” (Castelvecchi, 2020).

Quali sono le implicazioni di una pratica che ha a che vedere con il corpo delle donne, la maternità e il destino di bambine e bambini nel passaggio epocale dal patriarcato al post-patriarcato e dall’umano al post-umano? La Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile ha prodotto un testo collettivo per rispondere alle domande più comuni, superando gli schieramenti aprioristici spesso riconducibili a scarsa informazione. Ne parliamo con Maria Castiglioni, Clelia Pallotta, Luciana Tavernini e Marina Terragni.

di Antonella Nappi e Alfonso Navarra


Antonella Nappi, nella sua qualità di femminista storica, è intervenuta alla conferenza stampa sulla proposta di corpi civili di pace europei, organizzata dai Disarmisti esigenti.

Levento si è svolto a Roma, il 10 gennaio 2024, presso il CESV di via Liberiana 17, dalle ore 11.00 alle ore 13.00, in contemporanea con il voto delle mozioni parlamentari, sulle comunicazioni del ministro Crosetto, che hanno dato indirizzo al governo per continuare a portare avanti gli aiuti militari allUcraina in guerra.

Lo scopo della conferenza: presentare la proposta al Parlamento europeo, che aprirà la sua prima sessione del 2024 il 15 gennaio, di istituzionalizzare ambasciate di pace e corpi civili di pace a livello europeo, come da idea originaria (1994) di Alex Langer.

Sono intervenuti: Alfonso Navarra – coordinatore dei Disarmisti esigenti; Cosimo Forleo – Associazione Per la scuola della Repubblica; Marianella Sclavi – referente del progetto MEAN.

Contributi scritti: Giuseppe Paschetto – tra i responsabili pace del M5S; Alessandro Capuzzo – Tavola della Pace del Friuli-Venezia Giulia; Maria Carla Biavati – già vicepresidente dei Berretti Bianchi; Tonino Drago – già presidente del Comitato per la difesa civile non armata e nonviolenta.

La conferenza precede anche il presidio, che si svolgerà la settimana successiva, dei digiunatori per coerenza pacifista, al Pantheon contro il decreto-legge ombrello che consente gli aiuti militari allUcraina mediante semplici atti amministrativi comunicati al COPASIR.

Sotto riportata la trascrizione del suo discorso, che è ascoltabile al seguente link dal sito di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/717677/conferenza-stampa-sulla-proposta-di-corpi-civili-di-pace-europei-per-un-modello-di

Per maggiori info e approfondimenti, ecco un link: https://osmdpn.webnode.it/corpi-civili-di-pace/

Qui di seguito la trascrizione dell’intervento di Antonella Nappi.

(Alfonso Navarra)


Sono Antonella Nappi, femminista da sessant’anni. Frequento molte organizzazioni di donne in lotta, in particolare abbiamo fatto molti incontri e scritto testi alla Libreria delle donne di Milano, quindi nel sito vi troverete i resoconti di essi. Le donne sono la dimostrazione più evidente di quanto spazio e quante libertà si sono prese, in una storia lunga e in Italia in questi sessant’anni, facendo battaglie del tutto pacifiche. Argomentando le loro analisi, i loro sentimenti, i loro desideri e sviluppando tra loro una relazionalità che non nega l’altro ma lo riconosce e accetta di rispettarlo e mediare, dove è il caso di farlo perché utile. Lo stesso le donne fanno con gli uomini, coinvolgendoli in questa capacità di lotta pacifica che è sostanzialmente proprio il non negare l’altro, volerlo tacitare, definirlo nemico, ma entrare con l’altro in comunicazione e sviluppare una contrattazione che dia valore alla sostanza che li vede in accordo. Ecco quindi I Corpi Civili di Pace: sono molto desiderati da tutte le associazioni che frequento e ho sentito. Sono invocati perché non si può sopportare di vedere le carneficine cui attualmente stiamo assistendo in Palestina, senza sconvolgerci, e dunque anche poi reagire (indurendoci). Noi stesse perdiamo umanità, nel dover assistere a queste cose orrende. Quando Zelenski, due anni fa, domandò agli Italiani, agli Europei, di entrare in guerra con lui, con loro, per difendere l’Ucraina dalla Russia, noi rimanemmo veramente allibite, come il 95% della popolazione italiana immediatamente quell’anno lì, perché con un’abitudine alla pace, con l’esperienza fatta nella capacità di confliggere in pace, chi ci invitava a combattere era anacronistico. Noi abbiamo subito detto che volevamo votare la pace, volevamo poter scegliere, nelle nostre elezioni imminenti, candidati che si distanziassero da queste assurde richieste. Per di più da un popolo che da molti anni era in conflitto con la Russia e non cercava mediazioni, contrattazioni, aiuti internazionali di pace. Ma in qualche modo, assurdamente, voleva proprio fare la guerra. Noi siamo molto favorevoli a Corpi di Pace perché bisogna rompere questa cultura egoistica e delirante di chi vuole vincere e annientare il nemico. Di chi si attacca a chi è stato il primo, oppure alle Leggi, quelle poche che sono state disattese e mira a scatenare la sua personale violenza, i suoi problemi non chiariti, dentro un conflitto già esistente. Schierandosi con chi gli pare, o con chi si identifica secondo una sua esperienza passata di conflitti che invece sarà bene che veda per sé stesso o per sé stessa, noi questo invitiamo a fare. Le siciliane, le catanesi, proprio in una riunione nazionale femminista organizzata dalla Libreria delle donne dicevano: «Il corpo di pace deve essere prima di tutto il mio, il tuo, il nostro. Fare spazio alle attenzioni per gli altri contendenti, per le altre forze, per gli altri desideri, così da poterli organizzare in una mediazione».

A seguito delle conclusioni che Alfonso Navarra trae, dove facendo lesempio della pace europea propone lobiettivo di cercare che cosa unisce tutti i popoli («la pace con la natura cambiando il nostro modello di malo sviluppo») perché lavorando per comuni interessi si possa trascendere i conflitti, conclusioni che invito ad ascoltare, mi sono voluta aggiungere con altre due parole che trascrivo:

Dobbiamo imparare dalle donne: ascoltare le donne, copiarle, per creare una società che non sia di soli uomini che non riconoscono gli altri da sé stessi, ma riconoscano le donne. Con loro si aprano ai sentimenti, alla riflessione, alla comunicazione, alla mediazione.


(www.libreriadelledonne.it, 18 gennaio 2024)

di Roberta De Monticelli


Israele a processo davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. E la pronunzia di quel nome terribile che squarcia tutti i tabù e gli interdetti, genocidio, suscitando raffiche di riprovazioni e negazioni sparate dai politici, israeliani e no. Anthony Blinken in testa, secondo il quale l’azione legale sudafricana «distrae il mondo». Da cosa? Come se un’accusa di genocidio fosse una fola che non merita di essere presa sul serio!

E invece proprio all’Aja l’umanità è al bivio, per citare Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022). Lo è la nostra comune umanità, quella già macchiata dai cento giorni di bombe su Gaza, secondo il capo dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. È a un bivio fra l’abisso e la speranza. E non solo per la sorte di Gaza, o la speranza che la Corte accolga la richiesta di misure precauzionali, fra cui il cessate il fuoco, se riterrà plausibile l’accusa: perché ne seguirebbe l’obbligo di fermare l’eventuale consumazione di questo reato dei reati. La nostra umanità è al bivio fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra. Ma è proprio lì, in quell’ammasso di dolore e rovina che è la Striscia di Gaza, che ora brucia l’anima del mondo. Perché lì si consuma quotidianamente una strage che non è solo di corpi e di anime, è di significato e verità. Forse in nessun altro osservatorio tragico del mondo si vede così bene quanto il bivio fra la speranza e l’abisso, fra la civiltà e la guerra mondiale, prenda avvio dal linguaggio.

La prima biforcazione è lì: fra chi lo usa sentendosi impegnato a riconoscere il vero – impegno con cui comincia l’etica – e chi delle parole abusa, per ignorare il vero senza neppure confessarlo a se stesso. Per cancellare i nomi dell’altro. Per chiamare democratico uno Stato che si regge sull’esclusione di una parte dei suoi cittadini dai diritti di nazionalità (Nation-State Act del 2018) e sulla soggezione degli altri, non-cittadini, a un regime d’occupazione sempre più feroce, in quella terra che Israele sognò «senza popolo».

E soprattutto per chiamare «guerra», ora, ciò che «guerra» non è e non può essere, perché il nemico, Hamas, non è uno Stato; perché non ha il controllo sul territorio, sulla moneta, sulle frontiere, sull’energia, sull’economia e perfino sulle basi della sopravvivenza: l’acqua, il pane, il lavoro. Perché prima di questa ecatombe Gaza ne ha subite altre cinque, minori certo in estensione e durata, ma simili nell’impossibilità per gli innocenti di fuggire dalla «più grande prigione a cielo aperto». Perché chiamare «guerra» questa ecatombe di civili, quando il territorio bombardato è a tutti gli effetti soggetto alla potenza occupante (cui il diritto internazionale accolla invece responsabilità di protezione nei confronti dei civili, per severa che possa essere la pena per i responsabili delle milizie di resistenza armata), è una violazione della logica e dell’etica dagli effetti devastanti. Pari solo allo sdoganamento, nel linguaggio prima e negli atti poi, di ciò che viene prima dell’assetto civile delle società umane, che appartiene al loro strato più arcaico e tribale: la vendetta.

Se cancellassimo la distinzione radicale fra la violenza senza limiti di legge (come quella di Hamas il 7 ottobre) e quella soggetta a tutti i vincoli di uno Stato di diritto e del diritto internazionale, se la cancellassimo anche dal linguaggio (sempre più cinico e corrivo) della maggior parte dei politici e dei commentatori, cosa resterebbe della civiltà rinata dalle ceneri della guerra, cosa resterebbe perfino della memoria delle vittime della Shoah? Più nulla.

Ed ecco perché la voce dell’accusa che si è levata l’11 gennaio alla Corte dell’Aja è parsa a molti «più intima del proprio intimo» – come il richiamo di una possibile salvezza. Grandi attori di tutto il mondo ne hanno rilanciato in rete le frasi cruciali. A molte orecchie esse sono parse, come altre già incise nella memoria umana universale, «legiferanti». Che è molto, molto di più di «giuridicamente stringenti». Perché parevano una restitutio, una re-instaurazione del mondo nato da quel «mai più»: quel patto di convivenza pacifica fra tutti i popoli della terra che fu stipulato con la carta dell’Onu nel 1945 e con la Dichiarazione universale nel 1948. 
Una questione di memoria, come scrisse Kant all’inizio dell’età dei diritti. Non si dimentica più, diceva, la proclamata «primazia del diritto» sulla forza. E mentre l’Europa tace e gli Usa mandano bombe, è come se nelle parole dei sudafricani fosse risuonata la voce profonda di Nelson Mandela, che già una volta aveva rinnovato il mondo. «E farò nuovi cieli, e nuova terra»: all’Aja parve possibile una renovatio mentis, che strappava l’anima del mondo a quella catastrofe intellettuale prima che morale che è la menzogna politica, mostrando come la politica senza il diritto non sia solo cieca, ma anche criminale.

E la difesa di Israele? Una questione di memoria, anche questa. Tragica. Non la memoria del diritto, ma la politica della memoria. Anche di questa bisognerà parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria.


(il manifesto, 17 gennaio 2024)

di Francesca Coin, sociologa


Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, più di ottanta scrittrici e giornaliste italiane hanno lanciato una campagna per tenere alta lattenzione sulla violenza di genere. Dal 3 gennaio al 3 marzo appariranno sui giornali italiani articoli e racconti per definire la violenza e nominarla. Ognuna userà la sua voce e la sua esperienza personale per descrivere un fenomeno complesso e multiforme, perlopiù tollerato dalla società.

Era la fine degli anni novanta. Ero una studente al primo anno d’università. Quell’estate lavoravo in un locale per pagarmi gli studi. Mi davano vitto e alloggio, il che mi permetteva di vivere lontana dalla famiglia e di conquistare un po’ di libertà. Lui aveva trent’anni, faceva il cameriere. Era alto, muscoloso e si muoveva tra i clienti come un gigante capace di superare ogni ostacolo per portare pile di piatti e bicchieri a destinazione. Quelle settimane ci siamo trovati a lavorare e ad abitare insieme.

Capita spesso che gli stagionali vivano in strutture fornite dai datori di lavoro, di solito inadeguate, fatiscenti o da condividere. In questo caso, l’alloggio era un monolocale in una mansarda in cui c’erano tre letti singoli: uno per me, uno per il Gigante e uno per l’Alto, un uomo sui quaranta, alto e magro con i capelli lunghi, che aveva la brutta abitudine di addormentarsi con la sigaretta accesa. Ero a disagio a vivere con due uomini che non conoscevo, molto più grandi di me. Con turni di dodici ore ogni giorno, tuttavia, mi ero detta che avrei passato a casa poco tempo e avevo provato a ignorare quella sensazione d’insicurezza.

Un giorno, le valigie dell’Alto non ci sono più. Si mormorava che avesse problemi di dipendenza dall’eroina e che se ne fosse andato. Da quel momento, nel monolocale siamo rimasti solo io e il Gigante.

Paralisi

Il Gigante era una persona politicamente impegnata, con precedenti penali, che ogni tanto farneticava di fare la rivoluzione o la marcia su Roma, come se fossero la stessa cosa. Ostentava la propria forza fisica con un retrogusto di prepotenza, un atteggiamento che nel locale in cui lavoravamo era considerato una virtù, una risorsa da usare nelle serate di maggiore affluenza per tenere a bada clienti ubriachi o fastidiosi.

Una sera io e il Gigante eravamo entrambi di riposo. Lui era sul suo letto e io sul mio. Poi lui si è spostato nel mio. E io non sono riuscita più a fermarlo.

È chiamato freezing, quella reazione per cui durante una violenza la vittima resta paralizzata, come gli animali aggrediti che si fingono morti per evitare di essere uccisi dai predatori. Nel freezing il suo corpo è paralizzato e lei è come assente, come se si sforzasse di essere altrove.

Quando sono riuscita a divincolarmi ho cercato rifugio da un amico e per qualche giorno sono rimasta lì. Ho tenuto la valigia in auto e fino a fine stagione ho cercato ospitalità dove possibile per evitare di tornare in quella mansarda.

Quasi trent’anni fa non avevo le parole per spiegare quello che era successo. Se non c’è consenso è stupro, ma all’epoca io non lo sapevo e nessuno me lo aveva spiegato. La vita mi aveva insegnato, al contrario, con i fatti, se non con le parole, che una donna dev’essere conciliante, accomodante e possibilmente accondiscendente, perché dire no è un atto sovversivo che alle donne non è concesso.

La mia generazione è nata negli anni della grande trasformazione, quando furono riconosciuti il diritto al divorzio (1970) e quello all’aborto (1978), e fu abrogato il delitto d’onore (1981). Ciò che la legge stabiliva, tuttavia, nella cultura restava un tabù, anche per via di un modello educativo fondato sull’idea della brava bambina, della figlia obbediente e mansueta, che le generazioni precedenti avevano eletto a unico modello legittimo di femminilità. In questo contesto, per articolare quello che era successo nella società bisognava avere gli strumenti per capire che dire no era uno strumento di libertà, il mattoncino su cui le donne hanno costruito la loro autonomia, un istinto da celebrare.

Nella mia esperienza, tuttavia, dire no non era considerato così. Era l’atteggiamento provocatorio di un’adolescente arrogante che andava inibito con la disapprovazione, punito, represso e corretto. “Lo stato ideale proposto per le donne è la docilità”, scriveva Susan Sontag in un articolo del 1972. Questo ideale non prevede che la donna abbia una sua volontà ma che esista come contenitore di desideri e volontà altrui. Ai miei tempi la donna era il contenitore della volontà altrui e questo era ribadito con l’esortazione alla remissività e all’obbedienza con cui molte di noi venivano educate. È chiaro che, in questo contesto, strappare uno scampolo di libertà significava esporsi a situazioni di pericolo senza avere gli strumenti per affrontarle. L’alternativa ancora peggiore, tuttavia, era arrendersi a una cultura e a un ruolo sociale passivo e subalterno, cosa che per me non era possibile.

È così che, per molte di noi, affinare gli strumenti necessari è stato un processo lungo e faticoso, di cui il dibattito sul consenso è stato uno snodo fondamentale.

Il consenso, inteso come libertà di acconsentire o meno a una precisa azione o relazione, presuppone che la volontà di una donna sia riconosciuta socialmente come tale. È per questo che, ponendo al centro la questione del consenso, il movimento #MeToo è stato terapeutico. Viviamo ancora, spiega Judith Butler in Corpi che contano (Castelvecchi 2023), in un contesto culturale dominato da norme sociali patriarcali che relegano la volontà della donna in una posizione subalterna. Non è raro, dunque, che questa volontà sia oggetto di tentativi di sequestro da parte di chi vorrebbe ignorarla, imbrigliarla e sovrascriverla con la propria. Il concetto di consenso, in questo senso, è complesso, come spiega bene la filosofa Maria Borrello, perché si colloca all’interno di una lunga tradizione in cui «la disposizione al rapporto sessuale era considerata come un atto dovuto della donna per soddisfare il desiderio dell’uomo». In questo senso, scrive la filosofa, la storia del rifiuto all’interno di un rapporto sessuale è recente e complessa. Per esempio, scrive Borrello, «accade non di rado, che una donna non dica “no” poiché sente di non avere mezzi per porre fine al comportamento dell’uomo, o di non averne il diritto».

Succede anche che una donna dica no, ma che il suo rifiuto non sia accettato, perché le diffuse rappresentazioni della donna come soggetto subalterno permettono all’uomo di «assumere una posizione direttiva rispetto alla relazione in corso e quindi escludere che quel “no” sia da intendere in senso proprio, come un rifiuto». In questi casi, si parla spesso di “disabilitazione illocutoria”, perché il fallimento del rifiuto passa attraverso la negazione della legittimità della volontà della donna.

Considerate tutte le affascinanti e tragiche complessità del dibattito sul consenso, è stata proprio la sua capacità d’illuminare le relazioni di forza che implica a essere terapeutica, perché la dimensione collettiva di questa discussione ha permesso, almeno a me, di capire che non era colpa mia. Tra tutte le cose che il consenso non è, la «forzata adesione a una richiesta posta entro condizioni che rendono difficile il rifiuto» sicuramente non è consenso. E questo, a volte, è sufficiente per capire e per perdonarsi.

Trent’anni dopo, è triste constatare che quello che è successo a me non è un caso isolato. Se guardiamo solo al settore alberghiero e della ristorazione, i dati recenti sono spaventosi: nove donne su dieci, tra quelle che lavorano in questo campo, hanno subìto aggressioni o molestie sessuali, contro una media di tre su dieci negli altri settori.

Da almeno quindici anni diverse inchieste provano a chiedersi come mai in questo settore i casi di violenza siano così alti. Le risposte sono sempre le stesse, e la più importante ha a che fare con un contesto culturale in cui la fortuna di un locale è spesso legata alla capacità di ammiccare alla possibilità dei clienti di soddisfare tutti i loro desideri.

È una cultura che non trova argine nelle norme culturali promosse dai datori di lavoro. E se poi aggiungiamo elementi come il sommerso, i pochi controlli o la ricattabilità salariale o abitativa (cioè la situazione in cui mi trovavo anch’io), non sorprende che l’obbligo del datore di lavoro di garantire l’integrità psicofisica del personale previsto dalla legge sia spesso disatteso, creando così le condizioni per traumi che hanno una durata molto più lunga di un lavoro stagionale.


(Internazionale.it, 15 gennaio 2024)


Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

di Giulia Caminito*


Quando ero in quinta elementare nella nostra classe c’era un bambino di nome P.

P. era seguito da una insegnante di sostegno e sedevano insieme al fondo della classe. Io non ho mai saputo la vera storia di P., sapevo solo che aveva problemi di linguaggio e apprendimento.

P. a un certo punto si innamorò di me, non so come mai. Non avevamo mai interagito molto e non eravamo amici, ma lo vedevo spesso nel suo mondo, nel suo spazio personale invalicabile.

Insomma, io non ricambiavo P. e lui si fece presto insistente sia nel modo in cui mi fissava, che nelle frasi che mi diceva. A volte mi seguiva o voleva a ogni costo sedere con me sul pulmino che ci riportava a casa. Io non volevo, continuavo a dire di no, gli ripetevo che preferivo sedere da sola. Ma lui non voleva saperne, durante la ricreazione era la mia ombra. Finché una volta glielo dissi ad alta voce che non volevo essere seguita da lui.

Fu allora che P. mi prese a pugni.

Tornai a casa con un occhio nero e dei graffi e ai miei genitori venne detto che P. aveva problemi di comportamento, tutti rimasero costernati dall’episodio, P. stesso non ne fu felice, mi chiese scusa e da quel momento non solo io mi tenni alla larga, ma anche lui non si avvicinò più. La violenza aveva sancito un confine, quella volta.

Per molto tempo mi sono dimenticata di questo episodio e di come ho smesso di fidarmi dei maschi e delle loro attenzioni se non volute.

Alle scuole medie divenni molto più insicura, chiusa e impaurita. Ero convinta di essere in costante pericolo di venir rapita e venduta all’estero. Immaginavo qualcuno che facesse la posta a noi ragazzine per attirarci con una scusa e poi farci sparire come quelle donne o bambine che a un certo punto non si sa più dove trovarle. La televisione era piena di questi smarrimenti, di appelli e tentativi di farle tornare vive a casa. In molti casi queste giovani donne, se sono tornate, lo hanno fatto da morte.

Ogni volta che vedevo un furgone bianco sotto la scuola correvo disperata verso le mie compagne di classe, quando mi fermavano per strada avevo l’istinto di scappare e nascondermi, mi tormentavo all’idea di rimanere da sola nei camerini dei negozi, nei sottoscala, nei giardini pubblici, ovunque potesse esserci un rapitore seriale pronto a occuparsi di me.

Divenni molto consapevole del fatto, da me ignorato nell’infanzia, di poter essere oggetto di stupro, di violenza. Ero così inquieta di finire in situazioni di pericolo che avevo ansia di avvicinarmi a qualcuno e poi capire che presto avrebbe preteso da me qualcosa. Sviluppai un senso del pudore claustrofobico, un disagio pervasivo nei confronti di ragazzi o uomini sconosciuti. Non volevo trovarmi a dover dire di no ancora, e che quel no non sarebbe servito e non mi avrebbe difesa

Da quel momento è diventato normale per me preoccuparmi dei luoghi in cui vado, evitare situazioni di troppa esposizione, non intrattenermi con chi non conosco, chiedere di essere riaccompagnata alla macchina, parcheggiarla preventivamente vicino al posto dove mi sto recando, non superare certi orari serali, visualizzare, sempre, quanti uomini ci sono nella via, cosa stanno facendo, cosa stanno guardando e se stanno guardando me provare un brivido di terribile angoscia, sperare che finisca presto, quella sensazione di tormento.

Ma oggi mi accorgo che si tratta perlopiù di un riflesso automatico, un sistema di considerazioni che scatta senza che io debba preventivamente ragionarci sopra, è diventato inconscio per me fare caso a tutta una serie di comportamenti che potrebbero evitarmi una occasione di violenza.

In questi giorni mi è capitato di vedere un documentario del 2020, e ora disponibile su Netflix, dal titolo Beyond Men and Masculinity del regista Alex Gabbay. Nel lungometraggio si parla dell’educazione anti-emotiva che viene data agli uomini fin da piccoli e di quali pratiche oggi si stanno attuando per cercare una riconnessione tra quelle emozioni infantili soppresse e i soggetti frustrati, depressi, violenti, che sentono di averle perdute. Psicologhe, mediatori, pedagogisti si confrontano sulle diverse età del maschio e le fasi della formazione dell’individuo, provando a capire come spezzare la linea del patriarcato. Il desiderio di connessione viene individuato quale movente primario di comportamenti aggressivi e dispotici, come può capitare ai bambini o agli adolescenti per far parte di un gruppo, essere riconosciuti da altri. La connessione, infatti, fatica a muoversi per i giovani uomini sul piano delle emozioni condivise, verso le quali c’è grande soggezione. I ragazzi che risultano più emotivi, docili, gentili vengono presi di mira, invitati a uscire dal gruppo per avvicinarsi alle femmine. La loro sessualità è messa in dubbio immediatamente e la loro attrattiva per giochi e leadership ridotta a zero.

Spesso questa soppressione è stata attuata dai padri e prima dai nonni, in una catena di responsabilità, da cui emerge una visione degli uomini parziale, dove non c’è molto spazio per il fallimento e la debolezza. I padri, nel corso della Storia, hanno sempre teso a sgridare i figli maschi quando non raggiungevano degli obiettivi, quando per colpa dei loro problemi psicologici o delle loro fragilità non rispondevano in modo adeguato al ruolo sociale che avrebbero dovuto ricoprire.

Questi studi e testimonianze sottolineano che se il gruppo maschile tende a non saper riconoscere la fragilità e a sopportarla, i ragazzi e poi gli uomini sono portati a cercarla altrove presso le donne, che diventano allora fulcro dell’attività sentimentale. Emozioni soppresse con gli altri uomini vengono convogliate verso il soggetto femminile, a volte investendo la donna di frustrazioni enormi, problematiche psicologiche gravi, ossessioni di possesso, pulsioni aggressive, violente. La donna-specchio dove si riflettono le emozioni, la donna-testimone della parte più fragile e mai espressa in alcuni casi deve essere colpita, eliminata, diventa insostenibile. Soprattutto quando dice di no, quando si allontana. E reclama per sé stessa non il ruolo di “funzione” ma la libertà di una persona.

Un episodio del documentario mi ha particolarmente colpita: un bambino sta giocando a una partita di hockey ma non fa del suo meglio, la squadra alla fine perde, il padre, che era nel pubblico, lo umilia davanti a tutti facendogli notare che non si è impegnato abbastanza e il bambino piange, ha un momento di vergogna e sconforto, va allora a sedersi sugli spalti accanto alla madre che, come farebbero molte, si avvicina per confortarlo: è in quel momento che il bambino scatta e dà un pugno in faccia alla madre.

Ecco in una scena manifestato il meccanismo della rivalsa, della aggressione e dello specchio: la madre che cerca sul piano emotivo l’avvicinamento e la cura è la più facile da colpire, la più esposta, quando il padre e gli altri maschi in campo non lo sono e anzi negano la possibilità del pianto, del dispiacere e dello sfogo, considerati comportamenti vili, infantili.

Noi donne in qualche modo sappiamo che essere prese a pugni è una cosa che ci riguarda. Non nel senso che veramente ognuna di noi ne riceve o ne riceverà o che gli uomini ricorrono tutti alle proprie nocche in caso di difficoltà. Ma nel senso che noi lo sappiamo, noi profondamente da un certo momento in poi della vita lo sappiamo che saremo sempre potenzialmente corpi considerati utili allo sfogo di vergogne, frustrazioni, inettitudini, depressioni. E che quegli sfoghi potrebbero essere fisici, potrebbero essere violenti. Noi camminiamo nel mondo sapendo che non avremo presumibilmente la prontezza, la forza fisica, la determinazione per reagire con un altro pugno, ma faremo come ho fatto io a dieci anni quando P. si è sentito rifiutato e mi ha picchiata: sono rimasta immobile, intontita e poi ho cominciato a piangere e a sentirmi svuotata e incapace.

Quando si parla di patriarcato, di un sistema che vede dei ruoli ben distinti per uomini e donne nella società, un sistema che è stato messo in discussione nel secolo scorso e che ha subito scossoni, rese e modifiche, si tende a dimenticare il lato umano ed emotivo, il lato profondo e meno visibile del patriarcato che riguarda le individualità, le loro dinamiche piccole e quotidiane. Il lavoro comune per il superamento è grande, è faticoso, è doloroso, la morte del patriarcato sta avvenendo molto lentamente e intanto rimangono a terra i corpi di quelle donne specchio-testimone, che senza saperlo lo hanno messo in crisi, lo hanno sfidato coi loro no, coi loro gesti di autonomia.


*Giulia Caminito, scrittrice, è ideatrice dell’azione letteraria “#unite” contro la violenza sulle donne. Ha vinto il Premio Campiello nel ‘21 e collabora con il quotidiano La Stampa


L’iniziativa Un’azione letteraria contro la violenza sulle donne


La scrittrice Giulia Caminito e la giornalista Annalisa Camilli hanno ideato la campagna di scrittura “#unite”, invitando autrici italiane a scrivere un articolo o un racconto sulla violenza contro le donne. Hanno aderito oltre 80 scrittrici e giornaliste (alcune: Daria Bignardi, Chiara Gamberale, Loredana Lipperini, Rossana Campo) che, fino alla fine di febbraio, pubblicheranno su quotidiani e riviste il proprio contributo. «Un’azione di gruppo – scrivono Camilli e Caminito – che nasce dalla volontà di trovare insieme parole più giuste per parlare di violenza sulle donne». A cominciare da oggi, La Stampa farà la sua parte. Il secondo step del progetto (che si può seguire su Instagram @unite_azioneletteraria) verrà comunicato a marzo.


(La Stampa, 14 gennaio 2024)

È una pratica straordinaria, multilivello – quindi possono partecipare tutte e tutti -, si tiene una domenica al mese e il ricavato va a sostegno della Libreria! Vi invitiamo ad arrivare per le 10.15. Per qualsiasi ulteriore informazione scrivere a info@libreriadelledonne.it o contattare il numero 3408587963. È necessaria la prenotazione

di Umberto Folena


Ci sono due motivi per essere grati a Margherita II di Danimarca, domani ex regina, o forse regina emerita, comunque non più sovrana del suo piccolo regno del nord. Il primo è che abdica, cedendo la corona a suo figlio Frederik. I sovrani quasi sempre abdicano perché costretti: una guerra persa, uno scandalo. Abdicano perché non possono farne a meno, senza nascondere la convinzione di essere vittime di un’ingiustizia. Di solito abdicano accompagnati dal sospiro di sollievo dei loro sudditi: finalmente s’è tolto di mezzo. Margherita II, prossima agli 84 anni, portati egregiamente, abdica perché ritiene sia il momento giusto per farlo. Forse anche perché è meglio che il figlio maggiore Frederik diventi re prima dell’età pensionabile (è nato nel 1968, non è più un ragazzino). E i sudditi non gioiscono affatto, anzi sono dispiaciuti perché a Margherita vogliono bene.

Bisogna insomma esserle grati perché è uno dei rari esempi di non attaccamento morboso alla poltrona; e la sua poltrona era un trono vero, non metaforico, suo per ben 52 anni, non lontanissima dal record di longevità della cugina (di terzo grado) Elisabetta II d’Inghilterra: entrambe hanno un’antenata del calibro della regina Vittoria, ed è tutto dire. Chissà che non serva d’esempio a chi occupa altri “troni” da cui non riesce a scollarsi, in genere obiettando che nessuno sia dotato di terga adeguate all’arduo compito. Abdicherà come ha regnato, ossia in modo sobrio ed essenziale. Domani alle 14 firmerà l’atto ufficiale al Castello di Christiansborg, alle 15 la proclamazione, alle 17 il trasferimento delle insegne reali al palazzo di Amalienborg, residenza di Federico IX. Questa la scarna cronaca. Il secondo motivo di gratitudine è che la regina non si è limitata a regnare, ma ci ha lasciato quadri e illustrazioni – è una vera maestra del decoupage – tra cui quelle che accompagnano l’edizione danese del Signore degli anelli. Di recente ci ha lasciato un piccolo film delizioso come sanno esserlo certe piccole fiabe, opera di cui ha curato – maniacalmente, come è palese nel documentario che ne racconta la genesi – costumi e scenografie. È un film progettato per più di dieci anni; e vien da domandarsi che se pure una regina ci mette così tanto a trovare un produttore, be’, sarà sì potente ma assai poco invadente.

Il film, prodotto da Netflix, è Ehrengard – Larte della seduzione, tratto da una novella scritta nel 1962 da Karen Blixen e diretto da Bille August, non più un ragazzino neppure lui, ma dal ragguardevole pedigree, avendo vinto per due volte la Palma d’oro a Cannes e pure un Oscar. Ambientato in un regno immaginario della Mitteleuropa, ha un titolo ingannatore: il seduttore finisce amabilmente sconfitto e deriso e il personaggio forte non è lui, Cazotte, pittore francese, ma Ehrengard, la ragazza che lo mette nel sacco, ben più forte e sicura, eppure priva di spocchia. Resta fedele al fidanzato, con il quale tira di scherma (tanto per capire di che pasta sia fatta) ed è un modello di donna terribilmente seducente, paladina di un “femminismo” orgoglioso ma non aggressivo né ostile verso il maschio, che non ha bisogno di umiliare perché la sua arma è l’ironia lieve di chi è consapevole della propria forza.

Va da sé che tanta passione per il progetto e tanto amore per la fiaba di Karen Blixen inducono a pensare che Margrethe si identifichi in Ehrengard, la senta “sua”. Lei ha regnato come avrebbe regnato Ehrengard, ed Ehrengard avrebbe regnato come Margrethe. E alla soglia degli 84 anni avrebbe abdicato. Continuando comunque a tirare di spada, perché dalle ottime abitudini non si abdica.


(Avvenire, 13 gennaio 2024)

di Daniela Santoro


Nel mese di novembre si è consumato, davanti agli occhi di tutti – in una morbosa diretta televisiva, a cui ormai siamo purtroppo abituati – l’ennesimo femminicidio: la vittima era Giulia Cecchettin. Siamo stati tutti, per una settimana, con gli occhi incollati al telefono, alla tv, le orecchie fisse a varie stazioni radiofoniche alla ricerca di una notizia, un’informazione in più, nonostante la maggior parte degli spettatori conoscesse già quale sarebbe stato l’epilogo.

Io ho appreso la notizia durante una delle attività quotidiane più banali e indispensabili: stavo facendo la spesa al supermercato. Ricordo di aver aperto Instagram, mentre navigavo nel reparto surgelati, e aver visto sulla mia home il post di Elena Cecchettin – una tenera foto tra sorelle, un cuore in didascalia. Ricordo di essermi fermata in mezzo al corridoio, giusto un istante come per far funzionare meglio le mie sinapsi tra il rumore delle casse e il vociare degli avventori. Ricordo poi di aver pianto, una reazione spontanea e viscerale. Mi sono vergognata, un pochino, delle mie lacrime tra surgelati, verdure in scatola e patatine. Ho pagato la mia spesa, sempre tra lacrime sommesse, e sono rientrata a casa, triste e confusa.

La mia giornata è andata avanti alla meno peggio: non riuscivo a distogliere la mia attenzione da questa vicenda. Mi sono chiesta a lungo il perché, perché questo femminicidio era diverso – lo sentivo diverso, vicino, personale – mi sono chiesta se fosse per la tv, se fosse per l’attesa, se fosse per la contingenza con il 25 novembre, poi ho capito: era personale perché per la prima volta nella mia vita ho pensato: «Potevo essere io».

La mia vicenda personale, ormai di parecchi anni fa, è abbastanza simile a quanto ha preceduto la scomparsa di Cecchettin. Un uomo come Filippo Turetta l’ho avuto al mio fianco: una persona meschina, insicura, che traduceva questa sua inettitudine in una continua competizione con me, che apparivo agli occhi di tutti come una brillante liceale con un roseo futuro davanti. Lui, al contrario, accumulava fallimenti e delusioni accademiche durante i primi anni dell’università. Sminuirmi era dunque per lui essenza di sopravvivenza: più lui cadeva in basso, più doveva trascinarmi appresso.

Quella che all’inizio era una semplice cotta estiva in pochi mesi è diventata una di quelle che adesso chiamiamo relazioni tossiche, con tira e molla, insulti, litigi, tranelli, fino alla violenza vera e propria e alla persecuzione. Infatti, non è sempre facile chiudere le relazioni con questo tipo di persone: come bisce riescono sempre a trovare il modo di rientrare nella tua vita, magari tramite amici in comune, attenzioni non richieste o chiamate imploranti nel cuore della notte. Rientrano coi i vari cambierò, i vari non sei tu, sono io e altre bugie che raccontano come se ci credessero davvero. Non se ne vanno, mai. Non se ne vanno perché io – e come me tante altre – mi sento obbligata ad accogliere le loro turbe, a offrirmi come spalla su cui piangere lacrime di coccodrillo. Così, anche se l’unica cosa che vuoi fare è sbattergli la porta in faccia, sei lì a cercare le parole migliori per andartene senza farlo soffrire troppo. Solo che a volte queste parole non esistono e resti con la porta aperta, lui entra ed esce quando gli pare, come se quella relazione fosse solo un albergo e le cose che vorresti dirgli si accumulano sempre di più, ma le parole buone, quelle che non fanno soffrire nessuno, non le hai più, te le ha tirate tutte via a suon di insulti e quindi che fai? Stai zitta, aspetti che il tempo faccia il suo corso, che sia lui a stufarsi, che sia lui a sbattere la porta, sperando che non faccia più casino del necessario. Così, a volte si alza solo un polverone, altre volte, nell’uscire, ti lascia cadavere.

E poi la fanno facile in tv: «Dovete lasciarli al primo segno di squilibrio!». Nei rotocalchi non lo sanno che nonostante il nostro immenso dolore, nonostante ci trattino come degli stracci, che in fondo ci dispiace, sì, ci dispiace vederli tristi e sofferenti: siamo noi le donne e in quanto tali ci dobbiamo prendere cura del mondo intero, anche della parte del mondo che ci odia e ci uccide.

D’altronde, è con questo refrain che siamo state educate: se ti tira i capelli gli piaci… devi capirlo… è che lui è un maschietto e non è intelligente emotivamente e attento come te che sei una femminuccia… così devi volergli bene lo stesso, perché a lui piaci, anche se tu i capelli non li vuoi tirati.


(Via Dogana 3, 13 gennaio 2024)

di Francesca Lazzarato


Il sostantivo spagnolo nero possiede significati in buona parte affini a quelli che “genere” ha in italiano, ma ce n’è almeno uno del tutto diverso: il termine, infatti, vuol dire anche “stoffa, tessuto”, ed è questo il senso che viene spontaneo attribuirgli, incontrandolo in (D)istruzioni duso per una macchina da cucire (pp. 80, euro 14) di Eugenia Prado Bassi, singolare scrittrice, editrice, grafica e drammaturga cilena, presentata per la prima volta in italiano da Edicola Edizioni nell’ottima traduzione di Laura Scarabelli, cui si deve anche una puntuale prefazione.

L’autrice, tuttavia, ha inserito la parola nero, insieme alla figura di un’antica macchina da cucire a manovella, in una paginetta dove leggiamo una definizione ben lontana da quella che ci si aspetterebbe, in un testo che si occupa di sarte, sartine e cucitrici: «Genere: artefatto creato dall’uomo che definisce o riduce la specie umana in due categorie, secondo le quali la femmina deve investire tutte le sue energie per imparare ad aspettare il suo turno. Dicesi anche di un insieme di entità o cose con caratteristiche comuni, parti di un tutto fondato e determinato dal padre. Le conseguenze si riproducono nei secoli dei secoli, sistematicamente».

Un simile gioco linguistico (che rimanda alla differenza sessuale e che in italiano va perduto, com’è inevitabile) è destinato a spiazzare il lettore, a ribaltarne le attese, a farlo muovere tra metafore visive e testuali, e soprattutto a definire il tono di una narrazione plurima, autentico collage di scrittura e immagini, ma soprattutto di significati. Una “confezione” complessa, precisa e perfetta nella sua apparente semplicità, che sfrutta il frammento e accosta voci di donne rinchiuse in una stanza, in un capannone, in una fabbrica più o meno clandestina, più o meno squallida, dove siedono per ore e ore davanti alle macchine da cucire, per poi tornare in case dove le aspettano il lavoro domestico, la cura della famiglia e altri “lavoretti” di sartoria, eseguiti in privato per integrare un salario insufficiente.

Eugenia Prado Bassi (che dice di sé stessa «non vengo dalla letteratura, i miei processi creativi risiedono altrove, leggo, disegno, comunico via web. Lavoro con altre logiche, vivo la maggior parte della giornata davanti allo schermo di un computer, transitando da un luogo all’altro») è, come sottolinea Laura Scarabelli, una «scrittrice eccentrica», che infrange le strutture narrative tradizionali per aprirle a un’infinità di letture e interpretazioni, servendosi di procedimenti audaci come quello che ha dato vita al suo romanzo-installazione Hembros: Asedios a lo Post Humano, opera capace di fondere teatro, musica, letteratura, video, in perpetua evoluzione e costantemente rielaborata in un arco di quasi vent’anni.

Nel lavoro dell’autrice, dunque, troviamo l’eco della sperimentazione che tutt’ora connota parte della letteratura cilena (da Diamela Eltit a Cynthia Rimsky a Juan Pablo Sutherland), e che, in queste (D)istruzioni per luso, ci rimanda a quel che scrive una straordinaria esponente della poesia argentina, Tamara Kamenszain, nel saggio Bordado y costura del texto: «La possibilità femminile di osservare le cuciture per vederne la costruzione dal rovescio, apre alla donna, nel suo rapporto con la scrittura, il cammino dell’avanguardia».

In questo breve, frammentario racconto, Eugenia Prado Bassi esamina in modo nuovo e originale un personaggio che nel corso del tempo ha sedotto scrittori e artisti e che è stato così a lungo presente nella cultura popolare da diventare quasi un archetipo, ma che qui emerge con forza inconsueta grazie all’uso di linguaggi diversi, cuciti insieme da un ago simbolico: spiegazioni tecniche, definizioni dei punti più usati, descrizioni di utensili e macchinari, voci tratte da un dizionario reinventato e allusivo, figurine in bianco e nero (antichi corsetti, manichini, mostruose crinoline), pagine di diario e appunti. Il tutto fuso in un testo che rivendica ogni sua riga come intensamente politica e mette in luce la contraddizione non risolta tra l’orgoglio per il salario guadagnato e l’esercizio della propria abilità, e l’annullamento di ogni possibile tempo di vita da parte di un capitalismo estremo e vorace.

Il libro si presenta in primo luogo come un taccuino, un quaderno privato sul quale la sarta Mercedes («che scrive bene», che ama leggere e guardarsi intorno) incolla immagini ritagliate, conserva cartamodelli e annota frasi, impressioni, episodi, vicende, voci, lamentele, astuzie e ribellioni delle venticinque compagne con cui condivide giornate interrotte da un’unica ora di pausa, e lo spazio di uno stanzone che dilata l’angolo o l’ambiente destinati al cucito nelle case di un tempo, non importa se borghesi o proletarie.

Modellati da gesti ripetuti all’infinito, i corpi delle costureras affiorano dalla scrittura, sottoposti a un controllo costante che va di pari passo con quello dei tempi di produzione, e che nelle illustrazioni è simboleggiato da un occhio onniveggente, intento a osservare abiti e manichini.

Corpi precari, sfruttabili e sfruttati, costretti a identificarsi e quasi a fondersi con lo strumento che usano, corpi addestrati sin dall’infanzia alla «femminile» e «naturale» attività del taglio-e-cucito, nati «con una naturale tendenza a divenire macchine», dice Mercedes, perché i loro corpi costituiscono una potentissima forza produttiva, e in più di un senso.

Non è solo il vorace mercato del fast fashion, infatti, a dover essere rifornito: i doveri della biologia, ricordati da una delle compagne di Mercedes, impongono anche la produzione di altri corpi, di altra forza lavoro, di nuovi consumatori.

Nell’ultimo capitolo, «Altre pratiche femminili», un ulteriore collage di voci racconta perciò la disperazione di chi deve, e non vuole, «sopportare feti troppe volte incubati a forza», e la trama del testo (o del corpo) si increspa, cucendo con punti fittissimi l’aborto segreto e clandestino alla prima definizione di un metaforico dizionario sartoriale, che apre il libro: «Rammendare: riparare un tessuto o una stoffa, livida, ferita, graffiata, rotta, devastata».

A far da sfondo, mai ricordate da Prado Bassi ma ineludibili, le presenze fantasmatiche delle messicane morte nella fabbrica tessile di Chimalpopoca, un edificio pericolante e abusivo crollato nel 2018; delle cucitrici perite nel crollo del Rana Plaza nel 2013, in Bangladesh; delle donne e delle ragazze scomparse nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York nel 1911 (l’otto marzo nasce e continua a nascere dai loro corpi bruciati).

La voce di Mercedes, però, è anche quella della burla, della rabbia, della gioia, della consapevolezza, dell’abilità, di un legame tra donne che va e viene come l’ago nella stoffa, delle piccole rivincite che ciascuna e tutte si prendono su sorveglianti e padroni. In (D)istruzioni per l’uso di una macchina da cucire, Prado Bassi è riuscita a concentrare tutto questo: non solo forbici che tagliano e separano, ma fili che possono unire, legare, tessere, aiutare a resistere.


(Il manifesto, 13 gennaio 2024)

di Maria Luisa Agnese


Una mente brillante fiorita nel ’700, e apprezzata in tutta Europa. A ventun anni già voleva farsi monaca ma gli obblighi famigliari prevalsero sulla vocazione. Rifiutò una cattedra universitaria a Bologna per stare tra i bisognosi e i malati come infermiera


Maria Gaetana Agnesi ha battuto tutti i primati. Intanto era la prima di ventun figli che il padre aveva avuto da tre matrimoni diversi. Poi, educata in casa da fior di precettori come tutte le fanciulle altolocate del tempo (i suoi erano facoltosi commercianti di seta), a nove anni era già soprannominata «oracolo settelingue»: parlava infatti italiano, tedesco, francese, latino, greco, spagnolo ed ebraico. Plafonata nello studio delle lingue passò presto a quello della filosofia e della matematica, guadagnandosi un altro primato, pioniera di quelle che oggi sono le materie Stem (scienza tecnologia ingegneria e matematica), cioè gli studi scientifici allora non proprio ritenuti roba per signorine. Su questo a undici anni Maria Gaetana teneva banco a casa degli Agnesi che nel frattempo era diventata uno dei salotti più in vista di Milano: il padre Pietro aspirava a un’ulteriore elevazione sociale, e dopo aver sposato una nobile, Anna Fortunato Brivio, la mamma di Maria Gaetana, ed essere diventato professore di matematica all’Università di Bologna, lanciava con giusto orgoglio la figlia di prodigiosa intelligenza nei suoi convivi culturali.

Attrazione da salotto

Così la piccola Maria Gaetana impressionava gli invitati con un discorso di un’ora in latino in cui esprimeva il diritto delle donne all’educazione, conquistandosi un ulteriore primato sul fronte dell’affermazione femminile. E diventando assieme alla sorella Maria Teresa l’attrazione del salotto Agnesi, in mezzo a intellettuali delle varie accademie letterarie come Cesare Beccaria, Giuseppe Parini, Pietro Verri, Paolo Frisi. Incrociando quel salotto delle meraviglie, il filosofo e politico francese Charles de Brosses scrisse che a Milano aveva visto «una cosa più bella del Duomo». Pioniera anche in questo, come riconosce l’attrice Maria Eugenia d’Aquino che ancora nel 2022 ha messo in scena uno spettacolo in onore di questa donna «rivoluzionaria», Agnesi costruiva i propri salotti come delle drammaturgie: c’erano gli interventi degli ospiti, l’intermezzo musicale e il rinfresco. Tutto ruotava intorno a un copione che cambiava a seconda degli invitati. Innovatrice settecentesca ma suo malgrado, e a dispetto della sua vera vocazione, perché Maria Gaetana non amava quell’esposizione mondano-sociale che aveva sempre assolto con una certa riluttanza, divisa fra la passione per lo studio, l’impegno educativo e la forte vocazione religiosa e assistenziale: già a ventun anni aveva chiesto al padre il permesso di diventare monaca. Poi si era convinta a restare per accudirlo, ma barattando il suo sacrificio con l’esenzione dagli obblighi mondani. Così, «tranquillata nell’animo», si era da allora dedicata a matematica e teologia.

Forse per aiutare i suoi fratelli nello studio, in quel periodo inizia la stesura del suo testo più importante, Istituzioni Analitiche ad uso della Gioventù Italiana, pubblicato poi nel 1748 e dedicato all’imperatrice Maria Teresa. Il testo è un manuale di studio, semplice e conciso, su algebra, geometria e calcolo differenziale e integrale. È il primo lavoro sistematico di questo genere aggiornato con le teorie dell’epoca. L’opera, in due volumi, viene conosciuta e apprezzata in tutta Europa e diventa subito famosa, tradotta in francese e in inglese. L’imperatrice Maria Teresa d’Austria le invia una composizione di brillanti in un prezioso cofanetto; il papa Benedetto XIV le manda benedizioni e altrettanti doni; Carlo Goldoni le rende omaggio ne Il Medico olandese.

La vocazione della carità

La donna dei primati (porta il suo nome una curva algebrica, la versiera di Agnesi) se ne assicura un altro: nel 1750 sostituisce il padre nell’insegnamento della matematica, subito dopo il papa le offre una cattedra sempre a Bologna, ma lei rifiuta. Si ritira ancora di più dalla vita pubblica, per quella sua vocazione primaria, le opere di carità, seguendo il primato del cuore più che della sua mente geniale. Cura i malati, istruisce i fratelli e i domestici. Ormai morto il padre, trasforma casa Agnesi da brillante salotto per l’intellighenzia del tempo in un rifugio per malati e bisognosi e diventa lei inserviente e infermiera: apre un piccolo ospedale, va a vivere con le malate e, per far fronte alle spese, dopo aver venduto tutti i suoi averi, compresi i gioielli di Maria Teresa, si rivolge ai conoscenti, alle autorità, alle opere pie. Finalmente quando nel 1771, grazie a una donazione, viene istituito il Pio Albergo Trivulzio, ne diventa direttrice, rifiuta i pareri scientifici che ancora le vengono sollecitati, cortesemente scoraggia, per esempio, l’Accademia di Torino che le chiede di esaminare i lavori di Lagrange intorno al calcolo delle variazioni: si sottrae, mettendo in campo «le sue serie occupazioni». Continua a lavorare al Trivulzio fino alla morte per polmonite, il 9 gennaio 1799.


(Corriere della Sera – 27esimaora, 13 gennaio 2024)

Antonella Doria, Conversazioni sull’orizzonte, Book Editore 2023. Un rapporto intimo con le parole che si richiama ai grandi, e alle grandi, della lirica e delle arti figurative contemporanee: da Maria Zambrano a Pessoa, da Mandel’stam ad Achmatova, da van Gogh ad Amelia Rosselli, a Gwyneth Lewis. Poesia civile dall’abbagliante attualità e poesia, del ritorno a sé stessa, un delicato intreccio di corpo e linguaggio che restituisce – come solo l’arte riesce a fare – “nuove visioni e inattese storie”. Antonella Doria dialoga con Massimo Scrignoli, l’editore, e con Maria Castiglioni.

Per acquistare online Conversazioni sull’orizzonte:
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Riportiamo le parole significative che il sindaco di Trento ha postato su Facebook lo scorso 11 gennaio, a seguito dell’ennessimo femminicidio avvenuto a Valfloriana, in Trentino.
Redazione


Ancora un femminicidio nel nostro Trentino. Ancora una tragedia che pare aver seguito l’identico, atroce copione. Il pensiero ora va alle vittime, una donna barbaramente uccisa, i tre figli piccoli rimasti orfani, i familiari straziati dal dolore.È un’emergenza e ci riguarda tutti, soprattutto noi uomini spesso incapaci di accettare la libertà e l’autonomia delle donne. Aiutiamoci a uscire da questa spirale di violenza, deponiamo le pretese di possesso e controllo, impariamo un nuovo alfabeto emotivo. Scendiamo tutti in campo, istituzioni, associazioni, cittadini, con iniziative concrete di educazione e prevenzione e sostegno. Voltiamo pagina, al più presto.

Franco Ianeselli


(facebook.com, 11 gennaio 2024)

di Raffaella Chiodo Karpinsky


Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.

Una prova di questo sentire è quanto accaduto a Mosca dove le mogli dei mobilitati dell’associazione “La strada verso casa”, arrivate nella capitale da altre regioni, hanno deposto fiori sulla Tomba del Milite ignoto vicino alle mura del Cremlino e organizzato picchetti nel centro della città e vicino al palazzo del Ministero della Difesa. Altrettanto a San Pietroburgo, dove sul Campo di Marte i fiori sono stati deposti vicino alla Fiamma eterna.


(Avvenire, 10 gennaio 2024)