di Francesco Strazzari


Un attacco russo alla Nato è possibile, fra cinque anni, forse otto. A parlare è il ministro della difesa tedesco, Boris Pistorius. Mosca minaccia sempre più paesi baltici e Moldavia e il capo del comitato militare Nato, Rob Bauer, evoca la necessità di una warfighting transformation dell’Alleanza.

Fino a ieri neutrale, il vertice militare svedese invita i cittadini a «prepararsi mentalmente per la guerra». Il ministro degli esteri lituano dichiara che «non esiste uno scenario in cui l’Ucraina non vince la guerra e le cose finiscono bene per l’Europa», mentre la leadership polacca, che già destina alla difesa il 4% del proprio Pil, sottolinea come a questo punto nessuno scenario possa essere escluso.

Fuori dalla Ue, il ministro della difesa britannico parla di «transizione da un mondo post-guerra a un mondo pre-guerra», mentre il capo dell’esercito, Patrick Sanders, evidenzia la necessità di poter disporre di più truppe («l’Ucraina ci mostra in modo brutale come le guerre siano iniziate dagli eserciti regolari ma siano vinte dagli eserciti di cittadini»).

Per l’Italia, che ha assunto il comando tattico dell’Operazione Aspides nel Mar Rosso, il ministro Crosetto parla di «minaccia ibrida globale», proponendo inter alia l’istituzione di una riserva militare e chiedendo più carri armati (che evidentemente non servono alla difesa nel Mediterraneo).

Cosa succede in Europa, come leggere queste indicazioni? Dopo anni di pressioni americane, i primi segni di inversione di tendenza nella spesa militare arrivano una decina di anni fa, fra il deragliamento delle primavere arabe (Siria e Libia in primis), l’apparizione del Califfato e l’intensificarsi della «guerra al terrore». Dal 2019 a oggi la spesa militare nel continente è cresciuta grossomodo del 25-30%, con un balzo in avanti dopo l’invasione dell’Ucraina e iniziative sempre più significative dell’Ue stessa. Per un soggetto politico continentale che nasce su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale, e che si è a lungo definito «potenza civile», siamo nel bel mezzo di un passaggio epocale: si aprono interrogativi sui quali occorrerebbe un dibattito aperto.

Poco si parla, ad esempio, delle implicazioni della nuova ondata di allargamenti, nei Balcani e verso Moldova, Ucraina e Georgia. L’allargamento precedente venne salutato come un’espansione dell’area della pace liberale, con un’Unione che muoveva verso un vicinato definito «un anello di amici» da Romano Prodi, allora a capo della Commissione Ue. Oggi l’Europa si trova coinvolta in un contesto di crescenti rivalità geopolitiche: al suo centro la Germania, tecnicamente in recessione, con l’estrema destra in crescita e tensioni industriali; alla sua periferia, il vicinato è diventato un anello di fuoco.

Dunque, su quali scenari di guerra si alimenta questo militarismo di ritorno? E, speculare rispetto alla propaganda putiniana sull’inevitabilità della vittoria, quali scenari di guerra alimenta, a sua volta il ritorno del si vis pacem para bellum, dei dibattiti a senso unico, delle scelte forzate dalla presunta autoevidenza dei fatti, prese sulla base del solo peggior scenario possibile? E infine, quali sono le incognite politiche, economiche e sociali del keynesismo militare XXI secolo? Lo stesso ordine internazionale che conosciamo è sfidato, senza che siano chiari i contorni di ciò che ci aspetta. Proprio sul manifesto da tempo evidenziamo un dato incontrovertibile: le guerre che si protraggono tendono a espandersi, ovvero a coinvolgere i vicini, noi. Il tempo della Storia unisce i puntini, fra le guerre in Afghanistan, Siria, Ucraina, e l’espandersi degli scenari di guerra mediorientali. Putin cerca un bagno rigenerante di legittimità elettorale mentre l’economia russa finora è riuscita a adattarsi alle sanzioni e reggere lo sforzo bellico. Se proiettiamo sul futuro le dinamiche in corso sul calcolo della deterrenza, nuovi scenari di guerra non sono implausibili. Per esempio, il protagonismo americano sul fronte degli aiuti militari all’Ucraina ha contenuto Polonia e paesi baltici. Non siamo ancora abituati a pensare la Polonia come una forza militare di prim’ordine, capace di guidare una guerra, ma le dichiarazioni del neo-presidente Tusk sulla necessità di farsi carico di tutto l’aiuto di cui l’Ucraina ha bisogno ci dicono cosa possa accadere nel caso gli Usa si sfilino, per blocco del Congresso o vittoria elettorale di Trump. Del resto Usa e Germania stanno frenando sull’adesione dell’Ucraina alla Nato, ritenendola pericolosa, opzione da riservare, domani, per negoziare un accordo che magari stabilizzi la frontiera orientale europea lungo la linea che finlandesi, baltici e gli stessi ucraini, ai margini dei territori occupati, stanno fortificando.

Incassato il sostegno europeo, Zelensky prova a mettere fuori gioco il comandante Zalužnyj, il quale mostra chi ha l’appoggio delle milizie della destra nazionalista fotografandosi accanto al leader di Settore Destro. In ballo c’è la mobilitazione di nuove forze: non si vince una guerra con quarantenni al fronte segnati da due anni di combattimenti. Queste dinamiche illustrano il rischio di fughe in avanti pericolose: l’escalation orizzontale è ormai un fatto. Non la mostrano solo le raffinerie che vanno a fuoco in Russia, o le navi da guerra colpite in alto mare. Nel quadrante mediorientale, gli Usa rispondono selettivamente agli attacchi ricevuti, colpendo selettivamente obiettivi iraniani.

Imbrigliare queste dinamiche espansive richiede uno sforzo politico europeo coordinato. Viviamo il paradosso di formazioni europeiste liberali e social-liberali (per non parlare dei verdi tedeschi) che si mostrano assai più sollecite verso il sostegno al fronte ucraino, rispetto alle forze nazionaliste e sovraniste, creando l’illusione ottica, cavalcata dalle frange rosso-brune, della crescita delle destre come passi in avanti dell’opzione pacifista. A Londra il leader laburista Keir Starmer, dato vincente alle prossime elezioni, ha chiarito che la sua stessa idea di controllo parlamentare sugli interventi militari britannici si applica solo in caso di dispiegamento di truppe, non di bombardamenti.

La sinistra rischia di arrancare nel chiedere il rispetto delle regole del gioco. A Bruxelles si pone il tema dalle clausole che vincolano le relazioni commerciali Ue-Israele al rispetto di clausole fondamentali circa il rispetto dei diritti umani nel conflitto con i palestinesi. Non esiste opzione che mobilitarsi a disinnescare la logica idraulica della guerra, sorda e cieca, riannodando i fili della politica in linea con un’idea di cambiamento sociale.


(ilmanifesto.it, 4 febbraio 2024)

di Marina Terragni


Ogni anno a Candelora i femminielli fanno la loro juta al Santuario di Mamma Schiavona o Montevergine sul Monte Partenio (Avellino) dopo una settimana preparatoria di preghiere e tammurriate in onore di quella Madonna Nera che li ha sempre guardati come figli bisognosi e diletti. Nel tempo la juta è diventata sempre più politica, un pride di mezz’inverno. Ma ci sono femminielli che non prendono bene l’inclusione Lgbtq+ e tengono duro in associazioni di resistenza tipo AFAN (Associazione Femminelle Antiche Napoletane).

La Tarantina è la femminella più anziana: «La parola femmenella è così dolce che non fa né scalpore né disgusto alla gente, invece oggi tutte chesti parole gay, arcigay, transessuale mi pare che danno più fastidio che piacere. Invece la dolcezza, quando dici “‘ femmene […] com’è bello! Ti senti avvolto di questo calore umano e non di distacco».

Il genderism ha cambiato drasticamente questo statuto simbolico e sociale. Il più dei femminielli oggi rivendica diritti, sostiene il transattivismo, ricorre a pratiche tecno-mediche, si identifica come donna o non-binary, mentre il femminiello della tradizione non nega la binarietà sessuale, piuttosto la rafforza. Anche se si veste e si comporta come una donna non si identifica come donna, collocandosi in una sessualità terza.

Figure simili – sia pure con notevoli differenze – si trovano nel mondo Inuit, i sipinq, in India – le hijra e le sadhin – nei Balcani – le virgjëreshë.

Si è femminielli per nascita. Se sei femminiello stai con le donne, vivi con loro e come loro, in un’alleanza tra donne e “non-uomini”. La madre è tutto, e il femminiello resta nei suoi pressi chiedendo di essere ammesso nella cerchia e nella genealogia femminile.

La tradizione dei femminielli rappresenta il tentativo di dare ordine alla rottura degli stereotipi di genere senza violare l’integrità dei corpi. Proprio per questa sua prerogativa di “terzietà” il femminiello è sempre stato tenuto come creatura sacra, preposta all’amministrazione di molti riti: quando nasce un bambino glielo si mette in braccio per buon augurio – il femminiello è la controparte dello jettatore -, ci si affida a lui come “celebrante” in divertimenti di gruppo che conservano caratteristiche rituali come la Tombolata del Femminiello da cui gli uomini sono esclusi perché i loro pantaloni “portano jella”. Statuine di femminielli venivano spesso inserite nel presepe. Nella tradizionale “Cantata dei Pastori”, celebrazione prenatalizia napoletana, non di rado il ruolo della Madonna è stato affidato a un uomo.

La “Figliata del femminiello” è probabilmente il rito dal carico simbolico più forte: la creatura terza “partorisce” una bambola nel letto circondato dai/dalle suoi simili. Così la racconta Curzio Malaparte in “La Pelle”: «Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e là sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una camicia femminile da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambe le mani, cantando: “ohi! ohi miserami!”». Anche Ferzan Ozpetek ha rappresentato una Figliata in “Napoli velata”.

Il rito rende onore alla preziosità del femminile fecondo. Come spiega l’antropologa Corinne Fortier (in Genere: femminielli. Esplorazioni antropologiche e psicologiche a cura di Eugenio Zito e Paolo Valerio) i femminielli «affermano che non potranno mai essere all’altezza di una donna, dal momento che manca loro la capacità riproduttiva […] la femminilità è legata al fatto di procreare e fare bambini».

Il femminiello discende in linea diretta dai Coribanti, eunuchi consacrati a Cibele, la Grande Madre. Maschi che in unione estatica con la Dea vestivano abiti femminili e arrivavano ad auto-evirarsi nel Dies Sanguinis: il santuario di Mamma Schiavona, meta della juta, sorgerebbe proprio sulle rovine di un tempio di Cibele.

La tradizione dei femminielli si iscrive dunque nel culto della madre, è un omaggio a lei, si colloca pienamente nel suo ordine simbolico. Come scrive Simonetta Grilli – introduzione a Maria Carolina Vesce, Altri transiti. Corpi, pratiche, rappresentazioni di femminielli e transessuali – i femminielli «non vogliono cambiare sesso, ma vivere la loro vita da donne, sapendo di poter impersonare il genere femminile». Si tratta a tutti gli effetti di una performance di genere sia interiore – condivisione dei sentimenti femminili, della propensione alle relazioni e alla cura – che esteriore: abiti, movenze, comportamenti. Ma in genere i femminielli parlano di se stessi al maschile.

Scena della performance è la casa, il vicolo, la vita domestica. Il femminiello, scrive Maria Carolina Vesce, «si dedica alle attività femminili, quindi il cucire, per esempio, andare a fare la spesa, i servizi di casa, fare i capelli». È un’“apprendista donna” per la quale il prendersi cura degli altri è l’attività decisiva. Nelle case dei femminielli non manca mai il ritratto della Madonna: i femminielli sono pazzi per la Madonna, sono “figliə a essa”.

La performance non può fare a meno del tessuto fitto delle relazioni: non può esistere un “individuo” femminiello slegato dalle reti familiari o di vicinato, dalla trama dei sentimenti e degli affetti. Ancora Vesce: «Le relazioni di parentela, in questo senso, sono certamente quelle che meglio esprimono l’importanza di questa posizionalità relazionale […] è essere trattata come figlia, cognata, moglie, sorella a fare la differenza […] è nella dimensione della relazione che ci si definisce».

Racconta il femminiello Gina riguardo all’atteggiamento delle famiglie nei confronti delle femminelle: «Accettavano perché rice vabbuò, chist tene e sentiment e femmena, ma così mi può fare anche da badante…». Però «oggi sono proprio le mamme “e ja, fatt llormoni”, le portano dai medici, le portano a fa’ i test psicologici, e portan a fa o cambio sesso…».

Da sempre estranei al terreno della rivendicazione dei diritti e all’idea del cambio di sesso, i femminielli si vanno via via “normalizzando”. La mutazione prende avvio nel secondo dopoguerra: la città sta cambiando, si allentano i legami del vicolo di cui il femminiello è rappresentante-garante. Il divino coribante conosce per la prima volta l’isolamento e la solitudine, diventa il travestito dedito alla prostituzione e recluso nel suo monolocale, condizione rappresentata da testi teatrali come “Le cinque rose di Jennifer” (1981) di Annibale Ruccello, una “Voix Humaine” en travesti, e “Scannasurece” (1982) di Enzo Moscato.

L’iscrizione a pieno titolo nel mondo Lgbtq+ di derivazione anglosassone è il passaggio successivo. Sradicati dal loro tessuto, i femminielli perdono ogni tratto di androginia divina.

Intervistato da Vesce, Ciro “Ciretta” Cascina prende brutalmente le distanze dalla militanza Lgbtq+: speculare alla femminella, dice, «è la figura della ricchiona (traducibile in queer, ndr) perché sono della stessa specie, della stessa matrice, con posizioni completamente diverse. Perché la mezza-femmina è di cultura orale, l’altra è accademica, ha occupato sempre le posizioni di potere, si è camuffata […]. Una posizione più vicina alla polis, al palazzo, mentre la femminella te la puoi immaginare più vicina al mare, più vicina ai vicoli». Più vicina al mondo delle donne, tenuto in così grande considerazione, mentre l’altra, la “ricchiona” emancipata, si allontana dalla madre. “Diventando” donne, nominandosi come donne, paradossalmente i tecno-femminielli recidono il loro legame con quel mondo femminile che non è più luogo del loro nutrimento, entrano a fare parte del neutro maschile e si fissano sull’identità rinunciando alla loro sacralità e alla loro radicalità.

Mentre al contrario proprio a partire da quelle radici, da quel sentiment e femmena, si potrebbero configurare risposte più umane al diffuso bisogno di significare la propria differenza. Osserva l’antropologo Eugenio Zito: «il femminiello, pur tra mille difficoltà esistenziali, conservando la sua particolarissima fluidità di genere […] potrebbe rappresentare ancora oggi un modo per risolvere i problemi di “confine” attraverso un riassetto dell’identità personale che si sposta continuamente, sintesi unica di arcaicità e sorprendente post-modernità».

Un modello di fluidità alternativo alla tassonomia anglosassone che «come l’intera metafisica occidentale può considerarsi come prodotta da una fissazione sull’identità, che ha fatto perdere […] il senso stesso dell’essere».


(Il Foglio, 4 febbraio 2024)

Heide Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato, Mimesis 2023. All’origine della storia culturale umana sono state le donne a guidare le prime forme sociali, secondo una cura materna diffusa, praticata da tutti, come dimostrano i sempre più ampi e approfonditi ritrovamenti archeologici. Che cosa ha determinato il cambiamento patriarcale con l’idea di guerra infinita, di gerarchia e dominio? Ne parleremo con Heide Goettner-Abendroth, autrice della ricerca e fondatrice dei Matriarchal Studies, in collegamento, e Luisa Vicinelli, traduttrice. Introduce Luciana Tavernini.

Per acquistare online Le società matriarcali del passato:https://www.bookdealer.it/goto/9788857599175/607

di Silvia Baratella


Data incontro: sabato 27 gennaio 2024


Alice Basso è autrice di due serie di romanzi gialli, entrambe di cinque volumi, la seconda ancora in corso di pubblicazione, e già ne ha una terza in preparazione. Entrambe le serie sono ambientate nel mondo dell’editoria.

La protagonista della prima serie è Silvana Sarca detta Vani, trentaquattrenne scrittrice fantasma misantropa dallo stile camaleontico e dotata di acutissime capacità deduttive. Coinvolta come testimone in un caso di polizia, grazie alle sue deduzioni fulminanti e alla sua prontezza di spirito diventerà consulente della polizia, nella persona del commissario Romeo Berganza.

La seconda serie è ambientata nel 1935. Anita Bo è la dattilografa ventenne di una rivista letteraria che fa concorrenza a Le Grandi firme di Pitigrilli e pubblica i gialli dei pulp americani (per aggirare la censura, deve accompagnarli con una soporifera serie italiana – il commissario Bonomo – confezionata secondo i dettami del Minculpop). Trascrivendo i racconti, Anita scopre il giallo, la letteratura e la sua stessa creatività. E anche la chiave per risolvere i misteri torinesi.

Alice Basso vive a Torino come le sue eroine, ma è originaria di Sesto San Giovanni, dove ha fatto anche le scuole medie. E sabato 27 gennaio è stata ospite della Libreria delle donne con la sua insegnante di lettere di allora, Candida Canozzi, per parlarci dei suoi libri, dei suoi personaggi e della sua scrittura. Si tratta di gialli umoristici – Alice ci racconta che per lei è importante far divertire chi legge – caratterizzati da una scrittura brillante e da dialoghi fulminanti, scritti con un punto di vista segnato dal femminismo. Le protagoniste infatti non dipendono dal riconoscimento maschile per essere consapevoli del proprio valore, ma sanno apprezzare la stima sincera di un uomo e anzi in amore non si accontentano di niente di meno. Sanno trasformare gli uomini che incontrano ed evolvere nelle relazioni con loro (tanto che, mutatis mutandis, mi ricorda un po’ Jane Austen, anche per la leggerezza e la profonda ironia della scrittura). Ma soprattutto sanno inserirsi in una rete di relazioni tra donne che costituiscono la loro base della loro forza.

Le sottotrame sono ricche, seguono l’evoluzione di una fase della vita dei personaggi snodandosi attraverso tutta la serie. L’autrice ci spiega che ha scelto la formula in cinque volumi proprio per dare uno sviluppo e una conclusione alla crescita delle sue protagoniste: non si rischia di incappare in quei personaggi congelati in caratteristiche stereotipate, replicabili all’infinito in serie ripetitive e interminabili. Le eroine di Alice Basso le si accompagna per un tratto di strada, ci si affeziona, si apprezzano i loro cambiamenti e poi si deve lasciarle partire come amiche che si trasferissero in capo al mondo: rassegnate a sentirne la mancanza, ma contente che realizzino i loro progetti di vita. Questa evoluzione, però, non impedisce di leggere ogni singolo romanzo come una storia a sé, anche grazie al “riassunto delle puntate precedenti” mimetizzato nella narrazione, una delle fatiche peggiori per l’autrice, perché deve fornire tutti gli elementi per inserirsi nelle vicende di Vani o di Anita senza tuttavia lasciarsi sfuggire eccessive rivelazioni né sugli intrighi gialli né sulle sottotrame.

Gli intrighi sono ben costruiti e spesso si estendono su più livelli, ma non sono sanguinari. Alice è una grande conoscitrice di tutte le regole del giallo, dagli anni Trenta a oggi, ci gioca, le ripropone e si vede che le ama, ma si prende anche la libertà femminile di trasgredirle. Nella serie di Vani Sarca ne citerà espressamente una di S.S. Van Dine, creatore di Philo Vance: «Il morto più morto è e meglio è», asserisce il romanziere, perché secondo lui non si può pretendere l’attenzione di un lettore per trecento pagine per niente di meno di un cadavere. Alice ci dimostra il contrario: con la forza di un intrigo avvincente e di un metodo d’indagine sorprendente calamita la nostra attenzione con un minimo di spargimenti di sangue. Qualche omicidio c’è, ma non c’è mai spazio per compiacimenti sadici. Tanto che ne trarrei una nuova regola del giallo “al tempo del femminismo”, che formulerei così: «la miglior detective è quella che sventa l’omicidio prima che abbia luogo» (anche se non sempre è possibile).

Torniamo alle protagoniste e alla loro rete di relazioni amicali femminili. Vani Sarca sa di avere non solo un talento geniale come ghostwriter, ma anche una solidissima cultura letteraria e un’impeccabile professionalità, e le fa valere senza lasciarsi intimidire da nessuno. E malgrado sia una lupa solitaria, ha un rapporto affettuoso e protettivo con la quindicenne del piano di sopra, Morgana, che a sua volta stravede per lei. La donna che vorrebbe diventare da vecchia è invece Irma, cuoca a riposo di una famiglia dell’aristocrazia industriale torinese, libera e senza peli sulla lingua. Alice ci ha descritto la sua amica Antida, che gliel’aveva ispirata. Vani ha per Morgana le cure e le parole che da adolescente avrebbe voluto ricevere lei e l’affetto per lei incrina la sua ermetica autosufficienza. Morgana a sua volta trae forza anche dal rapporto solidale con la sua amica del cuore Laura, ragazza schietta e dal grande senso pratico.

Anita Bo invece è una ragazza solare e vivace, ma non molto istruita. Ha un’ortografia traballante che suscita lo sdegno del suo capo coltissimo, lo scrittore e traduttore Sebastiano Satta Ascona, che non le risparmia commenti acidi. Anita però si appassiona al lavoro e non si fa remore a esprimere le sue spontanee qualità creative e letterarie, perché sa che le sue idee buone, e finirà così per guadagnarsi la stima di Satta Ascona e anche per inventare una sua geniale forma di resistenza. L’amicizia tra donne ha un ruolo ancora più esplicito in questa serie e si sente che la forza di Anita ha le sue radici nel rapporto con l’ex-compagna di scuola, l’intelligentissima Clara, e con l’ex-insegnante Candida, il cui nome è tutt’altro che casuale («Sì, Candida sono io, anche se non fumo più», ci ha detto per prima cosa l’interessata). Insieme formano un terzetto inseparabile e aperto all’occasione a nuove amiche.

Nella serie di Anita Bo l’approfondito lavoro di documentazione ha talvolta orientato le trame grazie a scoperte fatte in corso d’opera. Quando la sua ex “prof” Candida le pone domande in merito, Alice, dopo aver esclamato: «Ed è subito prima media!», ci racconta dell’ONMI, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che nel Ventennio tra l’altro accoglieva le ragazze madri. Dallo stupore di scoprire che sotto il fascismo c’era questa istituzione all’apparenza così avanzata e da un ulteriore approfondimento che ne rivelerà le intenzioni di fondo nascerà la trama del secondo volume, Il grido della rosa. In questo stesso romanzo viene affrontato il tema dei bordelli: la scrittrice non si è accontentata dell’uniformità rosea e nostalgica dei resoconti degli storici e degli studiosi maschi. Sentiva che qualcosa stonava in quel coro unanime e ha insistito a cercare finché non le è capitata in mano la raccolta di Lettere dalle case chiuse, scritte da centinaia di prostitute alla senatrice Lina Merlin durante i lavori parlamentari per la sua legge (e da lei pubblicate nel 1955) per denunciare le loro terribili condizioni di vita. Nella sua scelta stilistica di leggerezza Alice non ne riporta l’orrore, i toni umoristici rimangono, ma la realtà della prostituzione appare ben chiara e senza sconti, a partire dal dato che non è mai stato vero che “con le case chiuse almeno le prostitute avevano un tetto sulla testa”, come vorrebbe la vulgata.

Con tutte queste premesse, non mi spiegavo proprio i rapporti catastrofici che entrambe le protagoniste hanno con la propria madre. Mi aveva colpita, però, un’evoluzione della figura materna da una serie all’altra.

La madre di Vani è talmente disprezzata che non ha neanche un nome: è indicata solo come “madre Sarca” ed è un concentrato di aspirazioni piccolo-borghesi e perbeniste. Il suo rapporto con la figlia maggiore è pessimo, improntato alla reciproca disistima.

La madre di Anita Bo è sì una virago temutissima da tutta la famiglia, ma ha anche delle doti: è lei l’anima imprenditoriale della piccola tabaccheria del marito, è lei che si destreggia tra le ristrettezze (tra l’altro con le storiche ricette di Petronilla) per assicurare alla famiglia un tenore di vita confortevole, è lei che coglie più lucidamente del marito gli aspetti inquietanti del regime fascista e ha persino il coraggio di parlarne francamente con sua figlia. C’è anche un aspetto di somiglianza tra madre e figlia, che si manifesta quando Anita fa il suo stesso gesto di puntarsi polemicamente le mani sui fianchi. E del resto questa madre un nome e un cognome tutti per sé ce li ha: non è “la signora Bo”, ma “Mariele Gribaudo”. Un paradosso curioso: fino al 1975, infatti, le donne sposandosi perdevano il cognome di nascita, eppure conosciamo quello di Mariele. La madre di Vani, nostra contemporanea, è invece nota solo con quello del marito.

Alice Basso chiarisce subito: «Grazie di avermi dato l’occasione di dichiarare che questi due personaggi non sono mia madre!». Poi ci racconta di come avesse bisogno di un contrappunto a Vani da utilizzare come spalla comica in battibecchi familiari, e poiché “madre Sarca” aveva svolto egregiamente il suo ruolo, ha pensato di ingaggiarla nuovamente per la seconda serie, concedendole però un avanzamento: alcuni vantaggi caratteriali e un nome tutto per lei.

Tutto l’incontro si è svolto in tono frizzante e allegro, tra dialoghi con il pubblico, risate e botte e risposte, per concludersi con un ottimo buffet.

Non resta che invitare chi ancora non l’ha fatto a godersi questi bellissimi romanzi, di cui seguono i titoli in ordine cronologico.


Serie di Vani Sarca

L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Milano, Garzanti, 2015. ISBN 978-88-11-67163-3.

Scrivere è un mestiere pericoloso, Milano, Garzanti, 2016. ISBN 978-88-11-67088-9.

Non ditelo allo scrittore, Milano, Garzanti, 2017. ISBN 978-88-11-67344-6.

La scrittrice del mistero, Milano, Garzanti, 2018. ISBN 978-88-11-60498-3.

Un caso speciale per la ghostwriter, Milano, Garzanti, 2019. ISBN 978-88-11-60262-0.


Serie di Anita Bo

Il morso della vipera, Milano, Garzanti, 2020. ISBN 978-8811812135.

Il grido della rosa, Milano, Garzanti, 2021. ISBN 978-88-1181-8779.

Una stella senza luce, Milano, Garzanti, 2022. ISBN 978-88-1100-3113.

Le aquile della notte, Milano, Garzanti, 2023. ISBN 978-88-1100-8859.

Il quinto volume della serie di Anita Bo uscirà nelle librerie a fine marzo/inizio aprile 2024.


(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2024)

di Nuccia Nunzella


150 anni fa nasceva Gertrude Stein, scrittrice e poetessa statunitense che visse da mecenate nella Parigi delle avanguardie artistiche, cambiando per sempre il mondo dell’arte e della cultura.


Un anniversario è un anniversario è un anniversario

«Aveva una grande spilla rotonda in corallo e quando parlava, decisamente poco, o rideva, molto di più, era come se la sua voce uscisse dalla spilla. La sua voce era diversa da tutte le altre: profonda, piena, vellutata, come quella di un grande contralto, come due voci insieme» scrive Alice Toklas nel memoir What is remembered, a vent’anni dalla morte di Gertrude Stein, suo grande amore e insostituibile compagna di vita. E a noi lettori sembra che il famoso ritratto di Gertrude, con cui Pablo Picasso inaugurò la sua fase cubista, prenda vita e ci spinga con quella voce “che sembrano due” a rompere ancora una volta con stereotipi e luoghi comuni sia nella rappresentazione artistica sia nella vita reale.

Siate uniche, siate unici sembrano dirci Gertrude e Alice. 

Nata il 3 febbraio 1874 a Pittsburgh in Pennsylvania da una ricca famiglia tedesca di origine ebraica, la giovane Gertrude approfitta fin da subito di una invidiabile offerta culturale che la porta a laurearsi in breve tempo in filosofia e in biologia e a intraprendere immediatamente dopo corsi universitari di psicologia e di medicina. Una generica delusione di fondo e alcune complesse vicende legate alla sua omosessualità spingono Gertrude a interrompere tali studi e a far rotta su Parigi insieme a suo fratello Leo, come lei curioso e appassionato di quell’arte che lì custodisce il suo fulcro vivo e pulsante.

È il 1902, e chiunque nutra aspirazioni artistiche è a Parigi che vorrebbe trovarsi, per partecipare a quella primavera di movimenti, idee, sperimentazione di linguaggi nuovi e di rottura che come per magia sembra fiorire in ogni angolo della capitale francese. Leo e Gertrude scelgono la Rive Gauche, la mitica, e al numero 27 di Rue de Fleurus inaugurano quella che ben presto diventerà la più importante galleria d’arte del primo Novecento, crocevia di ogni avanguardia artistica che si rispetti. Memorabili gli incontri del sabato sera quando, in una ahimè improbabile inversione temporale, vi si potrebbero ancora incontrare Picasso, Cézanne, Matisse, o Marie Laurencin che discutono di cubismo, e i poeti Max Jacob e Guillaume Apollinaire che recitano i loro versi mentre un giovanissimo Ernest Hemingway è intento a scrivere di quella travolgente bohème nel suo Festa mobile.

Un elenco definitivo degli artisti e degli scrittori scoperti, ospitati e sostenuti da Gertrude (e promossi da Leo) è impossibile, salta sempre fuori un nome in grado di stupire, come quello di Alfred Stieglitz, ad esempio, il grande fotografo che per primo decise di pubblicare i saggi di Gertrude su Matisse e Picasso, per i tipi di Camera Work.

Oltre a governare col suo magnetismo quell’irripetibile universo culturale (che a volte sembra quasi travolgerla), Gertrude lavora, scrive, sperimenta nella scrittura la rivoluzione della forma avviata dai suoi amici pittori. A proposito di Teneri bottoni, opera ermetica in cui il linguaggio letteralmente esplode, contravvenendo a ogni codice o convenzione, scrive: 

«Avevo delle cose sul tavolo, un bicchiere o qualsiasi altro oggetto, e cercavo di averne un’immagine chiara e di creare, separatamente nella mia mente, una relazione tra le parole e le cose che si vedono».

E mentre qualche critico dice che con i suoi scritti Gertrude Stein non vuole rappresentare la realtà ma mostrarci come sia il linguaggio a costruirla, lei afferma senza tentennamenti:

«Io sono una scrittrice cubista».

Vulcanica, irrefrenabile, instancabile, si cimenta nei generi letterari più disparati, fino ai libretti d’opera come quel The mother of us all, da cui è tratta la notissima citazione Una rosa è una rosa è una rosa.

Scrive soprattutto di notte quello che poi di giorno trascriverà l’amorevole Alice, la compagna con cui Gertrude ha condiviso casa, viaggi, avventure, la vita insomma. A lei dedica il suo primo libro di successo, la celebre Autobiografia di Alice B. Toklas, dove, già a partire dal titolo, la vita delle due donne si intreccia e si confonde in quel vortice di autentica libertà che seppero creare intorno a loro. Gertrude e Alice riposano insieme nel Cimitière du Père Lachaise a Parigi, i rispettivi nomi incisi sul retto e sul verso di un’unica pietra tombale. 


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Immagine tratta dal libro “Gertrude Stein e la generazione perduta” di Valentina Grande, illustrazioni di Eva Rossetti, Centauria, 2022


(Maremosso, 2 febbraio 2024)

di Silvia Baratella


Non mi capacito dell’allarme sociale sulla “denatalità”. La popolazione mondiale è passata da quattro a otto miliardi nel giro di quarant’anni e nel frattempo sono aumentati a dismisura i consumi pro-capite di tutte le risorse possibili immaginabili (acqua, cibo, merci, energia e tutto quel che vi viene in mente), solo nell’Occidente sviluppato naturalmente, che però depreda il resto del mondo per procurarsele. Il riscaldamento globale provoca la desertificazione progressiva di sempre più territori e il conseguente innalzamento dei mari ne eroderà altri. Folle enormi (sempre soprattutto di occidentali) zompano su un aereo ogni due per tre, anche per spostamenti brevi che prima si facevano in treno, favorendo ulteriori dissesti climatici. Produciamo troppi rifiuti per smaltirli. I posti di lavoro scarseggiano e i crescenti processi di automazione promettono di distruggerne ulteriormente, con conseguente ribasso delle retribuzioni e aumento della precarietà. L’estate scorsa dall’alto di un aereo (ahimè sì, anch’io) ho visto un’unica, ininterrotta area urbana che da Milano va fino all’arco alpino, a nord, a est e a ovest: sgomenta, ho pensato che avremmo proprio bisogno di “spopolarci” un po’.

Per questo trovo incoraggiante la notizia che le nascite calano in tutto il mondo. Credo che una spontanea, pacifica contrazione demografica sia la benvenuta e che ci offra in prospettiva una migliore distribuzione degli spazi e delle risorse, un’inversione di tendenza nel consumo del suolo e nella produzione di inquinamento, una riforestazione che rinfrescherebbe il clima, e più lavoro più stabile e meglio pagato per tutte e tutti.

I governi di quasi tutti i paesi e di tutte le tendenze politiche, invece, gridano insensatamente alla catastrofe. Sembrano ciecamente convinti che la crescita demografica vada spinta avanti all’infinito e cercano di farlo. Dicono: come si farà quando la popolazione vecchia sarà più numerosa della popolazione attiva su cui graverà? E come si pagheranno le pensioni quando pensionate e pensionati saranno più numerosi di lavoratrici e lavoratori in attività? Forse tutta la disoccupazione che è cresciuta in questi anni finalmente si riassorbirà, dico io, il che favorirà l’aumento delle retribuzioni (e con esse dei contributi previdenziali!) e la riduzione della precarietà. E si può cercare delle soluzioni ponte per la previdenza finché non si creerà un nuovo equilibrio tra le generazioni, se ci si pensa per tempo. Per esempio, integrare i contributi da lavoro dipendente con una tassazione delle grandi ricchezze. E cominciare subito a offrire contratti e retribuzioni dignitose a lavoratrici e lavoratori stranieri e alle giovani generazioni aumenterebbe già il gettito contributivo.

Tuttavia, fa bene chi indaga le ragioni per cui le donne fanno meno figli e distingue tra legittimo desiderio e impedimenti da rimuovere, come fa Linda Laura Sabbadini nell’articolo del 22 gennaio scorso su Repubblica “Ecco perché non si fanno figli”. Sabbadini individua sia un cambio nei desideri femminili, sia ostacoli esterni. Per rimuovere questi ultimi, dice, «non serve una singola misura», ma «un cambiamento di modello di sviluppo e politiche stabili nel tempo», tra le quali oltre ai servizi più ovvi cita, finalmente, il «cambiamento dell’organizzazione del lavoro». Sono pienamente d’accordo, se come credo cambiare l’organizzazione del lavoro vuol dire tener conto di tutto il lavoro necessario per vivere, compreso quello non retribuito. E se cambiare il modello di sviluppo vuol dire guardare ai contenuti del lavoro e alla loro utilità per il bene comune anziché al profitto di pochi.


(www.libreriadelledonne.it, 1° febbraio 2024)

di Rosa Carnevale*


«Pensieri sparsi, per il giorno di San Valentino 2004. Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d’auguri per fare sentire di merda le persone. Non sono andato al lavoro oggi, ho preso il treno per Montauk, non so perché, non sono un tipo impulsivo. Forse mi sono svegliato solo un po’ depresso. Devo far riparare la macchina».

Joel e Clementine, la loro storia d’amore. Nessuno può dimenticare l’inizio di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, diretto da Michel Gondry nel 2004 e interpretato da Jim Carrey e Kate Winslet. Impossibile non aver invidiato almeno una volta nella propria vita Clementine, la protagonista, che semplicemente rivolgendosi all’agenzia Lacuna Inc. e sottoponendosi a un esperimento psichiatrico, riesce a cancellare dalla sua memoria ogni traccia della relazione con il fidanzato Joel. Una “mente candida” è una mente inconsapevole, priva di memoria e di dolore. A tutti sarà successo di voler dimenticare i ricordi legati a una relazione che sta terminando e pensare a quanti struggimenti e quanta sofferenza avremmo potuto evitare rimuovendo dalla mente l’intera storia, piuttosto che ritrovarci a piangere nei luoghi che ci ricordano una persona o sulle foto e le esperienze condivise negli anni. L’amore, ad un certo punto, fa soffrire.

Siamo fatti di relazioni, di intrecci, di momenti romantici. Ma siamo fatti, soprattutto, di rotture.

E queste rotture, che ci piacerebbe vivere come un taglio netto, uno strappo preciso e chirurgico, seppur doloroso, hanno invece contorni più sfumati di quelli che ci aspetteremmo. La vita non è un percorso logico e coerente, è fatta di linee spezzate e inciampi frequenti, di stop improvvisi e cambi di rotta repentini. La nostra vita è fatta di rotture è il titolo dell’introduzione al bel volume di Claire Marin, La fine degli amori e altri addii che trasformano la nostra vita, uscito nel 2023 per Einaudi. Un libro in cui la filosofa francese ci invita a pensare agli addii che abbiamo subito o inflitto agli altri non sempre e solo con ottimismo ma almeno con speranza. Non tutte le prove della vita sono infatti occasioni o opportunità per reinventarsi ma a tutte siamo tenuti a rispondere in qualche modo, con le risorse di cui disponiamo.

Ogni rottura, scelta o subita, è una lacerazione che ci infligge una torsione e deformazione fisica e psichica insopportabile. Quando terminiamo una relazione il disamore ci chiama a ricostruire tutto dalle fondamenta di noi stessi. Ma fino a che punto possiamo diventare un altro o un’altra? E fino a che punto è auspicabile?

«Per fortuna le rotture amorose non hanno tutte la stessa violenza», scrive Marin. «Ma la disaffezione produce comunque una scossa profonda. Chi siamo quando smettiamo di essere amati? Posso perdere le qualità che l’amore dell’altro mi conferiva senza perdere me stesso? […] Chi sono io adesso che non sono più niente per te?». Ogni rottura ci pone di fronte a interrogativi dolorosi, che non fanno che aumentare quella sensazione di andare in mille pezzi, senza riuscire più a riconoscerci e a connetterci a un Io profondo.

«Perché forse veniamo lasciati non tanto per quello che siamo ma per quello che non siamo. Perché non corrispondiamo al desiderio dell’altro», scrive ancora Marin. È questa sensazione di andare in frantumi, senza poter tenere insieme i tanti piccoli pezzettini che non sempre sentiamo appartenere solo a noi stessi, che spesso ci devasta. Non è un caso che sulla copertina del volume campeggi una delicata tazzina dai disegni orientali aggiustata con la preziosa tecnica del kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze in ceramica per la cerimonia del tè in cui le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili ed evidenziate con polvere d’oro. Un concetto non solo artistico ma che ha profonde radici nella filosofia Zen e che invita la mente a lasciar correre dimenticando le imperfezioni e ammirando la bellezza insita anche nei cambiamenti che seguono a necessarie riparazioni. L’oggetto rotto si abbellisce con le sue incrinature dorate.

Probabilmente avrei scelto un’altra immagine per raccontare ancora meglio come ci si sente dopo una rottura amorosa. Mi piace pensare a un’opera d’arte contemporanea dell’olandese Bouke de Vries, un’urna in vetro soffiato trasparente che contiene al suo interno frammenti di vasi e piatti in frantumi. A volte rimaniamo rotti, fatti di tanti pezzettini che non si riescono più a incollare. E allora c’è bisogno che qualcosa li contenga comunque tutti, qualcosa di ugualmente prezioso e delicato. Ecco come si tengono insieme i pezzi di storie dolorose, costruendo intorno a loro un involucro che sarà più saldo tanto più saremo stati fortunati nelle nostre esperienze di vita. La violenza del lutto amoroso è smisurata proprio perché è anche la questione del mio valore che entra in gioco nella relazione amorosa, come ricorda Roland Barthes in quell’imprescindibile volume che è Frammenti di un discorso amoroso.

«Io cerco dei segni, ma di che cosa? Qual è l’oggetto della mia lettura? È: sono amato (non lo sono più, lo sono ancora?)… Non sarà invece che resto sospeso alla domanda (di cui aspetto instancabilmente dal volto dell’altro la risposta): che cosa valgo io?», scrive Barthes. Dall’innamorato che se ne va ricevo un’esperienza crudele di svalutazione. Un’esperienza da cui possono nascere sensazioni fisiche e psichiche di malessere. È l’intero mondo quotidiano che conoscevamo come coppia a svuotarsi della sua sostanza. I luoghi, gli oggetti, le canzoni che ascoltavamo non sono più un porto rassicurante.

Alcuni diventano addirittura insopportabili, proprio come succede alla giovane sposa abbandonata, protagonista di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir. Nel primo dei racconti contenuti nella raccolta pubblicata dalla scrittrice francese nel 1976, la casalinga Monique scopre che il marito ha un’altra relazione. Nonostante ciò faccia vacillare tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora, permette che quest’infatuazione possa avere un seguito. Intorno a lei però tutto diventa improvvisamente ostile, estraneo e poco rassicurante: il tavolo della sala da pranzo, la casa intera e i suoi oggetti, l’automobile in cui il marito la tradisce: «L’amore di Maurice – fa dire Simone de Beauvoir alla sua protagonista – dava importanza a ogni momento della mia vita. Adesso è vuota. Tutto è vuoto: gli oggetti, i momenti. Io stessa». La rottura amorosa costringe a un necessario, nuovo distacco. Non restano che ricordi morti di luoghi, profumi, sensazioni. E allora, ecco ci prodighiamo in una cancellazione sistematica: certe abitudini svaniscono dall’oggi al domani, alcuni locali o città vengono cancellate dalle nostre mappe interiori.

Spesso all’altro abbiamo donato tutto il nostro corpo, rendendolo facile territorio da conquistare, piegandoci al desiderio come ci si piega davanti a un nemico sconosciuto che ci ha ammaliato facendoci abbassare la guardia. È quello che racconta Annie Ernaux nel suo Perdersi (L’Orma editore). Un diario intimo di poco più di duecento pagine che diventa un’indagine sull’idea di sottomissione in cui il soggetto (Annie stessa) racconta le attese e la frustrazione di un rapporto d’amore che si consuma con un uomo sposato: le paure e le insicurezze, l’attesa di una rottura percepita come inevitabile, il deteriorarsi di un rapporto e la rassegnazione con cui attendiamo la fine, in balia di scelte che non dipendono da noi. L’impotenza disperata di questa particolare storia d’amore (già raccontata anche nel romanzo Passione semplice) permette alla scrittrice francese di riflettere sul duplice significato di perdersi: quella di Ernaux è una lenta perdita della persona a cui si è legata, la cui presenza diventa progressivamente più distante nella sua esistenza, ma è soprattutto la lenta perdita di se stessa. Senza l’uomo che ama l’autrice finisce per non riconoscersi più e scopre di essere divenuta null’altro che “una comparsa” nella sua stessa esistenza.

È proprio su questi mutamenti nel nostro Io che si interroga Claire Marin. Chi siamo in questa nuova vita svuotata? Ed eravamo veramente in possesso di un Io unico e inscindibile a cui dobbiamo semplicemente fare ritorno, seppur faticosamente oppure siamo il risultato di tanti Io possibili?

«Forse non siamo fatti per un solo io. Sbagliamo ad aggrapparci a esso. Pregiudizio dell’unità», scriveva Henri Michaux.

Non sono solamente le relazioni romantiche e di coppia a essere vissute come vere e proprie perdite amorose. Allo stesso modo delle rotture con i nostri partner anche la nascita e la morte costituiscono strappi estremamente violenti, addii dolorosi con cui dobbiamo fare i conti.

È la sera del 30 dicembre 2003 quando John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore all’improvviso. Da quella data inizia Lanno del pensiero magico che ha ispirato uno dei romanzi più celebri della scrittrice americana, l’opera che meglio ha saputo raccontare il lutto e il dolore, toccando ferite ancora pulsanti, aprendone di nuove direttamente sulla pagina.

Lontano dal cercare risposte scontate a domande complesse, Marin sembra mettere in crisi un odioso sistema a cui siamo da sempre legati: quello che vira verso un ottimismo e una lettura semplificatrice che abbina alle rotture l’idea del “ricomincio da capo”.

«Ci piacerebbe vedere nella rottura l’occasione di una vita nuova, di una pagina bianca, per dare un valore retrospettivo a un fallimento trasformandolo in conoscenza, in ricchezza, in esperienza. Le virtù del fallimento, insomma». Ma siamo sicuri che sia così? «A volte la rottura è solo un pasticcio, una mancanza di coraggio, una viltà. […] E spesso il fallimento è fallimento puro e semplice, misero, deludente, un insuccesso totale. La maggior parte dei fallimenti non ci insegna niente».

Quando penso all’oggi mi viene istintiva una domanda: quante rotture possiamo sopportare? Una, dieci, cento, mille? In un’epoca che ci mette davanti a continue apparizioni e sparizioni, in cui le relazioni sembrano sempre più complesse e sfilacciate, qual è la soglia che ci permetterà di tenere tutti i nostri pezzettini al riparo nel nostro prezioso e delicato vaso di vetro? Tutti gli strappi di cui racconta Marin nel suo saggio sembrano operare in un tempo dilatato, richiedere la giusta distanza e una lentezza naturale che permetta in qualche modo se non di guarire lo spirito, di tenere insieme tutti i pezzi del grande puzzle di cui è fatta la nostra vita, anche amorosa. Negli ultimi anni, in epoca di Tinder, incontri online e relazioni virtuali che hanno una natura di per sé effimera ma richiedono al nostro Io uno sforzo e un investimento non indifferente, ci stiamo chiedendo forse un ingente lavoro in più: quello di passare da uno strappo all’altro, da una rottura a quella successiva con una rapidità che non sono sicura che il nostro fisico e il nostro Io possano reggere.

Come se nella nostra epoca gli amori avessero acquisito una capacità inusuale di rigenerarsi, di nascere e finire e poi riapparire, come uno di quei mostri mitologici a cui una volta tagliata una testa ne cresce subito un’altra in un moto perpetuo e instancabile che non lascia il tempo di ricucire i pezzi di cui racconta Marin nel suo libro. A quante persone chiediamo ormai di entrare e uscire dalla nostra vita con una rapidità che prima era impensabile? La rottura da decenni si è iscritta nell’orizzonte del quotidiano, associandosi in maniera ingannevole e pericolosa a una certa idea di libertà, ha assunto una forma nuova e diversa nelle nostre esistenze e in generale. «Siamo forse entrati nell’epoca della rottura o in un momento di rottura», scrive Marin.

«Sul piano ecologico e di conseguenza economico e politico dobbiamo ripensare urgentemente il nostro modo di vivere, di comunicare, di spostarci, come anche le nostre abitudini di accaparramento delle ricchezze. […] Riconoscere la rottura sarebbe allora una prova di maturità di fronte alla necessità di un cambiamento vitale, sul piano dell’esistenza individuale come sul piano dell’esistenza collettiva: dimostrerebbe la presa di coscienza delle nostre responsabilità». Una pedagogia della rottura si fa sempre più necessaria, anche per evitare che la fine degli amori diventi presto la fine dell’amore.

(*) Rosa Carnevale, giornalista. Si occupa di arte, fotografia e libri. Ha collaborato, tra gli altri, con Artribune, L’Officiel, Rolling Stone Magazine, Lampoon, Marie Claire e Grazia. Per la casa editrice Contrasto è redattrice e consulente di progetti editoriali.


(Kobo Blog, 1° febbraio 2024)

di Francesca Mannocchi


Dalla finestra della sua camera, a nord di Tel Aviv, Iddo Elam ogni mattina vede uno striscione che recita: Bring them home. Riportiamoli a casa. È una delle decine di insegne che ricordano agli israeliani in ogni angolo della città che 136 ostaggi sono ancora a Gaza. Iddo ha 17 anni, frequenta le scuole superiori, suona il contrabbasso e ha deciso che sarà un obiettore di coscienza. In Israele significa sapere di finire in carcere.

Come il suo amico Tal Mitnick, il primo diciottenne israeliano che si è opposto all’arruolamento nelle Forze di Difesa israeliane da quando è iniziata la guerra a Gaza. In Israele il servizio militare è obbligatorio per la maggior parte degli uomini e delle donne.

L’arruolamento è la norma, fa parte dell’identità nazionale del Paese, per questo la preparazione comincia spesso intorno ai sedici anni, i militari fanno visita alle scuole e invitano i ragazzi e le ragazze a iscriversi volontariamente ai campi di addestramento. I pochi che sono esentati, lo fanno con mezzi silenziosi: chi è impegnato negli studi religiosi, o per motivazioni di salute fisica e mentale.

Larresto per gli obiettori di coscienza

Iddo dice che la prima cosa che si chiedono i giovani quando si incontrano è: dove andrai nell’esercito? I pochi obiettori di coscienza di solito vengono condannati a dieci giorni di prigione, e condannati ancora se continuano a rifiutare la leva. Tal Mitnick è in prigione da trenta giorni, ed è probabile che la sua pena verrà prolungata. Una punizione più severa della norma, dunque simbolica, in un clima in cui la guerra ha ricevuto un sostegno senza precedenti da parte dell’opinione pubblica israeliana.

Per spiegare la sua decisione pubblicamente Mitnick ha scritto: «La violenza non può risolvere la situazione, né da parte di Hamas, né da parte di Israele. Non esiste una soluzione militare a un problema politico». Lui e Iddo fanno parte di un piccolo gruppo di attivisti, Mesarvot, parola che significa: ci rifiutiamo. Non si rifiutano solo di combattere, rifiutano anche l’occupazione dei territori palestinese e oggi, a gran voce, gridano il rifiuto di questa guerra.

Iddo pensa ogni secondo al 7 ottobre. Nello studio di suo padre, avvocato, c’è la fotografia di un amico di famiglia. È uno dei rapiti da Hamas. Non c’è stato un giorno, da quando le sirene lo hanno svegliato quella mattina, che non si sia domandato cosa sia la giustizia.

Una risposta non la ha, ma sa che è impossibile parlare di sicurezza senza parlare della fine dell’occupazione, che è impossibile parlare dei propri diritti senza riconoscere quelli degli altri, impossibile infine parlare di dolore e di vendetta contemporaneamente. A scuola lo chiamano nazista, sostenitore di Hamas, traditore, amico dei terroristi. Iddo sa di appartenere a una ristretta minoranza ma crede che l’unico modo di resistere alla corruzione che l’odio determina nell’animo dell’uomo sia scendere in piazza e manifestare il proprio dissenso. Non si rassegna all’idea che la guerra sia la sola risposta al trauma.

Lo shock del 7 ottobre e i refusenik

Quando prova a mettere in fila le emozioni del 7 ottobre dice che prima di processare la rabbia e la tristezza, l’impotenza e il dolore, è stato giorni in stato di shock. Non capiva cosa gli stesse accadendo, poi ha cominciato a vedere le foto da Gaza e lo shock si è trasformato in una profonda angoscia: «Era come se la società attorno a me stesse trasferendo la propria sofferenza sulla sofferenza di altri. Pensare che quei civili vengono bombardati e uccisi dal mio governo e dal mio esercito ha rafforzato dentro di me la decisione di rifiutare la leva. È il solo modo che ho di protestare».

I refusenik sono una piccola fetta di un paese che crede sempre meno, o quasi più, nei negoziati di pace, sempre meno o quasi più alla soluzione dei due popoli e due stati. Iddo sa che non saranno poche centinaia di obiettori a muovere le convinzioni dell’opinione pubblica, ma sa anche che oggi la sua, la loro protesta si unisce alla frustrazione di chi si chiede quando finirà la guerra e come. Quale sarà il destino degli ostaggi e quale quello di Gaza.

La cosa che più li unisce è la richiesta di un cambio di passo politico. La sfiducia verso la leadership di Netanyahu.

A cercare di trarne vantaggio le frange estremiste. Come quelle che domenica scorsa si sono riunite nel Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme con un’idea chiara del dopoguerra: ripristinare gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Cinquemila (secondo gli organizzatori) i partecipanti della conferenza intitolata “Per la vittoria di Israele – La soluzione per la sicurezza: Ritorno nella Striscia di Gaza e nel nord della Samaria”. Per loro la strada è una soltanto, tornare lì e ricostruire le colonie di Gush Katif. C’era una cartina, mappe, progetti e uno slogan: gli insediamenti portano sicurezza.

Presenti anche i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, a loro volta coloni ed espressione dell’estrema destra religiosa. In pochi hanno nominato gli ostaggi, ma tutti hanno ribadito che «è vietato negoziare con Hamas». L’unica via, sostengono, è interrompere ogni rifornimento alla Striscia di Gaza. Via che risponde all’idea che non vi sia distinzione, nella Striscia, tra civili e miliziani. Che tutti siano sostenitori di Hamas e che quindi la Striscia vada «ripulita» prima di essere reinsediata. Costi quel che costi. Lo dicevano le voci dei presenti, e i loro striscioni. Uno recitava: «Solo il trasferimento può portare la pace».

Non è un caso che l’applauso più nutrito l’abbia ricevuto Ben Gvir, quando ha detto «Incoraggiamo l’immigrazione e la condanna a morte dei terroristi», come a dire: se i gazawi vogliono sopravvivere è meglio che se ne vadano. Oppure tutti i civili saranno considerati come Hamas, in modo che siano tutti obiettivi legittimi. In un momento in cui il Paese è così diviso sulla strategia per liberare gli ostaggi e i piani militari, i partecipanti alla Conferenza si sono presentati come i soli ad avere un’idea del dopo: le famiglie sono pronte, le cartine ci sono, bisogna solo finire la guerra.

«La sete di vendetta ci intossicherà»

I mezzi sono gli stessi di chi per giorni ha cercato di bloccare l’entrata dei tir degli aiuti a Kerem Shalom. Lo scorso fine settimana solo nove camion sono riusciti a passare, altri cento sono stati reindirizzati verso il valico egiziano di Rafah.

Secondo i sondaggi dell’Agam Institute, quasi il 60% degli ebrei israeliani si oppone agli aiuti umanitari. «La maggior parte dell’opinione pubblica, oggi – dice Iddo – vede i palestinesi di Gaza come il nemico. Come se tutti a Gaza fossero terroristi o sostenitori del terrorismo. Ma questa sete di vendetta ci intossicherà. Volere che altri paghino il prezzo della nostra rabbia non ci darà garanzie di sicurezza».

Lo scorso febbraio, lui e gli altri refusenik di Mesarvot sono andati nei villaggi di Massafer Yatta, in Cisgiordania, per protestare contro lo sfollamento di 1.300 palestinesi dalle loro case. Come in altre situazioni analoghe l’esercito israeliano, per motivare l’evacuazione forzata dei villaggi palestinesi, aveva dichiarato l’area una «zona militare chiusa». Violando la legge, hanno sostenuto con la loro presenza le proteste degli abitanti di Massafer Yatta e sono stati, come loro, attaccati dagli ultranazionalisti e dalla polizia.

In piazza Iddo stringe uno striscione con scritto: «Cessate il fuoco ora». E canta un inno: due Stati, due Nazioni, ebrei e arabi si rifiutano di essere nemici. Suo padre è sempre alle sue spalle, in caso di arresto. Sa che tra poche settimane suo figlio si presenterà alla sede della polizia, si dichiarerà obiettore di coscienza e verrà arrestato.

La paura, per lui, non è la però prigione. Alla domanda cos’è la paura? risponde così: «Ho paura che questo luogo sia perduto, che questa terra, non Stato, che io chiamo casa, non guarisca mai. Ho paura che me ne dovrò andare. Ma le persone che chiedono a quelli come me “Perché non te ne vai?” sono le stesse che vorrebbero che i palestinesi lasciassero la loro terra. Ma dobbiamo restare, e tutti, perché solo insieme, anche avendo paura, non smetteremo di volere un futuro migliore».


(La Stampa, 1° febbraio 2024)

di Micol Maccario


Il fondatore dell’anatomia moderna Andrea Vesalio studiava il corpo maschile e poi applicava le conclusioni anche a quello femminile, come se il fisico delle donne fosse uguale a quello degli uomini, solo un po’ più piccolo. Non era l’unico a pensarla così: per secoli la ricerca medica si è basata sull’idea che i corpi maschili rappresentassero l’umanità intera. Di conseguenza, il sesso femminile è stato a lungo escluso dagli studi scientifici, ma uomini e donne non si ammalano allo stesso modo e rispondono diversamente alle terapie e ai farmaci.

Il rapporto “Verso un’equità di genere nella salute e nella ricerca”, realizzato da Fondazione Onda con il contributo di Farmindustria, presentato il 17 gennaio, riconosce l’importanza di una medicina diversificata. «Negli uomini le malattie cardiovascolari si manifestano intorno ai quarant’anni mentre nelle donne la loro incidenza aumenta dopo la menopausa», si legge nell’indagine a proposito della principale causa di morte nei paesi industrializzati. Queste differenze non riguardano unicamente le diagnosi, ma anche cure, farmaci e terapie. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, alcuni farmaci usati in caso di infarto possono causare «emorragie importanti» nelle donne. Altre medicine contro l’ipertensione riducono le probabilità di infarto negli uomini, ma aumentano il rischio di morte da patologie cardiache nel sesso femminile. Inoltre, si è a lungo ritenuto erroneamente che alcune malattie fossero tipicamente maschili, come la cardiopatia ischemica, escludendo le donne dal percorso di prevenzione e di cura.

Nonostante queste differenze siano ormai note, ancora oggi non sempre il sesso e il genere sono considerati in modo appropriato nella ricerca. «Ci sono tanti motivi che spiegano perché il sesso femminile spesso non è stato incluso nelle ricerche», dice Daniele Coen, medico e coautore di Quella voce che nessuno ascolta. La via della medicina di genere alla salute per tutti (Giunti, 2023). «Le donne hanno una ciclicità ormonale che può influenzare tanti fattori e rendere più difficile valutare i dati. Gli studi dimostrano anche che manifestano un numero più elevato di effetti collaterali ai farmaci, quindi è più semplice escluderle a priori. C’è anche la possibilità che siano incinte e che si sottopongano a studi farmacologici che potrebbero creare problemi al feto».

Negli anni la situazione è migliorata anche se, secondo la direttrice del Centro di medicina di genere Elena Ortona, «nei lavori scientifici non sempre vengono presentati i dati disaggregati per sesso. Negli studi che utilizzano gli animali spesso le ricerche sono effettuate su esemplari di sesso maschile per evitare la variabilità ormonale, che richiederebbe un numero di casi più elevato e spese maggiori. Questo vale anche per le ricerche sul genere umano. Nelle prime fasi di sperimentazione dei farmaci vengono arruolati quasi sempre esclusivamente soggetti uomini, ma così non si può valutare l’effetto su entrambi i sessi».

Prendere in considerazione le differenze è utile per dare una risposta specifica alla persona: «A lungo termine questo approccio porterà anche un risparmio al sistema sanitario nazionale perché garantirà un migliore stato di salute e meno effetti avversi causati dai farmaci», dice Ortona.

La medicina di genere

Le evidenze scientifiche hanno portato alla nascita della medicina di genere (Mdg) o genere-specifica, definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona». Non è una branca medica a sé stante, ma un approccio interdisciplinare, che parte dal presupposto che esistono diversità tra uomini e donne nella risposta ai trattamenti terapeutici, nella nascita e nello sviluppo di patologie. La Mdg non tiene quindi unicamente conto delle diversità legate al sesso, che dipendono da fattori genetici e ormonali maschili, femminili o intersessuali, ma anche dei fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali.

Come sottolinea Coen, la medicina di genere è un passo culturalmente importante. Mettere in evidenza le differenze e individuare percorsi specifici deve essere l’obiettivo del sistema sanitario nazionale per assicurare l’equità e la pari opportunità in ambito di prevenzione, diagnosi e cura. «Ma equità non significa uguaglianza», spiega Ortona. «La medicina di genere è proprio la medicina della diversità, mette in risalto le differenze». La denuncia che la medicina non fosse una scienza neutra risale agli anni Settanta. In Italia, a livello normativo, si è iniziato a parlare di genere come «determinante di salute» dal 2016, due anni dopo che l’Oms lo aveva individuato come tema fondamentale della programmazione 2016-2019. «In Italia siamo all’avanguardia in questo», dice Ortona. Con l’approvazione della legge 3/2018, “Applicazione e diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, per la prima volta in Europa è stato garantito l’inserimento del genere nelle specialità mediche, nella sperimentazione dei farmaci, nella ricerca, nelle terapie e nella divulgazione. La legge prevedeva anche la predisposizione di un “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”, del 2019. Nel 2020, poi, è stato istituito l’Osservatorio per la medicina di genere presso l’Istituto superiore di sanità, che monitora le azioni di intervento e ne promuove la corretta applicazione.


(Domani, 29 gennaio 2024)

di Giovanna Cifoletti*


Nota della redazione: sì, ma non sempre chi non vota è indifferente.


All’indomani del 27 gennaio 2024 e della presa di posizione di chi ha direttamente subito e superato la Shoah, la senatrice a vita Liliana Segre, il nostro compito è anzitutto darle ascolto. Nel ricevere la laurea honoris causa in storia all’Università Statale di Milano, Segre ha proposto con la sua autorevole semplicità un serissimo programma politico, degno di una lectio magistralis. Anzitutto ha affermato che viviamo in un tempo in cui le è difficile far parte degli ottimisti. Ma non si è fermata qui. Ha detto che quello che sta succedendo e quello che è successo dal 7 ottobre l’ha messa in una condizione che non aveva vissuto prima. In quanto mamma e nonna vede i bambini come un bene preziosissimo. Ora ci sono bambini (di tutte le appartenenze, sottolinea Segre) uccisi per l’odio degli adulti che non si ferma mai, eppure proprio quei bambini sarebbero il futuro di popoli fratelli. «Questo mi ha dato una forma di, quasi di disperazione serale». La notte allora è la notte dell’indifferenza generale. «L’indifferenza è legata al buio delle menti». Indifferenza è la scritta che Segre ha voluto sul muro del memoriale della Shoah di Milano. Ma la stessa indifferenza si traduce oggi nell’astensione dal voto. Ci ha ricordato che il quaranta per cento degli elettori delega agli altri il proprio voto stesso, rinuncia alla democrazia. Così la critica democratica del male non ha voce e grazie all’indifferenza il ciclo delle ingiustizie non si chiude. Eppure la democrazia è costata il sacrificio di tante vite.

La lezione di Segre ci chiede di onorare nella sostanza la memoria degli uccisi. Al di là delle cerimonie, ci invita a prendere sul serio la Shoah non come bandiera identitaria ma come scandalo per l’umanità di tutti. La memoria è necessaria per spingerci a creare le condizioni perché la catastrofe non si ripeta. Le tragedie che tengono sveglia una delle coscienze più profonde del nostro tempo, come tengono svegli molti di noi, devono essere combattute e in futuro evitate. Bisogna allora esercitare i propri diritti democratici pagati duramente dalla sua generazione, primo fra tutti il voto.

Le ragioni dell’astensionismo in Italia sono molteplici. Per le donne esso esprime anche una nuova consapevolezza della distanza tra la politica istituzionale e la società e in particolare delle donne. Oggi poi è comune a uomini e donne la frustrazione rispetto alla legge elettorale, con la constatazione che addirittura milioni di voti vengono dispersi dai premi di maggioranza o che non si possa scegliere di confermare o eliminare un candidato attraverso il voto. Ma per quanto numerose siano le ragioni per non votare, la rinuncia a votare è una rinuncia alla democrazia. E rinunciare alla democrazia non è innocuo, perché lo spazio viene immediatamente riempito dall’ingiustizia e dall’incitamento all’odio, cioè dalla guerra. La guerra e i suoi fautori sono ben svegli e tutt’altro che indifferenti.

Molti aspetti della crisi geopolitica attuale cominciarono nel 2001 e proseguirono con la risposta statunitense all’attacco terroristico delle WTC. Recentemente Biden l’ha ricordata come grave errore da non ripetere, riferendosi alle guerre contro Al Qaida. Ma non bisogna dimenticare l’altro aspetto della risposta statunitense: la politica interna securitaria e la riduzione dei diritti civili. Fino al 2018 l’Europa fu esclusa dalle guerre ma subì in primo luogo il terrorismo diffuso e le relative politiche securitarie e d’altro lato l’immigrazione dai paesi colpiti direttamente dalle guerre. Dopo la pandemia globale, la guerra in Ucraina, poi quella a Gaza e Cisgiordania hanno reso illusori il benessere e la libertà in Europa. Noi Europei non siamo più padroni delle nostre vite: i giovani non sanno se possono fare progetti. I meno giovani stentano a riconoscere le proprie esistenze se paragonate al secondo Novecento. Impoveriti dal finanziamento delle guerre e dal conseguente costo delle energie, abbiamo meno servizi, quindi meno tempo, più preoccupazioni, meno vita politica a causa delle restrizioni dovute al terrorismo. Se si aggiungono i problemi di politica ambientale e la crisi del modello agricolo europeo, il quadro delle necessità si amplia e quello delle risorse a disposizione si restringe. Come uscire da questa impasse? È evidente che chi vuole dominare con la paura ha buon gioco. Eppure l’impasse deriva anzitutto dalla premessa che la guerra sia la soluzione militare dei conflitti, sia necessaria per non avere più paura. O che partecipare alla guerra di altri con le armi in pugno possa risolvere dei problemi. Invece non ne ha mai risolti, solo creati, mentre è la politica a essere necessaria, la libertà politica, premessa della pace come le restrizioni ai diritti politici e la conseguente rinuncia alla democrazia sono premesse delle guerre.

Libertà politica e pace vanno insieme: se si rispettassero i principi della Costituzione non si sottrarrebbe ai cittadini il bene principale, cioè la vita. Quindi si farebbe di tutto per conservare la pace. Ma per realizzare questo ci vuole più partecipazione politica, che invece è resa sempre più marginale dalle restrizioni, dalla politica securitaria interna. La ministra degli esteri del Sudafrica Pandor ha reagito all’ordinanza della corte di giustizia dell’Aja dicendo che essa dimostra che questa corte è uno tra gli strumenti dei popoli per far sentire la loro voce. Pandor ha detto anche che i popoli sanno che per la sopravvivenza del pianeta la violenza deve diventare meno facile, la guerra deve diventare meno facile, e deve essere sostituita dai negoziati. Il ricorso alla violenza e alla guerra, cioè il disprezzo per il diritto internazionale, invece è proprio di chi controlla i popoli e non rispetta i loro diritti, tra cui la libertà politica.

In quanto Europee ed Europei dobbiamo riprendere la consapevolezza che alla fine della Seconda guerra mondiale ci aveva fatto ripudiare la guerra e gli stermini. Perché di questo da sempre continua ad avere bisogno il mondo. È questo impegno che oggi va privilegiato! Ma intanto, in Italia come altrove la partecipazione politica e il voto stesso si è drasticamente ridotto. In realtà è stato un lento processo di costruzione dell’astensionismo. Nel 2001, all’inizio di questa fase geopolitica, in Italia votavamo all’ 82,35%. Ora votiamo al 63,91%. Ciò significa che ha votato un quarto di percentuale di elettori in meno. E si tratta del risultato di una progressione, interrotto soltanto dalla vittoria della sinistra del 2006: 2001: 81,35%; 2006: 84,24%; 2008: 80,63%; 2013: 75,20%; 2018: 72,94; 2022: 63,91%.

Si tratta di votare e di votare contro le armi, le distruzioni, contro l’aggravarsi del clima e alla sussistenza dei popoli proprio a causa delle guerre. Occorre riprendersi il voto. In questo momento, dobbiamo premere sulle elezioni per ottenere una scelta di pace dell’Italia nei confronti dei conflitti in corso, russo-ucraino e israelo-palestinese. Molti Stati investono nelle guerre nel dispregio degli impegni internazionali sulla coesistenza e la mediazione tra sistemi politici. Si tratta di una scelta patriarcale di scontro totale per vincere un nemico e affermare una sola autorità nel mondo. Come madri e nonne sappiamo che le guerre colpiscono i bambini. Come donne sappiamo anche che l’altro che cerca di dominarci non è qualcuno che vogliamo né possiamo eliminare. Sappiamo che la vittoria non è sull’altro, in un meccanismo del duello in cui per vincere bisogna che l’altro perda. La vittoria è il successo di un negoziato utile, di un compromesso accettabile, mentre un’ingiustizia non farà che crearne altre. In tempo di elezioni il nostro desiderio di fare qualcosa per la pace è interrogare chi si propone come rappresentante del nostro futuro sulla risoluzione pacifica dei conflitti, sulla comprensione delle ragioni che lo creano e sulla capacità di privilegiare la soluzione pacifica delle intenzioni dei contendenti, invece di voler vincere rispetto a questioni di principio o far prevalere interessi economici sulle risorse naturali anziché il diritto internazionale. Comprendiamo le motivazioni legittime di russi e di ucraini. All’inizio della guerra molti aderivano alle decisioni di governo, si parlava addirittura di Resistenza. Ma scrissi che non era proprio il caso di ragionare come se bisognasse farla pagare a Putin. Ora Zelenski vuole indietro i suoi seimila profughi, e soprattutto quelli in grado di combattere. Come possiamo considerare democratico un paese che li considera disertori? Ora è pressante la necessità di riconoscere i diritti dei Palestinesi, come è stato riconosciuto lo stato di Israele. Le azioni terroristiche di Hamas non giustificano l’attuale carneficina contro un territorio assediato o occupato da decenni. Il terrorismo va sanzionato ma anche l’espansionismo e l’occupazione militare e coloniale di Israele. Si tratta di azioni che vanno oltre la ferocia, sono frutto della determinazione a non vedere l’altro esistente come tale. Ci si determina a uccidere chi “non c’è”. E la determinazione a uccidere chi “non c’è” non ha limite quando non esiste un limite esterno, come nel caso di Gaza, perché si tratta di un territorio occupato e poi assediato, senza esercito. Perfino in Vietnam c’erano due eserciti. Una tale carneficina di bambini tiene sveglia Segre come molti di noi, ci rende responsabili e impotenti.

Siamo responsabili e impotenti soprattutto perché da almeno alcuni decenni non partecipiamo più. Non riconosciamo affatto l’esigenza di spingere a un conflitto occidentale contro altri Stati e privilegiamo il contenimento delle pretese in favore di un equilibrio complessivo che risparmi vite, beni, ambiente, relazioni internazionali. E per tornare alle parole di Segre direi che le nonne e le mamme devono tornare a votare: tutte le persone che credono che il futuro dell’umanità sta nei bambini e chi se ne sente responsabile deve tornare a votare scegliendo i candidati contro la guerra.

Onorare la memoria della Shoah è fare in modo che le vittime non siano morte invano. Segre ha detto che i recenti avvenimenti la fanno dubitare dell’utilità della propria esistenza. Facciamo in modo che l’esperienza della Seconda guerra mondiale non sia annullata da altre atrocità. E se la generale disumanizzazione non basta, si pensi agli insostenibili costi economici e ambientali della guerra. Passare dalla carestia politica e morale a quella fisica per esaurimento delle risorse del pianeta? Forse ce lo meritiamo, ma almeno se l’abbiamo capito facciamo di tutto per evitarlo. In questo non faremo che applicare il nostro patrimonio culturale, la Costituzione italiana.


(*) Giovanna Cifoletti è docente presso la EHESS (École de Hautes Études en Sciences Sociales) di Parigi e fa parte dei Disarmisti esigenti.


(noidonne.org, 29 gennaio 2024)

Alice Basso, L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Milano, Garzanti, 2015, serie di Vani Sarca, e Le aquile della notte, Milano, Garzanti, 2020, serie di Anita Bo. Il femminismo ha cambiato la visione del mondo e anche del giallo. Le protagoniste create da Alice Basso conoscono il proprio valore, sono inserite in reti di relazioni femminili scelte e sanno essere trasformative nei rapporti con gli uomini. Battute fulminanti, deduzioni sorprendenti, soluzioni brillanti e ricche sottotrame sono gli ingredienti di due serie di romanzi avvincenti senza bisogno di sadismi. Silvia Baratella e Candida Canozzi ne parlano con l’autrice.

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di Narges Mohammadi, testo raccolto da Greta Privitera


Questa è una lettera che l’attivista e premio Nobel per la pace, Narges Mohammadi, cinquantun anni, ha scritto dal carcere di Evin, a Teheran, per chiedere alle Nazioni Unite di inserire l’apartheid di genere nella lista dei crimini contro l’umanità «perché in tutto e per tutto simile all’apartheid razziale». Fare uscire dalla prigione le sue parole non è mai semplice e comporta per l’attivista altre punizioni e mesi dietro le sbarre. Pubblichiamo per intero la sua lunga missiva mandata in esclusiva per l’Italia al Corriere della Sera.


Ad António Guterres, segretario generale dell’Onu, e agli onorevoli rappresentanti degli Stati membri delle Nazioni Unite, è venuto il momento di condannare ufficialmente l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità. Per decenni, le donne iraniane si sono scontrate con varie forme di discriminazione in base al sesso e al genere, istigate dal governo della Repubblica islamica. Sistematicamente e deliberatamente, l’Iran ha imposto la sottomissione delle donne con tutti gli strumenti e i poteri dello Stato, in particolare tramite le leggi, al fine di perpetuare la negazione dei diritti umani delle donne.

Sotto tali circostanze, non sono solo le donne, bensì l’intera società iraniana porta il fardello delle conseguenze strazianti e irreparabili di discriminazioni diffuse e profondamente radicate. In una società dove metà della popolazione vede negati i suoi diritti naturali, ogni dibattito sulla democrazia, sui diritti umani, sulla libertà e uguaglianza appare irrilevante.

In Iran e in Afghanistan, entrambi i governi della Repubblica islamica e dei talebani hanno sfruttato con cinismo la sottomissione delle donne come mezzo per instaurare i loro programmi oppressivi ed esercitare controllo e repressione sull’intera società civile. Costoro si servono della religione per camuffare le mire dittatoriali e il loro governo totalitario. E tutto ciò accade mentre si compiono atrocità inenarrabili contro la popolazione femminile, sotto gli occhi di un mondo incredulo.

Le discriminazioni di genere, economiche e sociali contro i singoli individui, a causa del loro sesso o genere, vengono compiute direttamente attraverso mezzi fisici o legali allo scopo di relegare costoro a posizioni di inferiorità: questo si chiama apartheid di genere, che sfocia non soltanto in fragilità sociali ed economiche, ma porta anche a danni fisici, talvolta irreversibili e mortali.

Pertanto, siamo convinti che l’apartheid di genere debba essere riconosciuto come vero e proprio crimine contro l’umanità, in tutto e per tutto simile all’apartheid fondato sull’appartenenza razziale. Ci appelliamo con urgenza alla comunità internazionale, affinché si affronti tale questione e si intraprendano interventi decisivi per metter fine a questa discriminazione in Iran e Afghanistan. È indispensabile intraprendere misure per assicurare la vittoria della giustizia e dell’uguaglianza. Quindi, ci aspettiamo che le Nazioni Unite dichiarino l’apartheid di sesso e genere un crimine contro l’umanità in tutti i documenti legali internazionali. Noi affermiamo che questi governi – tra i quali la Repubblica islamica – hanno perpetrato questi crimini contro le donne a causa del loro sesso o genere, e i nostri argomenti poggiano sulla comprovata esistenza di politiche a scapito della popolazione femminile in ogni settore, politico, economico, sociale, culturale e scolastico, così come nelle loro leggi discriminatorie.

Le leggi del governo:

Questa è una panoramica delle leggi emanate a scapito delle donne per illustrare gli elementi della segregazione e sottomissione delle donne nella società iraniana.

1. Per ottenere un passaporto e viaggiare all’estero, la donna necessita del permesso del suo tutore legale, che corrisponde al padre per le figlie e al marito per le mogli.

2. Alle donne iraniane viene categoricamente vietato il diritto allo studio in certe facoltà universitarie, come l’ingegneria aerospaziale.

3. Deposizioni e testimonianze degli uomini nei tribunali iraniani vengono considerate pari a quelle di due donne.

4. Il prezzo di sangue (diyah) e l’eredità spettante alle donne corrisponde alla metà di quanto garantito agli uomini.

5. Da oltre quarant’anni vige il divieto di ingresso per le donne allo stadio, mentre le scarse deroghe elargite ultimamente non sono assolutamente allo stesso livello degli spettatori maschi. Inoltre, tali cambiamenti non sono validi in tutte le città.

6. In Iran, gli uomini possono contrarre matrimonio con quattro donne contemporaneamente. Il numero è notevolmente più elevato per i matrimoni provvisori, conosciuti con il termine di sigheh. Al contempo, la punizione per una donna sposata che intrattenga una relazione adulterina con un altro uomo consiste nell’esecuzione capitale. In questo momento, mentre scrivo queste righe, una donna di nome Mitra in Iran è stata condannata a morte perché il marito l’ha denunciata per una relazione extraconiugale. Vale la pena sottolineare come l’uomo che ha intrattenuto questa relazione con Mitra è stato condannato alla fustigazione.

7. Gli uomini in Iran, grazie alla legge, possono divorziare agevolmente dalle consorti se queste diventano cieche in entrambi gli occhi. Dal canto loro, le donne non godono di pari diritto.

8. Varie forme di violenza di genere in Iran, abbinate all’inadeguatezza e all’inefficienza del sistema legale, costringono le donne in situazioni assai precarie. Ciò comprende le molestie in strada, la violenza coniugale, come pure violenza di genere sul posto di lavoro e nelle università.

9. Lo stupro coniugale non solo non è considerato un reato in Iran, ma gli uomini iraniani possono denunciare le mogli per «inadempienza» se rifiutano il rapporto sessuale. La legge in questione è a favore degli uomini e definisce le donne come «inadempienti».

10. La cittadinanza in Iran viene riconosciuta esclusivamente attraverso i legami di sangue e la legge iraniana garantisce al padre ogni diritto come tutore legale. Una legge precedente sull’argomento è stata respinta, di fatto negando al bambino nato dal matrimonio di una donna iraniana con un uomo straniero il diritto ad ottenere documenti di identità come il certificato di nascita.

11. Negli ultimi quarantacinque anni, il tasso di femminicidi, specie i cosiddetti delitti d’onore, è in crescita in tutto l’Iran. Secondo le organizzazioni dei diritti umani, dal marzo 2023 a oggi sono stati registrati in Iran oltre 52 casi di femminicidi, venti dei quali delitti d’onore. Di queste 52 donne, undici, ovvero il 21 percento, non avevano ancora compiuto i diciotto anni. La legge e i tribunali sotto questo aspetto si sono macchiati di inefficienza e di comportamento irresponsabile.

12. L’iscrizione a vari tipi di specializzazione medica e di assistente di odontoiatria per le donne in Iran è possibile solo con il consenso del marito.

13. Il mancato rispetto delle leggi sull’hijab per le donne è punito in Iran con 74 frustate, punizione che sarà inasprita con l’approvazione della legge sulla castità e sul velo.

14. Non è necessario ottenere l’autorizzazione al matrimonio per le ragazze minorenni in Iran se l’unione è stata approvata dal padre o dal nonno paterno. Le statistiche rivelano una preoccupante tendenza al rialzo nel numero delle spose bambine in Iran. Secondo il Centro statistico iraniano, durante i primi tre trimestri del 2022, oltre 20.000 matrimoni hanno coinvolto spose sotto i quindici anni di età, e 1.085 sono state le nascite da madri di età inferiore ai quindici anni. Nella primavera del 2021, il numero di matrimoni di ragazze tra i 10 e i 14 anni ha fatto registrare un balzo del 32 percento, rispetto all’anno precedente. E queste cifre rappresentano esclusivamente le statistiche ufficiali.

15. La legge sulla giovinezza della popolazione, con il divieto esplicito di aborto su richiesta e criminalizzazione della pratica, oltre a un aumento delle sanzioni contro dottori, operatori e facilitatori dell’aborto, ha portato a un incremento negli aborti clandestini. Una situazione che mette in pericolo la vita delle donne per i metodi poco sicuri utilizzati e il timore di rivolgersi agli ospedali e alle cliniche. I metodi contraccettivi liberamente in vendita in passato sono stati limitati ed è stato avviato negli ospedali un sistema di registrazione delle gravidanze e di monitoraggio delle donne incinte.

16. Se un uomo causa la morte di una donna in Iran e la famiglia (gli eredi legali) chiedono un risarcimento secondo i principi della qesas, il responsabile è obbligato a pagare la metà del prezzo di sangue (diyah) di un uomo. Nel sistema legale iraniano non esiste parità tra i cittadini, e il valore della vita di un uomo è considerato equivalente a quello di due donne.

17. La pena per la donna sposata che intrattiene relazioni adulterine con un altro uomo è la lapidazione, e benché la condanna non venga eseguita attualmente in Iran, le donne subiscono tuttora la minaccia della lapidazione. Secondo una nuova direttiva, i tribunali oggi hanno il potere di eseguire la condanna alla lapidazione.

18. L’età legale dell’obbligo religioso in Iran per le ragazze parte dai nove anni, imponendo loro l’osservanza di pratiche come la preghiera, il digiuno e l’uso dell’hijab. Malgrado l’età legale per l’obbligo religioso sia fissato a nove anni per le bambine, il ministero dell’istruzione ha imposto alle bambine l’utilizzo dell’hijab sin dai sei anni, vale a dire, dal primo anno di scuola elementare.

19. Il parlamento iraniano in questo momento sta studiando una proposta di legge per suddividere i libri scolastici in maschili e femminili. I testi scolastici si propongono di rafforzare i ruoli di genere tradizionali e confinare le donne ai compiti di future mogli e madri.


[…]


Il resto dell’articolo si può leggere sul sito del Corriere, a questo link:

La premio Nobel per la pace Mohammadi alle Nazioni Unite: «Inserite l’apartheid di genere nei crimini contro l’umanità» (msn.com)


(Corriere.it, 26 gennaio 2024)

di Luciano Moia


Oltre cento famiglie dell’associazione GenerAzioneD lanciano un appello a scuola e medici: aiutate i ragazzi con problemi di identità a trovare la propria strada. Non tutti devono diventare trans

No ai farmaci come la triptorelina, no agli ormoni. Sì alla “vigile attesa”. Che vuol dire prudenza, rispetto e cautela nei confronti dei ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Anzi delle ragazze, visto che sono loro, nel 75 per cento dei casi, le vittime di questa nuova emergenza esistenziale. È l’appello, straziante per il dolore e la partecipazione emotiva che lo pervade, che arriva dai genitori di “GenerAzione D”, un centinaio di famiglie, che si sono messe insieme per scambiare esperienze, riferimenti, consigli lungo un percorso difficile e per certi versi perfino sconvolgente come quello dell’incongruenza di genere dei loro figli.

Nel lungo e complesso dibattito di questi giorni, che ha visto gli ispettori del ministero all’ospedale Careggi di Firenze per verificare il corretto uso del farmaco che blocca la pubertà, i genitori chiedono di essere ascoltati e di lasciare da parte il carico ideologico di un confronto che non dovrebbe avere come obiettivo l’affermazione di un principio o la rivendicazione di diritti – che loro non si sognano neppure di contestare – ma solo il bene delle ragazze e dei ragazzi.

La maggioranza di ragazze disforiche di cui parlano i genitori di “GenerAzioneD” – dove “D” sta per disforia – sono tutte giovanissime, tutte confuse da una serie di sollecitazioni stereotipate secondo cui ogni disagio con il proprio corpo femminile si risolverebbe passando al maschile. E lo stesso accade per i ragazzi.

Non è così naturalmente. Eppure succede, perché il clima culturale in cui siamo immersi non solo ha declassato a scelta ordinaria la cosiddetta “transizione sociale” – dichiararsi maschio se si è femmine e viceversa – ma ha accolto come via privilegiata per risolvere il disagio dei ragazzi il ricorso a ormoni, farmaci e intervento chirurgico. Approdo che i genitori non escludono. «Non abbiamo nulla contro le persone transessuali, binarie o non binarie, ma lasciamo ai nostri figli il tempo di capire, di comprendere quale sia davvero la loro strada, senza soluzioni già pronte, senza condizionamenti, senza pressioni ideologiche».

Il clima culturale

Oggi il clima culturale, a sentire queste mamme, è pesantemente segnato da un atteggiamento che loro definiscono “affermativo”. Il disagio legato all’identità di genere non può che avere, in questa logica, un solo sbocco. Ma non è così, spiegano, le statistiche ci dicono che almeno in 8 casi su 10 il disagio legato a corpi non allineati con la mente, per quanto riguarda la percezione della sessualità, si risolve durante l’adolescenza. Sempre che nel frattempo, seguendo le indicazioni che piovono loro addosso da tutte le parti, non sia già partito un percorso che prevede tra l’altro visita psicologica, visita con l’endocrinologo, assunzione di ormoni e infine mastectomia. E a questo punto non c’è possibilità di ritorno.

Le mamme con cui parliamo – insieme a un papà – sono tutte informatissime, tutte convinte che le loro figlie siano finite in un tritacarne che ha numerose fonti di alimentazione. Non solo i social, dove ormai si trovano indicazioni dettagliatissime, con tanti influencer “esperti” su tutto quello che occorre fare, subito, senza perdere troppo tempo, quando si comincia a percepire quel tipo di disagio interiore, ma anche la scuola e, purtroppo, la scienza.

L’indifferenza della scuola

Cominciamo dalla scuola. Racconta una mamma che è anche medico: «Ma come è possibile che nell’istituto superiore che frequenta mia figlia i casi di disforia-incongruenza siano raddoppiati da un anno all’altro? Solo nella classe di mia figlia ci sono 7 ragazze che hanno avviato la carriera alias, 3 in un’altra classe, 4 in quell’altra. Forse si è scatenato un contagio per emulazione?». Il problema della carriera alias è citato da molte mamme. Si tratta del regolamento che permette allo studente di farsi chiamare con un nome diverso rispetto a quello registrato alla nascita. Maschile se si è donne, e viceversa. La scuola accetta la decisione e tutto finisce lì.

Regolamenti del genere sono stati già approvati in quasi 200 istituti superiori e in 51 università. «Sembra un particolare trascurabile – spiegano ancora le mamme – ma quello è l’inizio della transizione sociale. Tornare indietro poi è difficilissimo». Anche in assenza di protocolli, alla gran parte degli istituti dà credito ai ragazzi senza informare i genitori. Tutto può avvenire a loro insaputa. E non è previsto neppure un certificato o perlomeno una comunicazione di un medico o di uno psicologo che attesti la presenza di un problema di disforia o l’avvio di un percorso di transizione. Basta la dichiarazione del ragazzo o della ragazza. «Una scelta sbagliata – sostengono le mamme – perché non si vive solo a scuola e in ogni caso sulle spalle dei ragazzi ricade una responsabilità pesantissima che quasi sempre loro non sono in grado di gestire. Sono decisioni molto importanti e dovrebbero essere prese insieme, con il coinvolgimento della famiglia e del medico curante o dello specialista». Su cui però la maggior parte delle mamme esprime riserve pesanti. Vediamo perché.

Psicologi a senso unico

Le storie di queste ragazze sono molto simili. Un malessere che esplode improvvisamente – almeno agli occhi dei genitori – un disagio crescente verso il proprio corpo, la decisione di abbandonare abbigliamento femminile, brillantini e cosmetici per vestire i panni del “maschiaccio”. E fin qui i genitori comprendono e approvano. «La maggior parte delle ragazze, tra i 12 e 15 anni, vive questo disagio, troppo grassa, troppo magra, troppo alta, brufoli, cappelli lunghi, capelli corti. Difficile trovare una ragazzina che viva con serenità il rapporto con il proprio corpo». Ma quando il malessere cresce, arrivano depressione, anoressia, autolesionismo, talvolta propositi di farla finita, allora scatta l’allarme e si finisce dallo psicologo. E qui cominciano i problemi. Nella maggior parte dei casi – qui le mamme sembrano tutte concordi – la prima esperienza è purtroppo negativa. Lo specialista si limita a prendere atto della situazione, consiglia di assecondare i desideri della figlia, spiega che la disforia segue un percorso stabilito, che è inutile contrastare. E fissa gli appuntamenti successivi, compresa la visita con l’endocrinologo che, alla luce di quanto attestato dallo psicologo, si limita a prescrivere gli ormoni del caso. A questo punto il cammino sembra segnato. Anche perché, come detto, dall’altra parte i ragazzi hanno il “conforto” della classe, degli amici, dei social, di un clima che sembra costruito per dire loro: vai avanti, sei sulla strada giusta, tutto si risolverà cambiando sesso. Una soluzione facile che però, argomentano ancora i genitori, non è detto sia quella la migliore per tutte.

Le esperienze

«Dopo quasi un anno di cure ormonali – racconta una mamma – mia figlia continuava a stare male. I problemi non solo non erano scomparsi, ma erano diventati più gravi. Il disagio si era trasformato in psicosi. Lo specialista non sembrava adeguato per fronteggiare la situazione». A questo punto, per tante famiglie, è stato decisivo il passaparola. Psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, per fortuna, non solo tutti uguali. Se tanti sono allineati con il politicamente e scientificamente “corretto”, anche perché le associazioni di categoria spesso esprimono un indirizzo uniforme da cui è difficile derogare, ci sono molti specialisti, spesso di indirizzo cognitivo-comportamentale, capaci di mettere al primo posto il bene dei pazienti, non l’affermazione di diritti espressi a prescindere dalla serenità della persona. «Per le nostre figlie vogliamo solo soltanto una situazione di benessere. E siamo consapevoli che questo benessere può andare in diverse situazioni, transessualità compresa, ma dev’essere una decisione ponderata, presa con calma, senza affrettare i tempi». Oggi, tante famiglie, grazie anche alle informazioni che arrivano da “GenerAzioneD”, hanno incontrato specialisti preparati e prudenti.

Quale via di uscita?

«Ci sono ragazze – riferiscono ancora – che hanno seguito percorsi di psicoterapia mirati, non terapie riparative naturalmente, e hanno cominciato a stare bene. Alcune stanno pian piano superando i problemi legati all’identità di genere, altre si trovano ancora in mezzo al guado e forse sarà proprio questa verifica interiore, attenta e accurata, ad accompagnarle verso l’approdo che darà loro serenità e tranquillità, qualunque esso sia». Nessun pregiudizio, nessuna preclusione – ci tengono a ribadirlo – verso omosessualità e transessualità, ma la volontà di affrontare con cautela e prudenza situazioni delicate che, in nessun caso, hanno soluzioni facili o predefinite. E anche, in alcuni casi, la capacità di fare autocritica. Alcune mamme, per esempio, si interrogano sui modelli femminili, talvolta troppo accentuati, troppo caratterizzati da un alone di sessualità precoce, suggeriti più o meno consapevolmente alle figlie. Altre parlano per le loro figlie di omofobia interiorizzata che le ragazze si sarebbero illuse di risolvere con la volontà di “diventare” maschio. Solo ipotesi, certamente, che confermano però la volontà di tutti questi genitori – e l’associazione si allarga giorno dopo giorno (www.generAzioned.org) – di riflettere insieme, di confrontarsi, di trovare alleanze educative importanti, di non accettare soluzioni preconfezionate e troppo semplici. «Cerchiamo un dibattito serio, informato e consapevole per i nostri figli e per tutti i ragazzi alle prese con i problemi dell’identità di genere. Vogliamo offrire loro la possibilità di crescere, maturare e fare le scelte giuste senza condizionamenti e suggestioni a senso unico».


(Avvenire.it, 26 gennaio 2024)

di Marika Ikonomu


I primi gruppi sono nati negli anni Novanta per mettere in discussione il modello culturale patriarcale. Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin l’interesse verso queste realtà è cresciuto. Dal sud al nord.

Se pensata sulle relazioni, la forma del cono ha un significato molto diverso rispetto al cerchio. La prima è verticale e gerarchica. La seconda è orizzontale e paritaria. È con questa immagine che Domenico Matarozzo spiega nel film del 2023 “Nel cerchio degli uomini” la rappresentazione di maschile imposta e il desiderio di creare uno spazio nuovo, e di abbassare il cono per formare un cerchio. Il film prende il nome dal gruppo di autocoscienza maschile di Torino nato nel 1999 che porta lo stesso nome: Il cerchio degli uomini, appunto.

«Avevamo l’interesse di interrogarci sul maschile e sulla gestione del potere nelle relazioni», spiega a Domani Matarozzo. «Abbiamo provato a disegnare – continua – quali sono le forme di mascolinità tossica che andavano riviste nei rapporti tra uomini, con le donne, con i figli e in famiglia».

Lui fa parte della vecchia guardia, della trentina di persone che alla fine degli anni Novanta ha avviato il cerchio di condivisione. Oggi sono circa una cinquantina gli uomini che gravitano attorno al gruppo di Torino.

Autocoscienza o decostruzione

La pratica politica dell’autocoscienza è stata avviata dai collettivi femministi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, come momento di condivisione delle proprie esperienze personali, di scambio intellettuale ed emotivo, di riflessione politica e presa di coscienza sulle relazioni di potere.

Dagli anni Novanta in Italia anche alcuni gruppi di uomini hanno sentito il bisogno di aprirsi a questa pratica per mettere in dubbio la costruzione sociale assegnata, anche se nominandoli diversamente: «Non abbiamo voluto chiamarli gruppi di autocoscienza per non appropriarci di un termine che è proprio del movimento femminista, ma si tratta di partire dalla propria condizione personale, conoscerne la natura politica e farne un terreno di condivisione con altri», spiega Stefano Ciccone, tra i fondatori della rete Maschile plurale e membro del gruppo di Roma.

Uno spazio in cui non ci si giudica, prosegue Ciccone, ma che non si limita all’autoaiuto o al compiacimento, perché «ci si mette in discussione». Si prova a lavorare su un certo tipo di identità di genere, spiega Mattia Scorzini, ventiquattro anni, anche lui del gruppo di Roma, che non significa aiutarsi «a risolvere i problemi personali».

Ma c’è chi preferisce definirlo «un cerchio di decostruzione», precisa Enrico Francone, trentadue anni, che dal 2018 fa parte del Cerchio degli Uomini di Torino: «Autocoscienza significa essere coscienti ma può non portare a nessun cambiamento, mentre la decostruzione porta a ripensarsi».

L’esigenza che porta le persone a creare questi spazi o ad avvicinarsi a gruppi già esistenti è personale ma in comune c’è la volontà di uscire dallo stereotipo maschile. Ed è questo elemento a dare continuità anche ai gruppi storici: «Riconoscere una parzialità maschile, una costruzione sociale da mettere in discussione, contrastare il vittimismo maschile, non porsi in una posizione volontaristica, come amici delle donne, e riconoscere il fatto che esiste un privilegio maschile», racconta Ciccone, sottolineando che questo privilegio produce una miseria nella vita degli uomini.

Questo significa che per molti uomini dover rientrare in un determinato modello non è accettabile: non poter esprimere emozioni, l’imposizione per cui “gli uomini non piangono”, non partecipare al lavoro di cura nella crescita dei figli e nella gestione della casa, non considerarla una responsabilità condivisa, o ancora, dover performare sul piano lavorativo e manifestare in un certo modo la rabbia.

Il Gruppo nonviolento di autocoscienza Maschile di Milano (Gnam) è nato all’inizio degli anni Novanta «per necessità», racconta Roberto Raimondo, tra i fondatori, perché «le donne avevano fatto il loro percorso, quello del femminismo, e gli uomini no. Noi abbiamo cercato di farlo nel nostro piccolo». Riusciamo a esprimere le nostre emozioni? Come agiamo in momenti di crisi? Come possiamo rapportarci in modo davvero paritario con le donne? Queste le domande da cui è partito Gnam, che è sempre stato un gruppo piccolo senza una figura di leader «e questo è fondamentale», aggiunge Raimondo, «perché contraddice lo stereotipo maschile».

In un periodo in cui il berlusconismo aveva oggettificato la figura della donna, «il maschio era considerato vincente», spiega. Negli incontri settimanali o bisettimanali da una decina di persone, i temi portati all’interno del cerchio fin dall’inizio sono quelli della quotidianità, delle relazioni, di come rapportarsi in modo paritario con le donne, della paternità consapevole, di come esprimere le emozioni. O ancora della rabbia, della performatività, della sessualità e della distribuzione del lavoro di cura tra i generi.

I gruppi che Gnam è riuscito a censire nel libro “Maschilità mascherata” sono 17, la maggior parte centro nord – Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana – un gruppo è a Roma e alcuni al sud, in Puglia e Sicilia. Alcuni hanno creato associazioni e svolgono anche attività di formazione, altri invece sono gruppi informali, nati ad esempio all’interno di realtà sociali. Secondo il libro di Gnam in totale i gruppi sono tra i venti e trenta in tutta Italia.

Le nuove generazioni

La differenza di età all’interno di alcuni gruppi è tanta: a Bologna il gruppo va dai 20 ai 70 anni, a Torino dai 28 agli 80 anni circa, a Roma dai 24 ai 70, a Milano tra i 40 e i 60 anni. «Riusciamo a creare dei ponti e a parlare di TikTok come del servizio di leva», racconta Michele che fa parte del gruppo di Maschile Plurale di Bologna da dieci anni. Sottolinea però l’importanza delle parole, che devono essere comprensibili per tutti, e tutte le esperienze devono essere tradotte nei vissuti: ad esempio si parla di figli anche con chi non ne ha.

Da gruppi di uomini eterosessuali che facevano un lavoro sulla violenza di genere, queste realtà si sono poi allargate, anche con l’ingresso delle nuove generazioni e di una componente Lgbtq, «che ha permesso di cambiare l’approccio anche sul corpo maschile», dice Ciccone.

I giovani hanno poi contribuito a introdurre un linguaggio e riferimenti teorici nuovi, come quello della comunità Lgbtq, dell’intersezionalità – l’interazione tra diverse forme di oppressione, legate al genere, alla razza, alla classe – e del non binarismo, non accettare la rigida separazione dei generi maschile e femminile.

La violenza di genere

Portando avanti progetti culturali nelle scuole e lavori con la cittadinanza, il Cerchio degli Uomini ha incontrato la difficoltà di interrogarsi sul tema della violenza maschile sulle donne, «era importante capire quello che noi producevamo e non solamente stare ad ascoltare quello che le donne subivano», continua Domenico Matarozzo. È fondamentale parlare di femminicidi, ma, secondo l’associazione di Torino, occorre anche «lavorare sulla prevenzione e quindi sulle prevaricazioni quotidiane, sulla violenza psicologica, su quello che sta sotto la punta dell’iceberg».

«Quando accade qualcosa, la frase più giusta da dire è “avrei potuto essere io”», sottolinea Francone del gruppo di Torino, perché «il maltrattante non è così distante da quello che è il mio mondo, non solo perché sono maschio».

Il femminicidio è l’apice di una spirale che è fatta di catcalling – molestie che le donne ricevono per strada, soprattutto verbali – violenza psicologica, economica, stalking, possesso, lesioni o minacce, spesso non semplici da intercettare e insiti nei modelli culturali imposti, basati su dominio e potere. Strutture messe in dubbio dagli uomini che partecipano a questi gruppi: «Per quanto uomini consapevoli, dobbiamo mettere in discussione il nostro ruolo e quello che noi stessi riproduciamo», precisa Michele di Maschile Plurale Bologna.

L’attenzione mediatica

Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin c’è stato un cambio radicale nella narrazione pubblica della violenza di genere, anche per la posizione presa dalla famiglia, che ha trasformato un dolore privato in rabbia collettiva, mettendo in luce la responsabilità di tutti gli uomini e le mancate tutele da parte delle istituzioni. 

«Nelle ultime settimane ci hanno contattato diverse persone interessate a entrare nel gruppo», dice Scorzini, riferendosi al territorio di Roma. Un’attenzione che è emersa anche a Bologna e Torino. Nel capoluogo emiliano, dal femminicidio di Cecchettin, «hanno iniziato ad arrivare persone che chiedono “io cosa posso fare?”. Casi in cui ne hanno parlato nella coppia e sono stati invitati dalle compagne ad avvicinarsi ai gruppi di autocoscienza», spiega Michele, che ha notato in generale un forte aumento delle richieste nel 2023.

Oltre alle richieste ai gruppi già esistenti, sono nati diversi piccoli gruppi di autocoscienza informali, legati a realtà sociali. L’attenzione mediatica però non sempre rende la complessità del fenomeno. Per Matarozzo da un lato aiuta a parlarne, portando più uomini a farsi domande e a mettersi in discussione. Ma raccontare il fenomeno concentrandosi esclusivamente sulla punta dell’iceberg «mette l’accento solo su un tipo di violenza, senza colpire la radice del problema: tutti quei messaggi di prevaricazione quotidiani che non si vedono ma che creano un sistema di potere», in quasi tutte le relazioni.


(Domani, 26 gennaio 2024, apparso con il titolo Uomini che marciano per le donne: «Decostruiamo il superuomo»)

di Umberto Varischio


Benissimo ha fatto Marina Terragni, in un intervento intitolato Quando l’aborto è una violenza apparso su FeministPost, a mettere ancora una volta in primo piano la responsabilità di noi uomini nella prevenzione di un concepimento e nel caso di un aborto.

La deresponsabilizzazione maschile nei confronti dei mezzi anticoncezionali e nel percorso che segue la libera scelta della donna di abortire può avere diverse cause, ma è una delle ragioni che porta la scienza a non porsi seriamente il problema di anticoncezionali maschili e a sviluppare farmaci come la pillola RU486, che rappresentano uno stimolo alla deresponsabilizzazione stessa.

La RU486 ha contribuito a rafforzare la convinzione che questo farmaco si assuma come un comune antinfiammatorio: così la gravidanza sembra magicamente svanire e noi uomini non veniamo certo responsabilizzati da questa facile scappatoia!

Non meno importante, in particolare per le giovani generazioni, è la scarsa propensione maschile all’utilizzo di profilattici che oltre a rappresentare un anticoncezionale sono anche una prevenzione per quanto riguarda la trasmissione di malattie sessuali.

Nella letteratura su anticoncezionali e interruzione di gravidanza, quella di orientamento antiabortista si inventa sindromi maschili anche per giustificare la deresponsabilizzazione degli uomini. Secondo questi indirizzi per un uomo contribuire al concepimento di un figlio rappresenterebbe il nucleo centrale della virilità, costituendo l’essenza dell’essere veramente uomini. Facendo riferimento a un disturbo chiamato Male Post-abortion Trauma (trauma post-aborto maschile), che causerebbe nell’uomo sofferenza con conseguenti reazioni a catena nella sua psiche sia nella fase di scelta di eventuali anticoncezionali sia in quella post-aborto.

Al contrario di quanto affermato, non è dimostrata alcuna correlazione tra il disagio maschile in questi casi e l’ipotetica sindrome post-aborto descritta dagli attivisti.

Quando si parla di prevenzione del concepimento e di aborto molto spesso gli uomini scompaiono dalla scena: la limitata partecipazione che osserviamo da parte del partner maschile nell’ambito del percorso che segue la libera decisione della donna di abortire (in Italia attestata al 20%, corrispondente a un uomo su cinque) si riscontra anche in altri aspetti della salute riproduttiva, come la decisione sui metodi contraccettivi o la gestione della diagnosi di infertilità.

Quello che però continuo a non trovare in quasi tutti gli interventi pubblici di uomini è un ragionamento che parta dal concepimento e porti a una elaborazione maschile sulla nostra sessualità e sul ruolo di noi maschi nella contraccezione. Se esiste una rimozione e un’assenza, secondo me è proprio questa.

Non posso che fare mio il disagio espresso da Alberto Leiss in un articolo scritto per Il manifesto del 25 ottobre 2022 nei confronti di uomini, magari di orientamento politico di sinistra, che difendono appassionatamente il diritto all’aborto senza mai menzionare la propria responsabilità in caso di gravidanza.

Chi ha la capacità, attraverso il proprio seme, di causare la gravidanza dovrebbe forse interrogarsi sulla propria responsabilità e riflettere su come comportarsi in situazioni in cui non c’è un accordo condiviso sulla prospettiva di avere un figlio o una figlia.


(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2024)

a cura di Bretema e Alessio Grazioli


Scheda della conferenza stampa organizzata a Roma il 25 gennaio 2024 dai Disarmisti esigenti

Le sette “magnifiche” campagne per un’Europa disarmata e in pace con la Natura, fondamentali per aprire un dialogo tra “popolo della pace” e “popolo” tout-court e per inserirsi in un quadro strategico in cui l’Europa possa essere proposta come sogno positivo, capace di estinguere le alleanze militari e di lavorare per la “dedollarizzazione”.

1) No armi, no aiuti militari” nella guerra Ucraina.

2) Comitato per liberare Marwan Barghouti.

3) Cessate il fuoco immediato e l’avvio contestuale di negoziati senza condizioni in Ucraina,

4) No all’aumento delle spese per la difesa (da tagliare subito di un terzo in conformità con la difesa difensiva costituzionale), un’altra difesa difensiva che ripudi la guerra è possibile

5) Object war. Sostegno al diritto all’obiezione di coscienza, alle diverse obiezioni di coscienza, obiezioni ovunque nel mondo.

6) Denuclearizzazione militare e civile. Contrasto dell’inquinamento da attività militare da inserire negli accordi di Parigi sul clima.

7) Cultura della pace nelle scuole e nelle Università contro la militarizzazione in atto della stessa formazione.

In aggiunta, emerse dagli interventi:

1) ricorso al TAR con eccezione di incostituzionalità sui dpcm per le armi al governo ucraino

2) opposizione all’imperialismo linguistico dell’inglese.


(Radio radicale, 25 gennaio 2024. Il video o l’audio completo della conferenza stampa si possono seguire qui: https://www.radioradicale.it/scheda/718783/le-magnifiche-7-campagne-per-uneuropa-che-promuova-la-pace-con-la-natura)

di Rosella Postorino


Nel libro A Woman in Berlin, diario della primavera del 1945 a Berlino, che pubblicò in forma anonima dopo la guerra, Marta Hillers racconta che, in attesa dell’arrivo dei russi, le donne tedesche dicevano, per esorcizzare la minaccia di stupro: meglio un russo addosso che un americano sulla testa. Purtroppo – lo sappiamo – la minaccia divenne realtà; gli stupri di massa dell’Armata Rossa furono probabilmente intorno ai due milioni, ma ai processi di Norimberga quasi non se ne parlò. Ai piani alti degli edifici pericolanti venivano nascoste le vergini, come se a dover essere tutelata fosse la verginità, non il corpo, la dignità di una donna. Una signora teneva la fede nelle mutande per non farsela rubare: tanto, diceva, se arrivano lì non conterà più – come se un matrimonio perdesse validità perché la moglie è stata posseduta da un altro (è di possesso, di proprietà, che si tratta?).

Al ritorno dal fronte, scoprendo ciò che lei e altre donne avevano vissuto (le violenze, ma anche la possibilità di ottenere cibo in una città in macerie, se diventavano l’“amante” fissa di un soldato Ivan), il fidanzato di Marta le definì spudorate come cagne. Pochi giorni dopo ripartì.

Perché non riusciva a provare empatia? Perché gli uomini, e spesso pure le donne, ritengono (anche quando non ne sono consapevoli, anche se non lo dichiarano) che lo stupro implichi una colpevolezza della vittima? Lo penserebbero, della tortura di un prigioniero? Di qualunque altra forma di violenza fisica? È per tutti comprensibile che qualcuno subisca le botte senza reagire, restando inerte pur di salvarsi; invece una donna deve opporsi con ogni forza, rischiando di morire, pur di non essere stuprata. L’ha spiegato bene Alice Sebold in Lucky: «Chi dice che preferirebbe lottare fino alla morte piuttosto che farsi violentare è un idiota […]. Io diventai tutt’uno con quell’uomo. Quell’uomo teneva in mano la mia vita».

C’è qualcosa nella violenza sessuale che impedisce di vedere la vittima come vittima e basta, ed è proprio il sesso. Quella violenza passa per il sesso: qualcosa di misterioso, che attinge ai fantasmi dell’inconscio; soprattutto: qualcosa che, nell’immaginario comune, riguarda il piacere, per questo associarlo all’abuso crea un cortocircuito.

Come Catharine A. MacKinnon – la giurista e filosofa americana che, dopo la guerra in Bosnia, ha ottenuto il riconoscimento internazionale dello stupro come crimine di guerra – io non credo che la violenza sessuale sia separata dal sesso (altrimenti, chiede MacKinnon, perché lui non l’ha semplicemente picchiata?).

Stando ad alcuni antropologi, la frequenza degli stupri in una società si potrebbe prevedere in base alla propensione della stessa a entrare in guerra. Ho letto testimonianze di reduci sul libro Ho paura di me, della psicoanalista Marina Valcarenghi.

«Lo facciamo quasi tutti, non sei obbligato, ma se non lo fai non sei ben visto, anche questo fa parte dello spirito di corpo», dice uno, «raramente si desiderano le donne che si violentano […], si desidera violentare in sé». Il reduce che più mi ha colpito confessa: «Era qualcosa che si fa perché c’è il desiderio, non era la donna, la donna non c’entra, ma lo stupro in sé, come se quello fosse un desiderio che di solito se ne sta nascosto da qualche parte e in guerra viene fuori».

In Stupro, Joanna Bourke ricorda i risultati di un’inchiesta del 1981, in cui un terzo degli studenti di un college ammetteva che avrebbe violentato una donna se fosse stato sicuro di non essere arrestato. Valcarenghi sostiene che la violenza faccia parte del patrimonio istintivo, perché è istintivo cercare di soddisfare un desiderio anche quando è avversato. Il problema non è nel desiderio violento, ma nel «fallimento dell’inibizione», che dovrebbe derivare dal processo educativo, ossia dalla cultura.

Il punto è che la cultura in cui viviamo è sempre stata ambivalente nei confronti della violenza sessuale sulle donne. Secondo MacKinnon non si possono scindere le relazioni di genere dalla loro dimensione sessuale. La dominazione sessuale degli uomini sulle donne struttura il mondo sociale nel suo insieme, e viceversa.

La società patriarcale è fondata su un rapporto di potere e sfruttamento; questo la rende gerarchica, razzista, classista e misogina. Desessualizzare lo stupro offuscherebbe il suo ruolo nella costruzione della gerarchia dei sessi, anziché indebolirlo, come scrisse la filosofa Ann J. Cahill. Se, come MacKinnon, riconosciamo una reciprocità tra la sessualità e l’organizzazione sociale, allora crediamo anche che modificare la società possa contribuire a modificare i comportamenti sessuali, i quali sono stati storicamente stabiliti dal maschile: iniziano quando lui ha un’erezione e finiscono quando ha un orgasmo. «Lo vuoi come lo voglio io»: quante di noi se lo sono sentito dire? Davvero gli uomini sono così incapaci di riconoscere la condizione emotiva della donna che hanno davanti? «Quali sono le puttane?» chiese Valcarenghi a un sex offender che in seduta le aveva appena menzionate. «Quelle che mi attizzano». È evidentemente necessaria, in primis, l’educazione relazionale. Ma in generale bisogna rovesciare la subordinazione sociale ed economica delle donne, combattere la loro subalternità come status dato per scontato, ritenuto “naturale”, perché naturale sembra nel sesso la sottomissione femminile. A differenza di quello fra animali, però, il sesso fra persone è sempre un fenomeno culturale. La complessità della sessualità maschile nei confronti delle donne trapela in un’indimenticabile scena de La Storia di Elsa Morante, perché solo la letteratura consente un’intelligenza così profonda delle cose umane, della loro contraddittorietà inestricabile. Prima il soldato della Wehrmacht dice a Ida che vuole «fare amore» in uno «sfogo fanciullesco» – è un ragazzo irrequieto, ingordo, rapace: non è troppo diverso da suo figlio Nino – e poi la violenta con rabbia, «come se volesse assassinarla». Ma dopo l’orgasmo, placato, liberato dalla smania, la riempie di baci sul viso, esplorandola «al centro della sua dolcezza materna».


(la Repubblica, 24 gennaio 2024)

di Maria Tavernini e Alessandro Di Rienzo


Da più di cento giorni la Striscia di Gaza è sottoposta a incessanti bombardamenti da parte dell’esercito israeliano. Oltre 25mila vittime, il 40% bambini, un terzo donne, molti gli anziani. Un milione e settecentomila persone, l’80% dei gazawi, ha dovuto lasciare casa e vaga in cerca di un riparo dalle bombe in un fazzoletto di terra che va progressivamente ridimensionandosi. La sanità è al collasso con 32 dei 36 ospedali fuori uso: 180 donne che partoriscono ogni giorno senza anestesia né assistenza, numerosi gli interventi e le amputazioni senza farmaci di supporto nei pochi ospedali rimasti, che versano in condizioni disumane. Nel perdurare della crisi umanitaria, con una popolazione tagliata fuori dai rifornimenti essenziali, l’unico tentativo di far cessare il fuoco lo ha compiuto la Repubblica del Sudafrica, intentando una causa di genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia. Abbiamo chiesto a Suad Amiry, architetta e scrittrice palestinese autrice di famosi romanzi come “Sharon e mia suocera”, “Damasco” (Feltrinelli) e “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” (Mondadori) che cosa ne pensa della situazione attuale.

Amiry, per i palestinesi la causa di genocidio rappresenta una forma di riconoscimento di un torto cominciato nel 1948. Riconoscimento che non proviene da una democrazia liberale occidentale ma da una giovane democrazia che con Nelson Mandela ha raggiunto la fine dell’apartheid nel 1994. Che cosa significa questo per lei?

Grazie a dio la causa di genocidio non è stata portata alla Corte internazionale di giustizia da una democrazia occidentale: l’Occidente è complice dei crimini di guerra commessi a Gaza. Chi meglio del Sudafrica conosce l’orrore del razzismo, dell’apartheid, della violenza e della distruzione? Chi se non il Sudafrica simboleggia la necessità di porre fine alla supremazia bianca e all’egemonia occidentale? Chi se non Mandela simboleggia la dignità umana e il desiderio di uguaglianza, libertà e giustizia? Chi altri avrebbe potuto difendere con tanta dignità i palestinesi contro lo Stato di apartheid israeliano e chiamarlo con il suo nome? La lotta sudafricana per smantellare uno dei sistemi di apartheid più radicati è sempre stata fonte di ispirazione per i palestinesi. Semmai, il genocidio a cui assistiamo oggi a Gaza è solo un promemoria di dove si posiziona l’Occidente rispetto a Israele e ai suoi crimini.

Non c’è da stupirsi, perché la creazione stessa dello Stato di Israele (che ha portato all’espulsione del popolo palestinese nel 1948) è stata ed è tuttora un progetto coloniale occidentale fallito. Chiedo ai Paesi occidentali: che cosa vi abbiamo fatto noi palestinesi per meritare che ci voltiate le spalle? Che cosa abbiamo fatto al governo italiano, a quello francese, a quello tedesco o a quello britannico per meritare questo? Vi è stato solo chiesto di firmare un appello per il cessate il fuoco per salvare migliaia di civili innocenti e non siete ancora stati in grado di farlo. Vergognatevi. La guerra a Gaza non solo ha messo in luce l’aspetto criminale dell’occupazione israeliana che dura da oltre 76 anni, ma anche l’ipocrisia del mondo occidentale.

Nella sua letteratura la narrazione incrocia diversi periodi storici della vicenda palestinese; in alcuni casi il confronto generazionale avviene nella medesima biografia, eppure per molti sembra che la tragedia delle 1.200 vittime israeliane, così come delle 25.000 vittime palestinesi sia cominciata il 7 ottobre del 2023. Quale causa legale, quale azione morale e quale iniziativa politica pensa debba essere intentata per rendere giustizia ai palestinesi?

La cosa più importante è togliere a Israele l’impunità concessagli dall’Occidente: nessuno dovrebbe essere al di sopra del diritto internazionale. I Paesi occidentali devono mettere fine ai loro doppi standard nei confronti di Palestina e Israele. Finché Israele godrà di quest’impunità continuerà la sua occupazione. Come nel caso del Sudafrica, Israele deve essere boicottato e sanzionato dalla comunità internazionale; se non fosse stato per le sanzioni contro i “bianchi” il Sudafrica non sarebbe stato liberato. Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero smettere di sostenere a parole la soluzione dei due Stati, questa adesione formale sta dando agli israeliani il via libera per continuare ad accaparrarsi più terre e costruire insediamenti. Come successo con la creazione di Israele nel 1947, l’Onu dovrebbe dichiarare uno Stato palestinese sui confini del 1967 e costringere gli israeliani a ritirarsi. In mancanza di ciò il ciclo di violenza continuerà finché persisteranno l’occupazione, l’assedio di Gaza e la costruzione di insediamenti ebraici. State certi che il desiderio di libertà, uguaglianza e indipendenza non scomparirà mai.

Nessuno accetta che gli vengano tolti la casa, i campi, i villaggi e le città con qualsiasi pretesto ideologico, politico o religioso. I palestinesi vogliono porre fine all’ingiustizia che si è abbattuta su di loro dal giorno in cui Israele è stato creato sulla Palestina. Nessuno vuole vivere come cittadino di seconda o terza classe in un sistema di apartheid con supremazia ebraica, dove gli ebrei hanno più diritti dei palestinesi. È ovvio che i vari governi israeliani che si sono succeduti hanno scelto di rubare le terre palestinesi piuttosto che fare la pace. È ovvio se si sceglie di costruire insediamenti ebraici e di trasferire 700mila coloni in Cisgiordania e di dare loro terre palestinesi gratuitamente. I coloni israeliani utilizzano il 90% dell’acqua della Cisgiordania, lasciandone il 10% a tre milioni di palestinesi. La guerra contro Gaza ha dimostrato la crudeltà del governo israeliano e i suoi atti criminali contro i civili: la sicurezza dei civili, il cibo, l’acqua, l’elettricità e le medicine vengono usati come armi contro la popolazione di Gaza. Lo sfollamento di due milioni di palestinesi dalle loro case è un altro crimine di guerra collettivo. Abbiamo bisogno di una soluzione politica, che si tratti di uno Stato palestinese indipendente o della fine dell’apartheid e la creazione di uno Stato con uguali diritti per tutti. Chiamatela Repubblica delle banane o Repubblica dell’anguria, non ha importanza.

Lei ha creduto e preso parte al processo di pace e agli Accordi di Oslo, per tre anni ha partecipato alle delegazioni a Washington. Perché quella proposta di pace non ha avuto seguito?

Come il tempo ha dimostrato, nessuno dei governi israeliani ha mai voluto riconoscere il diritto palestinese all’autodeterminazione. In altre parole Israele non è mai stata disposta a pagare il prezzo della pace, la restituzione delle terre che occupa dal 1967: Cisgiordania, Striscia di Gaza e la Gerusalemme araba. Nessuno dei governi israeliani che ha negoziato con i palestinesi per trent’anni (1991-2021) ha mai smesso di costruire insediamenti sulle terre occupate. Il che significa che Israele non ha mai seriamente voluto raggiungere una soluzione pacifica. Dopo Camp David, Israele ha previsto l’autogoverno del popolo ma non della terra, ciò che Netanyahu suggerisce anche oggi.

I palestinesi possono amministrare i propri affari civici, i servizi, ma nessun controllo sulla terra, sull’aria, sulle risorse e sulla sicurezza. Netanyahu continua a dire «Non ci sarà nessuno Stato palestinese. La terra tra il fiume e il mare sarà sotto il dominio israeliano». Noi palestinesi e il mondo dobbiamo affrontare questa dura realtà e agire di conseguenza: senza la pressione della comunità mondiale non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente. E finché gli Stati Uniti e l’Europa considereranno Israele al di sopra della legge, assisteremo solo a ulteriori violenze.


(Altraeconomia, 24 gennaio 2024)

di Donatella Borghesi


E ora che l’Enciclopedia Treccani sceglie “femminicidio” come parola dell’anno appena finito, ora che il film di Paola Cortellesi è tra i più visti nella storia del cinema italiano, ora che la consapevolezza femminile della propria forza propositiva comincia a essere coscienza condivisa, ora che dopo l’emozione seguita alla morte di Giulia Cecchettin gli uomini hanno cominciato a interrogarsi sulla cultura patriarcale o post-patriarcale che dir si voglia, qual è lo stato delle cose del rapporto tra i sessi? “E ora?” è anche il titolo del primo capitolo del saggio appena uscito – politicamente scorretto, lo definisce l’autrice – della filosofa Annarosa Buttarelli, Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore). Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” con il suo libro Sovrane e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Buttarelli si chiede da tempo perché gli uomini non ascoltano, non si interessano al pensiero delle donne. Fermi alla “questione femminile”, ragionano solo in termini di parità, diritti, quote, cooptazione. Di emancipazione, insomma, di integrazione nel sistema, senza rendersi conto che da due secoli le donne chiedono sì uguaglianza e libertà, ma “fanno” anche filosofia, propongono una diversa concezione delle relazioni e della politica, e soprattutto un altro approccio di pensiero, che possa diventare valido per tutti, uomini e donne. «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente del momento?», si chiede Buttarelli. «È il risultato di una misoginia millenaria, che ha svalutato la donna come essere umano pensante, e ha sempre considerato il pensiero maschile come universale».

Quanti docenti di filosofia maschi hanno letto Nonostante Platone di Adriana Cavarero o Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi? Di questa misoginia che esclude le pensatrici dal canone filosofico accademico Buttarelli ne trova conferma anche nell’ultima opera di Massimo Cacciari, Metafisica concreta (edito da Adelphi), che vede la sopravvivenza della filosofia – da tempo in crisi rispetto alla sua funzione – in un legame con l’essere nel momento in cui vive, non l’essere astratto ma “l’essente”. «Peccato che le pensatrici hanno sempre riflettuto proprio sulla metafisica concreta della vita quotidiana: la cura, la ricettività interiore, i sentimenti, l’ascolto sono patrimonio della differenza femminile, un pensiero che parte dall’esperienza e si fonda sulla relazione, ma di questo nel lavoro di Cacciari non c’è riconoscimento», osserva Buttarelli, che nel suo libro affronta il grande tema etico del bene e del male, oggi così sensibile, con pensatrici come Simone Weil e Hannah Arendt, María Zambrano e Carla Lonzi, come la psicoanalista Françoise Dolto o la scrittrice Flannery O’Connor, voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della crisi attuale della civiltà europea-occidentale.

«È venuto il tempo che anche gli uomini si occupino delle opere delle donne: le leggano, le guardino, le studino, ne scrivano». Sono le parole di Daniela Brogi, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per stranieri di Siena, stanca di vedere come a studiare le autrici siano quasi sempre le donne. «Come se per molti uomini di cultura fosse un’impresa da cervello balzano occuparsi delle opere delle autrici, facendo quello che noi invece facciamo da sempre con gli autori». Daniela Brogi fa parte di quella generazione femminile che negli ultimi dieci anni è entrata in gran numero nelle università, nell’editoria, nell’informazione e nelle professioni, una generazione ancora giovane da cui ci si aspetta una rivoluzione culturale segnata dalla loro identità di genere. Nel suo saggio Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022) analizza quanto è stato concesso loro nei secoli. Oltre alla violenza primaria che è stata esercitata vietando o svalutando la loro possibilità di occupare da soggetti uno spazio pubblico, si è aggiunta una seconda violenza, la svalutazione della narrativa che racconta gli spazi marginali del loro mondo: «E così raccontare di luoghi domestici, di memorie famigliari, del mondo della madre, dell’autobiografia, di storie d’amore o del corpo, è stata a lungo una scrittura creduta inferiore, se praticata dalle autrici». Oggi, dopo aver man mano conquistato gli interstizi, le smarginature nel sistema maschile, le donne che scrivono e che pensano sono in uno stato di “fuori campo attivo”, per usare un’immagine cinematografica. «Non si tratta più di abbattere il tetto di cristallo, ma anche le pareti», dice ancora Daniela Brogi. «E invece nel sistema universitario domina ancora l’automatismo della cultura patriarcale. Perché il patriarcato non è solo un sistema giuridico ma una postura culturale, una mentalità che riguarda il simbolico, e sopravvive quindi al mutare delle leggi. Anche se le donne sono presenti in università, gli uomini tendono a parlarsi, ascoltarsi e riconoscersi solo tra loro. Per cui quando si cerca un intellettuale per un convegno o un seminario è quasi sempre senza apostrofo…».

Appartiene alla generazione delle quarantenni anche Giorgia Serughetti, docente di Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca, ora in libreria con La società esiste (Tempi Nuovi). «Quando ho studiato io, ricordo di non aver mai letto un libro scritto da una donna, eppure eravamo alla fine degli anni Novanta… Allora l’unico nome che bucava era quello della Arendt. Oggi con i fondi del Pnrr ci saranno 17 borse di studio per gli studi di genere, che sta gestendo Francesca Recchia Luciani dell’Università di Bari. Partiti prima nelle scienze sociali, gli studi di genere hanno portato un grande cambiamento nel tessuto accademico. Il problema è che questo patrimonio di ricerca realizzato dalle docenti che si mettono in rete, che si sostengono e si scambiano informazioni, non suscita interesse da parte degli uomini. Perché in loro domina ancora il pregiudizio per cui, parlando solo di donne si perde di interesse generale, e loro, le donne, rimangono situate nella loro parzialità. Lo aveva capito bene Simone De Beauvoir, parlando dell’uomo che si considera il Soggetto e vede nella donna l’Altro: la donna non può assurgere a voce universale, perché non riesce a separarsi dalla propria specificità di genere. Molte donne nel passato ci hanno rinunciato per essere considerate alla pari, per non essere sbalzate fuori dai giochi. Il femminismo ha cambiato però le carte. Oggi penso che quello che può venire di buono nella politica verrà dalle donne e che un cambio di passo sta già avvenendo. Non per le qualità essenzialiste dell’essere donna, ma per la maggiore sensibilità a capire i cambiamenti, a captare anche i segnali invisibili. È possibile che ai politologi sfugga che il movimento delle donne è il più grande movimento collettivo e che ha una forza dirompente? Si analizzano i motivi per cui si è rotto l’ordine neoliberista, i populismi di destra e di sinistra, la crisi della democrazia… Ma a nessuno viene in mente di prendere in considerazione nella discussione politica anche il pensiero femminista».

Qualche uomo però ci sta provando a misurarsi con il pensiero delle donne. Tra questi, Riccardo Fanciullacci, quarantacinque anni, docente di Filosofia morale all’Università degli studi di Bergamo. «Oggi non è più così raro trovare corsi dedicati a una pensatrice importante come Hannah Arendt o che discutono le posizioni di Judith Butler o di Martha Nussbaum. Giusto l’anno scorso, ho dedicato le mie lezioni a Iris Murdoch e Simone Weil. Resta però da capire quanto ci si lasci trasformare dal loro pensiero e non ci si limiti a includere nuove figure in uno schema che è sempre lo stesso. Per questo mi torna spesso in mente quando Luisa Muraro ha chiesto se gli accademici siano disposti a imparare da una donna che non sia morta e che dunque non voglia farsi trattare come un monumento. Per imparare da qualcuno bisogna saper dare autorità alla sua parola, ma in questo caso bisogna essere diventati capaci di dare autorità a una donna, e questo vuol dire aver fatto un passo oltre le abitudini e gli schemi patriarcali. Si tratta di una nuova etica, nel senso di un nuovo modo di abitare le relazioni tra i sessi. Ho avuto la fortuna di incontrare il pensiero della differenza sessuale non solo attraverso i libri ma frequentando i luoghi in cui viene elaborato, come il Seminario organizzato ogni autunno all’Università di Verona dalla comunità di Diotima e la Libreria delle donne di Milano. Grazie alle relazioni nate in questi luoghi, ho imparato a non slegare il movimento del pensiero dal riferimento a ciò che ci capita e arriva a toccarci nella vita. E questo lo porto anche nei miei corsi». Fanciullacci ha curato con Stefania Ferrando il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes 2020. Nel dialogo conclusivo, Cigarini sostiene che la politica maschile ha mancato l’appuntamento con il pensiero delle donne e quindi con l’occasione di elaborare in maniera positiva la fine del patriarcato. È d’accordo? «In riferimento alla politica, soprattutto quella istituzionale, direi senz’altro di sì. E davanti alle grandi novità di oggi, a volte mi domando se noi uomini saremo capaci di una risposta all’altezza. Le studentesse chiedono che si parli delle donne in filosofia, in letteratura, nelle scienze, e molti dei loro compagni sono d’accordo: diventa difficile non confrontarsi con queste richieste. E se qualcuno prosegue imperterrito con il vecchio canone, ecco che quelle stesse studentesse danno vita a blog o a riviste. Questa è una bella eredità del movimento delle donne». Di femminismi, però, ce ne sono tanti sulla scena, da Non una di meno alla galassia delle teoriche del gender, al movimento Lgbtq+… «Sì, è vero, ma preferisco non entrare nel dibattito, che ha spesso un forte carattere ideologico. Ho imparato a non farmi catturare dal discorso corrente e cerco di offrire la possibilità di non prendere posizioni preconfezionate. Preferisco portare l’attenzione su alcuni temi: la politica non si riduce a lotta per il potere, o il conflitto alla guerra o il linguaggio a strumento di regolazione e controllo. In questo modo ottengo un risveglio di creatività piuttosto che schieramenti». «Tutto è nato un po’ per caso, tipo tre amici al bar. Ci si diceva: ma vi rendete conto che nei manuali universitari non ci sono donne?». A iniziare il racconto dell’avventura del programma di video-lezioni “Donne e pensiero politico” dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino è il suo responsabile scientifico, il torinese anche lui quarantenne Federico Trocini, docente di Storia del pensiero politico all’Università di Bergamo. Quando è scoppiato il Covid, in tre si sono messi a lavorare al progetto delle conferenze: oltre a Trocini, Cristina Cassina dell’Università di Pisa e Giuseppe Sciara dell’Università di Bologna. Il risultato, 70 video su YouTube – uno alla settimana – e 100mila visualizzazioni, un successo imprevisto e imprevedibile. «Credo che il progetto abbia funzionato perché abbiamo lavorato molto sul format: stessa grafica, sigla riconoscibile, evitare toni professorali e scegliere lo stile diretto della comunicazione social. E una struttura uguale per tutte e 70 le pensatrici: focus biografico, contesto storico-sociale e infine approfondimento del pensiero politico». La scelta delle protagoniste è stata fatta attraverso le proposte che venivano dalla rete accademica su tutto il territorio nazionale ma anche dalle reti personali, e per i relatori – quasi tutti giovani, in gran parte ragazze – si è puntato sui dottorandi e gli assegnisti. «Il nostro è un programma divulgativo», precisa Trocini, «con un’impostazione chiara: solo pensatrici e non attiviste, non solo occidentali e non solo bianche, e senza guardare al loro schieramento di parte. Abbiamo scelto tra pensatrici di matrice liberale, cattolica, socialista, sfidando la consuetudine di considerare il pensiero femminista coincidente con l’appartenenza a sinistra. E anche che fossero necessariamente femministe: Madame de Staël, per esempio, non ha mai parlato delle donne ma è stata una grande pensatrice politica…». Qualche nome, oltre alle tante già note come Rosa Luxemburg o Carole Pateman: dall’afroamericana Kimberlé Crenshaw, che ha coniato il termine di “intersezionalità”, all’egiziana Nawal El Saadawi. Certo i tre ragazzi al bar non si aspettavano questo successo: dopo pochi mesi il programma è stato acquistato da un editore spagnolo (Altamarea), e in Italia Carocci sta comprando i diritti. Nel 2025 avremo così la prima collana Storia del pensiero politico femminile, con oltre 16 volumi. Seguirà un manuale per Mondadori Università. Chapeau. E segno che una nuova generazione di intellettuali uomini si sta muovendo accanto alle loro compagne di studio e di insegnamento. Forse il cambiamento di passo tanto desiderato è davvero avviato.


(Il Foglio, 22 gennaio 2024)

di Linda Laura Sabbadini


Non siamo l’unico Paese a bassa fecondità. C’è chi sta peggio di noi, come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore, ai più bassi livelli al mondo. Non saranno proclami contro l’individualismo, o appelli, anche pop, alle donne a essere madri a cambiare la situazione. La bassa fecondità non può essere affrontata in modo ideologico. La bassa fecondità è l’effetto di politiche tardive e che non hanno puntato sulla centralità dei bisogni delle donne e sul desiderio dei giovani a una vera qualità della vita. È la conseguenza di uno sviluppo non centrato sulle persone.

Il problema si sta estendendo. Ormai circa i due terzi della popolazione mondiale vivono in Paesi al di sotto di 2,1 figli per donna. Non Africa sub-sahariana e Medio Oriente. Corea del Sud, Taiwan e Singapore sono Paesi con un ritmo di crescita e sviluppo elevati ed in poco tempo hanno conosciuto un tracollo della fecondità, proprio a seguito dello sviluppo. Ciò ha comportato cambiamenti culturali profondi, specie nel livello di istruzione, con una crescita della partecipazione femminile al mondo del lavoro, a cui non ha corrisposto un cambiamento della stessa intensità nei rapporti tra uomo e donna e nella cultura del lavoro, con orari di lavoro massacranti e spesso mal pagati. Con molte donne, altamente istruite, costrette a dover scegliere fra la realizzazione sul lavoro ed il fare figli.

Tanto è che la Corea si trova a guidare la classifica nel mondo per bassa fecondità con 0,78 figli per donna.

Anche Taiwan vive una situazione simile. Con la sua presidente donna ha investito su sviluppo dei servizi per la prima infanzia, congedi, assegni, ma con il risultato del raggiungimento di un più alto tasso di occupazione femminile rispetto alla Corea del Sud (80% delle 20-30enni), pur restando ad un tasso basso di fecondità. Lo squilibrio tra l’affermazione delle donne nella sfera pubblica e l’arretratezza del ruolo delle donne nella sfera privata è il nodo segnalato proprio dal dibattito scientifico nel Paese.

E non è esente da questa dinamica il Giappone che ha un numero di figli per donna pari a 1,24, vicino al nostro, ed ha raggiunto il numero più basso di nascite nel 2022 come noi, dopo 12 anni di continuo calo.

Anche lì la divisione dei ruoli in famiglia è rigida, come l’organizzazione del lavoro, ed i servizi scarsi.

La bassa fecondità riguarda anche la Cina, in tutt’altro contesto, dove lo Stato autoritario pretende di passare a suo piacimento dall’imporre prima un solo figlio per coppia e ora due o più, cercando di programmare le donne come macchine da riproduzione. Ma con scarsissimi risultati.

Le nascite, infatti, diminuiscono da sette anni, e non c’è propaganda ad essere brave madri-modello che tenga, né incentivi a fare figli. Pensate, nel 2016 i nati erano 18 milioni, ora sono 9 milioni 600mila, quasi la metà, in seguito alla drastica diminuzione dei primi matrimoni. E la vecchia politica draconiana del figlio unico ha ristretto il numero di donne oggi in età riproduttiva, molto più basso del passato.

La bassa fecondità è arrivata persino in Iran, che ha conosciuto un crollo veloce, il più rapido di tutti: negli anni ’50, 7 figli per donna. Trent’anni dopo, 6,5. Vent’anni ancora dopo, 1,8 figli per donna. Nel 2022 1,7. Ciò preoccupa non poco il regime iraniano, che lo imputa, non a torto, al forte incremento dell’istruzione femminile, e a una nuova consapevolezza delle donne che attraversa il Paese, non solo nelle zone urbane. E che vede le ragazze determinate a perseguire la propria libertà pure su questo piano.

Il fattore D della volontà delle donne di realizzarsi su tutti i piani, libere di scegliere come vivere, con o senza figli, è un nodo cruciale con cui i governi di tutto il mondo devono fare i conti, se vogliono rialzare la bassa fecondità. Non serve una singola misura.

Servono un cambiamento di modello di sviluppo e politiche stabili nel tempo. Serve un investimento finanziario serio sullo sviluppo dei servizi per la prima infanzia e per l’assistenza di anziani e disabili, tempo pieno a scuola, congedi di paternità paritari, congedi parentali retribuiti adeguatamente, cambiamento dell’organizzazione del lavoro, investimenti permanenti per combattere gli stereotipi di genere.

Serve sostegno economico e dare ai giovani una speranza di vita migliore, dignitosa e libera, senza che qualcuno prescriva quanti figli fare, e come vivere, ma creando le condizioni perché abbiano i figli e la vita che desiderano. Più tardi i governi lo capiranno, più ne pagheranno le conseguenze.


(la Repubblica, lunedì 22 gennaio 2024)