di un gruppo di donne e uomini
Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.
Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.
Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.
Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.
Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.
Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.
I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.
Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.
Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.
Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.
Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?
Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.
Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.
Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.
In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.
(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2024)
di Umberto Varischio
Non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. Consideriamo un oggetto come il tavolo che vediamo di fronte a noi. È innegabile che esista concretamente come oggetto con caratteristiche fisiche evidenti come colore e durezza. Tuttavia, cosa lo fa considerare un oggetto, un’entità reale, un tavolo? La nozione di tavolo si basa sulla sua funzione: è un mobile progettato per essere utilizzato come tavolo. Questa definizione presuppone l’esistenza dell’umanità che ha il bisogno di appoggiare oggetti o per mangiarci sopra. Ciò non riguarda intrinsecamente il tavolo in sé, ma piuttosto il modo in cui lo percepiamo e lo utilizziamo. Se cercassimo il tavolo in sé, privo di relazioni con l’esterno e soprattutto con noi stessi, scopriremmo che non esiste come entità isolata.
Il mondo non è suddiviso in entità indipendenti. Una catena montuosa non è intrinsecamente divisa in singole montagne: siamo noi che la separiamo in parti che colpiscono la nostra percezione. Praticamente quasi tutte le nostre definizioni sono relazionali: una madre esiste in quanto vi è un figlio, un pianeta è tale perché orbita attorno a una stella, una posizione ha significato in relazione a qualcos’altro.
Quella che ho cercato di illustrare sinora è la tesi di Nāgārjuna, un filosofo buddhista vissuto tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo in India e considerato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna o “Grande veicolo”, nella rielaborazione del fisico teorico Carlo Rovelli nel suo saggio divulgativo sulla fisica quantistica intitolato Helgoland.
Per tornare alle relazioni, l’aspetto che più mi interessa, il femminismo in generale si basa sulla presa di coscienza personale e sulla relazione. La relazione inizia con il rapporto con sé stesse e si sviluppa ulteriormente nella relazione con il mondo circostante; possiamo orientarci se guardiamo dentro di noi e se costruiamo e manteniamo relazioni con il mondo.
Certo, le relazioni sociali sono ben più complesse di quelle che si possono stabilire nel puro spazio fisico, ma si può ipotizzare che, come scrive Maria Luisa Boccia, la rivoluzione del simbolico rappresentata dal femminismo della differenza e le relazioni abbiano la propria matrice in un “materialismo ontologico” che si occupa dei corpi, della materialità dell’esistenza.
Nella mia adolescenza sono stato educato a pensare, come quasi tutti quelli della mia generazione, che riconoscere i miei bisogni individuali volesse dire riconoscere una propria debolezza e che la dipendenza da altri e altre fosse una minaccia alla mia mascolinità. I miei sentimenti di bisogno e di dipendenza sono stati spesso svalutati e mi si insegnava a vivere autonomo, senza aver bisogno che di poche relazioni significative.
Per un uomo che ha avuto questo apprendistato patriarcale, abituato a vedersi come un’isola e a non sapere che «le isole si tengono per mano sotto il mare» (King Crimson, Island), è suggestivo pensare che la materialità dell’esistenza, che è anche il luogo della politica e del vivere insieme, sia ontologicamente basata principalmente sulle relazioni e sull’interdipendenza.
(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2024)
di Elena Caslini
L’artista piacentina, classe 1974, porta per la prima volta le sue opere intrise di poesia naturale nell’istituzione milanese. Con Chiara Camoni, il femminile primigenio si coagula in forme e materiali organici. Attraversati da una magica forza generatrice.
Nella sua celebre conferenza sul Rituale del Serpente, nel 1923 lo storico dell’arte Aby Warburg rifletteva su come la perdita di una visione mitologica sul mondo non avesse davvero aiutato l’uomo a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza.
A distanza di un secolo, dal senso di questa esistenza ci siamo forse allontanati un po’ di più; e il ritorno a una dimensione magica può forse aiutarci a ritrovare quelli che l’artista Chiara Camoni (Piacenza, 1974) definisce come «piccole epifanie, momenti di grazia e di bellezza che sembrano rivelare il senso del vivere. Questi attimi, velocissimi, si coagulano intorno all’opera d’arte, che lavora su un piano emotivo e inconscio, nel momento del processo creativo e della sua fruizione».
Tenendo lo sguardo disponibile e aperto, la realtà può cambiare sotto i nostri occhi. Le ciotole di porcellana e onice impilate in ritmi sinuosi si trasformano in quei serpenti di cui parlava Warburg, depositari di antichi poteri, e, contemporaneamente, in quelli così reali visti da Camoni nel suo giardino a Seravezza, dove vive e lavora. Silenziosi, scandiscono il ritmo della retrospettiva che l’Hangar Bicocca dedica all’artista da oggi fino al 21 luglio, raccogliendone il corpus di opere più ampio mai presentato finora. «Le mie serpentesse disegnano i corridoi, le stanze e gli spazi della mostra come in un sito archeologico, un giardino all’italiana dove c’è architettura ma lo sguardo vola libero, verso un centro che rimane vuoto e attorno al quale chiamo a raduno le mie creazioni». Sono le Sorelle, falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse del titolo della mostra, che, come un incantesimo, evoca queste presenze fatte di erbe, bacche, fiori, argilla, terra e ceneri. Materiali di ordinaria mitologia.
La sacralità delle opere di Camoni si esprime nel loro essere femminili. Un concetto che per l’artista assume connotazioni olistiche, dove totalità e riappacificazione degli opposti ne definiscono l’essenza. Camoni è un’artista donna senza rivendicazioni né denunce. Lo è, al contrario, nel suo appellarsi a un’antica forza generatrice che, dagli inizi dei tempi, è propria di ogni donna. «Nella costruzione dell’oggetto scultoreo metto al mondo qualcosa che comprende e accoglie tutto: il maschile, il femminile, il neutro, l’animale, il vegetale. Le mie opere sono ricolme di loro stesse, delle loro migliaia di forme, in continua trasformazione. Sono distintamente femminili nel loro vivere con agio nel cambiamento e nell’indeterminatezza. Il vaso in ceramica, declinato nei miei Vasi-farfalla, è l’apoteosi di questa ambiguità, nel suo essere allo stesso tempo pieno e vuoto, dentro e fuori, bellissimo e drammatico».
Nella coralità della sua visione, Camoni si inserisce in una storia di donne, che scarseggia di figure materne per come la Storia ci è stata raccontata, ma che si alimenta di una sensibilità e un sentire condivisi. Insieme alle artiste, poetesse, intellettuali, sorelle spirituali con cui Camoni collabora o a cui si ispira per opere come Pavimento (for Clarice), omaggio alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, l’artista contribuisce a un significativo passaggio di testimone, affinché l’idea di un’identità femminile, ancestrale ma ancora così reale, possa continuare a fiorire. Proprio come i suoi vasi.
(Vogue, 14 febbraio 2024)
di Annalisa Cuzzocrea
Nasce tutto da un doppio riconoscimento. Giorgia Meloni ha scelto la segretaria del Pd Elly Schlein come leader dell’opposizione, e si prepara a sfidarla alle Europee. Così ieri mattina – al telefono – ha ascoltato le sue parole sul Medio Oriente, su quel che sta accadendo a Gaza. Le parole sulla necessità di un cessate il fuoco umanitario nella Striscia, anche per ottenere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. E ha scelto di fare in modo che la mozione parlamentare del Pd passasse grazie all’astensione della maggioranza. Non era previsto, non era scontato. E non era semplice. Non è neanche a costo zero per Meloni, che si ritroverà in casa la Lega – Salvini ha già cominciato – a esercitare distinguo sposando totalmente la posizione del governo guidato da Benjamin Netanyahu. E che sebbene non abbia condiviso le parti della mozione di critica all’esecutivo che sta conducendo la guerra a Gaza, sconterà sicuramente il malumore di Israele.
Il testo passato alla Camera infatti impegna l’Italia a muoversi per un’iniziativa in tutte le sedi che chieda il cessate il fuoco. Può sembrare meramente simbolico, ma non lo è. Significa ad esempio che se si dovesse votare di nuovo una richiesta di cessate il fuoco alle Nazioni Unite, il governo italiano dovrebbe essere conseguente e non astenersi come ha fatto alla fine di ottobre. Significa – anche se le due posizioni non sono minimamente paragonabili – spingersi dove gli Stati Uniti non possono ancora arrivare, e infatti non sono arrivati. Biden e Blinken stanno evidenziando tutti gli errori del premier israeliano, ma questo non li ha portati a chiedere di fermare le operazioni su Gaza. Perché una simile richiesta, fatta da Washington – dai cui rifornimenti in armi Israele dipende – avrebbe tutto un altro peso.
Eppure, quel che è successo alla Camera porta il nostro Paese su una posizione che è già di Germania e Gran Bretagna e che, vista da chi la propone, dovrebbe servire a fermare Netanyahu le cui intenzioni su Rafah porterebbero inevitabilmente a una nuova catastrofe umanitaria, forse ancor più sanguinosa. È probabile che le ragioni di Meloni siano geopolitiche e di posizionamento internazionale, ma è un fatto che questa decisione arrivi attraverso un patto con l’opposizione. Ed è – dal punto di vista di chi è affezionato alla Repubblica parlamentare che ancora abbiamo – un fatto positivo.
A sua volta Schlein riconosce a Meloni il suo ruolo di presidente del Consiglio, l’unica in grado di far avanzare la posizione italiana a livello internazionale: la segretaria Pd ha cercato, come dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, un’interlocuzione diretta con la premier perché pensa che sulle questioni più delicate, che devono trascendere lo scontro ideologico, l’unica strada sia il lavoro comune. Lo ha fatto dopo un’operazione di cucitura attenta fatta nel partito dal responsabile Esteri Peppe Provenzano, che ha cercato anche un accordo con il resto delle opposizioni, Italia Viva compresa. E ha capito che l’unico modo di ottenere qualcosa che non fosse un semplice punto simbolico, era chiamare direttamente Meloni.
Per un giorno il Parlamento è tornato centrale e per un giorno maggioranza e opposizione hanno lavorato come in un Paese maturo. Ma è partita ieri, più di quanto non fosse già accaduto nelle scorse settimane, la corsa solitaria delle due leader. Che necessariamente taglia fuori i comprimari e polarizzerà sulle loro figure i prossimi mesi e soprattutto le prossime elezioni europee. Questo significa che ci saranno ancora scossoni a destra come a sinistra. Dove Giuseppe Conte – che già non amerebbe essere messo dentro a una generica sinistra – cercherà di farsi spazio con la sua proposta politica a danno del Pd. Quanto a Salvini, tenterà di fare lo stesso, come ormai da mesi. La corsa però è già partita. E Schlein e Meloni sembrano decise a non farsi fermare.
(La Stampa, 14 febbraio 2024)
di Donatella Borghesi
La scossa emotiva che è seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ha segnato un cambiamento di clima: che sia arrivato il momento di ascoltarsi, uomini e donne? Gli uomini hanno cominciato a parlare di sé, a interrogarsi sul patriarcato – a volte sinceri, a volte no, spesso a sproposito, “a schiovere”, come direbbe Erri De Luca – ma chissà se ascolteranno la voce delle donne. Sicuramente è il momento giusto per chiedersi quello che si ripete da tempo la filosofa Annarosa Buttarelli: «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente, nonostante abbiano indagato bene e male con esiti sorprendenti?»
Proprio al bene e al male – con la minuscola, attenzione – è dedicato un saggio-manifesto appena uscito, dal titolo Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore), che sembra rispondere a un’ispirazione quasi profetica, e della profezia ha l’andamento acceso e fortemente etico. Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” (il suo Sovrane, l’autorità femminile al governo ha avuto più edizioni) e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Annarosa Buttarelli ha sentito l’urgenza di scrivere queste pagine proprio sotto la spinta emotiva di troppi femminicidi avvenuti a pochi giorni di distanza uno dall’altro. «Dobbiamo pensare l’impensato, se desideriamo uscire dall’agonia in cui il mondo è precipitato». Il suo percorso – senza dimenticare gli echi di Platone, Sant’Agostino, Spinoza – segue una genealogia femminile non cronologica, ma di desiderio, mente e cuore insieme. A cominciare da Eva (proprio lei, la prima donna), e poi Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano, Carla Lonzi, Françoise Dolto, infine scrittrici come Flannery O’Connor e Iris Murdoch, tutte voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della rovinosa crisi attuale della civiltà europea-occidentale.
Cominciando dalle origini, dall’Antico Testamento. Ricorrendo a un testo importante della mistica ebraica, Il male primordiale nella Qabbalah di Moshe Idel (Adelphi), Buttarelli smonta la simmetria “primordiale” tra il bene e il male, che fa da contrappunto all’altra simmetria della nostra cultura, quella maschile/femminile. Si riteneva che il male anticipasse il bene, cioè fosse emanato per primo, e quindi secondo la Qabbalah dalle prime manifestazioni divine, dalle sefirah. «Ho imparato finalmente che Pensiero, Sapienza e Discernimento sono attributi del male femminile», scrive Buttarelli, «sono attributi di Eva, colei che ha spaventato l’umanità perché ha saputo discernere il bene dal male, ha saputo insegnare a fare le differenze: era la Madre Pensatrice. Mi pare molto interessante sapere che tentare di spezzare l’Uno, come capita di fare a chi osserva con coraggio e lucidamente la realtà “inferiore” terrena, è stato inteso come “male” che spezza il sogno di unione assoluta, radicato nell’antropologia maschile». Trovo echi della necessità di questa rottura anche nell’analisi che ha fatto Stefano Levi della Torre in Dio, edito da Bollati Boringhieri. «La Bibbia configura un Dio che non ha responsabilità solo del bene, ma anche del male. Dio è concepito come vivente, dignitosamente non scarica solo su altri viventi, umani o demoniaci, la responsabilità del male, ma afferma la propria responsabilità sulla tensione tra bene e male che è inerente alla vita. Ciò si riflette anche nella sorprendente invocazione della preghiera ebraica e poi cristiana del Padre nostro: non indurci in tentazione, che attribuisce a Dio attitudini tipicamente demoniache».
Ma torniamo al lavoro di Annarosa Buttarelli, che riparte da Simone Weil, la ragazza ebrea che stando dalla parte degli ultimi si è consumata facendosi “campo di battaglia” (come farà anche Etty Hillesum nel campo di concentramento). «Non si può sapere ciò che un uomo ha in mente quando pronuncia una certa parola (Dio, libertà, progresso…). Il bene che c’è nella sua anima lo si può giudicare solo mediante il bene che è nei suoi atti, nell’espressione di pensieri originali», scrive Simone Weil. È l’inizio di una metafisica sperimentale o meglio sperimentante, che svilupperà soprattutto la filosofa spagnola María Zambrano. Buttarelli sottolinea come Simone Weil abbia anche una dimensione soprannaturale e inappropriabile del bene: «Dio è il Bene. Non è una cosa, né una persona, né un pensiero. Tuttavia, per afferrarlo, dobbiamo concepirlo come una cosa, una persona, un pensiero». E molto precisa è la sua visione del male: è l’attaccamento del desiderio alle cose terrestri, è la mancanza del limite, la dismisura, l’avidità di impossessarsi di tutto il peccato originale che perseguita la condizione umana.
Il bene è negli atti, quindi. Per analizzarli la filosofa Buttarelli, che detesta il politicamente corretto, il moralismo giudicante e la retorica dei buoni sentimenti, ricorre alla psicoanalista lacaniana Françoise Dolto, e prende il suo commento alla parabola evangelica del buon Samaritano. Che non è un “buono” qualunque, ma uno che ha fatto solo ciò che occorre, ciò che è necessario, e poi se ne va. Scrive Dolto: «È un samaritano… non un intellettuale di sinistra dell’epoca. Non è neppure una colonna della sinagoga. Fa parte di quella gente che non ha nulla di cui gloriarsi: niente Chiesa e poche virtù. Persone molto vicine alla natura, non certo uomini spirituali. Egli è così com’è! Un uomo materiale, pratico». Ecco, bisogna imparare da chi “fa” qualcosa, lasciando perdere chi non fa. Il “sottosopra” di Dolto consiste proprio in quell’andarsene senza chiedere nulla in cambio, neppure un grazie o un dovere di riconoscenza. Per sentirsi “prossimo”, concetto e valore oggi dimenticato, rilanciato da Dolto: «Il nostro prossimo sono tutti coloro che la sorte ha messo sulla nostra strada, che c’erano quando avevamo bisogno di aiuto e ce lo hanno dato senza che noi lo chiedessimo, e che ci hanno soccorso, senza nemmeno più conservarne il ricordo… Tutti coloro che come fratelli e sorelle ci hanno preso sotto la loro responsabilità fino a quando avessimo ripreso le forze, lasciandoci poi liberi di proseguire per la nostra via, sono stati il nostro prossimo». Questo passaggio potrebbe essere il senso di un cambio di civiltà, sottolinea Buttarelli, «che ci metta di fronte alla perdita del senso di responsabilità, alla cattiva psicologia che invita a prendersi cura solo di sé, alla cattiva filosofia che sostiene ancora l’individualismo e il narcisismo, alla cattiva politica che conosce solo il dettato moralistico del tutto astratto dalle necessità concrete, che non riguardano solo la sopravvivenza ma soprattutto il vivere in relazione». Per ritrovare quella “corrente d’amore” di cui Dolto parla in Il gioco del desiderio e in La libertà d’amare. Come diceva in fondo Sant’Agostino: «Ama e accetta tutti i rischi».
Parlare del male senza ricorrere a Hannah Arendt non è più possibile dopo la sua illuminazione sulla “banalità del male”, quella che portò alla Shoah (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli). Definita da Buttarelli «l’unica pensatrice tra i filosofi novecenteschi che ha saputo dare un nome definitivo al male incarnato», quello che fa strame della vita umana perché è scontato e convenzionale, Arendt ci conduce «all’imprescindibile presa di coscienza che il male è il prodotto di un agire ordinario, comune, e invisibile ai più». Arendt si rivolge direttamente a Eichmann dicendogli che in politica obbedire agli ordini è la stessa cosa che appoggiarne la politica, in questo caso lo sterminio del popolo ebraico, e non ci sono alibi che tengano. «Hannah Arendt ha visto che non pensare, non sapere, non ricordare, non decidere autonomamente sono proprio tra i fondamenti della diffusa capacità di fare banalmente, insospettabilmente, da gentili vicini di casa, il diffuso male quotidiano che ormai, anche oggi, di nuovo, si fatica a intravedere».
Pensando al male di oggi, dalle guerre su guerre ai femminicidi quotidiani, si ha un attimo di trasalimento quando si arriva al titolo «Pregare, non domandare, augurare giustizia a chi fa del male». Buttarelli sconfessa ogni tentativo di etica razionale per fronteggiare il male, il male non si può correggere cercando di dimostrare la verità, o cercando il compromesso morale ammettendo che l’odio ha un’energia superiore rispetto al bene. «Ribadisco l’esistenza dell’innocenza», sostiene l’autrice. E qui ricorre all’amata María Zambrano, che scrive in Il sogno creatore (Bruno Mondadori): «Accettare perfino lo sbaglio non commesso, il male non compiuto, farsi carico di tutte le possibilità del male, oltrepassare ogni confine senza ormai sapere e senza voler sapere, dal momento che non è possibile, poiché l’essere e il non essere nel bene e nel male eccedono l’umana conoscenza».
Il male resta un mistero, e nel male ci può essere anche piacere, lo ricorda Hannah Arendt, in una lezione tenuta a New York nel 1965, quando combatteva i continui tentativi di giustificare e razionalizzare il male che si impossessa della Storia: «Infine per noi, e per l’esperienza che abbiamo fatto (nazismo, fascismo, olocausto), c’è la più seria delle perplessità: l’evasione, l’aggiramento, o la giustificazione della malvagità. Se la tradizione della filosofia morale (distinta dal pensiero religioso) concorda su un punto da Socrate fino a Kant e, come vedremo, fino ad oggi, esso concerne l’incapacità umana di compiere il male deliberatamente, di volere il male per il gusto del male. A essere precisi, l’elenco dei vizi umani è antico e assai lungo, e visto che non vi mancano la gola e l’accidia (in fondo vizi piuttosto secondari), è piuttosto curioso che non ci sia il sadismo, il puro e semplice piacere di causare e contemplare il dolore degli altri. L’unico vizio che a buon diritto possiamo definire il vizio di tutti i vizi per lunghissimi secoli. È possibile che sia sempre stato abbastanza diffuso, ma di solito è relegato alla camera da letto e solo di rado trascinato in tribunale».
Ma allora che fare? Proviamo a guardare all’autorità femminile custode millenaria del bene-giustizia, suggerisce: «Quali pratiche hanno seguito le donne che non si sono regolate costruendo morali, e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi o del perdono facile? In mancanza di morali e di prescrizioni protocollari, si mostra anche l’altro lato del problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, come evitare di aggiungere al male subìto il male della vendetta, come evitare la risposta suicidaria o omicida? Cosa resta da fare?».
La risposta è non chiedere il perché del male – «l’assidua resa dei conti tra i maschi e Dio».
E, a proposito dei femminicidi, la filosofa ricorda come per le donne l’abisso della disumanità è spalancato da millenni e si attiva ogni giorno in tutto il mondo, anche se a volte ce ne dimentichiamo. La misoginia è una crudeltà che si esprime anche in forme molto sofisticate, tanto da ingannare la percezione di donne non allenate a cogliere i comportamenti offensivi dei “loro” uomini. Chiedere perché mi fai del male, perché fai il male è una domanda pericolosa: costringe ad alzare la posta, istiga alla rabbia, e la vittima rischia di restare tale per sempre, nella dipendenza fatale dal proprio carnefice. Augurare il giusto al male, anziché maledirlo. Sottraendogli giustificazioni e benevolenza.
Con una sapienza intuitiva, ci dice Buttarelli, è quello che hanno fatto da sempre le donne, una forma di politica passiva, un «ti auguro che…» rivolto a chi lo sta compiendo. Non lo ha fatto forse Antigone predicendo il futuro a Creonte? E qui entrano a sorpresa le due scrittrici a cui attinge: Iris Murdoch, che ha scritto La sovranità del bene, e Flannery O’Connor, la scrittrice preferita di Tarantino, autrice di Nel territorio del diavolo e Il cielo è dei violenti. «Il cortocircuito che si crea nel destino umano tra bene e crudeltà è da entrambe accettato come misterioso, ma la ricerca tutta interna alla condizione umana permette a Murdoch di concepire l’amore, cioè uno dei nomi del bene, come inseparabile dalla giustizia e dal rispetto del reale». Un assoluto essere-per-nessuno-scopo. Un amore austero per il Bene privo di consolazione. È l’amore necessario di Carla Lonzi per un universo senza risposte. E infine Flannery O’Connor ci regala un sorriso: nel racconto Un brav’uomo è difficile da trovare un Balordo feroce assassino è smascherato da una vecchia signora, che con una semplicissima frase gli toglie il piacere della crudeltà.
(Doppiozero, 13 febbraio 2024)
di Susanna Tamaro
La scrittrice rievoca la sua infanzia in cerca di una identità. E avverte: diamo ai ragazzi il tempo per capire chi sono
Da appassionata naturalista quale sono, sono sempre stata incantata dallo straordinario numero di vie che l’evoluzione ha saputo sviluppare nel corso di milioni di anni per portare avanti la sua unica, ossessiva missione: quella di riprodursi. I modi sono diversi e sorprendenti, neppure il più fantasioso dei maghi avrebbe potuto mettere insieme una simile fiera delle meraviglie.
Il grande caos che da qualche anno si è creato, grazie a una campagna ossessiva sull’identità di genere, mi porta a pensare che ci sia bisogno di fare il punto sulla questione a partire dalla realtà.
Il modello identitario che ci viene continuamente proposto ormai è quello delle patelle, quei minuscoli molluschi che vivono abbarbicati in gruppo sugli scogli a cui la strabiliante creatività evolutiva ha donato l’ermafroditismo proterandrico che permette loro di cambiare sesso a piacere: condannate a vivere su uno scoglio, per avere una maggior sicurezza riproduttiva devono poter rapidamente trasformarsi. Sono un maschio circondato solo da altri maschi? Et voilà, mi trasformo in una femmina, o viceversa. I casi di ermafroditismo possono comparire anche nei mammiferi – io ad esempio ho avuto un gatto con questa peculiarità – ma si tratta di fenomeni isolati.
Negli esseri umani le cose sono più complicate perché, se a un livello di società semplice permane l’imperativo della riproduzione, quando la cultura si evolve e porta complessità di pensiero, si aggiungono altre istanze perché l’essere umano, unico nel vivente, ha il dono del libero arbitrio. Può capitare così di nascere maschi e desiderare di essere femmine o viceversa, di essere attratti da persone dello stesso sesso oppure anche di non provare alcun interesse per questo tipo di argomenti.
Personalmente, ho avuto l’infanzia devastata dalla disforia di genere e per questo ne posso parlare con cognizione di causa. Ho iniziato ad avere problemi fin dall’asilo, quello che nei primi anni era una forza primigenia e inconscia è diventata una disperata consapevolezza: ero scesa in terra nel corpo sbagliato. Data l’epoca, non ho mai confessato a nessuno questa mia devastante certezza ma passavo le notti piangendo se mi veniva regalata una bambola o peggio ancora un qualche vestito da bambina. Verso gli otto, nove anni la sofferenza è diventata incontenibile, avevo sentito dire che a Casablanca si poteva cambiare sesso e quella città improvvisamente si era ammantata per me di una luce magica. Mia nonna, intuiti i miei tormenti, a un Carnevale mi ha comprato un costume da ufficiale, divisa che non mi sono più tolta fino a che le ginocchia non si sono bucate.
Nel corso delle scuole medie, questo mio penare ha iniziato ad affievolirsi; cominciavo ad avere i miei interessi, a immaginare una vita diversa da quella della caserma. Avrei fatto la scienziata, non c’era dubbio. E poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano essere estremamente interessanti. Potenza e meraviglia degli ormoni! Sarebbero stati anche loro interessati a me? Davanti alla prorompente femminilità delle mie compagne, tentennavo incerta. Un giorno in cui volli indossare una gonna per cercare di raggiungere il loro livello, lo ricordo come uno dei più spaventosi della mia vita. Ma poi pensai che forse era meglio restare com’ero, con jeans e maglietta, perché se qualcuno si fosse innamorato di me sarebbe stato colpito più dal mio interno che dalla mia carrozzeria. E così è stato. Le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba.
Da molti anni ormai mi chiedo però che cosa ne sarebbe stato di me se, a sette, otto, nove anni, fossi stata presa sotto l’ala protettiva dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini e, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato, avrebbero saputo come risolvere i miei problemi e io avrei baciato con riconoscenza le mani di quegli angeli che promettevano di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore. Psicologi, pillole, ormoni e poi il grande salto di diventare ciò che avevo sempre sognato: un maschio.
Sono fermamente convinta che la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti ai bambini e ai ragazzi come un crimine. Un crimine ideologico, perché se io, sognando di essere un ufficiale, avessi accettato di fare il grande passo, non mi sarei trasformata in un maschio ma in un essere bisognoso di cure a vita, perché la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri e, per contrastarla, a parte le conseguenze degli interventi chirurgici, avrei dovuto ingurgitare ormoni fino alla fine dei miei giorni perché tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina!
Non ho niente in contrario al fatto che una persona ormai adulta, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, decida consapevolmente di fare questo passo, convinta di raggiungere la sua giusta identità. Ognuno è padrone del suo corpo e se non nuoce ad altri può fare quello che vuole. Però non posso aver pace pensando al folle apparato che è stato messo in moto in questi anni per devastare le vite di bambini e di adolescenti, nel silenzio di una società sempre più pavida e confusa, capace solo di affidarsi agli esperti e ad una scienza che tutto ha a cuore, tranne il bene della persona. Come si può pensare di bloccare con la triptorelina lo sviluppo di un bambino nell’attesa che decida cosa voglia essere? La vita non è fatta di foto polaroid. E da quando in qua i bambini hanno la consapevolezza e la capacità di determinare da soli il loro futuro? A dieci, dodici, tredici anni, senza alcuna esperienza di cosa sia la vita del corpo, come ci si può avviare a una trasformazione dalla quale non è possibile tornare indietro?
E qui si rientra nel culto tutto postmoderno del bambino come essere saggio onnisciente, a cui va evitato ogni tipo di sofferenza e i cui desideri diventano improrogabile legge. La saggezza educativa, quella realtà che sembra essersi misteriosamente dissolta, imporrebbe a chi sta vicino a bambini con la disforia di genere di lasciarli liberi di manifestare la loro inquietudine, la loro sofferenza – come ha fatto mia nonna con la divisa da ufficiale e come hanno fatto Brad Pitt e Angelina Jolie con la loro figlia che da bambina voleva essere chiamata John e che ora è diventata l’affascinante Shiloh – accompagnandoli verso l’adolescenza, quando, se non si è caricato ideologicamente questo aspetto della vita, nella maggior parte dei casi la disforia si dissolve. Quante sono le bambine e le ragazze Asperger non diagnosticate avviate al cambiamento di sesso? Quando ci penso, non dormo la notte. E poi, questa ossessione – quella di rinchiudere in un’ideologia la complessità, la ricchezza e la varietà degli esseri umani – vuol dire costringere l’umanità in una gabbia da cui sarà sempre più difficile uscire. O sei maschio, e devi essere maschio maschio, o sei femmina, e devi essere femmina femmina. Una femmina che non ama essere frou frou, che non civetta, che ha interessi altri rispetto alla seduzione, viene subito inquadrata come qualcuno che sta a disagio nel suo ruolo; e se qualche infelicità ha, magari di altro genere – famiglie sfasciate, anaffettività, abbandoni educativi – verrà subito caricata di un solo punto. L’identità sessuale. O meglio genitale. La stessa cosa vale per i maschi. Un maschio che ami giochi quieti, riflessivi, che preferisca passare il suo tempo con le bambine invece che buttarsi in risse selvagge verrà subito spinto a pensare che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui si potrebbe porre rimedio.
Da che mondo è mondo, i bambini sono stati liberi di sperimentare, tra le penombre dei cespugli o dei cortili, lontano dagli sguardi degli adulti, l’identità e la potenzialità dei loro corpi, sperimentazioni protette dal sacrosanto velo del pudore e capaci di fingere una continua fluidità: «Facciamo che io ero… facciamo che tu eri…». I ruoli dell’infanzia sono da sempre meravigliosamente intercambiabili. La ricchezza della persona discende proprio da questo continuo dialogo esplorativo, spesso ambivalente. Ci si forma ricercando, indagando, accettando e rifiutando. Ma quando questi movimenti naturali della crescita vengono militarmente guidati in una prospettiva rigidamente ideologica – il cui fine è incasellare e incatenare qualsiasi realtà dell’uomo alla sue genitalità – ci troviamo di fronte a un’umanità spinta nell’angustie di un vicolo cieco.
Eppure, nonostante tutte queste evidenze, la società contemporanea si è abbandonata al sonno della ragione, il pensiero collettivo, astutamente e lungamente indottrinato, continua ad abbattersi con furore come un’onda contro una granitica scogliera e a indicare nella scogliera il grande limite che impedisce a quell’onda di conquistare la libertà del mare aperto. Questa scogliera è in realtà un altare, e su questo altare avviene il sacrificio di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che, a causa di un momento di confusione e di fragilità nella crescita, vengono trasformati in vittime sacrificali, perché a qualsiasi persona di buon senso appare subito chiaro che la disforia di genere nell’infanzia è sintomo di qualche altro profondo disagio, primo tra tutti, forse, quello di vivere in un mondo che ti ripete continuamente che la vita non ha senso, che noi siamo soltanto figli del nulla e del caso e che non esiste alcuna realtà al di là di quella forgiata dai nostri desideri.
(Corriere della Sera, 11 febbraio 2024)
di Silvia Ballestra
È una questione di qualità. Una sfumatura, un’omissione, giorno dopo giorno, a piccole dosi. Ricorda un po’ le truffe: se ti portano via tutto assieme te ne accorgi subito, se ti sottraggono un pezzettino alla volta ci metti un po’ di più.
E allora, ogni giorno da mesi, soprattutto all’ora di pranzo, ci tocca papparci questi telegiornali del primo canale della tv pubblica, in cui il linguaggio si torce impercettibilmente e bisogna avere l’orecchio un po’ fine per accorgersene, una particolare sensibilità per le parole, per la costruzione della frase.
Al momento di parlare di ciò che accade a Gaza, si produce uno strano fenomeno: la lingua del Tg1 diventa piccolina, poverina, come fosse una lingua nascondina, cancellina, dimentichina, sbianchettina dei nomi e dei numeri.
Funziona così: le frasi, quando sono in forma passiva, risultano senza complemento d’agente. I palestinesi vengono bombardati, sì, ma non si dice da chi. E muoiono, questo sì, ma risultano appunto morti, mai “uccisi”, perché se si muore ammazzati vuol dire che c’è qualcuno che ammazza, mentre lì, secondo questi servizi, visto che non si dice bene per mano di chi, si muore così, un po’ all’improvviso, nel nulla, tra bombe che cadono da sole.
In effetti attorno c’è il nulla: macerie, edifici rasi al suolo (case, ospedali, scuole, musei, università), strade cancellate, spianate di nulla desertificato dall’esodo forzato. Ma chi sarà stato mai a ridurle così? Non si sa, non si dice. O meglio, certo è stata la guerra, ma così, astratta. Ci sarà un esercito, tra quella polvere, tra quegli scoppi densi di fumo, ma non si sente, non si nomina.
I nomi dei palestinesi uccisi, sequestrati, arrestati, qualcuno li pronuncia, li scrive, li legge, li comunica? Non al Tg1. E non solo le parole, anche le cifre per mesi sono state taciute. Guai a riferire i numeri, mostruosi, delle vittime civili perché, ti dicono altrove, vai a sapere chi li fornisce. Non importa se sono le agenzie internazionali sul posto, le organizzazioni per i diritti umani, i soccorritori a fornirli ufficialmente: no no, quelli sono «i numeri di Hamas», sostengono, quindi non si possono dire.
E la parola genocidio, nonostante l’assedio, i proclami a togliere cibo, acqua, medicine, carburante, gli appelli contro «gli animali umani», è rimasta impronunciabile, tabù, rimossa per mesi e c’è voluta l’Aja con il «rischio genocidio» per riuscire a sentirla pronunciare.
Che strano, allora, potendo informarsi in rete e su piattaforme, vedere che all’estero non funziona così. Come stona questa lingua del Tg pubblico italiano, se sentita dopo la Bbc! È la lingua di un paese distratto e analfabeta, che assieme alle notizie ha perso i nomi, le parole, le cifre, i concetti. E ci vorrebbe davvero un bravo filologo, con carta e penna, a certificare quanto ci sono e quanto ci fanno i giornalisti del nostro principale telegiornale il cui canone, come si sa, lo paga anche chi analfabeta e distratto non è. Anzi, magari conosce pure qualche altra lingua per fare confronti impietosi.
(Il manifesto, 10 febbraio 2024)
di Fabrizia Giuliani
C’è una ragazza coraggiosa a Catania. Ha tredici anni. La retorica del racconto mediatico può farla diventare una “bambina”, certo l’infanzia è finita da poco, ma il coraggio, la determinazione, l’equilibrio con i quali ha agito portano fino in fondo il timbro della maturità. Non si può dire lo stesso delle reazioni e dei commenti a questa storia, ma riavviamo il nastro. Martedì scorso, tardo pomeriggio, esce per una passeggiata con il suo ragazzo – diciassette anni – nel parco al centro della città, Villa Bellini. Viene importunata da un gruppo di sette giovani di origine egiziana – tre minorenni – che trascina a forza la coppia nei bagni pubblici: lei viene abusata mentre il resto del gruppo tiene fermo lui. Dopo la violenza riescono a scappare, chiamare aiuto e denunciare. Le indagini sono veloci, i possibili aggressori identificati. La ragazza è convocata per il riconoscimento all’americana: molte facce, vetri oscurati. Indica dov’è certa, confermando le prove a carico di due degli indagati, si ferma dove non lo è: «Non voglio accusare persone innocenti». Tredici anni. La celerità delle indagini, la lucidità della deposizione, la puntualità del riconoscimento portano a chiudere il cerchio in tempi veloci: domani l’udienza e la convalida dei fermi.
Catania come Palermo, come Caivano. I luoghi diventano metonimie perché sono i soli tratti distintivi di copioni identici: violenza di molti contro una ragazza, violenza che deve essere filmata, condivisa oltre il presente, esibita. Serve il trofeo, il video, per documentare e ricattare. La tua vergogna garantisce la mia, la nostra impunità. Fermiamoci qui, è un punto nodale: chi abusa, filma e minaccia pensa di poter far leva su un senso comune che anche in presenza di una violenza documentata può rovesciare la colpa. È tua la vergogna come è tua la colpa: non si esce a certe ore, non ci si veste in un certo modo, non si accettano inviti. Questo è il retaggio patriarcale, il “dividendo” come lo battezzò Raewyn Connell, ben chiaro a chiunque esercita violenza. Questo è il tratto da combattere e dovremmo averlo ben presente ogni volta che commentiamo i fatti. Se la condanna oscilla a seconda della nazionalità degli aggressori o delle vittime, se gli abusi diventano il terreno per la strumentalizzazione, come sta accadendo, il fatto retrocede o scompare. La battaglia è persa. Serve responsabilità, invece, quando si governa, senso della misura, equilibrio. Va tenuta la barra ferma, come lo sguardo della ragazza al momento del riconoscimento del suo aggressore. Lavorare perché gli stupri di gruppo non si ripetano, sconfiggere la cultura che li sostiene, vuol dire riconoscere il tratto che unisce Caivano, Palermo e Catania non sacrificarlo in nome di guerre ideologiche che producono nuova intolleranza. La violenza degli uomini contro le donne va riconosciuta, chiamata per nome e combattuta con la stessa forza, ogni volta che accade. Non potremmo mai sperare di sradicarla se non identifichiamo quel tratto che con immensa fatica la battaglia di libertà delle donne ha portato alla luce e che oggi, come mostrano le parole del padre di Giulia Cecchettin, comincia a essere condivisa anche dagli uomini.
La ragazza di Catania, come altre che l’hanno preceduta, ha aperto una strada: non è facile essere all’altezza del suo coraggio e di quello che le servirà per affrontare il processo. Rispettarlo, però, è un dovere e bisogna cominciare adesso.
(La Stampa, 10 febbraio 2024)
di Luisa Fressoia
Articolo apparso su Avvenire il 10 dicembre 2023
Un gruppo di donne che tra loro non si conoscono cominciano a incontrarsi, accomunate dalla forte esigenza di parlare del proprio “essere genitori”, nella specifica e difficile situazione in cui oggi sono venute a trovarsi: il figlio o figlia hanno dichiarato la propria omosessualità, oppure hanno espresso il desiderio di transitare nel sesso opposto. Su invito dell’associazione milanese Agapo (Associazione genitori e amici di persone omosessuali), a cui si erano rivolte, dieci madri hanno accolto la proposta di un percorso di accompagnamento pedagogico finalizzato ad aiutarle ad affrontare le proprie difficoltà a gestire la relazione con il figlio o con la figlia e i propri dubbi sulle problematiche dell’identità sessuale e di genere.
Il percorso, costituito da più cicli di incontri tenutisi a partire dal maggio 2022 negli spazi di una parrocchia della città, si basa sulla metodologia autobiografica sviluppata in Italia a partire dagli studi e dalle intuizioni della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari alla fine degli anni ’90. Dal primo incontro emergono subito due aspetti: il desiderio profondo da parte di tutte le donne di non perdere la relazione con il figlio o la figlia e il bisogno urgente di poter esprimere il proprio dolore e disorientamento. Basta accettare, non esiste il problema. Questa è da anni, in sintesi, la risposta più frequente che si sente nel discorso pubblico. In verità il dolore di queste madri mostra radici più profonde dell’omofobia interiorizzata proveniente dalla nostra società, ovvero la non accettazione o il rifiuto dell’omo o transessualità.
Nel corso degli incontri le madri hanno avuto l’opportunità di esprimere il proprio dolore al fine di elaborarlo insieme alla possibilità di confrontarsi sulla complessità del tema. Il momento in cui un figlio rivela ai genitori la propria omosessualità o il proprio desiderio di cambiare sesso, non sentendosi a proprio agio nel corpo in cui è nato (disforia di genere), è un momento molto delicato sia per il figlio sia per i genitori stessi.
Come pedagogista lavoro soprattutto con i genitori, proponendo loro un percorso di presa di consapevolezza, che riattraversa la storia relazionale con il figlio o la figlia, al fine di migliorarne e arricchirne la relazione. L’obiettivo è che i figli imparino a prendersi cura di sé (che diventa anche cura degli altri). In tal senso il percorso è finalizzato non tanto a focalizzarsi sulla medicalizzazione (ad esempio le somministrazioni ormonali e gli interventi chirurgici irreversibili), ma ad attivare un profondo lavoro su di sé, sulle ansie e paure che il processo identitario comporta all’interno del percorso di crescita, che è sempre comunque faticoso, se pur affascinante.
Negli incontri gli interventi delle madri di giovani con disforia di genere hanno preso sempre più spazio (rispetto a quelle di figli omosessuali), casi che al momento diventano sempre più numerosi, specialmente nel caso di ragazze che desiderano diventare ragazzi. Le situazioni poste sul tavolo mostrano un alto grado di drammaticità, creando immediato coinvolgimento ed empatia da parte delle presenti. Particolarmente difficile da sopportare è per esempio osservare nelle proprie figlie la trasformazione dei tratti somatici, il cambiamento della voce, il comparire della barba, fino alla scelta della mastectomia dei seni sani. Dai racconti delle madri è possibile riscontrare nelle figlie, ancora giovanissime (vent’anni) una assai forte determinazione nell’operare scelte dalle conseguenze fortemente impattanti e spesso irreversibili sul proprio corpo e sulla propria psiche; così come si riscontra una certa fretta nell’iniziare il processo di transizione.
Pur essendo ancora soggetti in formazione, queste giovani hanno ricevuto il sostegno pressoché immediato a scuola sia da parte dei docenti, che da parte dei compagni: ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo di nomi e pronomi maschili e in più casi sono state riconosciute leader o avanguardie di una cultura nuova che, loro sostengono, deve affermarsi. Lo stesso sostegno alla transizione di genere viene ricevuta dai servizi sociosanitari con equipe di specialisti in base a protocolli consolidati. Presso l’ospedale Niguarda ad esempio la prassi per poter iniziare la transizione consiste in alcuni incontri intervallati tra psicologo, endocrinologo e psichiatra, un programma che consente al giovane di ricevere gratuitamente come primo step una cura ormonale insieme al contatto con l’associazione ALA (Associazione finanziata dalla Regione che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione sia sul territorio nazionale che internazionale), guidata da un educatrice e da un avvocato rispettivamente “M to F” e “F to M” (entrambe cioè già transitate, rispettivamente da maschio a femmina e da femmina a maschio). Dall’esperienza diretta di genitori che hanno partecipato agli incontri dell’associazione si registra come sin dall’inizio il messaggio che viene trasmesso sia chiaro: terapia ormonale e intervento chirurgico risolvono il problema di un genere percepito come inaccettabile.
A tal proposito il presidente della Società di psicoanalisi Sarantis Thanopulos in un’intervista rilasciata al Foglio lo scorso 16 ottobre parla di “medicalizzazione dello spazio psichico” e osserva: «Oggi cerchiamo una soluzione medica per ogni problema, distorcendo i processi evolutivi e di elaborazione dell’esperienza. Ma i farmaci non risolvono problemi esistenziali» e invita gli analisti a «non restare in silenzio davanti a situazioni he reputano dannose per i cittadini» Lo stesso Thanopulos, nella rubrica settimanale di psicologia da lui curata sul Manifesto osserva anche: «Quando si procede alla manipolazione chirurgica e ormonale del proprio corpo, il che penalizza severamente il piacere sessuale, si slitta nell’assoggettamento dell’intimità psichica all’esteriorità dell’immagine che, lungi da essere una caratteristica in sé della transessualità, è un fatto preoccupante del nostro tempo». Sono aspetti indubbiamente complessi, che affrontati insieme nel gruppo perdono per lo più la dimensione di condizione insopportabile o dagli effetti incontenibili.
Condividendo la vita, anche nella sua attuale sofferenza, ogni esperienza riacquista il proprio valore e la forza per essere affrontata e accolta. Il metodo narrativo-autobiografico usato ha permesso di porre al centro ogni volta il racconto dei propri vissuti e la ricerca dei significati ad essi connessi. È stata posta attenzione anche sulla relazione tra i membri del gruppo formatasi, che è andata progressivamente valorizzandosi e che ha permesso alle donne e madri di superare
l’iniziale stato di pesante solitudine. Un percorso che, in ultima analisi, ha consentito di prendersi cura di sé nel prendersi cura della vita della figlia o del figlio, riuscendo a conoscerli e comprenderli meglio, comprendendo meglio anche se stesse. Le madri uscite dal lavoro svolto su di sé e con le altre godono oggi di una maggiore serenità e autonomia di pensiero e di azione. É sempre interessante scoprire in ognuno di noi come certi “nodi”, che ci hanno tenuto magari per anni sotto scacco, comincino a sciogliersi: occorre fermarsi per riconoscerli per poi metterli a fuoco.
Nodi che possono interessare e liberare l’espressione della propria femminilità o mascolinità, il mondo degli affetti, la vita sessuale, la propria capacità di autonomia e dedizione. Ne va del nostro desiderio di vita e di umanità pienamente vissuta. Un programma che dura tutta la vita, quello della ricerca di una vita da far fiorire in tutte le sue dimensioni con le risorse che abbiamo a disposizione. Un’eredità senz’altro preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli.
(Avvenire, 10 dicembre 2023)
di Redazione del sito
Dalla sua inaugurazione il 16 novembre 2023, la mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione, in corso al Palazzo Ducale di Genova fino ad aprile, ha fatto discutere. La mostra include infatti una sala allestita con un letto, delle proiezioni sulle pareti simboleggianti il sangue ed estratti sonori delle dichiarazioni dell’artista al processo, in un punto di passaggio obbligato per accedere al resto della mostra, incentrando tutta la storia di Gentileschi e delle sue opere sugli episodi di violenza sessuale subiti dalla pittrice. Inoltre, il bookshop della mostra propone alla vendita un libro che esalta le “gesta erotiche” dello stupratore e dei gadget con la frase della sua confessione («Io del mio mal ministro fui»).
A seguito delle proteste di attiviste, storiche dell’arte, studentesse e giornaliste, e di una lettera aperta apparsa sul manifesto il 3 febbraio 2024, Ilaria Bonacossa, la nuova direttrice di Palazzo Ducale, ha rilasciato il 7 febbraio un’intervista a Radio Popolare di Milano in cui ha annunciato che i gadget sono stati rimossi dal bookshop. La direttrice si è espressa anche a proposito della sala, dichiarando che verranno aggiunti dei tendaggi per dare la possibilità di passare senza vedere l’allestimento e si aggiungerà un avviso che indicherà che i contenuti della stanza possono offendere chi entra. Bonacossa ha anche affermato che la vicenda di violenza non deve diventare «l’unico motivo per guardare al lavoro di Artemisia» e che nel suo programma futuro ci sarà «una modalità meno teatrale e meno biografica di raccontare le artiste donne. Non è che la biografia di per sé sia il male, è se la biografia diventa l’unico motivo per cui si guarda al talento femminile». Il problema non è questo, bensì l’uso morboso di un evento biografico femminile, che si tratti o no di un’artista.
(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2024)
di Alessandra Pigliaru
Non è una ragazza qualsiasi colei che spunta dalle pagine del libro di Stefano Raimondi, L’Antigone (Mimesis, pp. 120, euro 12). Storicamente individuabile nella figlia di Edipo e Giocasta, è sì la straordinaria figura sofoclea ma, nella lettura di Raimondi, risente delle differenti suggestioni e rappresentazioni che di lei ci sono state consegnate, in particolare nel corso del Novecento. Letterarie e filosofiche, una fra tutte – dopo quella di María Zambrano – appartiene a Simone Weil che la descrive diversa dalla timida sorella Ismene.
È infatti Antigone una creatura non comune, piena di coraggio e cuore amoroso. Ed è proprio sull’amore che punta la prefazione di Chiara Zamboni, cogliendo la sessuazione riconosciuta dall’autore, poeta e critico letterario, che segna l’emersione di una donna il cui nome suggerisce con probabilità un’etimologia riferibile al contrasto e alla sostituzione. Vicenda tragica e originaria, quella raccontata da Stefano Raimondi nel suo «recitativo per voce sola», narra di solitudine costitutiva, di un essere umano eccentrico e solitario che tuttavia non esita un istante nello scegliere il bene di un altro essere umano.
L’Antigone però, con quell’articolo davanti, diventa anche topos laterale di memorie collettive, dove si affastellano dilemmi più sentimentali che morali, non cedendo a una certa vulgata che ne ha voluto indicare l’eccesso pulsionale. Bisogna piuttosto stare più accanto a ciò che scrive Luce Irigaray (in diversi testi): la rivoltosa tebana, per esempio, sa distinguere le forme dell’amore, soprattutto «vuole essere il tutto che è in quanto essere vivente. Vuole vivere e non morire».
Ecco perché appare convincente quanto Raimondi immagina che lei dica in proposito: «Qui smetto, ma non di morire, ma di vivere recisa. Ho lasciato dei bulbi, e della terra vicino alla porta della mia casa. Ho lasciato un cielo e delle nuvole ricolme sopra il mio tetto. Li ho lasciati come auguri, come carezze mai date a nessuno».
Creonte, a questo punto, è un interlocutore ancora più indegno di quanto lo ricordiamo, oltre che ingiusto, è lui l’essere in effetti a essere radicalmente in contrasto, ma al vivente. E il monologo poematico depositato nel libro – con una efficace postfazione di Niccolò Nisivoccia e le illustrazioni di Mario Cresci – è il cascame letterario e tutto novecentesco di una riscrittura aperta che deriva non tanto dalle contemporanee rivisitazioni dei classici, quanto da una ermeneutica dei testi foriera di contaminazioni più che di invenzioni. Se la postura di Antigone è qui reietta, diseredata, presagio di abbandoni e maledizioni, Raimondi ne coniuga il tenore politico.
Nelle sue brevi prose poetiche l’autore accoglie la lucidità di una donna che seppellisce il proprio fratello nonostante il divieto e a scapito della sua stessa sorte. Se l’amore è dunque un probabile luogo di scorticati, per dirla con Roland Barthes, è all’attenzione e all’attesa orante che ci si rivolge. Il suo essere “pietra d’inciampo” è memoria di altri teatri violenti della storia dell’umanità, non c’è allora legittima e necessaria custodia del sangue famigliare là dove non si riconosca il volto degli ultimi, dei soccombenti, degli scacciati, dei condannati.
Questo «Io» è in frantumi, questa parola in rovina a sovvertire plasticamente categorie estetiche rifugiandosi in un interno. Arriva dalla tomba, da una prigione, da un riparo anonimo di dolore o da una stanza di pietra – sembra dirci Antigone.
Allora cos’è che manca, tanto da produrre esitazione? Simone Weil risponderebbe forse la verità, ma in primis a disabitare è l’amore, descritto sommamente nella poesia dell’inglese George Herbert dal titolo appunto “Love” e che lei ripete, simile a un mantra. La traduzione che ne fa la filosofa francese la si può leggere nel volumetto Attenzione e preghiera (Meltemi, pp. 139, euro 12, prefazione di Chiara Giaccardi, introduzione e cura sapiente di Marco Dotti, postfazione di Maria Clara Lucchetti Bingemer). Più di una semplice raccolta, i testi che vengono consegnati, datati tra il 1940 e il 1942, sono allenamenti di radicalità e intransigenza, due qualità che legano la traiettoria di amicizia, storica, politica e spirituale con Antigone e altre creature libere (e che non a caso sono state, e sono ancora, di orientamento per il femminismo).
Se l’amore dà il benvenuto a chi si pensa «ingrato» e «meschino», chiede a chi gli sta dinanzi di cosa ha bisogno invitandolo a sedersi e assaggiare il suo cibo. Ecco forse cosa colpisce Weil della poesia di Herbert, imparata a memoria come una preghiera il cui significato è depositato in altre pagine, quando la filosofa scrive che «Gli sventurati non hanno bisogno di nulla al mondo se non di uomini (intesi come esseri umani, ndr) che prestino loro attenzione. La capacità di prestare attenzione agli sventurati è una cosa molto rara, molto difficile. È quasi un miracolo. È un miracolo. Quasi tutti coloro che pensano di avere questa capacità non ce l’hanno. Il calore, l’impulso del cuore, la pietà non sono sufficienti».
Perché in fondo, prosegue Weil, l’amore nella sua pienezza si sostanzia nel saper domandare: «Qual è la tua ferita? Qual è il tuo tormento?». Se attenzione e amore sono inestricabili fili di uno stesso sguardo capace di fare spazio, di allargare la vista mostrando il movimento in cui «l’anima si svuota» è possibile che ci troviamo frontali, ancora una volta, a un apprendistato che potrebbe diventare mistico.
In che termini questo esercitarsi risponda alla esplorazione di sé, come del mondo, lo raccontano magistralmente le donne. Se ne è accorta anche Victoria MacKenzie, scrittrice e poeta, che nel suo romanzo d’esordio, Abbi pietà del mio piccolo dolore (il Saggiatore, pp. 170, euro 17, traduzione di Viola Di Grado) lascia che Margery Kempe e Giuliana di Norwich raccontino di sé stesse fino al loro incontro, in Inghilterra intorno al 1414. Due ritratti che potrebbero essere accolti anch’essi come “recitativo per voce sola”, perché il libro è costruito attraverso brevi inserti che procedono indipendenti e che indagano, in prima persona, ciò di cui le due mistiche inglesi hanno fatto esperienza.
Intanto un affacciarsi, senza esitazione, come si confà all’amore, al viaggio spirituale che non è mai neutro perché si avvia dai corpi sessuati. Se Margery Kempe, analfabeta e appartenente alla classe mercantile, lascia il marito e i quattordici figli per pellegrinare tra Roma, Assisi, Gerusalemme e Santiago di Compostela (le sue memorie sono state dettate e rappresentano la prima autobiografia in lingua inglese), nel caso di Giuliana di Norwich le sue visioni sono state raccolte nelle Rivelazioni dell’amore divino.
Tra perdite, ritrovamenti fortuiti e altre storie che hanno interessato entrambi i testi dopo la morte delle autrici, l’operazione condotta oggi da MacKenzie non ambisce a essere una ricostruzione troppo veritiera, sia pure non interferisca eccessivamente con la verità dei fatti. È tuttavia occasione di ripercorrere la parabola della solitudine di due donne che, per espressa volontà, decidono di incontrarsi e pensare insieme.
Di parlare insieme, per la prima volta, di malattia, maternità, lacrime, rivolte. Raccontano delle persecuzioni, hanno i segni di peste e disobbedienze, osservano il senso di un esistere che non è unicamente terreno e che, anche in mezzo alla perdita e alla violenza, trova spazio, prima segreto e poi pubblico, per parlare di Dio. A lui interessano i fondali marini in cui cammina Giuliana che, nel ricordo, ondeggia insieme alle alghe nella corrente, «come il nocciolo che dondolava al vento fuori dalla mia finestra». Non può esserci esitazione, anche se a fronte di «un carico enorme / appeso a un filo sottile», chioserebbe Anne Sexton, dalla stanza di Norwich alle terre di Margery.
Le parole di Antigone, come quelle di Simone Weil e delle protagoniste del romanzo di MacKenzie, saettano allora tra i secoli suggerendo attenzione e amore come antidoti ai numerosi e diversi tipi di esilio a cui condanna la Storia. E agli altrettanti rifiuti. Parlare dunque, e agire, soprattutto quando troppa e ammutolente è la violenza che imperversa nel presente, il nostro come il loro.
(il manifesto, 7 febbraio 2024)
di Valeria Parrella
Ousmane Sylla
Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace.
E quando c’è una scritta così non c’è più niente da aggiungere, l’esercizio stesso della scrittura resta esercizio. È quello che si prova visitando gli archivi di Pieve Santo Stefano, scendendo giù nei ricoveri della Seconda guerra mondiale ricavati dai tunnel borbonici a Napoli, quello che sentiamo andando a Via Tasso a rileggere i messaggi lasciati dai condannati a morte dai nazisti, non lontano da questa nuova lapide del Centro Permanenza e Rimpatrio di Ponte Galeria, in cui non si riesce a entrare, su cui da giorni si rincorrevano allarmi, e infatti, poi, eccolo. Ha lasciato una scritta semplice e incancellabile, quella scritta dice. Una scritta non è una cosa qualunque, una scritta è sempre un manifesto quando fatta su un muro, sta sempre a urlare agli altri anche quando ci sembra intima, come questa.
Quella scritta dice. Dice quello che tutti sempre vogliamo, quello che ogni migrante sogna, andare, vedere, vivere, lavorare, aiutare chi abbiamo lasciato, tornare.
E poi dice che il suicidio è l’unico spazio di libertà, l’ultima capriola concessa nell’angolo della reclusione. Che è insieme un atto di disperazione, ma anche un atto di liberazione e di speranza. Gli altri, i liberi, restano e per gli altri quel gesto deve valere come condanna.
L’impiccagione non è un suicidio qualunque: è un’accusa – Antigone si impicca con i veli che l’avrebbero dovuta vedere sposa – spesso l’unica accusa a cui possono ricorrere i ristretti. E dice che i sistemi di reclusione in Italia ci rappresentano bene come una società incapace e disamorata: abbandonati a loro stessi, luogo di dolore sia fisico che mentale, luoghi in cui fatica a entrare non già il concetto di speranza, ma quello di sopravvivenza. Dice che i centri per il rimpatrio tengono chiuse dentro persone innocenti, in attesa di cosa.
Quelle frasi sono la nostra condanna, il suo atto di accusa per noi perché qualunque persona libera è responsabile per qualunque recluso. L’insostenibile paradosso di trovarla in un centro per il rimpatrio è che dice anche di un nostos negato.
Mentre scriveva aveva ancora ventun anni, e viveva – e vive – di parole bellissime: Vorrei. Mia madre. L’Africa. La mia anima. Pace. Cinque passaggi dal mondo ingiusto a quello giusto.
Ousmane Sylla muore consegnandoci un messaggio che splende tutta l’umanità che non gli abbiamo saputo dare: lui, mentre lo uccidevamo, la custodiva.
Se un funerale nobile dovesse esserci oggi in Italia dovrebbe essere per Ousmane Sylla, poi, dopo: quella parola rimpatrio sotto cui è rimasto, sospeso in vita, sospeso in morte, sarebbe l’unico tardivo atto di pietà.
(il manifesto, 6 febbraio 2024)
di Irene Doda*
Passato il picco di interesse mediatico verso il femminicidio di Giulia Cecchettin, passata l’ondata di rabbia e la manifestazione di piazza, le accuse assurde di satanismo alla sorella Elena, restiamo, ancora una volta, noi. Noi, che un corpo femminile – o femminilizzato – lo abitiamo tutti i giorni. I femminicidi sono proseguiti, così come le tante piccole violenze quotidiane. È rimasta anche la nostra rabbia.
Tanto si è scritto, anche molto bene, della rabbia femminile. Nei giorni successivi alla morte di Cecchettin è uscito un lungo articolo di Viola Stefanello su Lucy che parte dall’esperienza dell’autrice con le rage room per raccontare l’esperienza di repressione che le donne associano alla rabbia. «Da anni si moltiplicano gli studi che mostrano quanto le donne tendano a provare rabbia più spesso, e più intensamente, degli uomini. Le ragioni sono tantissime: la stanchezza e la solitudine della maternità, le disparità sul posto di lavoro e nei lavori domestici, la sensazione di non essere davvero al sicuro negli spazi pubblici, i costanti tentativi di corrosione dei diritti riproduttivi, la sensazione di non avere mai davvero tempo per te stessa come individuo, la gente che ti chiama nazifemminista se fai notare che è faticoso vivere così […]. Ma è spesso una rabbia molto lontana dai pugni tirati ai muri, che non sa cosa fare di sé stessa. Così, l’espressione della rabbia femminile finisce per essere quasi sempre autodistruttiva», scrive Stefanello. La rabbia come sentimento politico, però, quella che ha portato in piazza Non Una di Meno a novembre, che molti movimenti rivendicano come base delle loro pratiche, ha una chiara matrice distruttiva. Bruciamo tutto, ha detto Elena Cecchettin. Per parafrasare un vecchio slogan: il patriarcato si chiude col fuoco.
La mia reazione intima di fronte alla rabbia della piazza è sempre di esaltazione. Forse perché anche io ho dentro quel senso di rivalsa al quale solo la lotta collettiva riesce a rendere giustizia. Forse perché è un antidoto a quell’autodistruzione di cui parla Stefanello. Bruciare tutto per non bruciare noi. Ma dopo la piazza restano dei sentimenti con cui fare i conti, e per quanto, come persone appartenenti a un movimento, ci sforziamo di elaborarli in modo collettivo, i sentimenti hanno quel brutto vizio di essere una questione intima. Il personale è politico, ma resta comunque qualcosa che ha a che fare con, appunto, le persone. Fare i conti con la rabbia, l’esaltazione, e anche l’odio è una parte di responsabilità politica che parte da dentro.
L’odio ha origini lontane
Quando Filippo Turetta (ex fidanzato di Cecchettin, che ha confessato di averla assassinata) è tornato in Italia, i giornali hanno riportato che le forze dell’ordine lo hanno protetto da un possibile linciaggio. Il personaggio di Filippo Turetta ha colpito particolarmente l’opinione pubblica, soprattutto quella femminile: perché non era un criminale, un tossico, un pregiudicato o uno di quei personaggi che, nel nostro immaginario, possono commettere un omicidio. Non corrispondeva a una di quelle figurazioni stereotipate che noi, che ci consideriamo persone attente e con la testa sulle spalle, non frequenteremmo mai. Era il ragazzo della porta accanto, che preparava i biscotti, insieme al coltello e allo scotch da pacchi. Proprio come avevamo sempre detto: non il mostro, ma il figlio sano del patriarcato.
L’odio, come definito dall’enciclopedia Treccani sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui, è la risposta spontanea di fronte a una violenza così abile nel mascherarsi da sembrare ineluttabile. La domanda di come porsi di fronte alla violenza di genere non è un dilemma marginale per i femminismi: è la loro domanda centrale. Dalla risposta che sappiamo dare alla violenza dipende la nostra sopravvivenza come individui, la libertà di movimento dei nostri corpi, e di espressione delle nostre menti e anime. Per quanto, in fondo, sia vero che not all men (nel senso che sì, esistono uomini non pericolosi, non violenti, non sessisti) i nostri sentimenti si proiettano su tutti gli uomini. Anche su quelli più buoni e insospettabili. E come potrebbe essere diversamente? Abbiamo sprecato tanto fiato e tante parole per non farci dipingere come odiatrici seriali di uomini, noi femministe, quando invece a me sembra una conseguenza naturale della violenza che ci minaccia.
Ha scritto la filosofa Katherine Angel nel suo libro “Bella di papà” (in inglese: Daddy Issues) un’esplorazione della figura del padre nella cultura contemporanea, pubblicato in Italia da Blackie: «Uno dei compiti più urgenti che la nostra epoca incerta – nata dopo il #MeToo – ci richiede, è quello di non limitarci più ad un confronto con il nostro status di vittime della dominazione maschile, ma anche di fare i conti con i nostri desideri di retribuzione, vendetta, punizione, con le nostre fantasie di aggressività e di smascheramento». Il parallelo creato da Angel è tra movimento femminista e sviluppo dell’individuo. La filosofia paragona infatti la necessità del bambino di confrontarsi con la sua ostilità verso genitori; i sentimenti negativi nei confronti delle nostre origini sono alla base dello sviluppo di un sano senso del sé. L’ipotesi è che il desiderio di vendetta femminista provenga dunque da una necessità di auto-affermazione.
Nell’ambito di un movimento articolato come il femminismo contemporaneo, questa necessità di fare spazio al desiderio di violenza si combina con un’analisi sistemica del rapporto tra i generi, con un quadro di oppressioni multiple, con la volontà, in ultima istanza, di trasformare la società.
Guarigione e trasformazione
La violenza di genere è una ferita infetta, che continua a fare male. Il movimento femminista non può che posizionarsi a partire da qui. Deve disinfettare la ferita prima di chiuderla con i punti di sutura. La repressione dell’odio, del sentimento negativo che ci attraversa diventa un veicolo per controllare la rabbia femminile e la volontà di cambiamento radicale. I bisogni di sicurezza e di protezione vengono cooptati dallo stato e riproposti alle donne e alle soggettività di genere non conforme in senso nazionalista, classista e razzista. Scrivere la filosofia decoloniale francese Françoise Vergès in Una teoria femminista della violenza (Ombre corte, 2021): «L’uomo non è strutturalmente violento e la donna sempre la sua vittima? Le leggi non sono troppo morbide dal momento che le violenze non diminuiscono o di ben poco? Gettiamo gli uomini in pasto alla vendetta! Allontaniamoli! […] Imprigioniamoli! Facciamo cambiare campo alla paura!» Quando la protezione dalla violenza di genere viene delegata alle istituzioni carcerarie, si crea l’illusione della pacificazione del conflitto di genere, riassorbito in strutture interpretabili secondo una logica familiare, quella binaria del carnefice/vittima. Nonostante possa sembrare il contrario, l’approccio punitivo alla violenza di genere, e il cosiddetto femminismo carcerario, non tengono conto della rabbia delle donne. Anzi, con la tipica autorità patriarcale, la imbrigliano dentro rigidi paletti di rispettabilità. L’insistenza sulla sicurezza e sulla punizione, i due pilastri della società punitiva non solo umiliano la rabbia femminile e la depotenziano, ma non sono neppure efficaci. In primis perché proteggono solo alcune donne, le vittime perfette designate dallo stesso sistema che le vuole difendere: le donne bianche, rispettabili, non tossicodipendenti, che non hanno compiuto atti criminali, che non hanno mai praticato sex work, che sono eterosessuali e monogame fedeli. Diversi osservatori e osservatrici hanno inoltre constatato come le soluzioni esclusivamente punitive non abbiano un impatto nel ridurre la violenza di genere – si possono reperire esempi da tutto il mondo (qualche dato da Stati Uniti, Italia e Sudafrica).
La vittima perfetta, per lo stato e per il femminismo carcerario, soprattutto non è arrabbiata. Non odia, non urla, ma piange. Non brucia nulla, ma brucia dentro. Ingoia la rabbia e costruisce una facciata di donna rispettabile. Nel frattempo, la punizione, inflitta in modo sproporzionato su una fetta particolare di uomini (quelli razzializzati, poveri, emarginati e meno inseriti nel sistema che commina le pene) non fa che slabbrare ancora di più la ferita: la violenza chiama violenza, il trauma chiama trauma. Il cerchio della retribuzione, e del silenzio, si chiude.
Fuori dal labirinto
Uscire da questo ciclo di vittimizzazione, chiamata alla protezione e strumentalizzazione non è certo facile. Ma per riparare il conflitto di genere occorre prima riconoscerlo fino in fondo. Anche nelle sue parti meno piacevoli. Per esorcizzarle, forse, riconoscerle per quello che sono ed evitare di finire nel ciclo infinito di traumatizzazione e ri-traumatizzazione che colpisce sempre le parti più deboli della società. Per tornare al parallelo proposto da Katherine Angel: occorre fare i conti con l’odio per affermare la propria identità, le proprie rivendicazioni come soggetto politico e passare da una fase di lutto a una fase di azione.
Non pretendo di avere in tasca la risposta precisa sul contenuto di tale azione. Può sembrare di essere finite in un vicolo cieco: se agire rischia di riprodurre la violenza, restare inermi ci lascia scoperte. Come in molti altri campi esistono strategie dirette per fare un uso politico dell’aggressività, che vanno dal personale al collettivo. In un ambito così nuovo, emergente, i due aspetti non solo possono coesistere, ma è inevitabile che lo facciano. Il rito collettivo della messa in comune della rabbia attraverso le marce di piazza è una tattica per esorcizzare la violenza, basata sulla presenza corporea e sulla riappropriazione simbolica dello spazio.
La filosofa Elsa Dorlin, nel suo libro Difendersi (Fandango, 2020) traccia una genealogia delle tradizioni di autodifesa: dall’autodifesa schiava, alle arti marziali praticate dalle suffragette. Difendersi, o auto-difendersi sono, secondo Dorlin, una pratica affermativa, una preservazione del sé, che è anche creazione e realizzazione. Se infatti la vendetta è un dispositivo solo vittimizzante, oltre che individuale, l’autodifesa ha anche un aspetto affermativo della soggettività. La difesa, come insegnano, tra le altre, le militanti del Rojava, non può esistere senza la difesa di qualcosa. «Pretendere dallo stato ciò che ci deve, ma rimanendo autonome, porre le nostre condizioni quando dialoghiamo con le istituzioni, bruciare, creare disordine, educarsi collettivamente […], essere solidali con tutte le lotte di liberazione, coltivare l’amicizia e l’amore rivoluzionari», scrive ancora Françoise Vergès in Una teoria femminista della violenza.
Un’altra tattica è quella della sottrazione. Ne ha scritto molto bene Davide Traglia, proprio qui sull’Indiscreto, qualche settimana fa: «In una società che ci mette l’uno contro l’altro, che ha sostituito la presenza corporea con l’avatar e intende il confronto sociale soltanto come un forsennato scontro per la produzione – a discapito di qualsiasi possibile senso di comunità – tocca al singolo individuo provare a invertire la rotta: smetterla di voler esistere a ogni costo, accettare l’ordinarietà delle nostre vite, coltivare l’arte della sottrazione». Traslando la riflessione di Traglia sul piano collettivo, possiamo pensare agli scioperi femministi come manifestazione di una sottrazione radicale, un rifiuto di partecipare a un sistema fondato sulla violenza.
Un movimento femminista che accetta l’odio e il desiderio di vendetta e li guarda in faccia sarà in grado di usare la rabbia in senso trasformativo. Un movimento non in grado di confrontarsi con l’odio non farà altro che farsi usare da esso: non lo vedrà come necessario e naturale punto di partenza, ma come obiettivo politico, con il rischio di farsi strumentalizzare dallo stesso sistema che si propone di combattere.
(*) Irene Doda ha 28 anni, vive e lavora in Romagna. Scrive per Wired, Il Tascabile, Siamomine, Emma Rivista e altre testate online e cartacee. È co-autrice e speaker del podcast Anticurriculum, sul futuro del mondo del lavoro. Ha pubblicato per Edizioni Tlon L’utopia dei miliardari.
(indiscreto.org. 5 febbraio 2024)
di Francesco Strazzari
Un attacco russo alla Nato è possibile, fra cinque anni, forse otto. A parlare è il ministro della difesa tedesco, Boris Pistorius. Mosca minaccia sempre più paesi baltici e Moldavia e il capo del comitato militare Nato, Rob Bauer, evoca la necessità di una warfighting transformation dell’Alleanza.
Fino a ieri neutrale, il vertice militare svedese invita i cittadini a «prepararsi mentalmente per la guerra». Il ministro degli esteri lituano dichiara che «non esiste uno scenario in cui l’Ucraina non vince la guerra e le cose finiscono bene per l’Europa», mentre la leadership polacca, che già destina alla difesa il 4% del proprio Pil, sottolinea come a questo punto nessuno scenario possa essere escluso.
Fuori dalla Ue, il ministro della difesa britannico parla di «transizione da un mondo post-guerra a un mondo pre-guerra», mentre il capo dell’esercito, Patrick Sanders, evidenzia la necessità di poter disporre di più truppe («l’Ucraina ci mostra in modo brutale come le guerre siano iniziate dagli eserciti regolari ma siano vinte dagli eserciti di cittadini»).
Per l’Italia, che ha assunto il comando tattico dell’Operazione Aspides nel Mar Rosso, il ministro Crosetto parla di «minaccia ibrida globale», proponendo inter alia l’istituzione di una riserva militare e chiedendo più carri armati (che evidentemente non servono alla difesa nel Mediterraneo).
Cosa succede in Europa, come leggere queste indicazioni? Dopo anni di pressioni americane, i primi segni di inversione di tendenza nella spesa militare arrivano una decina di anni fa, fra il deragliamento delle primavere arabe (Siria e Libia in primis), l’apparizione del Califfato e l’intensificarsi della «guerra al terrore». Dal 2019 a oggi la spesa militare nel continente è cresciuta grossomodo del 25-30%, con un balzo in avanti dopo l’invasione dell’Ucraina e iniziative sempre più significative dell’Ue stessa. Per un soggetto politico continentale che nasce su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale, e che si è a lungo definito «potenza civile», siamo nel bel mezzo di un passaggio epocale: si aprono interrogativi sui quali occorrerebbe un dibattito aperto.
Poco si parla, ad esempio, delle implicazioni della nuova ondata di allargamenti, nei Balcani e verso Moldova, Ucraina e Georgia. L’allargamento precedente venne salutato come un’espansione dell’area della pace liberale, con un’Unione che muoveva verso un vicinato definito «un anello di amici» da Romano Prodi, allora a capo della Commissione Ue. Oggi l’Europa si trova coinvolta in un contesto di crescenti rivalità geopolitiche: al suo centro la Germania, tecnicamente in recessione, con l’estrema destra in crescita e tensioni industriali; alla sua periferia, il vicinato è diventato un anello di fuoco.
Dunque, su quali scenari di guerra si alimenta questo militarismo di ritorno? E, speculare rispetto alla propaganda putiniana sull’inevitabilità della vittoria, quali scenari di guerra alimenta, a sua volta il ritorno del si vis pacem para bellum, dei dibattiti a senso unico, delle scelte forzate dalla presunta autoevidenza dei fatti, prese sulla base del solo peggior scenario possibile? E infine, quali sono le incognite politiche, economiche e sociali del keynesismo militare XXI secolo? Lo stesso ordine internazionale che conosciamo è sfidato, senza che siano chiari i contorni di ciò che ci aspetta. Proprio sul manifesto da tempo evidenziamo un dato incontrovertibile: le guerre che si protraggono tendono a espandersi, ovvero a coinvolgere i vicini, noi. Il tempo della Storia unisce i puntini, fra le guerre in Afghanistan, Siria, Ucraina, e l’espandersi degli scenari di guerra mediorientali. Putin cerca un bagno rigenerante di legittimità elettorale mentre l’economia russa finora è riuscita a adattarsi alle sanzioni e reggere lo sforzo bellico. Se proiettiamo sul futuro le dinamiche in corso sul calcolo della deterrenza, nuovi scenari di guerra non sono implausibili. Per esempio, il protagonismo americano sul fronte degli aiuti militari all’Ucraina ha contenuto Polonia e paesi baltici. Non siamo ancora abituati a pensare la Polonia come una forza militare di prim’ordine, capace di guidare una guerra, ma le dichiarazioni del neo-presidente Tusk sulla necessità di farsi carico di tutto l’aiuto di cui l’Ucraina ha bisogno ci dicono cosa possa accadere nel caso gli Usa si sfilino, per blocco del Congresso o vittoria elettorale di Trump. Del resto Usa e Germania stanno frenando sull’adesione dell’Ucraina alla Nato, ritenendola pericolosa, opzione da riservare, domani, per negoziare un accordo che magari stabilizzi la frontiera orientale europea lungo la linea che finlandesi, baltici e gli stessi ucraini, ai margini dei territori occupati, stanno fortificando.
Incassato il sostegno europeo, Zelensky prova a mettere fuori gioco il comandante Zalužnyj, il quale mostra chi ha l’appoggio delle milizie della destra nazionalista fotografandosi accanto al leader di Settore Destro. In ballo c’è la mobilitazione di nuove forze: non si vince una guerra con quarantenni al fronte segnati da due anni di combattimenti. Queste dinamiche illustrano il rischio di fughe in avanti pericolose: l’escalation orizzontale è ormai un fatto. Non la mostrano solo le raffinerie che vanno a fuoco in Russia, o le navi da guerra colpite in alto mare. Nel quadrante mediorientale, gli Usa rispondono selettivamente agli attacchi ricevuti, colpendo selettivamente obiettivi iraniani.
Imbrigliare queste dinamiche espansive richiede uno sforzo politico europeo coordinato. Viviamo il paradosso di formazioni europeiste liberali e social-liberali (per non parlare dei verdi tedeschi) che si mostrano assai più sollecite verso il sostegno al fronte ucraino, rispetto alle forze nazionaliste e sovraniste, creando l’illusione ottica, cavalcata dalle frange rosso-brune, della crescita delle destre come passi in avanti dell’opzione pacifista. A Londra il leader laburista Keir Starmer, dato vincente alle prossime elezioni, ha chiarito che la sua stessa idea di controllo parlamentare sugli interventi militari britannici si applica solo in caso di dispiegamento di truppe, non di bombardamenti.
La sinistra rischia di arrancare nel chiedere il rispetto delle regole del gioco. A Bruxelles si pone il tema dalle clausole che vincolano le relazioni commerciali Ue-Israele al rispetto di clausole fondamentali circa il rispetto dei diritti umani nel conflitto con i palestinesi. Non esiste opzione che mobilitarsi a disinnescare la logica idraulica della guerra, sorda e cieca, riannodando i fili della politica in linea con un’idea di cambiamento sociale.
(ilmanifesto.it, 4 febbraio 2024)
di Marina Terragni
Ogni anno a Candelora i femminielli fanno la loro juta al Santuario di Mamma Schiavona o Montevergine sul Monte Partenio (Avellino) dopo una settimana preparatoria di preghiere e tammurriate in onore di quella Madonna Nera che li ha sempre guardati come figli bisognosi e diletti. Nel tempo la juta è diventata sempre più politica, un pride di mezz’inverno. Ma ci sono femminielli che non prendono bene l’inclusione Lgbtq+ e tengono duro in associazioni di resistenza tipo AFAN (Associazione Femminelle Antiche Napoletane).
La Tarantina è la femminella più anziana: «La parola femmenella è così dolce che non fa né scalpore né disgusto alla gente, invece oggi tutte chesti parole gay, arcigay, transessuale mi pare che danno più fastidio che piacere. Invece la dolcezza, quando dici “‘uè femmene’” […] com’è bello! Ti senti avvolto di questo calore umano e non di distacco».
Il genderism ha cambiato drasticamente questo statuto simbolico e sociale. Il più dei femminielli oggi rivendica diritti, sostiene il transattivismo, ricorre a pratiche tecno-mediche, si identifica come donna o non-binary, mentre il femminiello della tradizione non nega la binarietà sessuale, piuttosto la rafforza. Anche se si veste e si comporta come una donna non si identifica come donna, collocandosi in una sessualità terza.
Figure simili – sia pure con notevoli differenze – si trovano nel mondo Inuit, i sipinq, in India – le hijra e le sadhin – nei Balcani – le virgjëreshë.
Si è femminielli per nascita. Se sei femminiello stai con le donne, vivi con loro e come loro, in un’alleanza tra donne e “non-uomini”. La madre è tutto, e il femminiello resta nei suoi pressi chiedendo di essere ammesso nella cerchia e nella genealogia femminile.
La tradizione dei femminielli rappresenta il tentativo di dare ordine alla rottura degli stereotipi di genere senza violare l’integrità dei corpi. Proprio per questa sua prerogativa di “terzietà” il femminiello è sempre stato tenuto come creatura sacra, preposta all’amministrazione di molti riti: quando nasce un bambino glielo si mette in braccio per buon augurio – il femminiello è la controparte dello jettatore -, ci si affida a lui come “celebrante” in divertimenti di gruppo che conservano caratteristiche rituali come la Tombolata del Femminiello da cui gli uomini sono esclusi perché i loro pantaloni “portano jella”. Statuine di femminielli venivano spesso inserite nel presepe. Nella tradizionale “Cantata dei Pastori”, celebrazione prenatalizia napoletana, non di rado il ruolo della Madonna è stato affidato a un uomo.
La “Figliata del femminiello” è probabilmente il rito dal carico simbolico più forte: la creatura terza “partorisce” una bambola nel letto circondato dai/dalle suoi simili. Così la racconta Curzio Malaparte in “La Pelle”: «Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e là sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una camicia femminile da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambe le mani, cantando: “ohi! ohi miserami!”». Anche Ferzan Ozpetek ha rappresentato una Figliata in “Napoli velata”.
Il rito rende onore alla preziosità del femminile fecondo. Come spiega l’antropologa Corinne Fortier (in Genere: femminielli. Esplorazioni antropologiche e psicologiche a cura di Eugenio Zito e Paolo Valerio) i femminielli «affermano che non potranno mai essere all’altezza di una donna, dal momento che manca loro la capacità riproduttiva […] la femminilità è legata al fatto di procreare e fare bambini».
Il femminiello discende in linea diretta dai Coribanti, eunuchi consacrati a Cibele, la Grande Madre. Maschi che in unione estatica con la Dea vestivano abiti femminili e arrivavano ad auto-evirarsi nel Dies Sanguinis: il santuario di Mamma Schiavona, meta della juta, sorgerebbe proprio sulle rovine di un tempio di Cibele.
La tradizione dei femminielli si iscrive dunque nel culto della madre, è un omaggio a lei, si colloca pienamente nel suo ordine simbolico. Come scrive Simonetta Grilli – introduzione a Maria Carolina Vesce, Altri transiti. Corpi, pratiche, rappresentazioni di femminielli e transessuali – i femminielli «non vogliono cambiare sesso, ma vivere la loro vita da donne, sapendo di poter impersonare il genere femminile». Si tratta a tutti gli effetti di una performance di genere sia interiore – condivisione dei sentimenti femminili, della propensione alle relazioni e alla cura – che esteriore: abiti, movenze, comportamenti. Ma in genere i femminielli parlano di se stessi al maschile.
Scena della performance è la casa, il vicolo, la vita domestica. Il femminiello, scrive Maria Carolina Vesce, «si dedica alle attività femminili, quindi il cucire, per esempio, andare a fare la spesa, i servizi di casa, fare i capelli». È un’“apprendista donna” per la quale il prendersi cura degli altri è l’attività decisiva. Nelle case dei femminielli non manca mai il ritratto della Madonna: i femminielli sono pazzi per la Madonna, sono “figliə a essa”.
La performance non può fare a meno del tessuto fitto delle relazioni: non può esistere un “individuo” femminiello slegato dalle reti familiari o di vicinato, dalla trama dei sentimenti e degli affetti. Ancora Vesce: «Le relazioni di parentela, in questo senso, sono certamente quelle che meglio esprimono l’importanza di questa posizionalità relazionale […] è essere trattata come figlia, cognata, moglie, sorella a fare la differenza […] è nella dimensione della relazione che ci si definisce».
Racconta il femminiello Gina riguardo all’atteggiamento delle famiglie nei confronti delle femminelle: «Accettavano perché rice vabbuò, chist’ tene ’e sentiment ’e femmena, ma così mi può fare anche da badante…». Però «oggi sono proprio le mamme “e ja, fatt’ ll’ormoni”, le portano dai medici, le portano a fa’ i test psicologici, ‘e portan’ a fa’ o cambio sesso…».
Da sempre estranei al terreno della rivendicazione dei diritti e all’idea del cambio di sesso, i femminielli si vanno via via “normalizzando”. La mutazione prende avvio nel secondo dopoguerra: la città sta cambiando, si allentano i legami del vicolo di cui il femminiello è rappresentante-garante. Il divino coribante conosce per la prima volta l’isolamento e la solitudine, diventa il travestito dedito alla prostituzione e recluso nel suo monolocale, condizione rappresentata da testi teatrali come “Le cinque rose di Jennifer” (1981) di Annibale Ruccello, una “Voix Humaine” en travesti, e “Scannasurece” (1982) di Enzo Moscato.
L’iscrizione a pieno titolo nel mondo Lgbtq+ di derivazione anglosassone è il passaggio successivo. Sradicati dal loro tessuto, i femminielli perdono ogni tratto di androginia divina.
Intervistato da Vesce, Ciro “Ciretta” Cascina prende brutalmente le distanze dalla militanza Lgbtq+: speculare alla femminella, dice, «è la figura della ricchiona (traducibile in queer, ndr) perché sono della stessa specie, della stessa matrice, con posizioni completamente diverse. Perché la mezza-femmina è di cultura orale, l’altra è accademica, ha occupato sempre le posizioni di potere, si è camuffata […]. Una posizione più vicina alla polis, al palazzo, mentre la femminella te la puoi immaginare più vicina al mare, più vicina ai vicoli». Più vicina al mondo delle donne, tenuto in così grande considerazione, mentre l’altra, la “ricchiona” emancipata, si allontana dalla madre. “Diventando” donne, nominandosi come donne, paradossalmente i tecno-femminielli recidono il loro legame con quel mondo femminile che non è più luogo del loro nutrimento, entrano a fare parte del neutro maschile e si fissano sull’identità rinunciando alla loro sacralità e alla loro radicalità.
Mentre al contrario proprio a partire da quelle radici, da quel sentiment ’e femmena, si potrebbero configurare risposte più umane al diffuso bisogno di significare la propria differenza. Osserva l’antropologo Eugenio Zito: «il femminiello, pur tra mille difficoltà esistenziali, conservando la sua particolarissima fluidità di genere […] potrebbe rappresentare ancora oggi un modo per risolvere i problemi di “confine” attraverso un riassetto dell’identità personale che si sposta continuamente, sintesi unica di arcaicità e sorprendente post-modernità».
Un modello di fluidità alternativo alla tassonomia anglosassone che «come l’intera metafisica occidentale può considerarsi come prodotta da una fissazione sull’identità, che ha fatto perdere […] il senso stesso dell’essere».
(Il Foglio, 4 febbraio 2024)
di Silvia Baratella
Data incontro: sabato 27 gennaio 2024
Alice Basso è autrice di due serie di romanzi gialli, entrambe di cinque volumi, la seconda ancora in corso di pubblicazione, e già ne ha una terza in preparazione. Entrambe le serie sono ambientate nel mondo dell’editoria.
La protagonista della prima serie è Silvana Sarca detta Vani, trentaquattrenne scrittrice fantasma misantropa dallo stile camaleontico e dotata di acutissime capacità deduttive. Coinvolta come testimone in un caso di polizia, grazie alle sue deduzioni fulminanti e alla sua prontezza di spirito diventerà consulente della polizia, nella persona del commissario Romeo Berganza.
La seconda serie è ambientata nel 1935. Anita Bo è la dattilografa ventenne di una rivista letteraria che fa concorrenza a Le Grandi firme di Pitigrilli e pubblica i gialli dei pulp americani (per aggirare la censura, deve accompagnarli con una soporifera serie italiana – il commissario Bonomo – confezionata secondo i dettami del Minculpop). Trascrivendo i racconti, Anita scopre il giallo, la letteratura e la sua stessa creatività. E anche la chiave per risolvere i misteri torinesi.
Alice Basso vive a Torino come le sue eroine, ma è originaria di Sesto San Giovanni, dove ha fatto anche le scuole medie. E sabato 27 gennaio è stata ospite della Libreria delle donne con la sua insegnante di lettere di allora, Candida Canozzi, per parlarci dei suoi libri, dei suoi personaggi e della sua scrittura. Si tratta di gialli umoristici – Alice ci racconta che per lei è importante far divertire chi legge – caratterizzati da una scrittura brillante e da dialoghi fulminanti, scritti con un punto di vista segnato dal femminismo. Le protagoniste infatti non dipendono dal riconoscimento maschile per essere consapevoli del proprio valore, ma sanno apprezzare la stima sincera di un uomo e anzi in amore non si accontentano di niente di meno. Sanno trasformare gli uomini che incontrano ed evolvere nelle relazioni con loro (tanto che, mutatis mutandis, mi ricorda un po’ Jane Austen, anche per la leggerezza e la profonda ironia della scrittura). Ma soprattutto sanno inserirsi in una rete di relazioni tra donne che costituiscono la loro base della loro forza.
Le sottotrame sono ricche, seguono l’evoluzione di una fase della vita dei personaggi snodandosi attraverso tutta la serie. L’autrice ci spiega che ha scelto la formula in cinque volumi proprio per dare uno sviluppo e una conclusione alla crescita delle sue protagoniste: non si rischia di incappare in quei personaggi congelati in caratteristiche stereotipate, replicabili all’infinito in serie ripetitive e interminabili. Le eroine di Alice Basso le si accompagna per un tratto di strada, ci si affeziona, si apprezzano i loro cambiamenti e poi si deve lasciarle partire come amiche che si trasferissero in capo al mondo: rassegnate a sentirne la mancanza, ma contente che realizzino i loro progetti di vita. Questa evoluzione, però, non impedisce di leggere ogni singolo romanzo come una storia a sé, anche grazie al “riassunto delle puntate precedenti” mimetizzato nella narrazione, una delle fatiche peggiori per l’autrice, perché deve fornire tutti gli elementi per inserirsi nelle vicende di Vani o di Anita senza tuttavia lasciarsi sfuggire eccessive rivelazioni né sugli intrighi gialli né sulle sottotrame.
Gli intrighi sono ben costruiti e spesso si estendono su più livelli, ma non sono sanguinari. Alice è una grande conoscitrice di tutte le regole del giallo, dagli anni Trenta a oggi, ci gioca, le ripropone e si vede che le ama, ma si prende anche la libertà femminile di trasgredirle. Nella serie di Vani Sarca ne citerà espressamente una di S.S. Van Dine, creatore di Philo Vance: «Il morto più morto è e meglio è», asserisce il romanziere, perché secondo lui non si può pretendere l’attenzione di un lettore per trecento pagine per niente di meno di un cadavere. Alice ci dimostra il contrario: con la forza di un intrigo avvincente e di un metodo d’indagine sorprendente calamita la nostra attenzione con un minimo di spargimenti di sangue. Qualche omicidio c’è, ma non c’è mai spazio per compiacimenti sadici. Tanto che ne trarrei una nuova regola del giallo “al tempo del femminismo”, che formulerei così: «la miglior detective è quella che sventa l’omicidio prima che abbia luogo» (anche se non sempre è possibile).
Torniamo alle protagoniste e alla loro rete di relazioni amicali femminili. Vani Sarca sa di avere non solo un talento geniale come ghostwriter, ma anche una solidissima cultura letteraria e un’impeccabile professionalità, e le fa valere senza lasciarsi intimidire da nessuno. E malgrado sia una lupa solitaria, ha un rapporto affettuoso e protettivo con la quindicenne del piano di sopra, Morgana, che a sua volta stravede per lei. La donna che vorrebbe diventare da vecchia è invece Irma, cuoca a riposo di una famiglia dell’aristocrazia industriale torinese, libera e senza peli sulla lingua. Alice ci ha descritto la sua amica Antida, che gliel’aveva ispirata. Vani ha per Morgana le cure e le parole che da adolescente avrebbe voluto ricevere lei e l’affetto per lei incrina la sua ermetica autosufficienza. Morgana a sua volta trae forza anche dal rapporto solidale con la sua amica del cuore Laura, ragazza schietta e dal grande senso pratico.
Anita Bo invece è una ragazza solare e vivace, ma non molto istruita. Ha un’ortografia traballante che suscita lo sdegno del suo capo coltissimo, lo scrittore e traduttore Sebastiano Satta Ascona, che non le risparmia commenti acidi. Anita però si appassiona al lavoro e non si fa remore a esprimere le sue spontanee qualità creative e letterarie, perché sa che le sue idee buone, e finirà così per guadagnarsi la stima di Satta Ascona e anche per inventare una sua geniale forma di resistenza. L’amicizia tra donne ha un ruolo ancora più esplicito in questa serie e si sente che la forza di Anita ha le sue radici nel rapporto con l’ex-compagna di scuola, l’intelligentissima Clara, e con l’ex-insegnante Candida, il cui nome è tutt’altro che casuale («Sì, Candida sono io, anche se non fumo più», ci ha detto per prima cosa l’interessata). Insieme formano un terzetto inseparabile e aperto all’occasione a nuove amiche.
Nella serie di Anita Bo l’approfondito lavoro di documentazione ha talvolta orientato le trame grazie a scoperte fatte in corso d’opera. Quando la sua ex “prof” Candida le pone domande in merito, Alice, dopo aver esclamato: «Ed è subito prima media!», ci racconta dell’ONMI, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che nel Ventennio tra l’altro accoglieva le ragazze madri. Dallo stupore di scoprire che sotto il fascismo c’era questa istituzione all’apparenza così avanzata e da un ulteriore approfondimento che ne rivelerà le intenzioni di fondo nascerà la trama del secondo volume, Il grido della rosa. In questo stesso romanzo viene affrontato il tema dei bordelli: la scrittrice non si è accontentata dell’uniformità rosea e nostalgica dei resoconti degli storici e degli studiosi maschi. Sentiva che qualcosa stonava in quel coro unanime e ha insistito a cercare finché non le è capitata in mano la raccolta di Lettere dalle case chiuse, scritte da centinaia di prostitute alla senatrice Lina Merlin durante i lavori parlamentari per la sua legge (e da lei pubblicate nel 1955) per denunciare le loro terribili condizioni di vita. Nella sua scelta stilistica di leggerezza Alice non ne riporta l’orrore, i toni umoristici rimangono, ma la realtà della prostituzione appare ben chiara e senza sconti, a partire dal dato che non è mai stato vero che “con le case chiuse almeno le prostitute avevano un tetto sulla testa”, come vorrebbe la vulgata.
Con tutte queste premesse, non mi spiegavo proprio i rapporti catastrofici che entrambe le protagoniste hanno con la propria madre. Mi aveva colpita, però, un’evoluzione della figura materna da una serie all’altra.
La madre di Vani è talmente disprezzata che non ha neanche un nome: è indicata solo come “madre Sarca” ed è un concentrato di aspirazioni piccolo-borghesi e perbeniste. Il suo rapporto con la figlia maggiore è pessimo, improntato alla reciproca disistima.
La madre di Anita Bo è sì una virago temutissima da tutta la famiglia, ma ha anche delle doti: è lei l’anima imprenditoriale della piccola tabaccheria del marito, è lei che si destreggia tra le ristrettezze (tra l’altro con le storiche ricette di Petronilla) per assicurare alla famiglia un tenore di vita confortevole, è lei che coglie più lucidamente del marito gli aspetti inquietanti del regime fascista e ha persino il coraggio di parlarne francamente con sua figlia. C’è anche un aspetto di somiglianza tra madre e figlia, che si manifesta quando Anita fa il suo stesso gesto di puntarsi polemicamente le mani sui fianchi. E del resto questa madre un nome e un cognome tutti per sé ce li ha: non è “la signora Bo”, ma “Mariele Gribaudo”. Un paradosso curioso: fino al 1975, infatti, le donne sposandosi perdevano il cognome di nascita, eppure conosciamo quello di Mariele. La madre di Vani, nostra contemporanea, è invece nota solo con quello del marito.
Alice Basso chiarisce subito: «Grazie di avermi dato l’occasione di dichiarare che questi due personaggi non sono mia madre!». Poi ci racconta di come avesse bisogno di un contrappunto a Vani da utilizzare come spalla comica in battibecchi familiari, e poiché “madre Sarca” aveva svolto egregiamente il suo ruolo, ha pensato di ingaggiarla nuovamente per la seconda serie, concedendole però un avanzamento: alcuni vantaggi caratteriali e un nome tutto per lei.
Tutto l’incontro si è svolto in tono frizzante e allegro, tra dialoghi con il pubblico, risate e botte e risposte, per concludersi con un ottimo buffet.
Non resta che invitare chi ancora non l’ha fatto a godersi questi bellissimi romanzi, di cui seguono i titoli in ordine cronologico.
Serie di Vani Sarca
L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Milano, Garzanti, 2015. ISBN 978-88-11-67163-3.
Scrivere è un mestiere pericoloso, Milano, Garzanti, 2016. ISBN 978-88-11-67088-9.
Non ditelo allo scrittore, Milano, Garzanti, 2017. ISBN 978-88-11-67344-6.
La scrittrice del mistero, Milano, Garzanti, 2018. ISBN 978-88-11-60498-3.
Un caso speciale per la ghostwriter, Milano, Garzanti, 2019. ISBN 978-88-11-60262-0.
Serie di Anita Bo
Il morso della vipera, Milano, Garzanti, 2020. ISBN 978-8811812135.
Il grido della rosa, Milano, Garzanti, 2021. ISBN 978-88-1181-8779.
Una stella senza luce, Milano, Garzanti, 2022. ISBN 978-88-1100-3113.
Le aquile della notte, Milano, Garzanti, 2023. ISBN 978-88-1100-8859.
Il quinto volume della serie di Anita Bo uscirà nelle librerie a fine marzo/inizio aprile 2024.
(www.libreriadelledonne.it, 2 febbraio 2024)
di Nuccia Nunzella
150 anni fa nasceva Gertrude Stein, scrittrice e poetessa statunitense che visse da mecenate nella Parigi delle avanguardie artistiche, cambiando per sempre il mondo dell’arte e della cultura.
Un anniversario è un anniversario è un anniversario
«Aveva una grande spilla rotonda in corallo e quando parlava, decisamente poco, o rideva, molto di più, era come se la sua voce uscisse dalla spilla. La sua voce era diversa da tutte le altre: profonda, piena, vellutata, come quella di un grande contralto, come due voci insieme» scrive Alice Toklas nel memoir What is remembered, a vent’anni dalla morte di Gertrude Stein, suo grande amore e insostituibile compagna di vita. E a noi lettori sembra che il famoso ritratto di Gertrude, con cui Pablo Picasso inaugurò la sua fase cubista, prenda vita e ci spinga con quella voce “che sembrano due” a rompere ancora una volta con stereotipi e luoghi comuni sia nella rappresentazione artistica sia nella vita reale.
Siate uniche, siate unici sembrano dirci Gertrude e Alice.
Nata il 3 febbraio 1874 a Pittsburgh in Pennsylvania da una ricca famiglia tedesca di origine ebraica, la giovane Gertrude approfitta fin da subito di una invidiabile offerta culturale che la porta a laurearsi in breve tempo in filosofia e in biologia e a intraprendere immediatamente dopo corsi universitari di psicologia e di medicina. Una generica delusione di fondo e alcune complesse vicende legate alla sua omosessualità spingono Gertrude a interrompere tali studi e a far rotta su Parigi insieme a suo fratello Leo, come lei curioso e appassionato di quell’arte che lì custodisce il suo fulcro vivo e pulsante.
È il 1902, e chiunque nutra aspirazioni artistiche è a Parigi che vorrebbe trovarsi, per partecipare a quella primavera di movimenti, idee, sperimentazione di linguaggi nuovi e di rottura che come per magia sembra fiorire in ogni angolo della capitale francese. Leo e Gertrude scelgono la Rive Gauche, la mitica, e al numero 27 di Rue de Fleurus inaugurano quella che ben presto diventerà la più importante galleria d’arte del primo Novecento, crocevia di ogni avanguardia artistica che si rispetti. Memorabili gli incontri del sabato sera quando, in una ahimè improbabile inversione temporale, vi si potrebbero ancora incontrare Picasso, Cézanne, Matisse, o Marie Laurencin che discutono di cubismo, e i poeti Max Jacob e Guillaume Apollinaire che recitano i loro versi mentre un giovanissimo Ernest Hemingway è intento a scrivere di quella travolgente bohème nel suo Festa mobile.
Un elenco definitivo degli artisti e degli scrittori scoperti, ospitati e sostenuti da Gertrude (e promossi da Leo) è impossibile, salta sempre fuori un nome in grado di stupire, come quello di Alfred Stieglitz, ad esempio, il grande fotografo che per primo decise di pubblicare i saggi di Gertrude su Matisse e Picasso, per i tipi di Camera Work.
Oltre a governare col suo magnetismo quell’irripetibile universo culturale (che a volte sembra quasi travolgerla), Gertrude lavora, scrive, sperimenta nella scrittura la rivoluzione della forma avviata dai suoi amici pittori. A proposito di Teneri bottoni, opera ermetica in cui il linguaggio letteralmente esplode, contravvenendo a ogni codice o convenzione, scrive:
«Avevo delle cose sul tavolo, un bicchiere o qualsiasi altro oggetto, e cercavo di averne un’immagine chiara e di creare, separatamente nella mia mente, una relazione tra le parole e le cose che si vedono».
E mentre qualche critico dice che con i suoi scritti Gertrude Stein non vuole rappresentare la realtà ma mostrarci come sia il linguaggio a costruirla, lei afferma senza tentennamenti:
«Io sono una scrittrice cubista».
Vulcanica, irrefrenabile, instancabile, si cimenta nei generi letterari più disparati, fino ai libretti d’opera come quel The mother of us all, da cui è tratta la notissima citazione Una rosa è una rosa è una rosa.
Scrive soprattutto di notte quello che poi di giorno trascriverà l’amorevole Alice, la compagna con cui Gertrude ha condiviso casa, viaggi, avventure, la vita insomma. A lei dedica il suo primo libro di successo, la celebre Autobiografia di Alice B. Toklas, dove, già a partire dal titolo, la vita delle due donne si intreccia e si confonde in quel vortice di autentica libertà che seppero creare intorno a loro. Gertrude e Alice riposano insieme nel Cimitière du Père Lachaise a Parigi, i rispettivi nomi incisi sul retto e sul verso di un’unica pietra tombale.
(Maremosso, 2 febbraio 2024)
di Silvia Baratella
Non mi capacito dell’allarme sociale sulla “denatalità”. La popolazione mondiale è passata da quattro a otto miliardi nel giro di quarant’anni e nel frattempo sono aumentati a dismisura i consumi pro-capite di tutte le risorse possibili immaginabili (acqua, cibo, merci, energia e tutto quel che vi viene in mente), solo nell’Occidente sviluppato naturalmente, che però depreda il resto del mondo per procurarsele. Il riscaldamento globale provoca la desertificazione progressiva di sempre più territori e il conseguente innalzamento dei mari ne eroderà altri. Folle enormi (sempre soprattutto di occidentali) zompano su un aereo ogni due per tre, anche per spostamenti brevi che prima si facevano in treno, favorendo ulteriori dissesti climatici. Produciamo troppi rifiuti per smaltirli. I posti di lavoro scarseggiano e i crescenti processi di automazione promettono di distruggerne ulteriormente, con conseguente ribasso delle retribuzioni e aumento della precarietà. L’estate scorsa dall’alto di un aereo (ahimè sì, anch’io) ho visto un’unica, ininterrotta area urbana che da Milano va fino all’arco alpino, a nord, a est e a ovest: sgomenta, ho pensato che avremmo proprio bisogno di “spopolarci” un po’.
Per questo trovo incoraggiante la notizia che le nascite calano in tutto il mondo. Credo che una spontanea, pacifica contrazione demografica sia la benvenuta e che ci offra in prospettiva una migliore distribuzione degli spazi e delle risorse, un’inversione di tendenza nel consumo del suolo e nella produzione di inquinamento, una riforestazione che rinfrescherebbe il clima, e più lavoro più stabile e meglio pagato per tutte e tutti.
I governi di quasi tutti i paesi e di tutte le tendenze politiche, invece, gridano insensatamente alla catastrofe. Sembrano ciecamente convinti che la crescita demografica vada spinta avanti all’infinito e cercano di farlo. Dicono: come si farà quando la popolazione vecchia sarà più numerosa della popolazione attiva su cui graverà? E come si pagheranno le pensioni quando pensionate e pensionati saranno più numerosi di lavoratrici e lavoratori in attività? Forse tutta la disoccupazione che è cresciuta in questi anni finalmente si riassorbirà, dico io, il che favorirà l’aumento delle retribuzioni (e con esse dei contributi previdenziali!) e la riduzione della precarietà. E si può cercare delle soluzioni ponte per la previdenza finché non si creerà un nuovo equilibrio tra le generazioni, se ci si pensa per tempo. Per esempio, integrare i contributi da lavoro dipendente con una tassazione delle grandi ricchezze. E cominciare subito a offrire contratti e retribuzioni dignitose a lavoratrici e lavoratori stranieri e alle giovani generazioni aumenterebbe già il gettito contributivo.
Tuttavia, fa bene chi indaga le ragioni per cui le donne fanno meno figli e distingue tra legittimo desiderio e impedimenti da rimuovere, come fa Linda Laura Sabbadini nell’articolo del 22 gennaio scorso su Repubblica “Ecco perché non si fanno figli”. Sabbadini individua sia un cambio nei desideri femminili, sia ostacoli esterni. Per rimuovere questi ultimi, dice, «non serve una singola misura», ma «un cambiamento di modello di sviluppo e politiche stabili nel tempo», tra le quali oltre ai servizi più ovvi cita, finalmente, il «cambiamento dell’organizzazione del lavoro». Sono pienamente d’accordo, se come credo cambiare l’organizzazione del lavoro vuol dire tener conto di tutto il lavoro necessario per vivere, compreso quello non retribuito. E se cambiare il modello di sviluppo vuol dire guardare ai contenuti del lavoro e alla loro utilità per il bene comune anziché al profitto di pochi.
(www.libreriadelledonne.it, 1° febbraio 2024)
di Rosa Carnevale*
«Pensieri sparsi, per il giorno di San Valentino 2004. Oggi è una festa inventata dai fabbricanti di cartoline d’auguri per fare sentire di merda le persone. Non sono andato al lavoro oggi, ho preso il treno per Montauk, non so perché, non sono un tipo impulsivo. Forse mi sono svegliato solo un po’ depresso. Devo far riparare la macchina».
Joel e Clementine, la loro storia d’amore. Nessuno può dimenticare l’inizio di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, diretto da Michel Gondry nel 2004 e interpretato da Jim Carrey e Kate Winslet. Impossibile non aver invidiato almeno una volta nella propria vita Clementine, la protagonista, che semplicemente rivolgendosi all’agenzia Lacuna Inc. e sottoponendosi a un esperimento psichiatrico, riesce a cancellare dalla sua memoria ogni traccia della relazione con il fidanzato Joel. Una “mente candida” è una mente inconsapevole, priva di memoria e di dolore. A tutti sarà successo di voler dimenticare i ricordi legati a una relazione che sta terminando e pensare a quanti struggimenti e quanta sofferenza avremmo potuto evitare rimuovendo dalla mente l’intera storia, piuttosto che ritrovarci a piangere nei luoghi che ci ricordano una persona o sulle foto e le esperienze condivise negli anni. L’amore, ad un certo punto, fa soffrire.
Siamo fatti di relazioni, di intrecci, di momenti romantici. Ma siamo fatti, soprattutto, di rotture.
E queste rotture, che ci piacerebbe vivere come un taglio netto, uno strappo preciso e chirurgico, seppur doloroso, hanno invece contorni più sfumati di quelli che ci aspetteremmo. La vita non è un percorso logico e coerente, è fatta di linee spezzate e inciampi frequenti, di stop improvvisi e cambi di rotta repentini. La nostra vita è fatta di rotture è il titolo dell’introduzione al bel volume di Claire Marin, La fine degli amori e altri addii che trasformano la nostra vita, uscito nel 2023 per Einaudi. Un libro in cui la filosofa francese ci invita a pensare agli addii che abbiamo subito o inflitto agli altri non sempre e solo con ottimismo ma almeno con speranza. Non tutte le prove della vita sono infatti occasioni o opportunità per reinventarsi ma a tutte siamo tenuti a rispondere in qualche modo, con le risorse di cui disponiamo.
Ogni rottura, scelta o subita, è una lacerazione che ci infligge una torsione e deformazione fisica e psichica insopportabile. Quando terminiamo una relazione il disamore ci chiama a ricostruire tutto dalle fondamenta di noi stessi. Ma fino a che punto possiamo diventare un altro o un’altra? E fino a che punto è auspicabile?
«Per fortuna le rotture amorose non hanno tutte la stessa violenza», scrive Marin. «Ma la disaffezione produce comunque una scossa profonda. Chi siamo quando smettiamo di essere amati? Posso perdere le qualità che l’amore dell’altro mi conferiva senza perdere me stesso? […] Chi sono io adesso che non sono più niente per te?». Ogni rottura ci pone di fronte a interrogativi dolorosi, che non fanno che aumentare quella sensazione di andare in mille pezzi, senza riuscire più a riconoscerci e a connetterci a un Io profondo.
«Perché forse veniamo lasciati non tanto per quello che siamo ma per quello che non siamo. Perché non corrispondiamo al desiderio dell’altro», scrive ancora Marin. È questa sensazione di andare in frantumi, senza poter tenere insieme i tanti piccoli pezzettini che non sempre sentiamo appartenere solo a noi stessi, che spesso ci devasta. Non è un caso che sulla copertina del volume campeggi una delicata tazzina dai disegni orientali aggiustata con la preziosa tecnica del kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze in ceramica per la cerimonia del tè in cui le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili ed evidenziate con polvere d’oro. Un concetto non solo artistico ma che ha profonde radici nella filosofia Zen e che invita la mente a lasciar correre dimenticando le imperfezioni e ammirando la bellezza insita anche nei cambiamenti che seguono a necessarie riparazioni. L’oggetto rotto si abbellisce con le sue incrinature dorate.
Probabilmente avrei scelto un’altra immagine per raccontare ancora meglio come ci si sente dopo una rottura amorosa. Mi piace pensare a un’opera d’arte contemporanea dell’olandese Bouke de Vries, un’urna in vetro soffiato trasparente che contiene al suo interno frammenti di vasi e piatti in frantumi. A volte rimaniamo rotti, fatti di tanti pezzettini che non si riescono più a incollare. E allora c’è bisogno che qualcosa li contenga comunque tutti, qualcosa di ugualmente prezioso e delicato. Ecco come si tengono insieme i pezzi di storie dolorose, costruendo intorno a loro un involucro che sarà più saldo tanto più saremo stati fortunati nelle nostre esperienze di vita. La violenza del lutto amoroso è smisurata proprio perché è anche la questione del mio valore che entra in gioco nella relazione amorosa, come ricorda Roland Barthes in quell’imprescindibile volume che è Frammenti di un discorso amoroso.
«Io cerco dei segni, ma di che cosa? Qual è l’oggetto della mia lettura? È: sono amato (non lo sono più, lo sono ancora?)… Non sarà invece che resto sospeso alla domanda (di cui aspetto instancabilmente dal volto dell’altro la risposta): che cosa valgo io?», scrive Barthes. Dall’innamorato che se ne va ricevo un’esperienza crudele di svalutazione. Un’esperienza da cui possono nascere sensazioni fisiche e psichiche di malessere. È l’intero mondo quotidiano che conoscevamo come coppia a svuotarsi della sua sostanza. I luoghi, gli oggetti, le canzoni che ascoltavamo non sono più un porto rassicurante.
Alcuni diventano addirittura insopportabili, proprio come succede alla giovane sposa abbandonata, protagonista di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir. Nel primo dei racconti contenuti nella raccolta pubblicata dalla scrittrice francese nel 1976, la casalinga Monique scopre che il marito ha un’altra relazione. Nonostante ciò faccia vacillare tutto ciò in cui aveva creduto fino ad allora, permette che quest’infatuazione possa avere un seguito. Intorno a lei però tutto diventa improvvisamente ostile, estraneo e poco rassicurante: il tavolo della sala da pranzo, la casa intera e i suoi oggetti, l’automobile in cui il marito la tradisce: «L’amore di Maurice – fa dire Simone de Beauvoir alla sua protagonista – dava importanza a ogni momento della mia vita. Adesso è vuota. Tutto è vuoto: gli oggetti, i momenti. Io stessa». La rottura amorosa costringe a un necessario, nuovo distacco. Non restano che ricordi morti di luoghi, profumi, sensazioni. E allora, ecco ci prodighiamo in una cancellazione sistematica: certe abitudini svaniscono dall’oggi al domani, alcuni locali o città vengono cancellate dalle nostre mappe interiori.
Spesso all’altro abbiamo donato tutto il nostro corpo, rendendolo facile territorio da conquistare, piegandoci al desiderio come ci si piega davanti a un nemico sconosciuto che ci ha ammaliato facendoci abbassare la guardia. È quello che racconta Annie Ernaux nel suo Perdersi (L’Orma editore). Un diario intimo di poco più di duecento pagine che diventa un’indagine sull’idea di sottomissione in cui il soggetto (Annie stessa) racconta le attese e la frustrazione di un rapporto d’amore che si consuma con un uomo sposato: le paure e le insicurezze, l’attesa di una rottura percepita come inevitabile, il deteriorarsi di un rapporto e la rassegnazione con cui attendiamo la fine, in balia di scelte che non dipendono da noi. L’impotenza disperata di questa particolare storia d’amore (già raccontata anche nel romanzo Passione semplice) permette alla scrittrice francese di riflettere sul duplice significato di perdersi: quella di Ernaux è una lenta perdita della persona a cui si è legata, la cui presenza diventa progressivamente più distante nella sua esistenza, ma è soprattutto la lenta perdita di se stessa. Senza l’uomo che ama l’autrice finisce per non riconoscersi più e scopre di essere divenuta null’altro che “una comparsa” nella sua stessa esistenza.
È proprio su questi mutamenti nel nostro Io che si interroga Claire Marin. Chi siamo in questa nuova vita svuotata? Ed eravamo veramente in possesso di un Io unico e inscindibile a cui dobbiamo semplicemente fare ritorno, seppur faticosamente oppure siamo il risultato di tanti Io possibili?
«Forse non siamo fatti per un solo io. Sbagliamo ad aggrapparci a esso. Pregiudizio dell’unità», scriveva Henri Michaux.
Non sono solamente le relazioni romantiche e di coppia a essere vissute come vere e proprie perdite amorose. Allo stesso modo delle rotture con i nostri partner anche la nascita e la morte costituiscono strappi estremamente violenti, addii dolorosi con cui dobbiamo fare i conti.
È la sera del 30 dicembre 2003 quando John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore all’improvviso. Da quella data inizia L’anno del pensiero magico che ha ispirato uno dei romanzi più celebri della scrittrice americana, l’opera che meglio ha saputo raccontare il lutto e il dolore, toccando ferite ancora pulsanti, aprendone di nuove direttamente sulla pagina.
Lontano dal cercare risposte scontate a domande complesse, Marin sembra mettere in crisi un odioso sistema a cui siamo da sempre legati: quello che vira verso un ottimismo e una lettura semplificatrice che abbina alle rotture l’idea del “ricomincio da capo”.
«Ci piacerebbe vedere nella rottura l’occasione di una vita nuova, di una pagina bianca, per dare un valore retrospettivo a un fallimento trasformandolo in conoscenza, in ricchezza, in esperienza. Le virtù del fallimento, insomma». Ma siamo sicuri che sia così? «A volte la rottura è solo un pasticcio, una mancanza di coraggio, una viltà. […] E spesso il fallimento è fallimento puro e semplice, misero, deludente, un insuccesso totale. La maggior parte dei fallimenti non ci insegna niente».
Quando penso all’oggi mi viene istintiva una domanda: quante rotture possiamo sopportare? Una, dieci, cento, mille? In un’epoca che ci mette davanti a continue apparizioni e sparizioni, in cui le relazioni sembrano sempre più complesse e sfilacciate, qual è la soglia che ci permetterà di tenere tutti i nostri pezzettini al riparo nel nostro prezioso e delicato vaso di vetro? Tutti gli strappi di cui racconta Marin nel suo saggio sembrano operare in un tempo dilatato, richiedere la giusta distanza e una lentezza naturale che permetta in qualche modo se non di guarire lo spirito, di tenere insieme tutti i pezzi del grande puzzle di cui è fatta la nostra vita, anche amorosa. Negli ultimi anni, in epoca di Tinder, incontri online e relazioni virtuali che hanno una natura di per sé effimera ma richiedono al nostro Io uno sforzo e un investimento non indifferente, ci stiamo chiedendo forse un ingente lavoro in più: quello di passare da uno strappo all’altro, da una rottura a quella successiva con una rapidità che non sono sicura che il nostro fisico e il nostro Io possano reggere.
Come se nella nostra epoca gli amori avessero acquisito una capacità inusuale di rigenerarsi, di nascere e finire e poi riapparire, come uno di quei mostri mitologici a cui una volta tagliata una testa ne cresce subito un’altra in un moto perpetuo e instancabile che non lascia il tempo di ricucire i pezzi di cui racconta Marin nel suo libro. A quante persone chiediamo ormai di entrare e uscire dalla nostra vita con una rapidità che prima era impensabile? La rottura da decenni si è iscritta nell’orizzonte del quotidiano, associandosi in maniera ingannevole e pericolosa a una certa idea di libertà, ha assunto una forma nuova e diversa nelle nostre esistenze e in generale. «Siamo forse entrati nell’epoca della rottura o in un momento di rottura», scrive Marin.
«Sul piano ecologico e di conseguenza economico e politico dobbiamo ripensare urgentemente il nostro modo di vivere, di comunicare, di spostarci, come anche le nostre abitudini di accaparramento delle ricchezze. […] Riconoscere la rottura sarebbe allora una prova di maturità di fronte alla necessità di un cambiamento vitale, sul piano dell’esistenza individuale come sul piano dell’esistenza collettiva: dimostrerebbe la presa di coscienza delle nostre responsabilità». Una pedagogia della rottura si fa sempre più necessaria, anche per evitare che la fine degli amori diventi presto la fine dell’amore.
(*) Rosa Carnevale, giornalista. Si occupa di arte, fotografia e libri. Ha collaborato, tra gli altri, con Artribune, L’Officiel, Rolling Stone Magazine, Lampoon, Marie Claire e Grazia. Per la casa editrice Contrasto è redattrice e consulente di progetti editoriali.
(Kobo Blog, 1° febbraio 2024)
di Francesca Mannocchi
Dalla finestra della sua camera, a nord di Tel Aviv, Iddo Elam ogni mattina vede uno striscione che recita: Bring them home. Riportiamoli a casa. È una delle decine di insegne che ricordano agli israeliani in ogni angolo della città che 136 ostaggi sono ancora a Gaza. Iddo ha 17 anni, frequenta le scuole superiori, suona il contrabbasso e ha deciso che sarà un obiettore di coscienza. In Israele significa sapere di finire in carcere.
Come il suo amico Tal Mitnick, il primo diciottenne israeliano che si è opposto all’arruolamento nelle Forze di Difesa israeliane da quando è iniziata la guerra a Gaza. In Israele il servizio militare è obbligatorio per la maggior parte degli uomini e delle donne.
L’arruolamento è la norma, fa parte dell’identità nazionale del Paese, per questo la preparazione comincia spesso intorno ai sedici anni, i militari fanno visita alle scuole e invitano i ragazzi e le ragazze a iscriversi volontariamente ai campi di addestramento. I pochi che sono esentati, lo fanno con mezzi silenziosi: chi è impegnato negli studi religiosi, o per motivazioni di salute fisica e mentale.
L’arresto per gli obiettori di coscienza
Iddo dice che la prima cosa che si chiedono i giovani quando si incontrano è: dove andrai nell’esercito? I pochi obiettori di coscienza di solito vengono condannati a dieci giorni di prigione, e condannati ancora se continuano a rifiutare la leva. Tal Mitnick è in prigione da trenta giorni, ed è probabile che la sua pena verrà prolungata. Una punizione più severa della norma, dunque simbolica, in un clima in cui la guerra ha ricevuto un sostegno senza precedenti da parte dell’opinione pubblica israeliana.
Per spiegare la sua decisione pubblicamente Mitnick ha scritto: «La violenza non può risolvere la situazione, né da parte di Hamas, né da parte di Israele. Non esiste una soluzione militare a un problema politico». Lui e Iddo fanno parte di un piccolo gruppo di attivisti, Mesarvot, parola che significa: ci rifiutiamo. Non si rifiutano solo di combattere, rifiutano anche l’occupazione dei territori palestinese e oggi, a gran voce, gridano il rifiuto di questa guerra.
Iddo pensa ogni secondo al 7 ottobre. Nello studio di suo padre, avvocato, c’è la fotografia di un amico di famiglia. È uno dei rapiti da Hamas. Non c’è stato un giorno, da quando le sirene lo hanno svegliato quella mattina, che non si sia domandato cosa sia la giustizia.
Una risposta non la ha, ma sa che è impossibile parlare di sicurezza senza parlare della fine dell’occupazione, che è impossibile parlare dei propri diritti senza riconoscere quelli degli altri, impossibile infine parlare di dolore e di vendetta contemporaneamente. A scuola lo chiamano nazista, sostenitore di Hamas, traditore, amico dei terroristi. Iddo sa di appartenere a una ristretta minoranza ma crede che l’unico modo di resistere alla corruzione che l’odio determina nell’animo dell’uomo sia scendere in piazza e manifestare il proprio dissenso. Non si rassegna all’idea che la guerra sia la sola risposta al trauma.
Lo shock del 7 ottobre e i refusenik
Quando prova a mettere in fila le emozioni del 7 ottobre dice che prima di processare la rabbia e la tristezza, l’impotenza e il dolore, è stato giorni in stato di shock. Non capiva cosa gli stesse accadendo, poi ha cominciato a vedere le foto da Gaza e lo shock si è trasformato in una profonda angoscia: «Era come se la società attorno a me stesse trasferendo la propria sofferenza sulla sofferenza di altri. Pensare che quei civili vengono bombardati e uccisi dal mio governo e dal mio esercito ha rafforzato dentro di me la decisione di rifiutare la leva. È il solo modo che ho di protestare».
I refusenik sono una piccola fetta di un paese che crede sempre meno, o quasi più, nei negoziati di pace, sempre meno o quasi più alla soluzione dei due popoli e due stati. Iddo sa che non saranno poche centinaia di obiettori a muovere le convinzioni dell’opinione pubblica, ma sa anche che oggi la sua, la loro protesta si unisce alla frustrazione di chi si chiede quando finirà la guerra e come. Quale sarà il destino degli ostaggi e quale quello di Gaza.
La cosa che più li unisce è la richiesta di un cambio di passo politico. La sfiducia verso la leadership di Netanyahu.
A cercare di trarne vantaggio le frange estremiste. Come quelle che domenica scorsa si sono riunite nel Centro Congressi Internazionale di Gerusalemme con un’idea chiara del dopoguerra: ripristinare gli insediamenti nella Striscia di Gaza. Cinquemila (secondo gli organizzatori) i partecipanti della conferenza intitolata “Per la vittoria di Israele – La soluzione per la sicurezza: Ritorno nella Striscia di Gaza e nel nord della Samaria”. Per loro la strada è una soltanto, tornare lì e ricostruire le colonie di Gush Katif. C’era una cartina, mappe, progetti e uno slogan: gli insediamenti portano sicurezza.
Presenti anche i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, a loro volta coloni ed espressione dell’estrema destra religiosa. In pochi hanno nominato gli ostaggi, ma tutti hanno ribadito che «è vietato negoziare con Hamas». L’unica via, sostengono, è interrompere ogni rifornimento alla Striscia di Gaza. Via che risponde all’idea che non vi sia distinzione, nella Striscia, tra civili e miliziani. Che tutti siano sostenitori di Hamas e che quindi la Striscia vada «ripulita» prima di essere reinsediata. Costi quel che costi. Lo dicevano le voci dei presenti, e i loro striscioni. Uno recitava: «Solo il trasferimento può portare la pace».
Non è un caso che l’applauso più nutrito l’abbia ricevuto Ben Gvir, quando ha detto «Incoraggiamo l’immigrazione e la condanna a morte dei terroristi», come a dire: se i gazawi vogliono sopravvivere è meglio che se ne vadano. Oppure tutti i civili saranno considerati come Hamas, in modo che siano tutti obiettivi legittimi. In un momento in cui il Paese è così diviso sulla strategia per liberare gli ostaggi e i piani militari, i partecipanti alla Conferenza si sono presentati come i soli ad avere un’idea del dopo: le famiglie sono pronte, le cartine ci sono, bisogna solo finire la guerra.
«La sete di vendetta ci intossicherà»
I mezzi sono gli stessi di chi per giorni ha cercato di bloccare l’entrata dei tir degli aiuti a Kerem Shalom. Lo scorso fine settimana solo nove camion sono riusciti a passare, altri cento sono stati reindirizzati verso il valico egiziano di Rafah.
Secondo i sondaggi dell’Agam Institute, quasi il 60% degli ebrei israeliani si oppone agli aiuti umanitari. «La maggior parte dell’opinione pubblica, oggi – dice Iddo – vede i palestinesi di Gaza come il nemico. Come se tutti a Gaza fossero terroristi o sostenitori del terrorismo. Ma questa sete di vendetta ci intossicherà. Volere che altri paghino il prezzo della nostra rabbia non ci darà garanzie di sicurezza».
Lo scorso febbraio, lui e gli altri refusenik di Mesarvot sono andati nei villaggi di Massafer Yatta, in Cisgiordania, per protestare contro lo sfollamento di 1.300 palestinesi dalle loro case. Come in altre situazioni analoghe l’esercito israeliano, per motivare l’evacuazione forzata dei villaggi palestinesi, aveva dichiarato l’area una «zona militare chiusa». Violando la legge, hanno sostenuto con la loro presenza le proteste degli abitanti di Massafer Yatta e sono stati, come loro, attaccati dagli ultranazionalisti e dalla polizia.
In piazza Iddo stringe uno striscione con scritto: «Cessate il fuoco ora». E canta un inno: due Stati, due Nazioni, ebrei e arabi si rifiutano di essere nemici. Suo padre è sempre alle sue spalle, in caso di arresto. Sa che tra poche settimane suo figlio si presenterà alla sede della polizia, si dichiarerà obiettore di coscienza e verrà arrestato.
La paura, per lui, non è la però prigione. Alla domanda cos’è la paura? risponde così: «Ho paura che questo luogo sia perduto, che questa terra, non Stato, che io chiamo casa, non guarisca mai. Ho paura che me ne dovrò andare. Ma le persone che chiedono a quelli come me “Perché non te ne vai?” sono le stesse che vorrebbero che i palestinesi lasciassero la loro terra. Ma dobbiamo restare, e tutti, perché solo insieme, anche avendo paura, non smetteremo di volere un futuro migliore».
(La Stampa, 1° febbraio 2024)