di Libreria delle donne



Flora De Musso è morta il 17 febbraio 2024. Era nata il 23 giugno 1946.

Femminista “storica” milanese – negli anni ’70 faceva parte del collettivo di via Cherubini – ha insegnato microeconomia nelle scuole superiori. Negli anni ’80, quando il pensiero della differenza ha cominciato a investire le pratiche professionali delle singole, soprattutto delle insegnanti, Flora ha avviato insieme ad altre un gruppo di riflessione sulla pratica pedagogica, che grazie a iniziative analoghe in altre città, incontri e convegni, ha fatto nascere la pedagogia della differenza (vedi Educare nella differenza a cura di Annamaria Piussi, Rosenberg & Sellier, 1989). Scritti del gruppo da lei curati sono stati pubblicati sulla rivista “Cooperazione educativa”. Nel 1992, con Luisangela Lanzavecchia ha curato il volume Libertà femminile nel ’600 (Libreria delle donne), che documenta uno splendido lavoro di ricerca da loro fatto in alcune classi. Nell’84 Flora aveva cominciato a mettere mano alla grande quantità di documenti, riviste, opuscoli accumulati nello scantinato della Libreria delle donne nella sede di Via Dogana, creando insieme a Gabriella Lazzerini l’archivio politico dei documenti 1974-1997, che nel 1999 è stato dato in comodato alla Fondazione Elvira Badaracco. Dal 2007 in poi si impegnò nel secondo “riordino” dell’archivio conservato nel seminterrato della nuova sede di via Pietro Calvi, insieme a Luca Bergamaschi, che continua l’opera. Tra gli scritti di Flora, vogliamo segnalare l’articolo Maria Grazia Zerman e i suoi doni (Via Dogana n. 92 “Cambiare l’immaginario del cambiamento”, marzo 2010), sulla cara amica morta nel 1995 che aveva lasciato un fondo per promuovere e sostenere economicamente la ricerca delle donne.


Alcune di noi hanno scritto i brevi ricordi che seguono. Sul sito abbiamo già pubblicato quelli di Luca Bergamaschi e di Francesca Graziani.


Io l’avevo conosciuta facendo insieme i “corsi abilitanti” all’insegnamento (Diritto e Economia) nei lontani anni ’70 e qui era nata un’amicizia affettuosa e di grande scambio. Con un’altra collega, tuttora mia grande amica, avevamo formato un gruppetto “vivace” e affiatato. In seguito, con una docente del corso che ci piaceva particolarmente, avevamo fatto anche un gruppo di autocoscienza incentrato sul lavoro dell’insegnante. Poi siamo finite in scuole diverse e io in anni successivi ho lasciato l’insegnamento… ci siamo un po’ perse di vista. Di quel periodo mi era rimasto un ricordo tangibile, uno stupendo scialle fatto da lei a maglia, attività nella quale era abilissima.

(Silvia Motta)


Abbiamo insegnato nella stessa scuola nel 1975. In viale Zara Flora ci aspettava con la macchina per andare a Lissone: Istituto del mobile. Andate e ritorni ci raccoglievano in una socialità femminile di colleghe. Così la informai dell’esistenza della Libreria delle donne, felicissima ci venne con me e in seguito mi ricordò spesso che le avevo dato la più importante opportunità della sua vita.

(Antonella Nappi)


Se può servire, io ricordo che negli anni ’80 dopo la pubblicazione del Sottosopra verde (1983) ho conosciuto Flora nel corso di due convegni, uno a Bologna e uno a Parma, che io stessa con altre della Biblioteca delle donne organizzai, e in entrambi Flora aveva sostenuto con fermezza l’efficacia della pratica dell’affidamento a scuola e in qualsiasi luogo di lavoro o altro, come una invenzione della Libreria delle donne che ogni donna poteva agire. In quel periodo questa pratica fu molto contestata e lei mi colpì per la forza con cui condusse questa battaglia nel movimento femminista.

Poi a Milano la incontrai nel gruppo delle insegnanti della Libreria nel sottoscala di Via Dogana e una volta trasferitami a Milano, molto più spesso, in Libreria, al Circolo della rosa e nel seminterrato della nuova sede della Libreria, al lavoro con Luca all’Archivio dei Libri preziosi e della rivista Via Dogana. Lavoro prezioso che Luca ha continuato per amore, per riconoscenza e perché non vada sprecata la ricchezza del pensiero e dell’agire femminile.

(Laura Minguzzi)


Il primo flash di Flora è legato a Grazia Zerman, le rivedo sempre insieme, belle, eleganti, forti, luminose; insieme facevano un turno in Libreria nel pomeriggio. Poi, quando Grazia mancò e fu istaurato un premio a suo nome per una tesi di laurea alle studentesse, la ricordo sempre presente all’appuntamento annuale.

Entrai in rapporto con lei quando, raggiunta la pensione, mi comunicò che intendeva organizzare l’archivio nel seminterrato della Libreria. Decidemmo insieme il necessario per iniziare e, per non pesare sull’economia della Libreria, ci attivammo per chiedere un contributo esterno così esiguo che ci venne subito accordato. Comprammo un computer, un deumidificatore e più avanti tanti faldoni per contenere i documenti.

Flora condivideva il progetto con Luca, suo amico e collega di scuola, li vedevo arrivare puntuali, determinati, precisi. Poi cominciò a diradare la sua presenza lasciando a Luca il compito di continuarlo, compito che tuttora porta avanti con impegno e piacere. Cominciai a chiamarla per avere notizie della sua salute, di cui non volle mai parlare, instaurammo così un rapporto a distanza fatto di leggerezza e ironia che è durato quasi quattro anni. Solo nell’agosto scorso mi mandò un messaggio in cui diceva la sua presenza in ospedale per riprendersi da una polmonite, ancora una volta minimizzando in modo affettuoso. Malgrado la gravità ricambiai l’affetto e la leggerezza.

Rivendico questo nostro rapporto in superficie ma non superficiale, fatto di attenzione reciproca, di leggerezza e di affetto. A Natale mi mandò questo messaggio: «Buona vita. bacini».

(Renata Dionigi)


(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)

di redazione Roba da femmine


Sabato scorso a Parigi si è svolta la cerimonia dei premi César, l’equivalente francese della cerimonia degli Oscar […].

È stato Anatomie d’une chute (arrivato in Italia con Teodora col titolo Anatomia di una caduta) ad aggiudicarsi i riconoscimenti più importanti: miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista, miglior attore non protagonista e miglior sceneggiatura. Justine Triet, regista del film, è la seconda donna nella storia dei César a vincere in questa categoria.

Ma questa edizione dei premi del cinema francese verrà ricordata soprattutto per il memorabile discorso tenuto dall’attrice Judith Godrèche. Poco nota da noi ma molto conosciuta oltralpe, qualche tempo fa Godrèche ha raccontato di essere stata abusata per anni dal regista Benoît Jacquot. I due si erano conosciuti quando lei era minorenne e avevano iniziato una relazione con la benedizione dei genitori di lei, evidentemente contenti di vedere la figlia “sistemarsi” con uno dei più promettenti nomi del cinema francese nonostante l’importante differenza di età. All’epoca infatti non solo Godrèche non era ancora maggiorenne ma tra i due c’erano ben venticinque anni di differenza: quando la loro relazione è iniziata lei aveva quindici anni e lui quaranta.

La loro storia si è conclusa nel 1992 e da allora Judith Godrèche ha continuato a lavorare per un po’ in patria prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Tornata in Francia da qualche anno, l’attrice ha deciso di raccontare gli abusi subiti attraverso i suoi canali social; dopo la sua testimonianza, altre donne si sono fatte avanti per raccontare di essere state violentate o abusate da Benoît Jacquot.

Il regista ha respinto tutte le accuse ma in un documentario commentava così il suo rapporto con Godrèche: «Era una trasgressione. Non solo per la legge, ma non si può in linea di principio, credo. Una ragazza come lei che aveva quindici anni e io quaranta, non avevo il diritto». L’attrice ha descritto così la loro relazione al quotidiano Le Monde: «È una storia come quelle dei bambini che vengono rapiti e crescono senza vedere il mondo e non possono pensare male del loro rapitore. Avrei voluto che Benoît accettasse di essere mio amico, non di avermi, non volevo il suo corpo. Ben presto mi ha disgustata».

Durante la cerimonia dei César, Godrèche ha tenuto un lungo e duro discorso non tanto su quanto accaduto a lei ma sul clima di omertà che ha circondato quella e altre vicende permettendo a chi volesse abusare di giovani donne di agire nella più assoluta impunità.

«Da tempo ormai la mia testimonianza è nota,l’immagine idealizzata dei nostri padri è stata offuscata, il loro potere sembra quasi vacillare» l’attrice ha poi affermato dicendo che «il silenzio è il mio motore da trent’anni», prima di fare un appello alle sue colleghe e alle altre vittime di violenza: «Non possiamo interpretare eroine sullo schermo per poi nasconderci nella vita reale». Trattenendo le lacrime, Judith Godrèche ha proseguito il suo racconto dell’orrore dicendo: «C’era una volta, non accadrà così, non come le altre volte». La frase che però è rimbalzata su tutti i social è stato il suo fermo j’accuse nei confronti di tutto il cinema francese: «È da un po’ che parlo, parlo, parlo, ma non vi sto sentendo. O vi sto sentendo appena. Dove siete?» ha detto rivolgendosi a colleghi e colleghe.

Dopo le disgustose affermazioni di Gérard Depardieu che hanno causato un polverone anche politico in Francia, le accuse contro Benoît Jacquot tornano a scuotere l’opinione pubblica d’oltralpe. Fuori dall’Opéra dove si stava svolgendo la cerimonia dei premi César, decine di manifestanti hanno protestato contro le molestie sessuali che quotidianamente affliggono le donne che lavorano nel cinema francese.

In Italia il collettivo Amleta si occupa da anni di raccogliere e offrire supporto alle donne vittime di abusi nel mondo dello spettacolo. Chissà che non ci sia spazio anche per loro ai prossimi David di Donatello, i premi del cinema italiano che dovrebbero vedere il trionfo del film di Paola Cortellesi sulla violenza contro le donne.


(Newsletter “Roba da femmine” – Wired, 28 febbraio 2024)

di Luciana Cimino


Comincia domani il più grande esame di massa al quale sono sottoposti gli studenti italiani: le prove Invalsi. Con un’aggiunta: la schedatura dei ragazzi poveri. Le rilevazioni nazionali, introdotte nel 2007, hanno suscitato negli anni un acceso dibattito sulla standardizzazione della valutazione.

Ora però si è aperto un nuovo fronte di discussione, dovuto alla messa a terra del Pnrr e di Agenda Sud, sui dati dei ragazzi fragili. A partire dal 2022, l’Invalsi ha introdotto un nuovo indicatore individuale per «identificare studenti in condizione di fragilità» allo scopo di riconoscere «gli alunni che manifestano segnali relativi a potenziali situazioni di disagio, fragilità e abbandono», come si legge sul sito Invalsiopen. L’indicatore Escs (Economic, Social and Cultural Status) fotografa la situazione sociale, economica e culturale delle famiglie degli studenti che partecipano alle prove, tracciando lavoro e livello d’istruzione dei genitori e il possesso di alcuni beni materiali. Ed è proprio l’Escs a essere usato nelle misure per la riduzione dei divari territoriali previste dal Pnrr.

«A un fine nobilecome il contrasto alla dispersione, sembra possa corrispondere l’impiego di qualsiasi mezzo, anche l’automatizzazione del processo di indirizzo dei finanziamenti – spiega Rossella Latempa, insegnante di matematica e fisica e membro della redazione di Roars (Return on academic ReSearch) – ma questo pone due problemi: il primo riguarda la privacy, il secondo è politico». Sul primo, Roars, e altre associazioni come Alas o Priorità alla Scuola, segnala l’opacità della raccolta e trattamento dei dati: «La valutazione Invalsi è una gigantesca black box non interpretabile dall’esterno – premette Latempa -. Non controllabile, verificabile o revisionabile per via umana, la banca dei quesiti non è pubblica, non sappiamo chi li decide, chi li corregge e con quale metodo, i test non sono replicabili da parte dello studente, i riferimenti alla privacy sono fumosi e non si può decidere sulla propria privacy». Questioni che ha sollevato diverse volte anche il Garante ma che fino a ora sono rimaste senza risposta da parte del ministero dell’Istruzione (e merito) e che sono strettamente intrecciate al punto politico.

«L’infrastrutturadei dati Invalsi si sta imponendo come architettura fondamentale per la realizzazione di una sorta di nuovo modello di welfare educativo, di tipo tecnocratico – spiega Latempa. Non c’è niente di giusto o imparziale nel prendere decisioni sulla base di un algoritmo, sono diversi gli esempi di “discriminazioni algoritmiche” senza contare che il dibattito critico internazionale evidenzia da tempo i legami tra eugenetica, statistica e processi automatizzati. Come tutte le profezie pure quelle digitali si autoavverano».

Quello che viene contestato è il legame numerico tra studenti identificati come fragili e le risorse per le scuole: «Un pericolo che le esperienze internazionale ci ricordano ogni giorno: negli Usa classifiche di questo tipo vengono usate per dichiarare il fallimento di alcune scuole e per restringere i curricula, e quindi le possibilità, degli studenti». Riguardo la didattica, Latempa nota: «Si parla di inclusione ma in realtà si stanno progettando trattamenti differenziati progettati per gruppi di studenti scelti dalle macchine e non dal giudizio dei docenti che anzi vengono condizionati da un falso senso di controllo quando si tratta, invece, di situazioni complesse».

Preoccupa il combinato disposto con le altre riforme della scuola pensate dal ministro leghista Valditara: quella dell’orientamento e quella dei professionali. «Tutto, tutto insieme, dà l’idea che si vada nella direzione di un tracciamento del capitale umano per smistare poveri e meridionali», chiosa Latempa. Sul tema della valutazione si è espresso anche il Pd che, con una rete di associazioni (Aimc, Cidi, Flc Cgil, Legambiente e altre) ha tenuto ieri una conferenza stampa alla Camera per contestare il ritorno al voto numerico alla primaria. «Una decisione immotivata dal punto di vista pedagogico – ha spiegato Susanna Crostella del coordinamento genitori democratici. Il governo non metta in discussione il giudizio descrittivo nella scuola primaria, la scuola non può essere costantemente investita, nell’alternarsi dei governi, da politiche frammentarie, contraddittorie, prive di una visione pedagogica».


(il manifesto, 28 febbraio 2024)

di Elisa Messina


A febbraio abbiamo visto su Rai1 «Califano». A seguire, «Mameli». Miniserie tv, per la precisione due biopic, su due italiani piuttosto diversi e distanti nel tempo. Il titolo non poteva essere più chiaro: il cognome del personaggio di cui si narrava la vita (tra verità e invenzione). Perché allora il prossimo film biografico di Rai1, quello dedicato all’astrofisica Margherita Hack e diretto da Giulio Base, si chiama «Margherita delle stelle»? Dove è finito il cognome?

Siamo al solito caso di sparizione del cognome femminile. Se proprio non si voleva rinunciare al riferimento astrale si poteva farlo senza ingoiare il cognome della scienziata che nella fiction è interpretata da Cristiana Capotondi. Non era difficile, ecco alcuni suggerimenti: «Hack, Margherita delle stelle» oppure, «Hack, Margherita e le stelle». Osiamo? «Hack, tutte le stelle di Margherita».

Ripensiamo alle fiction dedicate a eroi nazional-popolari maschi (quelle con la faccia di Beppe Fiorello, per esempio): Quella su Modugno non era «Domenico, il mister Volare», ma, «Volare, la grande storia di Domenico Modugno». Oppure ancora «Giuseppe Moscati, l’amore che guarisce». Cambiamo attore e cambiamo storia, Luca Zingaretti è stato Giorgio Perlasca in «Perlasca, un eroe italiano». Semplice, no? Eppure…

Ce la ricordiamo la serie tv 2015 sulla vita di Oriana Fallaci con Vittoria Puccini? S’intitolava simpaticamente «L’Oriana». Fallaci non era già più tra noi da diversi anni sennò chissà come avrebbe apostrofato la scelta del titolo. Probabilmente con gli stessi epiteti che avrebbe usato Hack, visto che erano toscane tutte e due.

Succede nei titoli delle fiction, ma ancora, purtroppo, nei titoli degli articoli sui giornali. Per le famose o le non famose. Così Meloni diventa Giorgia, Schlein, Elly… La studentessa italiana che vince una competizione internazionale di matematica può diventare «Caterina, la maga dei numeri», l’atleta che vince una medaglia, «Sara, la regina dello sprint». Improvvisamente diventano tutte cugine, amiche, sorelle. «Perché è questo che fa l’uso del nome proprio delle donne in contesti non confidenziali: riduce la distanza simbolica, esprime paternalismo, agevola l’uso del tu familiare e diminuisce l’autorevolezza della funzione ricoperta riportando la donna alla condizione di principiante» scriveva Michela Murgia in «Stai zitta!», mirabile libretto sui tanti pregiudizi che ancora fanno lo sgambetto alle donne.

Niente di grave, per carità. Ma è pur sempre un uso della lingua che denota il sessismo ancora diffuso.

Sono solo parole. Ma le parole sono importanti (Nanni Moretti lo dice da sempre) perché sono il riflesso, spesso inconsapevole, della mentalità corrente. Che è quella che considera normale trattare linguisticamente le donne in un modo diverso: togliere i cognomi, inserire gli articoli (la Meloni, la Schlein), declinarne al maschile le professioni…

Se vuoi cambiare la realtà comincia dalle parole che usi per rappresentarla. Lo diceva la linguista Alma Sabatini in «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana», manualetto redatto per la presidenza del Consiglio nel lontano 1987: fa impressione leggere che le sue raccomandazioni sono le stesse che ci ripetiamo oggi: evitare di nominare le donne per nome invece che per cognome; evitare l’articolo davanti ai cognomi femminili e ovviamente fa l’esempio di titoli di giornale con il nome di Margaret Thatcher (!).

Sono passati 37 anni, sono stati scritti altri libri, fatti convegni, le aziende (Rai compresa) le università e gli enti pubblici si sono dotate di codici di comportamento che invitano ad usare buone pratiche di parità, tra cui un linguaggio più inclusivo. Eppure molte di queste raccomandazioni continuano a essere disattese perché bollate come storture del politicamente corretto o manifestazioni di femminismo spinto. O semplicemente per ignoranza. «Attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell’umanità, ma il suo centro», scrive in anni più recenti un’altra linguista, Vera Gheno, in «Femminili singolari».

Margherita Hack non c’è più e non sarà il titolo di questa fiction a lei dedicata a sminuire la grandezza della nostra astrofisica più famosa, la prima donna a dirigere l’Osservatorio di Trieste. Ma se le serie tv firmate Rai, in quanto servizio pubblico, oltre ad essere prodotti di intrattenimento hanno anche un intento divulgativo per il pubblico, forse bisognerebbe partire dal rispettare quelle semplici regole linguistiche che, da quasi quarant’anni, chiediamo vengano applicate a tutte le donne.


(La 27esima Ora Corriere.it, 27 febbraio 2024)

di Roberta De Monticelli


“L’ombra delle bombe” è una zona da indagare, il non detto, il dissimulato. Ma che succede in quel cono d’ombra? Quali le conseguenze, i riflessi, le ripercussioni della “guerra mondiale a pezzi” sul piano sociale, economico, ambientale, spirituale, culturale? Proiettare luce dentro al cono d’ombra per esaminare la realtà, interpretarla, poi pensare di cambiarla.

C’è molto da imparare dove si parla di guerra e di pace provando a sollevare il velo della rimozione – che è forse l’atteggiamento mentale più diffuso nelle società europee oggi. Una nuova associazione, “Il coraggio della pace disarma”, che ha avuto il 24 e il 25 febbraio il suo convegno di fondazione nello splendore del Convento di san Domenico Maggiore a Napoli, nei grandi porticati e chiostri dove ancora aleggia l’ombra di due spiriti magni, Tommaso d’Aquino e Giordano Bruno.

Impossibile dar conto della molteplicità di prospettive e di temi, che convocavano tutte le scienze sociali e tutto lo sconcerto morale della nostra ragione a illuminare un solo fatto, insieme incontestabile e oscuro. Che nel mondo e in particolare in quello delle democrazie occidentali i pochi prosperino, i moltissimi soffrano, le disuguaglianze diventino sempre più abissali, non in virtù di un destino storico ma in virtù di decisioni ovunque favorevoli alla riconversione in atto dell’economia, delle agende politiche, del linguaggio pubblico, alla guerra.

È la normalizzazione dell’indicibile: perché l’affare che arricchisce temporaneamente i pochi e toglie welfare, speranza, slancio creativo e ideale a tutti ha come prezzo i fiumi di sangue presenti e quelli venturi. Il sangue delle due immani carneficine senza fine e senza orizzonte politico (altro che catastrofico) che abbiamo sotto i nostri occhi semichiusi: un’intera generazione sacrificata sui due fronti della guerra russo-ucraina, un’eliminazione ormai proclamata delle aspirazioni di un popolo a determinarsi come stato sulla sua terra, in Palestina.

Il tutto – ed è la parte più amara – sotto le bandiere dei cosiddetti “nostri valori”, ossimoro per riferirsi a ciò che è dovuto agli umani come tali e non “a noi”, la dignità, la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia. I valori che l’Unione Europea premette alla sua Carta dei Diritti, quelli che animavano l’immenso “mai più” iscritto nella Carta delle Nazioni unite, nella Dichiarazione Universale del ’48, e via via nelle istituzioni universalistiche che la cognizione del dolore aveva fatto nascere nel secondo dopoguerra. Con la speranza di realizzare infine in terra un costituzionalismo globale, che due sole cose proibiva: la guerra e la violazione dei diritti umani.

Un ordine cosmopolitico vero, che un “ordine” geopolitico chiamato pace, e fautore di guerre e deserti fuori delle oasi statunitense ed europea, armato fino ai denti ai suoi (s)confini, svuotava lentamente di senso dalla base. La base: cioè il polo della forza che insieme a quello della luce (o dell’idealità) sempre alimenta il vivente paradosso del diritto. Il quale vige solo per mezzo della forza che regola e vincola. Il diritto, questa grandiosa invenzione umana a metà strada fra la violenza e la giustizia, questo vincolo della civiltà che, sciolto, la rovescia nella guerra. E che si scioglie non appena il veleno della rimozione, della menzogna, della censura, della polarizzazione, della disumanizzazione spegne la luce delle ragioni, strozza l’ansia di verità nel dibattito pubblico, riduce il linguaggio a un’orwelliana amministrazione di conformismi e tabù: e decapita il polo dell’idealità, ghigliottinando la mente sociale. Allora al diritto non resta che appiattirsi del tutto sulla forza, e morire. Eppure i relatori intravedevano – tutti, senza eccezioni – un punto di convergenza fatto di buio e di luce: l’Europa.

L’Unione europea che tace come Pietro per tre volte per non smentire il sanguinario veto atlantico al cessate il fuoco in Palestina. Che dimentica la sua stessa ragione di esistenza, iscritta nel suo trattato istitutivo: «Nelle sue relazioni con il resto del mondo, l’Unione […] contribuirà alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al mutuo rispetto tra i popoli». E danza al tamburo di Stoltenberg, e lascia «i tempi lunghi della pace» per correre «ai ritmi veloci della guerra», e usa la sua Facility for Peace e i suoi fondi Pnrr per finanziare le industrie belliche nazionali al posto della riconversione ecologica. E che, invece, ancora potrebbe tornare in sé, e ricordare il coraggio della pace che la fece nascere. Siamo noi, che possiamo rifare l’Unione, votando alle elezioni europee, e votando per chi, volendo la pace, prepara la pace.


(il manifesto, 27 febbraio 2024)

di Alberto Leiss


Analisi, commenti, cronologie dopo due anni di guerra in Ucraina si sono affastellate sui media in questi giorni. L’impressione è di una assurda, inquietante cacofonia in cui prevalgono tesi ideologiche contrapposte e valutazioni “sul campo” divergenti. La “vittoria” di Zelensky sarà certa perché Putin ha già perso da mesi (il direttore del Foglio). No, è vero il contrario: «Stiamo perdendo la guerra», titola il numero di febbraio di Limes, la rivista diretta da Lucio Caracciolo. Si riferisce per la verità non solo all’Ucraina ma alla “Guerra Grande” che ora coinvolge Israele e Palestina e tanti altri luoghi del mondo.


Ho apprezzato le due pagine della Stampa scritte sabato scorso da Domenico Quirico e dal Cardinale Zuppi. Il primo ricorda le migliaia e migliaia di morti – ma quanti sono davvero nemmeno lo sappiamo – e le tante bugie: «Hanno mentito tutti. Putin innanzitutto ha mentito: con i suoi propositi di denazificazione, le spacconate di poter fare un boccone dell’Ucraina. Ha mentito Zelensky quando per dar credito alla propria figura di eroe dell’Occidente, di padre della patria, ha promesso al suo popolo che era possibile sconfiggere la Russia…». Quanto a noi «Usiamo la guerra, combattuta e pagata fisicamente dagli ucraini per fare le nostre mediocri politiche interne, lucrare consensi e sondaggi, moltiplicando fedeltà atlantiche ad ogni costo per garantire il benevolo consenso americano». «Ma gli uomini, chiedo – è il grido finale – gli uomini?».

Però il discorso politico pubblico – quello “privato”, persino di Giorgia Meloni se crede di parlare con un capo di stato africano, riconosce la “stanchezza” per la guerra e l’ansia per una via di uscita – si ostina a vedere solo nella “forza” della armi la soluzione a cui votarsi. L’Europa, si ripete ossessivamente, deve armarsi per difendersi. Si chiede libertà di deficit pubblico non per recuperare il welfare perduto, ma per pagare i produttori di armi.

Chi è contro la guerra non dovrebbe sottrarsi a un interrogativo sulla “forza”. Rubando l’immagine al libro di una filosofa femminista (Alessandra Chiricosta) possiamo immaginare «un altro genere di forza» per un’Europa a cui provare a affezionarsi di nuovo?

Ricorderò ancora una volta che negli ultimi anni tormentati della sua vita Alex Langer, che amava sicuramente la pace e odiava la guerra, si era interrogato a fondo su questo punto. Elaborando col collega tedesco Ernst Gülcher la proposta di creare «un corpo civile di pace dell’Onu e dell’Unione europea». Aggiungendo: «Alcune idee, forse anche poco realistiche».

Idee che non sono morte lì. In Italia qualche anno fa sono state anche votate in Parlamento: doveva avviarsi una “sperimentazione”, coinvolgendo alcune centinaia di volontari. Ma l’iniziativa non è mai stata finanziata.

Dei “corpi civili di pace”, secondo Langer dovrebbero far parte professionisti e volontari non violenti, uomini e donne, giovani e anziani, per azioni capaci di prevenire la guerra, e per costruire la pace dopo la guerra. Servirebbe una cultura molto ricca, una volontà molto forte. Se necessario collaborando anche con le forze armate delle Nazioni unite. E in accordo con le parti in causa nei conflitti.

Non varrebbe la pena di riprendere quelle idee “anche poco realistiche”? Non rassegnarsi all’alternativa tra l’impotenza e la stupidità omicida delle bombe e i carri armati?


(il manifesto – rubrica In una parola, 27 febbraio 2024)

di Luigi Ippolito


Una legge di epoca vittoriana, un voto storico al Parlamento di Londra: l’Inghilterra si prepara, il mese prossimo, a decriminalizzare l’aborto. Perché può sembrare incredibile, ma Oltremanica l’interruzione di gravidanza è tuttora disciplinata da una legge del 1861 che commina fino al carcere a vita alle donne che decidono di abortire: solo grazie a una deroga approvata nel 1967 è consentito interrompere la gravidanza sulla base del parere di due medici ed entro le 24 settimane. Altrimenti, si incorre nel codice penale dell’Ottocento.

Ma adesso è emersa a Westminster una maggioranza bipartisan in favore di una svolta: a marzo la deputata laburista Diana Johnson presenterà un emendamento alla legge del 1861 per far sì che l’aborto non sia più considerato un crimine, ma una scelta che riguarda la salute delle donne. La ministra della Sanità, la conservatrice Victoria Atkins, ha fatto sapere che anche lei appoggia la decriminalizzazione e un sondaggio ha mostrato che il 55% dei deputati è d’accordo (i partiti lasceranno libertà di coscienza al momento del voto).

La questione è diventata di attualità dopo che almeno 100 donne, dopo il 2018, sono incorse nei rigori della legge per aver abortito illegalmente: in alcuni casi sono state arrestate in casa, ammanettate e trascinate in cella. Particolare scalpore ha destato la storia di Carla Foster, una madre quartantacinquenne di tre bambini che nel 2020 era stata condannata a 28 mesi di carcere per aver interrotto la gravidanza alla trentaduesima settimana (la pena è stata poi dimezzata in appello e sospesa con la condizionale): un caso definito «molto triste» dagli stessi giudici. Durante il lockdown molte donne hanno fatto ricorso alla pillola abortiva, che era stata resa disponibile per posta sulla base di un semplice consulto telefonico, ma sono poi finite sotto inchiesta da parte della polizia.

L’emendamento alla legge del 1861, che con ogni probabilità verrà approvato, non cambierà le disposizioni del 1967 in base alle quali l’aborto è permesso solo fino alla ventiquattresima settimana e previa autorizzazione di due medici, ma le eventuali violazioni non saranno più automaticamente considerate un crimine. In questo modo, Inghilterra e Galles si allineeranno all’Irlanda del Nord, che aveva già decriminalizzato nel 2019 l’interruzione di gravidanza.

La peculiare situazione legislativa inglese era frutto di un tipico compromesso, secondo cui si mantiene la tradizione preferendo emendarla invece di abolirla del tutto: ma le conseguenze stavano diventando insostenibili. Tuttavia c’erano state forti resistenze ad affrontare la questione, nel timore di importare dall’America quelle guerre culturali che lì hanno polarizzato la società e fatto del corpo delle donne un campo di battaglia politico. Alla fine però il buon senso ha prevalso e si è trovato il consenso necessario per porre fine a un anacronismo non più giustificabile.


(Corriere della sera, 26 febbraio 2024)

di Marina Terragni


Ordinario di Chirurgia pediatrica all’Università di Pisa, Claudio Spinelli ha avuto a che fare con la questione dell’identità di genere operando molti bambini intersex, con disordini congeniti della differenziazione sessuale: «Non si capisce – spiega – se sono maschi o femmine. Un tempo su queste anomalie si interveniva precocemente con la chirurgia ricostruttiva cercando di allineare l’aspetto esterno con l’identità biologica. L’approccio è cambiato in seguito alle iniziative dell’Intersex Society of North America che ha chiesto di sospendere gli interventi fino a quando il soggetto non è in grado di esprimere consenso. In Germania e Portogallo gli interventi sono vietati, in Italia non c’è una legge ma il Comitato nazionale di Bioetica raccomanda di rinviare fino alla maturazione del soggetto».

Condizione, quella degli intersex, del tutto diversa dalla disforia di genere. «Assolutamente. I genitali dei bambini con disforia sono nella norma, la disforia non ha basi organiche. Ma in contatto con gli intersex e le loro famiglie ho incontrato problematiche che si ritrovano anche nella disforia. Per finire sugli intersex: vediamo un aumento importante. Crescono anche ipospadia, ginecomastia, mancata discesa dei testicoli (criptorchidismo). Situazioni probabilmente riconducibili a fattori ambientali e in particolare ai cosiddetti interferenti endocrini, sostanze presenti nell’aria, negli ali- menti, in oggetti di uso comune: idrocarburi policiclici, benzene, diossine, ftalati. Queste sostanze spiegano anche le neoplasie ormonodipendenti e la drammatica caduta della fertilità maschile».

Cosa spiega invece l’aumento non meno drammatico dei casi di disforia? «Probabilmente si tratta del sintomo “contagioso” di un profondo disagio. I disturbi psichiatrici, quasi sempre compresenti, crescono in modo impressionante: in Italia ne soffrono 2 milioni di under 17; rispetto al periodo pre-Covid c’è stato un incremento del 12 per cento degli accessi al pronto soccorso pediatrico per comportamenti autolesivi e suicidari che sono cresciuti del 27 per cento. Il 59 per cento dei ragazzi tra i 13 e i 25 anni soffre di anoressia/bulimia; il 12 per cento, prevalentemente maschi, sviluppa dipendenza digitale (digital addiction) associata a comportamenti ossessivo-compulsivi. Qualche settimana fa ne ho parlato alla Camera in una relazione sugli aspetti cognitivi dei nativi digitali e sul cambiamento dei comportamenti».

Una mutazione antropologica. «I ragazzi fuggono dal senso di mancanza di futuro e da un presente ansiogeno sviluppando un’identità digitale fluida poco propensa ad accettare frustrazioni: durante l’adolescenza si è più reattivi alla dopamina, neurotrasmettitore del piacere che induce a una ricerca di gratificazione continua, come per alcol e droghe. Dietro a questa fragilità c’è un’aggressività che si manifesta con l’hating, il bullismo, il revenge porn. C’è anche il problema dell’erotizzazione precoce dell’infanzia con l’esposizione al porno online e ai suoi modelli mistificanti che vengono imitati alterando lo sviluppo psicoaffettivo».

Lei quindi classificherebbe la disforia di genere tra i disturbi psichici. Ma la disforia è stata depatologizzata. Si dice che è il corpo a essere sbagliato, non la psiche. È il corpo che va cambiato con i farmaci e la chirurgia. «Sono argomenti complessi. Quando voglio mettere in difficoltà gli studenti chiedo di parlarmi di questo. Non è semplice parlarne in maniera chiara e precisa». Forse anche perché c’è paura. «Questi temi sono stati ideologizzati e politicizzati. Si rischia di fare riferimento a pregiudizi e non a dati». Eppure la società italiana di pediatria sostiene senza tentennamenti la terapia affermativa con triptorelina e parla di “dimostrata completa reversibilità” dei suoi effetti quando studi e pratica clinica dimostrano il contrario. «Di fronte a novità del genere servono tempo e ricerca. Ma è certo che la somministrazione di triptorelina nei giovani produce un arresto dello sviluppo puberale, come se mandassimo le bambine in menopausa e i maschi in andropausa con tutto ciò che ne consegue: osteoporosi, dolori, alterazioni ossee e della crescita in statura, blocco della spermatogenesi e delle ovulazioni, problemi cardiovascolari e mentali… Difficile riportare il corpo alle sue condizioni fisiologiche. Le risposte reali le avremo solo fra qualche anno con dati a distanza». Nell’attesa che si fa? «Se ne discute. Si informa. Si aiuta la gente a prendere coscienza oltre gli schieramenti ideologici. Si supportano le famiglie. Si lavora sulla scuola». E si continua a somministrare triptorelina? «Varrebbe la pena di evitare, vista la mancanza di studi e gli effetti collaterali. Basterebbe attendere, avere pazienza, lasciare i bambini liberi di vivere la fatica dell’adolescenza. Con un supporto psicologico, se serve».


(Il Foglio, 23 febbraio 2024)

di Fiorella Fumagalli


A Milano abita da oltre vent’anni nel quartiere Isola, che considera un osservatorio ideale per i suoi studi di politiche urbane. Lucia Tozzi, saggista indipendente originaria di Napoli, incontra il pubblico sabato 24 (ore 18.00) alla Libreria delle donne insieme a Maria Castiglioni, psicologa attiva nei gruppi di mutuo aiuto. Al centro della riflessione il tema “Com’è bella la città!”, basato sugli ultimi due libri di Lucia Tozzi. L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (“Rasoi” Cronopio, Napoli) e Le nuove recinzioni (Carocci, Roma), che raccoglie tre scritti: il suo riguarda la finanziarizzazione dell’abitare sociale a Milano; gli altri, di Stefano Portelli e Luca Rossomando, vertono sul “furto” dell’edilizia calmierata a Roma e i Quartieri Spagnoli di Napoli al tempo del turismo di massa. L’analisi dell’autrice colma un vuoto di pensiero critico: che cosa c’è dietro il modello Milano, la città “che non si ferma mai”? La risposta non risparmia la nostra città alla pari di New York, Hong Hong e Lagos: «Le grandi metropoli globali si assomigliano un po’ tutte, stessi problemi e stessi vizi», perché «in competizione tra loro, cercano di attirare chi viene da fuori ma, forse, hanno smesso di pensare alle esigenze di chi le città le vive».

L’immagine splendente assunta da Milano con l’Expo 2015, ragiona l’autrice, non corrisponde a una trasformazione vera, ma è l’effetto di una campagna di marketing di successo «ottenuto spostando le risorse materiali e intellettuali destinate alla produzione di cultura, ricerca, servizi di welfare verso la costruzione di una facciata, la metropoli globale del lusso». Chiusa ai giovani e con affitti alle stelle, aria irrespirabile e periferie consumate, la città della “disuguaglianza programmata” si dovrebbe risvegliare dalla fiaba disneyana del benessere diffuso: «Come avvenne agli albori del capitalismo, quando signori e nobili recintarono terre e beni comuni per accumulare la rendita, oggi gli imprenditori locali e le élite che possiedono la maggior parte della ricchezza mondiale ambiscono ad appropriarsi di tutto».


(la Repubblica, TuttoMilano, 22 febbraio 2024)

di Francesca Graziani


Un ricordo di Flora De Musso, morta il 17 febbraio 2024


Nella malinconia di questi giorni ripenso alla strana storia della nostra amicizia: le prime nostre frequentazioni nel Gruppo Insegnanti nato in seguito alla discussione sul Sottosopra verde (1983) – dove tu eri la nostra riconosciuta capa – che dopo qualche tempo si spaccò per dissidi interni e le varie componenti del gruppo proseguirono per altre strade. A quel tempo noi due non eravamo intime amiche, anzi non ci eravamo neanche troppo simpatiche, data la diversità di caratteri; e per molto tempo non ci fu neanche motivo di frequentarsi se non in Libreria a qualche riunione. Anni dopo il caso ci portò a far la strada insieme verso la metro e ricominciò un cauto parlarsi, quasi come due animali che si annusano un po’ diffidenti: raccontavo i miei tentativi di allora di migliorare la mia cucina di sopravvivenza a te che eri una cuoca provetta trovando un certo incoraggiamento da parte tua – più avanti mi regalasti anche un aggeggio per tagliare il prezzemolo, che a dir la verità non ho mai usato.

Le cose ebbero una svolta improvvisa quando con mia grande sorpresa mi chiedesti di aiutarti a rivedere un lungo testo che avevi scritto sull’origine femminile dello yoga – e che spero si possa ritrovare fra le tue carte. Naturalmente avevo acconsentito volentieri: erano i primi anni duemila, avevo appena traslocato in mansarda e tu allora stavi ancora bene, le due rampe di scale dal terzo al quarto piano dove l’ascensore non arriva non erano ancora un impedimento; venivi casa mia e pian piano sistemavamo quella tua ricerca che avresti tanto voluto vedere stampata.

Ci vedevamo alle cene del sabato e dopo tu riportavi me, Traudel e Piera fino alla metro con quella tua macchina che ne aveva sempre una – tipo il riscaldamento che non riuscivi a spegnere in pieno giugno e sfrecciavamo con i finestrini completamente abbassati per non arrostirci – cene alle quali si è aggiunto poi il fido Carmelo, diventato il tuo scarrozzatore ufficiale.

Col passare del tempo ti è diventato più difficile spostarti in libreria per fare l’archivio e hai trovato un valido successore in Luca – che solo in questi giorni ho conosciuto – prima per me era “l’uomo del sottoscala”.

Il Covid prima, malattie e incidenti vari dopo ci hanno impedito di vederci ma non di sentirci. Sempre verso sera, proibito chiamarti prima delle 17.30/18.00 dato che causa insonnie notturne dormivi di giorno: ad aprire le nostre conversazioni prima di passare ad altro i bollettini medici di ambedue con relative riflessioni sulla vita e la morte, la vecchiaia etc. Sempre però con grande ironia, come quest’estate con l’ultima rompipalle arrivata: la cimice del letto che di lì a poco avrebbe infestato non solo il tuo letto ma anche quello dei parigini.

Esasperata dalla situazione mi hai chiesto se conoscevo qualche scongiuro adatto all’uopo; e mi è venuta in mente una giaculatoria in latino che mia madre recitava quando perdeva qualcosa e di cui mi ricordavo solo l’inizio. L’ho recuperata on line e scoperto che era un’antica preghiera inventata da un frate nel 1250 e recitata ancora oggi ogni martedì nella basilica di Sant’Antonio a Padova, quindi di comprovato effetto; dovevi solo digitare il primo pezzo: si quaeris miracula mors error calamitas.

Poco dopo mi è arrivato un tuo messaggio che ancora oggi conservo: «Ho letto due volte l’invocazione a Sant’Antonio e pare che funzioni. Miraculum!»

Chi l’avrebbe mai detto che proprio io e te avremmo trovato il modo di farci sempre delle belle risate!

Misteriosa è la vita e anche le relazioni.


Ciao, Flò.


Francesca


(www.libreriadelledonne.it, 22 febbraio 2024)

di Franco Lorenzoni


Mi è capitato di recente d’incontrare la responsabile di una grande organizzazione umanitaria che mi ha detto di avere ancora alcune difficoltà nell’esprimersi in italiano. Figlia di una polacca e di un italiano, ha passato gran parte della sua infanzia soprattutto con sua madre, che si vergognava di parlarle in polacco. Riteneva la sua una lingua minore, che non avrebbe aiutato l’inserimento di sua figlia, così le ha sempre parlato solo in italiano, ma in un italiano approssimativo, povero di parole, perché non era la sua lingua. Nonostante la figlia abbia una vita lavorativa ricca e soddisfacente, a decenni di distanza sente ancora il peso di quella ferita linguistica originaria, di quella mancanza di parole.

Torno a questo ricordo perché oggi, 21 febbraio, è la giornata internazionale della lingua madre, proclamata dall’Unesco nel 2000 per «promuovere le diversità linguistiche e culturali e il poliglottismo». Spesso noi maestre e maestri delle scuole primarie suggeriamo alle mamme immigrate di parlare ai loro figli in italiano a casa, commettendo, a volte inconsapevolmente, un grave errore. Avere pieno possesso della propria lingua madre, infatti, è una importante premessa per imparare la lingua del paese in cui si vive.

La lingua madre è una lingua humus, un terreno fertile indispensabile per dare linfa alle lingue della formazione e dell’incontro. Così sostiene Graziella Favaro, instancabile ricercatrice e attivista nel campo dell’intercultura, citando Tullio De Mauro: «Una lingua, voglio dire la lingua materna in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva dalle prime ore la nostra vita psichica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali […] È dunque la trama visibile e forte dell’identità».

Nei miei anni d’insegnamento ho collezionato alcune prove di quanto un rapporto intenso con la propria lingua materna aiuti figlie e figli di origini immigrate, ma anche le loro compagne e i loro compagni, che così hanno occasione di accorgersi di quanto è grande il mondo e di come la sua bellezza stia nell’infinita varietà delle espressioni umane che lo popolano.

Per diverse stagioni, ad esempio, ci siamo interrogati su dove si nascondesse la matematica e Nisrin, di origine marocchina, un giorno ha detto: «La matematica è un omino che va in bicicletta dentro la testa. Se si ferma, cade, se corre risolve tutti i problemi». L’immagine era così bella che l’abbiamo scritta a caratteri grandi sul muro della classe. La trovavo particolarmente efficace perché, ogni volta che osservavo un bambino in difficoltà di fronte a un problema, pensavo a quel disequilibrio e a quella caduta così ben descritta da Nisrin, che nasceva da una sua difficoltà reale, sofferta.

Un giorno, parlando con suo padre, gli ho raccontato della frase di sua figlia e lui mi ha detto che in arabo matematica si dice alriyadiaat, parola che ha la stessa radice di sport e di esercizio fisico, aggiungendo che evoca anche l’idea di acrobazia. Scopriamo così che l’origine della metafora di Nisrin si trova nella sua lingua madre, in cui a volte pensa e forse sogna.

È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?

Sono sempre stato attratto dalle parole intraducibili e a volte in classe abbiamo giocato a collezionarne alcune in diverse lingue. Sono parole che evocano l’unicità e la lontananza di una lingua e di una cultura e, insieme, invitano a bussare a quella porta chiusa. La parola spagnola ensimismarse, per esempio, utilizzata in Centanni di solitudine da Gabriel García Márquez per descrivere il carattere di alcuni componenti della famiglia Buendía, azzarda la possibilità di rendere transitiva la più riflessiva e immobile delle azioni, che è l’entrare in noi stessi.

Per anni la nostra classe è stata gemellata con una di Ayuub, un villaggio nel sud della Somalia nato per accogliere orfani e vedove sopravvissute alla guerra civile. Mana Sultan, la straordinaria donna che lo ha fondato, in visita nella nostra scuola ci ha raccontato che il somalo è una delle lingue africane che da meno tempo conosce la scrittura. Osservando un testo scritto in somalo abbiamo scoperto che nella trascrizione dall’orale chi aveva assegnato dei segni scritti a quella lingua aveva scelto di arricchire molte parole di doppie vocali, così da renderle vicine alle sonorità del parlato. Mana ci ha spiegato che loro vivono prevalentemente in campagna, sempre all’aperto, e dunque si chiamano e parlano a distanza. Se non ci fosse questo prolungamento dei suoni non ci si riuscirebbe a sentire. Ecco che, in quel caso, la lingua ci parla anche del paesaggio, dei luoghi in cui sono nati quei suoni.

Una gerarchia ingiusta

Il problema è che anche le lingue subiscono ingiustizie e sono sottoposte a gerarchie rigide, che a volte sconfinano in forme d’esclusione, o di vero e proprio razzismo linguistico. È quello che è successo ai nostri dialetti nei decenni caratterizzati dalle grandi migrazioni interne, prima della diffusione della televisione che, insieme alla scuola di massa, ha modellato la lingua nazionale.

Negli anni settanta la nascita del tempo pieno, oltre ad andare incontro ai nuovi bisogni lavorativi delle famiglie, si diffuse soprattutto nelle scuole del nord per rispondere alla necessità pedagogica di avere più tempo per affrontare in modo positivo le difficoltà create dalla presenza di grandi differenze linguistiche portate dalle bambine e bambini immigrati dal mezzogiorno.

Sono più dell’11 per cento gli studenti di famiglie immigrate che, oltre a non avere diritto alla cittadinanza, vivono sulla loro pelle una scissione linguistica netta, dovuta molto spesso a una totale rimozione della loro lingua madre nella scuola.

Tra i molti progetti di educazione interculturale di qualità che si sperimentano non ha ancora trovato lo spazio che merita la valorizzazione delle lingue madri, mentre credo sia della massima importanza nelle nostre classi trovare tempi e modi per dare spazio alla presenza di lingue materne di più continenti, che vivono nelle memorie e accompagnano pensieri ed emozioni di bambine e bambini.

Nelle linee pedagogiche 0-6 del 2021, un documento del ministero dell’istruzione di grande importanza – la cui scrittura fu coordinata da Giancarlo Cerini, uno dei migliori ispettori scolastici che abbia avuto la nostra scuola – s’invita ad «avere attenzione alla lingua parlata nel contesto familiare, che costituisce la base per l’apprendimento della lingua italiana». E poi: «Creare contesti nei quali si possono usare più lingue consente di riconoscere il patrimonio culturale di ogni bambino, di sviluppare abilità comunicative diversificate, di sollecitare curiosità ed esplorazione di lingue diverse».

In un altro documento ministeriale del marzo 2022, che delinea con lungimiranza gli orientamenti interculturali che dovrebbero arricchire le nostre scuole, c’è scritto: «Un’educazione al plurilinguismo […] si deve porre obiettivi quali: il riconoscimento delle lingue parlate da bambine e bambini nei contesti extrascolastici e la raccolta delle biografie linguistiche; la valorizzazione di ogni lingua e della diversità linguistica presente nella comunità; l’attivazione di processi metalinguistici e di comparazione e scambio tra le lingue».

Favaro – che per anni ha anche diretto la meritoria rivista interculturale «Sesamo», edita da Giunti – racconta di un’interessante ricerca condotta in alcune scuole dell’infanzia e primarie, in cui bambine e bambini di classi multietniche sono stati invitati a disegnare le compresenze linguistiche che incarnavano.

Su un foglio Kaifa si disegna con due linee colorate che gli escono dalla testa, commentando: «Io parlo bangla e italiano. Le lingue sono nella mia testa e sono come fumo. Il bangla è forte e rosso, l’italiano è leggero e di colore verde». Mentre Rayan dice: «Le mie lingue sono come una sciarpa. Prima girano insieme intorno al collo, poi si dividono in due parti: una va a destra e una a sinistra».

Anche le questioni aperte che sono state raccolte durante la ricerca sono di grande interesse. Una bambina si disegna divisa tra due bandiere, sotto cui si domanda: «Sono indiana o sono italiana?». Un altro bambino decide di sostituire la o con la e, affermando convinto: «Sono italiano e sono albanese». Altri esempi interessanti si trovano sul sito Mammalingua. (https://www.mammalingua.it/)

Una questione delicata

Durante un piccolo spettacolo preparato a dicembre di qualche anno fa nel piccolo paese umbro di Giove, non posso dimenticare l’emozione che traspariva nei volti delle mamme romene quando ascoltarono due canzoni cantate nella loro lingua dall’intera scuola primaria. Un gesto di accoglienza che riconosceva alle numerose famiglie romene presenti nel paese piena dignità alla loro lingua.

La questione naturalmente è molto delicata. C’è sempre il pericolo dell’esotismo e del paternalismo, e spesso bambine e bambini appartenenti a famiglie immigrate non amano che siano rimarcate le loro differenze, anche linguistiche, perché sanno sulla loro pelle quante volte la percezione delle differenze scivola in forme evidenti o nascoste di discriminazione.

Se assumiamo tuttavia la compresenza in classe di memorie che attingono a universi linguistici diversi e lontani come possibilità di arricchimento culturale per tutti le cose possono cambiare. E poiché la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma di creazione di mondi, e traccia viva dei diversi modi di abitare e di convivere, ecco che si aprono campi di ricerca che possono appassionare e mettere in moto piccoli e grandi.

Ngũgĩ wa Thiong’o, grande scrittore keniano che ha pubblicato i suoi primi romanzi in inglese, a un certo punto decise di tornare alla sua lingua madre scrivendo in gikuyu. A chi lo criticava, sostenendo che la sua lingua era capita da pochi, rispondeva citando Dante, a cui fu rimproverato di rinunciare all’immortalità, scrivendo la sua Commedia in italiano: «La lingua gikuyu per me è come latte materno di cui non posso fare a meno».

Dal punto di vista linguistico nelle famiglie immigrate succede di tutto. Ci sono a volte madri che vivono gran parte del loro tempo isolate in casa, che non parlano quasi l’italiano ma che più o meno lo capiscono, perché i loro figli si rivolgono a loro nella lingua dei compagni, della scuola e del gioco. Ci sono bambine e bambini a cui a volte è cambiato il nome, sostituito per precauzione con uno italiano, sospettando che gli italiani difficilmente compiranno lo sforzo di chiamarli per esempio con il loro nome cinese. La doppia appartenenza è così sancita addirittura da nomi diversi, impiegati in contesti diversi, che può generare scissioni di cui non abbiamo ancora piena consapevolezza.

Il poliglottismo in molti paesi del sud del mondo è la norma, per via di secoli di colonizzazione e per i continui spostamenti di popolazioni. Raccontando di un suo incontro con Ivan Illich, Alexander Langer ha appuntato queste sue frasi intorno a cui sarebbe interessante riflettere e discutere: «Ricreare un’aura di convivenza, di tolleranza dell’alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche. Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall’intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli. Le lingue sono molte di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell’economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo».

C’è ancora molto lavoro da fare perché tutte le lingue madri trovino un loro posto nella scuola, nonostante sia evidente che costituiscano ponti indispensabili per una comprensione reciproca più aperta e profonda. Tutto deve partire dalla curiosità di noi insegnanti, che dovremmo sempre coltivare attenzione verso il mondo intimo e spesso nascosto delle bambine e dei bambini a cui insegniamo.


(Internazionale.it, 21 febbraio 2024)

di Annalisa Savino*


Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci” – Firenze, 21 febbraio 2024


Il 18 febbraio 2024, davanti al liceo classico “Michelangiolo” di via della Colonna a Firenze, sei membri del gruppo di destra Azione studentesca estranei alla scuola si sono presentati a volantinare e hanno aggredito a calci e pugni due studenti appartenenti al collettivo SUM (Studenti Uniti Michelangiolo), che contestavano verbalmente il volantinaggio. La polizia è intervenuta e ha identificato gli aggressori, avviando una procedura giudiziaria per manifestazione senza preavviso e violenza privata. Tutte le forze politiche hanno condannato l’azione. Di seguito la lettera con cui la dirigente scolastica di un altro liceo fiorentino commenta gli eventi, che è stata fatta circolare sui social.


Comunicazione n. 197 del 21 febbraio 2024


Agli studenti


e p.c. alle loro famiglie, ai docenti, ai DSGA e al personale ATA


Cari studenti,

in merito a quanto è accaduto lo scorso sabato davanti al Liceo “Michelangiolo” di Firenze, al dibattito, alle reazioni e alle omesse reazioni, ritengo che ognuno di voi abbia già una sua opinione, riflettuta e immaginata da sé, considerato che l’episodio coinvolge vostri coetanei e si è svolto davanti a una scuola superiore, come lo è la vostra. Non vi tedio dunque, ma mi preme ricordarvi solo due cose.

Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti. «Odio gli indifferenti», diceva un grande italiano, Antonio Gramsci, che i fascisti chiusero in un carcere fino alla morte, impauriti come conigli dalla forza delle sue idee.

Inoltre siate consapevoli che è in momenti come questi che, nella storia, i totalitarismi hanno preso piede e fondato le loro fortune, rovinando quelle di intere generazioni. Nei periodi di incertezza, di sfiducia collettiva nelle istituzioni, di sguardo ripiegato dentro al proprio recinto, abbiamo tutti bisogno di avere fiducia nel futuro e di aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza. Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illuderci che questo disgustoso rigurgito passi da sé. Lo pensavano anche tanti italiani per bene cento anni fa ma non è andata così.


(*) Dirigente scolastica del Liceo Scientifico Statale “Leonardo da Vinci”

di Antonella Nappi


Pierfrancesco Majorino ci invita a una conferenza sulla salute a Milano. Scrive a me nei giorni in cui ho subito, coatta in casa, un inquinamento molto molto grave per la mia salute.

Ai convenuti alla conferenza dico: sapete bene che l’aria molto inquinata fa soffrire le persone e può anche farle morire. È tortura superare per giorni i livelli indicizzati di inquinamento, e ancor più crudele è accettare pur prevedendoli superamenti così alti delle soglie. Il bruciore delle vie respiratorie, la febbre, la tosse, la paura di non superare la notte, l’impossibilità di avere speranza per il futuro sono torture programmate, ripetute da anni a Milano. I benestanti vanno spesso in seconde case fuori città, dunque la tutela che i politici devono garantire è alle persone comuni, che forse non frequentano. 

Da sessant’anni si conosce la situazione climatica di Milano, gli studi della Provincia ne dimostravano la mortalità e la morbilità già dagli anni ’50. Milano è una città che doveva rimanere piccola, poco densa di abitanti e immersa nel verde. Così come la provincia e buona parte della regione.

Non so dire da quando un politico per candidarsi in Lombardia e a Milano avrebbe dovuto comprendere e occuparsi per prima cosa dei limiti dell’ambiente per la salute degli abitanti, ma certo ormai da molti anni. Far finta che la tortura non ci sia, che l’unico argomento da trattare sia l’utilizzo economico del luogo, fa di ogni partito oggi ormai da tempo lo stesso torturatore.

È un’economia appropriata ai luoghi che dovrebbe illuminare i partiti umani; molte associazioni colte e associazioni popolari si sono fatte interlocutrici politiche umane. Ci vuole una rottura umana, nella politica degli uomini tra loro, perché manca. Ci vogliono donne parlanti da donne che li facciano ragionare. Dati sulla morbilità che li facciano ragionare di prevenzione primaria, ormai immediata.


(www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2024)

Editoriale di Haaretz


La decisione di imporre restrizioni ai musulmani che vanno a pregare presso la Moschea di Al-Aqsa durante il Ramadan è la più pericolosa che questo orribile governo abbia preso da quando è iniziata la guerra.

Il Ramadan, che inizia il prossimo mese, avrebbe potuto essere un’ottima opportunità per dimostrare che i portavoce di Hamas mentono e che la guerra di Israele è contro Hamas, non contro l’intero popolo palestinese o contro tutti i musulmani. Era un’opportunità per smentire la propaganda di questa organizzazione terroristica secondo cui Israele intende colpire la libertà di culto musulmano sul Monte del Tempio (noto anche come Al-Aqsa) e cambiare lo status quo nel territorio, oltre che un’opportunità per operare una distinzione tra Hamas e gli arabi in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Israele.

Ma questo governo, il peggiore nella storia di Israele, è controllato dall’attivista del Monte del Tempio Itamar Ben-Gvir e guidato da un politico fallito la cui visione ha portato Israele sull’orlo dell’abisso. Di conseguenza, non solo sta perdendo questa occasione, ma sta usando il Ramadan come opportunità per gettare più benzina sul fuoco del conflitto con i palestinesi.

Durante la riunione del gabinetto di guerra di domenica, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ancora una volta “ceduto” ai capricci del Ministro della Sicurezza Nazionale Ben-Gvir. A giudicare da un riassunto della discussione, sembra che la polizia intenda limitare severamente l’ingresso dei fedeli musulmani ad Al-Aqsa durante il Ramadan, compresi i cittadini arabi di Israele.

Questa decisione è stata presa nonostante l’esperienza passata mostri che limitare l’accesso al Monte durante il Ramadan quasi sempre comporta un alto prezzo in termini di sicurezza. Dal punto di vista dei palestinesi, la decisione è un’ulteriore prova della minaccia al loro status nel loro luogo più sacro. La decisione è stata presa in barba alle posizioni delle Forze di Difesa Israeliane e del servizio di sicurezza Shin Bet, che sostenevano entrambi che le restrizioni avrebbero potuto accendere ulteriori fronti di conflitto a Gerusalemme, in Cisgiordania e nelle città miste ebraico-arabe all’interno di Israele. La decisione è stata presa anche contro le obiezioni dei consulenti legali, che hanno fatto notare che c’è un problema costituzionale nell’imporre ampie restrizioni alla libertà di culto dei cittadini israeliani.

Secondo lo status quo che Netanyahu stesso ha confermato più volte, solo i musulmani possono pregare sul Monte del Tempio. Di conseguenza, l’argomento che anche la libertà di culto degli ebrei è limitata è falso, persino spregevole. Questa pericolosa decisione segue la decisione di non permettere ai lavoratori palestinesi della Cisgiordania di tornare a lavorare in Israele e la chiusura dei cancelli del Monte del Tempio a migliaia di fedeli musulmani ogni venerdì. Netanyahu non gode più della presunzione di ignoranza o di un errore di giudizio. Nel migliore dei casi, ha preso questa decisione per motivi estranei agli interessi nazionali di Israele, ovvero la preoccupazione per la stabilità della sua coalizione di governo. E nel peggiore dei casi, l’ha presa per estendere e radicalizzare la guerra, posticipando così il giorno della resa dei conti dopo la guerra.


Questo articolo è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sui giornali in Israele, in ebraico e inglese.


(www.haaretz.com, 20 febbraio 2024)

Versione inglese

di Marina Terragni


Ospedale californiano. Il ragazzino ha undici anni, maglietta rosa, capelli lunghi. L’annuncio della dottoressa è solenne: non dovrai più aspettare per essere una bambina. Con un’iniezione nel braccio somministra la prima dose di puberty blocker per fermare il suo sviluppo sessuale maschile. Madre raggiante, dolore e terrore sul viso del bambino. La voce fuori campo commenta: «Si apre un nuovo capitolo nella sua vita di ragazza». Feroci le reazioni al video su TikTok e X: «State assistendo a uno dei più grandi scandali della storia della medicina. Migliaia di ragazzini a cui viene venduta la balla di essere nati nel corpo sbagliato», una cosa pari solo alla lobotomia negli USA anni Cinquanta. Un crimine contro un’intera generazione. Per quella madre radiosa qualcuno ipotizza la sindrome di Münchhausen per procura, condizione psichiatrica per la quale qualcuno provoca sintomi a un figlio o li massimizza per attirare l’attenzione su di sé.

La “terapia affermativa” per i bambini con disforia di genere è stata inventata in Olanda a metà anni Novanta e poi esportata in tutto il mondo. Intorno ai 9-11 anni la pubertà viene “bloccata” con triptorelina, farmaco normalmente utilizzato per cancro alla prostata, carcinoma mammario e altre patologie; a 16 si passa agli ormoni cross-sex (testosterone ed estrogeni) e alla chirurgia: ma negli USA la doppia mastectomia è stata praticata anche su bambine di tredici anni. 

Il “protocollo olandese” è questo, e per anni qualunque cosa tu avessi da dire eri transfobico e fascista. Almeno finché la bomba non è scoppiata proprio nei paesi pionieri del trattamento, Regno Unito, Grande Nord, la stessa Olanda, una trentina di stati USA, ultimo il New Hampshire, Australia, Nuova Zelanda. In questi giorni la discussione si sta aprendo anche in Canada, roccaforte della terapia affermativa: quel trattamento è sperimentale, non ci sono prove che migliori il benessere dei bambini, gli effetti collaterali sono pesanti e irreversibili. Perfino il “New York Times”, dopo avere perseguitato per anni JK Rowling e giubilato varie firme “resistenti”, dedica una fluviale e compassionevole inchiesta al dramma dei detransitioner, ragazze/i farmacologizzati fin da bambini che si pentono e provano a tornare indietro, temibili contro-testimonial della terapia affermativa.

In Italia la triptorelina si usa per la disforia dei minori dal 2019. Di questi cinque anni non si sa nulla: numero dei pazienti trattati, modalità di trattamento, esiti delle “terapie”. Dalla recente ispezione al Careggi, eccellenza tra la ventina di centri italiani dedicati, trapelano notizie preoccupanti: almeno in alcuni casi il farmaco sarebbe stato somministrato senza la preliminare psicoterapia indicata dalle raccomandazioni. Psicoterapia che non serve, secondo Jiska Ristori, psicologa del centro, visto che ai bambini cisgender «non viene richiesta per definire la propria identità di genere».

Nemmeno gli olandesi la pensano come Ristori. Loro, gli inventori della terapia. È appena passata in parlamento una mozione in cui si richiede una ricerca indipendente sul “protocollo”. Il documentario “The Transgender Protocol” realizzato da Zembla, una specie di Report molto woke, ammette falle strutturali negli studi su cui si è fondato il modello terapeutico. «Siamo completamente all’oscuro» ha affermato Gerard van Breukelen, metodologo della ricerca dell’Università di Maastricht. Un altro studioso che preferisce restare anonimo dice che la ricerca olandese «non costituisce una base solida per eseguire interventi radicali e non reversibili». Hanneke Kouwenberg, esperta in transizione, sostiene che l’unica vera cura per la disforia dei bambini è la “desistenza”, cioè dargli il tempo per fare pace con il proprio sesso biologico. Succede in 8 casi su 10. Lo dice anche la Società Italiana di Pediatria: solo nel 12-27 per cento dei casi la disforia permane nel passaggio all’adolescenza.

«Nessun intervento medico produce un corpo del sesso opposto» conclude Kouwenberg. «Gli interventi chirurgici sono solo estetici, volti a migliorare la disforia, e dovrebbero essere classificati come cure palliative. Ma la narrazione ha fatto passare la terapia affermativa come prevenzione del suicidio senza che ci fossero prove concrete della sua validità».

Rischio-suicidio che, come vedremo, è il punto della questione.

Un altro punto è che la disforia ha cambiato sesso: oggi in 8 casi su 10 si tratta di ragazze quasi sempre con gravi disturbi psichiatrici, popolazione del tutto diversa da quella degli anni ’80 e ’90, maschi adulti MtF, da uomo a donna. Nel 2018 la Tavistock Clinic di Londra ha registrato un aumento del 4400 per cento di richieste da parte di ragazze rispetto al decennio precedente. Anche WPATH, associazione mondiale per la salute transgender, ammette che «la popolazione è cambiata drasticamente», il che cambia drasticamente anche lo statuto della questione trans. Gli studi olandesi si erano concentrati sul classico paziente maschio con disforia fin dalla prima infanzia. Anche i principi di Yogyakarta che dal 2006 informano le politiche trans in tutto il mondo sono stati tagliati su questi soggetti. Oggi invece si tratta quasi sempre di ragazze colpite da quella che la ricercatrice americana Lisa Littman ha definito disforia di genere a insorgenza rapida (ROGD): di punto in bianco, nel momento della pubertà, queste ragazze dicono di essere uomini. L’influenza sociale è fortissima, online o da parte dei pari, contagio social che è stato ammesso perfino dal presidente di Wpath Marci Bowers. Per la cronaca, Bowers è la chirurga trans nota per avere operato in diretta tv Jazz Jennings, supertestimonial dei baby trans e protagonista del reality “I’m Jazz”. Oggi di Jazz non si parla più volentieri, è drammaticamente obesa e afflitta da disturbi psichiatrici.

Regno Unito, altra nazione “pentita”. Psichiatra e psicoanalista, ex-presidente della British Psychoanalytic Society, David Bell è stato decano del servizio per minori disforici alla Tavistock Clinic di Londra e fan sfegatato di Corbyn, mica uno sporco fascio. Nel 2018 lancia l’allarme. Molti medici del servizio erano andati a confidargli le loro angosce: i pazienti erano anche molto piccoli (perfino, si è appreso in seguito, 70 bambini sotto i cinque anni) e venivano indirizzati rapidamente al farmaco. Quasi sempre c’era la compresenza di disturbi psichiatrici. Bell compila un rapporto ma i dirigenti della Tavistock non la prendono bene, gli appioppano un provvedimento disciplinare, lui si dimette. Quei trattamenti, dice, sono una vera e propria terapia di conversione praticata sui minori gay e lesbiche. La pressione dei transattivisti di Stonewall e Mermaids è fortissima e Bell si è detto scioccato dalla riluttanza della sinistra a confrontarsi con questi temi “per mostrarsi liberal”.

Nel 2022 il servizio della Tavistock viene chiuso in seguito a un’inchiesta indipendente affidata dal governo britannico alla presidente dei pediatri Hilary Cass. Hannah Barnes, giornalista BBC, ha seguito attentamente la vicenda e ci ha scritto un libro, “Time to Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children”: secondo The Times fra i migliori pubblicati nel 2023, ma trovare un editore era stato un vero inferno, nessuno voleva passare per transfobico.

Le preoccupazioni sulla Tavistock erano note già dal 2016, prima della denuncia di Bell: un rapporto del direttore medico del servizio, David Taylor, avvisava che gli effetti a lungo termine dei blocker «non erano testati né studiati». Ma il servizio non si è mai fermato, tutt’altro: se nel 2009 c’erano state 97 richieste, nel 2020 sono diventate 2.500 con altri 4.600 in lista d’attesa. I medici erano sovraccarichi ma c’era una forte pressione per aumentare gli accessi offrendo valutazioni più brevi e meno approfondite. Secondo David Bell il trust spingeva il servizio anche perché garantiva un quarto delle entrate di tutta la Tavistock.

I piccoli pazienti provenivano da famiglie disfunzionali o avevano problemi di salute mentale. Nel team girava una battuta da brividi: «A questo ritmo di gay non ne rimarranno più». In molti casi le bambine e i bambini preferivano pensarsi come “intrappolati nel corpo sbagliato” piuttosto – “che schifo!” – che come gay e lesbiche, omofobia interiorizzata nutrita da tante famiglie. Come in Iran, dove se sei gay ti appendono ma se ti operi tutto bene. «La grande maggioranza dei giovani in terapia farmacologica irreversibile è attratta dallo stesso sesso» confermano dall’associazione LGB Alliance. «Si tratta di una moderna terapia di conversione per gli omosessuali».

Svezia. Nel 2022 il principale centro per i minori con disforia, il Karolisnka Institute di Stoccolma, chiude dopo l’ammissione di avere danneggiato con i blocker almeno una dozzina di bambini sottoponendoli al rischio di «gravi lesioni» a causa di trattamenti probabilmente errati e senza che le famiglie fossero adeguatamente informate. Caso più clamoroso quello della ragazza “Leo”, trattata dall’età di undici anni. Quattro anni dopo aveva sviluppato osteoporosi, alterazioni vertebrali e soffriva di dolori alla schiena e all’anca come una vecchietta. Leo non avrebbe mai dovuto essere sottoposta a blocco della pubertà. Si sarebbe dovuto tenere conto, dice lo staff medico, dei suoi problemi psichici, dei tentativi di suicidio, del fatto che non era convinta. Oggi in Svezia la prima istanza per i minori con disforia è il trattamento psicologico. 

Finlandia. Riittakerttu Kaltiala, primaria di psichiatria dell’adolescenza all’Ospedale di Tampere, nel 2011 viene messa a capo del servizio di identità di genere per i minori. Oggi Kaltiala, probabilmente tra i maggiori esperti al mondo, è in prima linea contro la terapia affermativa. Conferma che le ragazze erano quasi tutte affette da gravi disturbi mentali e che facevano rete per scambiarsi informazioni su come parlare con i medici per ottenere la terapia: «Abbiamo avuto la prima esperienza di contagio sociale». «Ma il miracolo promesso» dice «non si realizzava. Le giovani che stavamo curando non prosperavano. Al contrario, le loro vite deterioravano. Si ritiravano da tutte le attività sociali. Non facevano amicizie. Non andavano più a scuola».

Nel 2020 il Cohere, massima autorità sanitaria finlandese, ha pubblicato le nuove raccomandazioni: «Alla luce delle prove disponibili, la riassegnazione di genere dei minori è una pratica sperimentale» si dice. «La prima linea di trattamento per la disforia di genere è il supporto psicosociale e, se necessario, la psicoterapia» in quanto «la riduzione dei sintomi psichiatrici non può essere raggiunta con gli ormoni». Stop anche agli interventi chirurgici sui minori.

Le testimonianze dei detransitioner sono state decisive. Non si sa quanti siano, tante/i fra loro smettono di prendere i farmaci senza avvisare il medico che li ha prescritti. Secondo un sondaggio pubblicato da “Archives of Sexual Behaviour” la maggioranza tra loro (55 per cento) pensa di non aver ricevuto una valutazione adeguata prima di iniziare la transizione.

In Svezia lo scandalo scoppia proprio in seguito a un’inchiesta shock della tv pubblica, “Trans Train”, storie di ragazze con la barba, la voce maschile, i tratti deformati dal testosterone. Vituperate, censurate, ostracizzate, perseguitate dai transattivisti, le detrans hanno lottato duramente per prendere parola. «Sono stata accusata più volte di essere una persona di destra che crea una falsa narrazione per screditare le persone trans» dice al NYT la detransitioner Grace Powell. «Quello che dovrebbe essere un problema medico e psicologico si è trasformato in un problema politico. Un casino».

Negli USA il problema è politico da anni, a partire dalle bathroom war durante la presidenza Obama. Il presidente aveva sostenuto il diritto degli studenti a scegliere bagni e spogliatoi in base all’identità percepita. Trump aveva cambiato musica, ma uno dei primissimi executive order del suo successore Joe Biden ha riguardato proprio i giovanissimi trans. Biden ha anche nominato la trans Rachel L. Levine sottosegretario alla salute. La maggioranza degli americani di ogni parte politica «vorrebbe superare le guerre culturali sul tema e tornare alla ragionevolezza» sostiene il NYT, ma in campagna elettorale la faccenda resta rovente. È nata anche l’associazione DIAG – Democrats for an Informed Approach to Gender – per dare voce a quei liberal che chiedono alla sinistra di «rompere l’incantesimo gender».

C’è una detrans, Keira Bell, anche dietro allo stop per la Tavistock. «Ero una ragazza infelice che aveva bisogno di aiuto, e mi hanno trattata come una cavia». Alle soglie della pubertà la piccola tomboy cade in depressione, non va più a scuola, diventa una Hikikomori. Scopre di essere attratta dalle ragazze. «Mia madre mi ha chiesto se volessi diventare un ragazzo: non ci avevo mai pensato fino a quel momento». Alla Tavistock le danno i blocker. Keira ha quindici anni e si ritrova in «una specie di menopausa con vampate di calore, sudori notturni e annebbiamento mentale. Ma io volevo sentirmi come un uomo giovane, non come una vecchia signora». Seguono testosterone e doppia mastectomia. «Crescendo mi sono resa conto che la disforia di genere era un sintomo del mio malessere, non la sua causa». Keira fa causa al servizio sanitario nazionale e vince. L’appello mitiga la vittoria, ma Tavistock chiude, la vittoria più grande è questa.

«Non volevo diventare un uomo, avevo solo paura di diventare una donna» dicono invariabilmente le detrans. «Non ero io a essere sbagliata, sbagliato è come il mondo tratta le donne». Una fuga dalla differenza femminile (“la casa in fiamme” l’ha chiamata qualcuna) per poter essere libere. Oggi la questione trans è soprattutto questo, e ha molto a che vedere con la tenace maschilità del mondo.

Ma cosa fareste voi al posto dei genitori di una ragazza disforica se vi sentiste dire «Preferite una figlia morta o un figlio vivo?».

Kaltiala dice che troppo spesso i medici prospettano alle famiglie l’alternativa terrorizzante: farmaci o suicidio. Una madre descrive al NYT l’incontro con lo specialista: «È stato breve ed è iniziato in modo scioccante. Davanti a mio figlio il terapeuta ha detto: “Vuoi un figlio morto o una figlia viva?”». Ma «pediatri, psicologi e altri medici che dissentono dall’ortodossia ritenendo che non sia basata su prove affidabili si sentono frustrati dalle loro organizzazioni professionali». Spesso vengono minacciati dai transattivisti, come racconta Stephanie Winn, terapeuta dell’Oregon messa sotto inchiesta dal suo board. Oggi lavora solo online per non farsi trovare dai suoi persecutori.

Tamara Pietzke, psicoteraputa di Puget Sound, Washington, ha raccontato a The Free Press che i suoi superiori l’hanno invitata a smetterla di discutere e avviare immediatamente la transizione medica di una tredicenne autistica con tendenze suicide e una storia di abusi sessuali. Pietzke si è dimessa.

Eppure, dice Kaltiala «ricerche accurate dimostrano che il suicidio è molto raro. È disonesto e immorale fare pressione in questo modo sui genitori». «Ogni revisione sistematica delle prove fino ad oggi» scrive in una lettera insieme ad altri colleghi «compreso uno studio pubblicato sul Journal of the Endocrine Society, ha offerto prove con una certezza bassa o molto bassa dei benefici per la salute mentale degli interventi ormonali per i minori. La transizione di genere ci è sfuggita di mano. Qualcosa è andato molto storto».

Non esistono studi attendibili a supporto della tesi che la terapia affermativa prevenga il suicidio. Insieme a Kenneth J. Zucker, Stephen B. Levine è il decano degli psichiatri americani esperti di transizione. È stato presidente della 5a edizione degli standard di cura dell’Associazione internazionale per la disforia di genere e ha fatto parte del tavolo sui disturbi dell’identità di genere per il DSM-IV dell’American Psychiatric Association. Levine è netto: «Nessuno studio mostra che l’affermazione dei bambini riduce il suicidio rispetto a un modello di risposta di “attesa vigile” o psicoterapeutico… i dati disponibili ci dicono che il suicidio tra bambini e ragazzi che soffrono di disforia di genere è estremamente raro». E ancora: «la popolazione che si identifica come transgender soffre di un’alta incidenza di comorbilità correlate al suicidio. Ciò dimostra che ha bisogno di un’ampia e attenta assistenza psicologica, che in genere non riceve, e che né la transizione ormonale né quella chirurgica né l’affermazione risolvono i problemi di fondo».

Uno dei bias più frequenti è che nel concetto di suicidalità vengono incluse sia le intenzioni suicidarie sia i tentativi di suicidio. Ma i fatti dicono che la percentuale di adolescenti disforici morti per suicidio è lo 0,03 per cento (“Suicide by clinic-referred transgender adolescents in the United Kingdom”, 2022). Anche l’NHS, il servizio sanitario UK, afferma che «il suicidio è estremamente raro». Uno studio olandese realizzato su un periodo di osservazione molto lungo (1972-2017, “Trends in suicide death risk in transgender people: results from the Amsterdam Cohort of Gender Dysphoria Study)” stima che il tasso di suicidio nei transgender è di 3-4 volte superiore a quello della popolazione generale, ma l’anoressia moltiplica il rischio di 18 volte, la depressione di 20, l’autismo di 8, e come sappiamo queste comorbilità sono frequenti nei minori con disforia.

Un recentissimo studio americano (Williams Institute della UCLA School of Law, “Prevalence of Substance Use and Mental Health Problems among Transgender and Cisgender US Adults”, agosto 2023) dimostra piuttosto – e purtroppo – un incremento di suicidi tra le persone che hanno perfezionato la transizione con la chirurgia: il 42 per cento degli adulti trans ha tentato il suicidio rispetto all’11 per cento degli adulti cis; per l’autolesionismo le rispettive percentuali sono 56 per cento e 12 per cento.

Ma in Italia non si smette di agitare il rischio suicidio e di parlare della triptorelina come “salvavita”. In risposta all’ispezione al Careggi e all’intenzione dei Comitato Nazionale di Bioetica di riaprire la discussione sul farmaco (annunciata al Foglio dal presidente Angelo Vescovi) una dozzina di società scientifiche, la più importante tra le quali la Società Italiana di Endocrinologia (SIE) sostiene che la triptorelina «riduce del 70 per cento la possibilità di suicidio» tra i minori con disforia. II blocco della pubertà continua a essere definito «transitorio e reversibile» mentre la pratica clinica e svariati studi dimostrano il contrario: gli effetti della tritptorelina non sono affatto transitori e reversibili. Secondo una ricerca pubblicata dal “British Medical Journal” a sedici anni, età in cui si passa agli ormoni cross-sex, nelle bambine e nei bambini si osserva una crescita ridotta dell’altezza e della forza ossea. In un articolo pubblicato dalla rivista dell’Endocrine Society si afferma che per la pubertà ritardata con i blocker valgono gli stessi rischi per la salute connessi alla pubertà tardiva fisiologica: osteoporosi, obesità, diabete di tipo 2, problemi cardiovascolari e di salute mentale.

«L’uso di bloccanti della pubertà e la terapia ormonale» è scritto nel documento della commissione d’inchiesta per il Servizio Sanitario e Assistenziale norvegese «sono trattamenti parzialmente o completamente irreversibili». Perfino l’OMS, che ha istituito un tavolo per nuove linee guida sulla salute transgender, è stata costretta a precisare che non si occuperà di minori in quanto «la base di prove per bambini e adolescenti è limitata e variabile per quanto riguarda i risultati a lungo termine».

Eppure l’Osservatorio italiano sulla Medicina di Genere, organo dell’Istituto superiore di Sanità, continua a considerare il trattamento «completamente reversibile». Idem la Società Endocrinologica Italiana. Anche la Società Italiana di Pediatria ha sempre parlato di «dimostrata completa reversibilità dei sospensori puberali». Però stavolta la sigla (SIP) non partecipa all’alzata di scudi in difesa della terapia affermativa: forse anche tra i pediatri italiani cominciano a circolare seri dubbi.

Maura Massimino dirige il reparto di oncologia pediatrica all’Istituto dei Tumori di Milano ed è stata la prima – e per lungo tempo l’unica – pediatra a esporsi contro la somministrazione di triptorelina ai bambini incerti sul genere. Ha pratica con quel farmaco, nel suo reparto capita di doverlo somministrare a piccoli pazienti che sviluppano pubertà precoce in seguito alle terapie per il tumore e gli effetti collaterali le sono ben noti: «Bloccare la pubertà è come mimare la menopausa» dice. «Nel caso dei pazienti oncologici la valutazione costi-benefici può giustificare la somministrazione. Ma in quello di bambini fisicamente sani è come dare insulina a chi non ha il diabete. Tutta questa storia è partita come un’emergenza, in mancanza di un’adeguata riflessione e di linee guida sensate».

Giuseppe Chiumello, padre dell’endocrinologia pediatrica, è in linea con Massimino: «I centri che hanno diagnosticato e seguito questi casi non hanno pubblicato le loro esperienze: vanno obbligatoriamente istituiti un Registro Nazionale, centri regionali autorizzati alla prescrizione, una commissione regionale che discuta di ogni caso dopo presentazione di una relazione clinica».

Non hanno dubbi sul fatto che «qualcosa è andato molto storto» gli psicoanalisti della SPI che un anno fa in una lettera indirizzata a Giorgia Meloni a firma del presidente Sarantis Thanopulos hanno espresso «grande preoccupazione per l’uso di farmaci finalizzato a produrre un arresto dello sviluppo puberale». Discussione aperta anche tra gli psicoterapeuti SITCC, la maggiore società di psicoterapia in Italia, che al tema dedicherà il suo prossimo congresso.

Ma c’è dell’altro: più o meno nello stesso periodo – dal 2010 – in cui si è cominciato a registrare un aumento epidemico dei casi di minori con disforia, negli Stati Uniti, in UK e verosimilmente in molti altri paesi occidentali si è verificata una crescita esponenziale dei disturbi mentali tra gli adolescenti: depressione, ansia, deficit di attenzione, iperattività (ADHD), autolesionismo, tentati suicidi. Secondo recentissimi dati del servizio sanitario britannico il numero di bambini inglesi indirizzati ai servizi di salute mentale di emergenza è aumentato del 50 per cento in tre anni: una «devastante esplosione».

Lo psicologo statunitense Jon Haidt si occupa da anni dell’effetto dei social sulla salute mentale di bambini e adolescenti e ha pubblicato i risultati della sua ricerca in documento intitolato “I disturbi dell’umore negli adolescenti dal 2010: Una revisione collaborativa”. Nelle ragazze -visto che si tratta soprattutto di loro- l’aumento della disforia e dei problemi mentali, condizioni quasi sempre compresenti, potrebbe essere legato a un insostenibile disagio per il proprio corpo in maturazione reso oggi più acuto dai modelli irraggiungibili proposti dai social, corpi iper-sessualizzati e innaturali spesso modificati da chirurgia e filtri. Mark Zuckenberg si è recentemente scusato davanti al Congresso Usa per i danni causati ai bambini dalle sue piattaforme, bullismo, abusi sessuali, sfruttamento e via dicendo: forse dovrebbe scusarsi anche per questo.

Sulla questione della salute mentale della generazione Z e successive sono in uscita negli USA ben tre saggi: Jonathan Haidt, “The Anxious Generation”; Logan Lancing, “The Queering of the American Child – How a New School Religious Cult Poisons the Healthy Minds and Bodies of Normal Kids”; Abigail Shrier, “Bad Therapy – Why the Kids aren’t Growing Up”.

Si tratta di amarli di più, bambine e bambini, che restino liberi di significare la propria unicità e differenza rompendo la gabbia angusta degli stereotipi di genere. Non c’è alcun bisogno di medicalizzarsi a vita. La libertà non si compra da Big Pharma.


(Il Foglio, 19 febbraio 2024)

di Luca Bergamaschi


Sabato 17 febbraio 2024 ci ha lasciato Flora De Musso che per tanti anni è stata impegnata in Libreria delle donne dando vita insieme ad altre al gruppo insegnanti, e ha curato l’archivio della Libreria con Luca Bergamaschi che ci ha mandato questo ricordo.


Quando entrai nella scuola come insegnante, quasi cinquant’anni fa, ero da poco laureato in filosofia, pieno di “brillanti” idee e fermamente intenzionato a riempire la testa dei miei studenti e delle mie studentesse di tutto quello che avevo imparato. Ero giovane, sapevo parlare e mi veniva facile imporre anche una certa autorità. Insegnavo storia e filosofia nei licei e, in quegli anni di furibonde contestazioni, il solo fatto di essere accettato dalle classi mi illudeva di essere un bravo docente. Poi passai a insegnare lettere in scuole medie di periferia e in Istituti Tecnici, con davanti ragazzi e ragazze il cui unico scopo sembrava quello di sopravvivere alle cinque ore di lezione. Le mie certezze andavano sgretolandosi e iniziavo a rendermi conto che la trasmissione della conoscenza non era forse l’obiettivo primario del mio stare a scuola. Ero in piena crisi, complicata dalla perenne precarietà del mio posto di lavoro.  
Ma poi nella scuola ho incontrato delle donne. Ho conosciuto anche tanti insegnanti maschi, alcuni pure molto bravi, ma sono state le donne a darmi una nuova coscienza e una nuova prospettiva. È con loro che ho iniziato a capire che quello che conta non è tanto la trasmissione del sapere quanto la relazione entro cui si colloca quella trasmissione. Entrare in relazione con ragazzi e ragazze, senza confusione dei ruoli, ma con la maggiore attenzione possibile alla persona; questo è quello che mi hanno insegnato le donne. La prima è stata Lia Giordano, un’insegnante eccezionale alle medie. Poi ne ho conosciute tante altre. Con Gabriella Lazzerini avevo un rapporto speciale, legato al fatto di essere entrambi insegnanti di lettere e al nostro comune lavoro in biblioteca. Con lei sono arrivato alla Libreria delle donne e al Circolo della rosa. Con lei mi sono avvicinato alla politica della differenza, di cui non ho mai approfondito tutti gli aspetti teorici, ma di cui mi affascinava il desiderio di dare valore alle donne del presente e del passato, senza limitarsi al chiuso della lamentela e della rivendicazione.  
Con Gabriella è arrivato il mio rapporto con Flora, che ho conosciuto quasi quarant’anni fa, ma con cui ho avuto un rapporto privilegiato negli ultimi vent’anni. Non era stato facile entrare in relazione con lei quando eravamo insegnanti nella stessa scuola. Chiunque l’abbia conosciuta sa quanto potesse essere tagliente nel giudizio e apparentemente urticante. Noi maschi, in particolare, eravamo il suo bersaglio preferito.

Ma quando abbiamo iniziato a frequentarci, e soprattutto a lavorare insieme nell’archivio della Libreria, ho scoperto una Flora del tutto diversa. Raramente ho incontrato una persona di così grande generosità, sarcastica ma pronta a prestare attenzione per qualsiasi mio anche piccolo problema, capace di essere vicina senza leziosità, incisiva nel crearmi dubbi senza farmi sentire un idiota, sempre disponibile all’ascolto e sinceramente partecipe nei momenti di dolore e di difficoltà. Impossibile elencare tutto quello che mi ha insegnato, per esempio l’importanza del conflitto, a me tendenzialmente incline al compromesso e alla pavida conciliazione.

Non è e non sarà facile scendere nello scantinato della Libreria a riordinare e inventariare quei libri e quelle riviste che Flora mi ha fatto amare e su cui abbiamo passato ore e ore di lavoro e di chiacchiere. Lo farò in sua memoria e perché la sua opera non vada sprecata.

Senza indulgere al patetico, quanto di più lontano dal suo stile, voglio affermare con sicurezza che la sua vita ha avuto un grande valore: per tanti e tante che l’hanno conosciuta, per studenti e studentesse e certamente, nel mio piccolo, per me.

Con la sua forza di carattere e la sua combattività ha voluto essere protagonista della propria fine così come lo era stata della sua vita e ha scelto di accomiatarsi in modo fiero e orgoglioso. Io ho avuto il triste privilegio di restarle accanto fino al compimento del suo ultimo viaggio.


(www.libreriadelledonne.it,18 febbraio 2024)

di Cristina Piccino


Oksana Karpovych è nata a Kyiv, la sua biografia ci dice che vive fra la capitale ucraina e Montreal, dove si è laureata alla Concordia University in Film Production seguendo un’idea di ricerca che si concentra sulla vita quotidiana e sull’influenza dei cambiamenti politici nella sfera privata di ciascuno.

A partire da qui l’esigenza di lavorare sul conflitto nel suo Paese è del tutto coerente. Intercepted, come spiega lei stessa nella presentazione del film, nasce i primi giorni di guerra, mentre lavorava come producer per la crew di Al Jazeera in lingua inglese, cosa che le ha permesso di avere accesso a molti luoghi e di essere testimone delle violenze dei militari russi sul campo.

Nel frattempo i servizi segreti ucraini avevano reso pubbliche le intercettazioni delle telefonate dei soldati russi, per lo più conversazioni con le famiglie, e proprio da questo materiale si basa il film presentato nella selezione del Forum – da quest’anno diretto da Barbara Wurm. «Tra quelle telefonate e ciò che vedevo ogni giorno intorno a me c’era una enorme discrepanza, i russi sembravano molto più umani di come si comportavano con noi ucraini. Cercando una risposta ho provato a capire cosa c’è dietro questa invasione».

Quando ci incontriamo a Berlino Naval’nyj non era stato ancora ucciso e le notizie della ritirata ucraina a Avdiïvka, nel Donbass, di cui ci sono molte immagini nel film non erano ancora arrivate. Lei mentre parla spesso ha le lacrime agli occhi, e guardando Intercepted il paesaggio che attraversa, e che fa da controcampo alle conversazioni telefoniche dei soldati russi, restituisce una diffusa desolazione nella quale sembrano congelarsi i gesti anche più semplici del quotidiano. Le case saccheggiate, le campagne dove malgrado tutto i contadini continuano a mungere le mucche; i palazzi coi buchi dei proiettili e le strade che si spalancano su voragini. E una vita che scorre, malgrado tutto, con le persone sulla spiaggia o che fanno come possono le cose di sempre.

Se la guerra può essere più visibile o meno, le fratture che lascia sono oltre le sue evidenze nella violenza diffusa in cui sprofonda ciascuno. Le voci senza volto dei soldati russi dicono di una disillusione, della paura, del fatto che lì hanno trovato un paese “ricco” – e da casa gli chiedono di prendersi le New Balance e i vestiti per la palestra della figlia – dove la gente vive bene. Parlano di torture, morte, portano con sé l’indottrinamento del regime putiniano. C’è pure però chi rifiuta, chi è stanco; uno alla moglie chiede di promettergli che mai farà arruolare il loro figlio quando sarà cresciuto.

Come costruire allora la narrazione di una guerra, che come quella in Ucraina che è stata testimoniata, filmata, mediatizzata, e che specie nelle generazioni di artisti più giovani come è Oksana Karpovych, è un riferimento costante? «È per questo che sentivo il bisogno di realizzare le mie immagini. Dopo l’invasione ho deciso di rimanere in Ucraina, mi sono resa conto che quanto vedevo nei telegiornali e sui social media non restituiva ciò che stavamo vivendo».

Il punto di partenza per Intercepted sono le intercettazioni del servizio segreto ucraino che ha registrato le telefonate dei soldati russi. Come ha lavorato su questi materiali?

Ho iniziato ad ascoltare gli audio, erano accessibile in rete tranne qualche conversazione utilizzata nelle indagini sui crimini di guerra, che mi è stata mandata a montaggio quasi finito. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il film non avevo ancora sentito tutto, sapevo cosa mi interessava, ma dovevo ancora capire in che modo costruire la relazione fra le parole dei russi e le immagini dell’Ucraina. Non volevo che la parte visiva ne fosse un’illustrazione, avevo in mente più una giustapposizione ottenuta usando il suono. Ho scoperto che i russi non sanno molto dell’Ucraina, in tanti si dicevano sorpresi dalla qualità della vita nel nostro Paese; sembrano avere pochissimo accesso al resto del mondo, credo che subiscano un continuo lavaggio del cervello. Mi sembrava incredibile. Pian piano ho creato due realtà parallele in cui alle parole della guerra si contrapponevano le immagini di un tempo sospeso, scandito da una tensione costante. È stato un po’ come comporre un puzzle.

Come è stato per lei confrontarsi con le parole dei russi? Sembra mantenere una distanza.

La mia sfida è stata quella di lavorare su un processo parallelo fra le parole e le immagini. La distanza è parte del linguaggio, insieme a una certa neutralità del punto di vista, che è insieme molto soggettivo. Cerchiamo di non essere mai troppo vicini ai nostri soggetti, di non entrare nello spazio delle persone che è stato traumatizzato.

Per me ascoltare quei dialoghi è stato psicologicamente molto duro, il trauma che ho vissuto in Ucraina con la guerra si è amplificato nella crudeltà di quei dialoghi.

Non volevo però fare un film di propaganda, ho provato a guardare a quel materiale e un po’ alla guerra stessa come se fossi un osservatore, qualcuno che fa una ricerca. E senza manipolare gli audio. Potevo farne ciò che volevo, c’erano tanti modi di usarli ma da regista ho delle responsabilità; li ho lasciati come erano limitandomi a togliere le bestemmie.

Quanto la guerra ha cambiato la sua ricerca artistica, la sua visione delle cose?

La guerra in realtà c’è da dieci anni, è l’invasione russa che è iniziata due anni fa… A essere onesta non ho avuto un momento per fermarmi e riflettere, da allora a oggi ho lavorato a questo progetto che finalmente vede la luce.

Ho bisogno di tempo e di tranquillità per capire quello che è successo a me, cosa è cambiato. Dopo questo lavoro mi sento più motivata ad andare avanti, mi piacerebbe poter pensare a un processo di ricostruzione e di riconciliazione ma purtroppo non è così; non è tempo di riconciliarsi si deve ancora combattere.


(il manifesto, 18 febbraio 2024)

di Lucia Capuzzi


«La storia guarda alla Camera dei rappresentanti Usa. Un mancato sostegno all’Ucraina in questo momento critico non verrà mai dimenticato». La morte di Aleksej Naval’nyj era stata annunciata appena da qualche ora quando il presidente Joe Biden, nel commentare la notizia, ha colto l’ennesima occasione per chiedere al Congresso lo sblocco dei 60 miliardi di dollari per gli aiuti militari a Kiev. Lo stesso ha fatto, da Monaco, la vice Kamala Harris: non dare il via libera – ha dichiarato – sarebbe un «regalo a Vladimir Putin».

Parole simili a quelle impiegate da un buon numero di leader europei, a partire dal cancelliere tedesco Olaf Scholz. Volodymyr Zelensky, ovviamente, ha colto la palla al balzo per supplicare gli alleati di «non far vincere» Mosca. In quest’ottica – in sintonia con il segretario della Nato, Jens Stoltenberg – ha messo in relazione la penuria di armi e munizioni con i rovesci al fronte come l’esempio di Andiïvka, lasciata dall’esercito ucraino proprio nella notte tra venerdì e ieri, sembra confermare. Le affermazioni finora esposte contengono un’indubbia parte di verità.

A preoccupare, però, è “la parte mancante” di tali affermazioni. A quasi due anni dall’ingiusta aggressione russa all’Ucraina, i leader globali continuano a riproporre una strategia a senso unico, incapace – il tempo lo sta rivelando – di produrre risultati: o armi o Putin. Quasi che decenni di sforzi per la costruzione di un’architettura multilaterale non ci fossero mai stati.

La terza via – quella della diplomazia – non è semplicemente contemplata. Si potrebbe obiettare che è impossibile scendere a patti con il capo del Cremlino, sempre pronto all’esterno a farsi beffe del diritto internazionale e, all’interno, a impiegare il pugno di ferro con gli oppositori. Le organizzazioni multilaterali, tuttavia, sono state create proprio per far fronte all’arbitrio del singolo, leader o Stato.

I limiti nel loro funzionamento non ne giustificano l’archiviazione. Richiedono semmai l’urgente riforma. E soprattutto la volontà di immaginare e percorrere strade nuove. Un sogno ingenuo? Non più di quello di credere che l’attuale smania bellicista possa sciogliere gli intricati nodi del presente. Più che alla determinazione a trovare soluzioni, l’ansia della trincea sembra la reazione alla paura di fronte alla complessità di questo cambiamento d’epoca. Il terrore di una politica ostaggio dell’affanno delle risposte immediate, a portata di “like”. La diplomazia richiede spazio, tempo e coraggio. Il coraggio di accordi imperfetti. L’alternativa è la guerra. E dall’Ucraina a Gaza, passando per altri 182 Paesi lacerati, di conflitti ne abbiamo fin troppi.


(Avvenire, 18 febbraio 2024)

di Silvia Motta 


Sono tre parole che si rincorrono, talvolta si intrecciano, spesso si sovrappongono quando si parla di donne e di femminismo. Ma dicono cose diverse e sarebbe meglio usare un linguaggio di precisione per non annacquare, deviare o mistificare discorsi e significati.

Parità

Vuol dire fare il confronto tra due elementi o due entità e ritenerle perfettamente sovrapponibili. Direi che è un concetto quantitativo: pari grandezza, pari ampiezza, pari peso, pari valore monetario, ecc. Sarebbe piuttosto improprio dire pari sentimenti, pari emozioni, pari valori spirituali, pari atteggiamenti, pari amore, pari cultura ecc. Semmai si dice «stessi sentimenti, stessi valori, stesso amore, stessa cultura». Cioè qualcosa che assomiglia, ma non identico.

Nell’ambito del femminismo, specie quello che prende la scena attraverso i media (giornali, tv, rete) la parola parità trionfa in un perenne confronto frustrante con gli uomini e il mondo maschile. Si usa in maniera ossessiva la parola parità, si dice che le donne lottano per la parità.

Ma ecco qui la confusione.

Io penso che la grande parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne. E qui la cosa tra l’altro si complica perché le discriminazioni, nel mondo occidentale, sono in gran parte sottili. Ad esempio, pagare meno una donna è una disparità vietata dalla legge, ma gli escamotage escogitati per trasformare una retribuzione identica sulla carta ma minore nei fatti sono tanti: le donne spesso “scelgono” per necessità di fare il part-time, possono fare pochi straordinari perché devono tuffarsi a casa dove hanno il secondo lavoro, non godono di quegli speciali benefit che sono legati proprio all’orario pieno o alla possibilità di fare tardi la sera.

In fondo la lotta più cristallina per la parità sta in un “togliere” per fare spazio al nuovo. Togliere le discriminazioni sancite nelle leggi e stampate nella psiche e nei cuori per introdurre nuovi punti di vista.

Non a caso i migliori frutti del movimento femminista degli anni ’70 si sono tradotti in conquiste che toglievano ostacoli e ingiustizie riservate esclusivamente alle donne (negli studi, nelle carriere pubbliche e private, nella gestione della famiglia). Cioè sancivano che gli uomini non possono continuare a comportarsi come avevano fatto per secoli. Così è stato abolito il delitto di onore, il reato di adulterio, lo stupro è diventato un delitto verso la persona non contro la morale, è stato eliminato il pater familias (così ben rappresentato nel film di Cortellesi).

Le nuove leggi che ne sono seguite sono state, in molti casi, il necessario intervento finalizzato ad esplicitare i diritti mancanti che il togliere aveva evidenziato (il divorzio, la non penalizzazione dell’aborto, l’abolizione della patria potestà, la parità di retribuzione, l’istituzione dei consultori ecc.).

Quando invece si propongono nuove leggi, queste possono definirsi innovative e positive per le donne solo se tengono conto del loro punto di vista, quello che per millenni è stato ridotto al silenzio e piegato nella sottomissione. È un esempio luminoso l’istituzione della sanità pubblica, proposta non a caso da una donna, Tina Anselmi, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 che soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN – Servizio sanitario nazionale entrato in vigore nel 1980.

Non si può dire la stessa cosa di quelle leggi “in aggiungere” (cioè che vorrebbero apportare parità), come è avvenuto ad esempio con le quote rosa, apparentemente destinate a scardinare il soffitto di cristallo – cosa che nei livelli apicali è avvenuta in maniera minima – mentre ai livelli inferiori crea riserve/ghetti e neutralizza l’incidenza della presenza femminile.

Certo a noi donne tocca un compito molto arduo: non affidare alle leggi l’idea della conquista della libertà femminile, ma essere consapevoli che le leggi cambiano in positivo se la nostra presa di coscienza e la nostra determinazione diventano socialmente rilevanti e riescono a stimolare anche la presa di coscienza maschile.

Uguaglianza

È un concetto più ampio della parità. Essere uguali non vuol dire essere identici. Il termine ha in sé “l’altro da sé”, la dimensione sociale, il “noi”. L’uguaglianza si situa nella dimensione politica, nel governo della società, con tutti i suoi componenti umani. E se consideriamo il pianeta, includerei anche i non-umani, seppure continui a sentire una significativa differenza tra me e una pianta o un animale.

L’eguaglianza è un bene prezioso e raro, che non esiste in sé e che non si crea spontaneamente. È un’ispirazione, una guida nel comportamento e nel pensiero, mai raggiunto fino in fondo, ma capace di creare ponti tra entità e situazioni diverse. È la porta di accesso alla libertà.

Libertà

Áncoro il mio pensiero alla riformulazione del concetto operata da Luisa Muraro che quando parla di libertà femminile indica un processo dove si costruisce e dove avanza «il senso libero della differenza sessuale». Che vuol dire: riconoscimento di sé in quanto donna e tensione all’autorealizzazione in una pratica di relazione e di riconoscimento tra donne/con le donne.

Vuol dire liberare pensiero ed emozioni dal riferimento coatto alle leggi, ai riti, ai valori patriarcali che possono produrre – come è avvenuto – competizione emancipatoria, emulazione, imitazione, ma non sono portatori di nuovi significati.

Si parla dunque di una libertà che affronta la complessità della differenza sessuale senza rinchiudersi e/o proteggersi attraverso la moltiplicazione di etichette identitarie.

Che non azzera la differenza sessuale nell’illusione di un neutro che in realtà è maschile.

Che non vende l’anima alla scienza quando questa afferma che tutto ciò che si può fare va fatto: guerre, distruzioni, violazioni dei corpi femminili comprese.


(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2024)

di Silvia Baratella


Un nuovo #metoo è in corso all’Università di Torino. Le studentesse stanno denunciando abusi, ricatti sessuali e ritorsioni da parte di alcuni docenti e le notizie cominciano ad approdare sulla stampa. Mi ha colpita l’intervista in merito a una delle universitarie torinesi, andata in onda a Prisma su Radio Popolare del 13 febbraio

L’intervistata, iscritta a un corso di laurea frequentato quasi solo da maschi, ha ricevuto attenzione da uno dei suoi docenti e ha pensato di aver finalmente incontrato un professore che teneva in considerazione le ragazze. Le aveva persino proposto di fare la tesi con lui. Peccato che l’avesse fatto toccandola un po’ dappertutto, spalle braccia faccia, tanto che lei si era chiesta se non ci stesse provando. Si era risposta che non era possibile, che era solo un modo di fare. Quando si è cominciato a parlare di docenti molestatori in ateneo, le è venuto subito in mente lui e si è detta di nuovo che era impossibile. Solo quando il nome di lui è uscito nero su bianco sulla stampa se ne è convinta, e a quel punto le sono venuti degli attacchi di panico. Tranne quel professore, ci tiene a precisare, i docenti maschi la hanno sempre rispettata. Commenta che è inaccettabile che una ragazza arrivi a non rendersi neppure conto di essere stata molestata, che la colpa è dello Stato che non fa educazione sessuale.

Il racconto è sincero e sentito e il quadro che ne esce è rivelatore. Intanto, il sollievo che prova la studentessa quando un professore finalmente si accorge di lei (prima di capire che è per molestarla) è indicativo del riconoscimento che una giovane donna può aspettarsi in quell’università: i docenti “non molesti” ignorano le allieve fino a farle sentire inesistenti, sarebbe così che le “rispettano”? Poi, la studentessa racconta di uno sdoppiamento che tante donne hanno vissuto e da cui molte sono uscite grazie al confronto fra donne e all’autocoscienza: lei sa benissimo che il professore la sta molestando, ma è convinta di sbagliarsi; sa benissimo che lui ha i requisiti del molestatore, ma lo ritiene impossibile finché non glielo certifica l’autorità del “quarto potere”. Solo allora si autorizza a credere a sé stessa e a provare il panico che le covava dentro. E alla fine chiede smarrita a un’altra autorità di potere, lo Stato, di decretare che ciò che ha dolorosamente vissuto (ed è stato per forza doloroso per lei, se ha scatenato attacchi di panico a posteriori) è un abuso e che lei è autorizzata a considerarlo tale.

Affidandosi così allo Stato però sancirebbe la rinuncia al suo sentire e alla sua esperienza, la rinuncia alla sua verità soggettiva. Lei, come tutte noi, non ha bisogno che il potere le dica che cosa sa già di aver subito, ha bisogno di credere a sé stessa. Non ha bisogno di un corso di educazione sessuale per sapere quando una mano addosso, anche solo sulla spalla o sulla guancia, non la vuole. E che di conseguenza quella mano, lì, non deve starci. Ha bisogno della relazione con altre donne per autorizzarsi a dar credito al proprio sentire. È creando relazioni con altre che può contribuire a creare un’università a misura di donna. Io le auguro con tutto il cuore di riuscirci e forse questa sua presa di parola pubblica sarà un primo passo; di sicuro è preziosa perché permetterà di fare chiarezza ad altre che vivono la stessa confusione.

Però sarebbe d’aiuto se i movimenti organizzati la smettessero di inventare e proporre sempre nuove rivendicazioni che mantengono le donne dipendenti da chi deve concedergliele: distolgono un sacco di energie dallo sperimentare spazi comuni di libertà.


(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2024)