di Silvia Motta 


Sono tre parole che si rincorrono, talvolta si intrecciano, spesso si sovrappongono quando si parla di donne e di femminismo. Ma dicono cose diverse e sarebbe meglio usare un linguaggio di precisione per non annacquare, deviare o mistificare discorsi e significati.

Parità

Vuol dire fare il confronto tra due elementi o due entità e ritenerle perfettamente sovrapponibili. Direi che è un concetto quantitativo: pari grandezza, pari ampiezza, pari peso, pari valore monetario, ecc. Sarebbe piuttosto improprio dire pari sentimenti, pari emozioni, pari valori spirituali, pari atteggiamenti, pari amore, pari cultura ecc. Semmai si dice «stessi sentimenti, stessi valori, stesso amore, stessa cultura». Cioè qualcosa che assomiglia, ma non identico.

Nell’ambito del femminismo, specie quello che prende la scena attraverso i media (giornali, tv, rete) la parola parità trionfa in un perenne confronto frustrante con gli uomini e il mondo maschile. Si usa in maniera ossessiva la parola parità, si dice che le donne lottano per la parità.

Ma ecco qui la confusione.

Io penso che la grande parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne. E qui la cosa tra l’altro si complica perché le discriminazioni, nel mondo occidentale, sono in gran parte sottili. Ad esempio, pagare meno una donna è una disparità vietata dalla legge, ma gli escamotage escogitati per trasformare una retribuzione identica sulla carta ma minore nei fatti sono tanti: le donne spesso “scelgono” per necessità di fare il part-time, possono fare pochi straordinari perché devono tuffarsi a casa dove hanno il secondo lavoro, non godono di quegli speciali benefit che sono legati proprio all’orario pieno o alla possibilità di fare tardi la sera.

In fondo la lotta più cristallina per la parità sta in un “togliere” per fare spazio al nuovo. Togliere le discriminazioni sancite nelle leggi e stampate nella psiche e nei cuori per introdurre nuovi punti di vista.

Non a caso i migliori frutti del movimento femminista degli anni ’70 si sono tradotti in conquiste che toglievano ostacoli e ingiustizie riservate esclusivamente alle donne (negli studi, nelle carriere pubbliche e private, nella gestione della famiglia). Cioè sancivano che gli uomini non possono continuare a comportarsi come avevano fatto per secoli. Così è stato abolito il delitto di onore, il reato di adulterio, lo stupro è diventato un delitto verso la persona non contro la morale, è stato eliminato il pater familias (così ben rappresentato nel film di Cortellesi).

Le nuove leggi che ne sono seguite sono state, in molti casi, il necessario intervento finalizzato ad esplicitare i diritti mancanti che il togliere aveva evidenziato (il divorzio, la non penalizzazione dell’aborto, l’abolizione della patria potestà, la parità di retribuzione, l’istituzione dei consultori ecc.).

Quando invece si propongono nuove leggi, queste possono definirsi innovative e positive per le donne solo se tengono conto del loro punto di vista, quello che per millenni è stato ridotto al silenzio e piegato nella sottomissione. È un esempio luminoso l’istituzione della sanità pubblica, proposta non a caso da una donna, Tina Anselmi, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 che soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN – Servizio sanitario nazionale entrato in vigore nel 1980.

Non si può dire la stessa cosa di quelle leggi “in aggiungere” (cioè che vorrebbero apportare parità), come è avvenuto ad esempio con le quote rosa, apparentemente destinate a scardinare il soffitto di cristallo – cosa che nei livelli apicali è avvenuta in maniera minima – mentre ai livelli inferiori crea riserve/ghetti e neutralizza l’incidenza della presenza femminile.

Certo a noi donne tocca un compito molto arduo: non affidare alle leggi l’idea della conquista della libertà femminile, ma essere consapevoli che le leggi cambiano in positivo se la nostra presa di coscienza e la nostra determinazione diventano socialmente rilevanti e riescono a stimolare anche la presa di coscienza maschile.

Uguaglianza

È un concetto più ampio della parità. Essere uguali non vuol dire essere identici. Il termine ha in sé “l’altro da sé”, la dimensione sociale, il “noi”. L’uguaglianza si situa nella dimensione politica, nel governo della società, con tutti i suoi componenti umani. E se consideriamo il pianeta, includerei anche i non-umani, seppure continui a sentire una significativa differenza tra me e una pianta o un animale.

L’eguaglianza è un bene prezioso e raro, che non esiste in sé e che non si crea spontaneamente. È un’ispirazione, una guida nel comportamento e nel pensiero, mai raggiunto fino in fondo, ma capace di creare ponti tra entità e situazioni diverse. È la porta di accesso alla libertà.

Libertà

Áncoro il mio pensiero alla riformulazione del concetto operata da Luisa Muraro che quando parla di libertà femminile indica un processo dove si costruisce e dove avanza «il senso libero della differenza sessuale». Che vuol dire: riconoscimento di sé in quanto donna e tensione all’autorealizzazione in una pratica di relazione e di riconoscimento tra donne/con le donne.

Vuol dire liberare pensiero ed emozioni dal riferimento coatto alle leggi, ai riti, ai valori patriarcali che possono produrre – come è avvenuto – competizione emancipatoria, emulazione, imitazione, ma non sono portatori di nuovi significati.

Si parla dunque di una libertà che affronta la complessità della differenza sessuale senza rinchiudersi e/o proteggersi attraverso la moltiplicazione di etichette identitarie.

Che non azzera la differenza sessuale nell’illusione di un neutro che in realtà è maschile.

Che non vende l’anima alla scienza quando questa afferma che tutto ciò che si può fare va fatto: guerre, distruzioni, violazioni dei corpi femminili comprese.


(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2024)

Ci sono tempi in cui il male, anche nella sua banalità, sembra invadere tutto e non dare scampo. E in noi si affaccia la tentazione di salvare, di fare il bene a tutti costi. Carla Lonzi ha dato una svolta, scegliendo un agire politico che abbandona il male al suo destino. E noi, nel nostro agire quotidiano, come riusciamo a non farci contaminare? A cosa scegliamo di sottrarre consenso?

La partecipazione è aperta a tutte e tutti. Su richiesta a info@libreriadelledonne.it è possibile il collegamento zoom.

di Silvia Baratella


Un nuovo #metoo è in corso all’Università di Torino. Le studentesse stanno denunciando abusi, ricatti sessuali e ritorsioni da parte di alcuni docenti e le notizie cominciano ad approdare sulla stampa. Mi ha colpita l’intervista in merito a una delle universitarie torinesi, andata in onda a Prisma su Radio Popolare del 13 febbraio

L’intervistata, iscritta a un corso di laurea frequentato quasi solo da maschi, ha ricevuto attenzione da uno dei suoi docenti e ha pensato di aver finalmente incontrato un professore che teneva in considerazione le ragazze. Le aveva persino proposto di fare la tesi con lui. Peccato che l’avesse fatto toccandola un po’ dappertutto, spalle braccia faccia, tanto che lei si era chiesta se non ci stesse provando. Si era risposta che non era possibile, che era solo un modo di fare. Quando si è cominciato a parlare di docenti molestatori in ateneo, le è venuto subito in mente lui e si è detta di nuovo che era impossibile. Solo quando il nome di lui è uscito nero su bianco sulla stampa se ne è convinta, e a quel punto le sono venuti degli attacchi di panico. Tranne quel professore, ci tiene a precisare, i docenti maschi la hanno sempre rispettata. Commenta che è inaccettabile che una ragazza arrivi a non rendersi neppure conto di essere stata molestata, che la colpa è dello Stato che non fa educazione sessuale.

Il racconto è sincero e sentito e il quadro che ne esce è rivelatore. Intanto, il sollievo che prova la studentessa quando un professore finalmente si accorge di lei (prima di capire che è per molestarla) è indicativo del riconoscimento che una giovane donna può aspettarsi in quell’università: i docenti “non molesti” ignorano le allieve fino a farle sentire inesistenti, sarebbe così che le “rispettano”? Poi, la studentessa racconta di uno sdoppiamento che tante donne hanno vissuto e da cui molte sono uscite grazie al confronto fra donne e all’autocoscienza: lei sa benissimo che il professore la sta molestando, ma è convinta di sbagliarsi; sa benissimo che lui ha i requisiti del molestatore, ma lo ritiene impossibile finché non glielo certifica l’autorità del “quarto potere”. Solo allora si autorizza a credere a sé stessa e a provare il panico che le covava dentro. E alla fine chiede smarrita a un’altra autorità di potere, lo Stato, di decretare che ciò che ha dolorosamente vissuto (ed è stato per forza doloroso per lei, se ha scatenato attacchi di panico a posteriori) è un abuso e che lei è autorizzata a considerarlo tale.

Affidandosi così allo Stato però sancirebbe la rinuncia al suo sentire e alla sua esperienza, la rinuncia alla sua verità soggettiva. Lei, come tutte noi, non ha bisogno che il potere le dica che cosa sa già di aver subito, ha bisogno di credere a sé stessa. Non ha bisogno di un corso di educazione sessuale per sapere quando una mano addosso, anche solo sulla spalla o sulla guancia, non la vuole. E che di conseguenza quella mano, lì, non deve starci. Ha bisogno della relazione con altre donne per autorizzarsi a dar credito al proprio sentire. È creando relazioni con altre che può contribuire a creare un’università a misura di donna. Io le auguro con tutto il cuore di riuscirci e forse questa sua presa di parola pubblica sarà un primo passo; di sicuro è preziosa perché permetterà di fare chiarezza ad altre che vivono la stessa confusione.

Però sarebbe d’aiuto se i movimenti organizzati la smettessero di inventare e proporre sempre nuove rivendicazioni che mantengono le donne dipendenti da chi deve concedergliele: distolgono un sacco di energie dallo sperimentare spazi comuni di libertà.


(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2024)

di un gruppo di donne e uomini


Questo appello ci arriva da un’amica, una delle persone che l’ha redatto. È stato mandato anche al Manifesto e ad altre testate.


Siamo un gruppo di ebree ed ebrei italiani che, nel vivere il tempo della guerra in Medio Oriente, si sono riuniti e hanno condiviso diversi sentimenti: angoscia, disagio, disperazione, senso di isolamento.

Il 7 ottobre, non solo gli israeliani, ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’azione di Hamas (organizzazione che noi condanniamo assolutamente) e abbiamo provato dolore e rabbia.

Anche la risposta all’orribile attacco di Hamas da parte del governo israeliano ci ha sconvolti.

Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 25.000 palestinesi e a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra, mentre la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora nelle mani dei terroristi.

Purtroppo sentiamo che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della Diaspora sembra non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le conseguenze per il futuro.

I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare le voci critiche e allarmate di chi vive in Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso.

Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni, anche personali. Per questo non vogliamo stare in silenzio, soprattutto oggi, Giorno della Memoria.

Ci troviamo in forte difficoltà di fronte a questo giorno: non possiamo condividere la modalità con cui si vive il Giorno della Memoria, se essa si riduce a una celebrazione rituale e vuota di significato. Riconoscendo l’unicità della Shoah, consideriamo importante restituire al 27 gennaio il senso e il significato con cui era stato istituito nel 2000, vale a dire un giorno dedicato all’opportunità e all’importanza di riflettere su ciò che è stato e che quindi non dovrebbe più ripetersi, non solo nei confronti del popolo ebraico.

Questo 27 gennaio 2024 ci appare una scadenza particolarmente difficile e dolorosa da affrontare: a cosa serve oggi la memoria se non aiuta a fermare la produzione di morte a Gaza e in Cisgiordania? Se e quando alimenta una narrazione vittimistica che serve a legittimare e normalizzare crimini?

Siamo ben consapevoli che esiste un antisemitismo non elaborato nel nostro paese e nel mondo, ma ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti negativi come l’indifferenza verso il dolore degli altri, la disumanizzazione del nemico e la violenza sui più deboli.

Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti.

Non siamo d’accordo con le indicazioni dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per la giornata del 27 gennaio, in cui viene sottolineato come ogni critica alle politiche di Israele ricada sotto la definizione di antisemitismo. Sappiamo bene cosa sia l’antisemitismo e ne sentiamo l’atmosfera e l’odore in questi mesi, soprattutto dal 7 ottobre, quando abbiamo visto incrinarsi i rapporti anche con parte della sinistra. Ma non ne tolleriamo l’uso strumentale. Vogliamo preservare il nostro essere umani e l’universalismo che convive con il nostro essere ebree ed ebrei.

In questo momento, quando tutto è difficile, proviamo a pensare e a sentire insieme.


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2024)

di Umberto Varischio


Non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro. Consideriamo un oggetto come il tavolo che vediamo di fronte a noi. È innegabile che esista concretamente come oggetto con caratteristiche fisiche evidenti come colore e durezza. Tuttavia, cosa lo fa considerare un oggetto, un’entità reale, un tavolo? La nozione di tavolo si basa sulla sua funzione: è un mobile progettato per essere utilizzato come tavolo. Questa definizione presuppone l’esistenza dell’umanità che ha il bisogno di appoggiare oggetti o per mangiarci sopra. Ciò non riguarda intrinsecamente il tavolo in sé, ma piuttosto il modo in cui lo percepiamo e lo utilizziamo. Se cercassimo il tavolo in sé, privo di relazioni con l’esterno e soprattutto con noi stessi, scopriremmo che non esiste come entità isolata.

Il mondo non è suddiviso in entità indipendenti. Una catena montuosa non è intrinsecamente divisa in singole montagne: siamo noi che la separiamo in parti che colpiscono la nostra percezione. Praticamente quasi tutte le nostre definizioni sono relazionali: una madre esiste in quanto vi è un figlio, un pianeta è tale perché orbita attorno a una stella, una posizione ha significato in relazione a qualcos’altro.

Quella che ho cercato di illustrare sinora è la tesi di Nāgārjuna, un filosofo buddhista vissuto tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo in India e considerato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna o “Grande veicolo”, nella rielaborazione del fisico teorico Carlo Rovelli nel suo saggio divulgativo sulla fisica quantistica intitolato Helgoland.

Per tornare alle relazioni, l’aspetto che più mi interessa, il femminismo in generale si basa sulla presa di coscienza personale e sulla relazione. La relazione inizia con il rapporto con sé stesse e si sviluppa ulteriormente nella relazione con il mondo circostante; possiamo orientarci se guardiamo dentro di noi e se costruiamo e manteniamo relazioni con il mondo.

Certo, le relazioni sociali sono ben più complesse di quelle che si possono stabilire nel puro spazio fisico, ma si può ipotizzare che, come scrive Maria Luisa Boccia, la rivoluzione del simbolico rappresentata dal femminismo della differenza e le relazioni abbiano la propria matrice in un “materialismo ontologico” che si occupa dei corpi, della materialità dell’esistenza.

Nella mia adolescenza sono stato educato a pensare, come quasi tutti quelli della mia generazione, che riconoscere i miei bisogni individuali volesse dire riconoscere una propria debolezza e che la dipendenza da altri e altre fosse una minaccia alla mia mascolinità. I miei sentimenti di bisogno e di dipendenza sono stati spesso svalutati e mi si insegnava a vivere autonomo, senza aver bisogno che di poche relazioni significative.

Per un uomo che ha avuto questo apprendistato patriarcale, abituato a vedersi come un’isola e a non sapere che «le isole si tengono per mano sotto il mare» (King Crimson, Island), è suggestivo pensare che la materialità dell’esistenza, che è anche il luogo della politica e del vivere insieme, sia ontologicamente basata principalmente sulle relazioni e sull’interdipendenza.


(www.libreriadelledonne.it, 15 febbraio 2024)

di Elena Caslini


L’artista piacentina, classe 1974, porta per la prima volta le sue opere intrise di poesia naturale nell’istituzione milanese. Con Chiara Camoni, il femminile primigenio si coagula in forme e materiali organici. Attraversati da una magica forza generatrice.


Nella sua celebre conferenza sul Rituale del Serpente, nel 1923 lo storico dell’arte Aby Warburg rifletteva su come la perdita di una visione mitologica sul mondo non avesse davvero aiutato l’uomo a dare risposte adeguate agli enigmi dell’esistenza.

A distanza di un secolo, dal senso di questa esistenza ci siamo forse allontanati un po’ di più; e il ritorno a una dimensione magica può forse aiutarci a ritrovare quelli che l’artista Chiara Camoni (Piacenza, 1974) definisce come «piccole epifanie, momenti di grazia e di bellezza che sembrano rivelare il senso del vivere. Questi attimi, velocissimi, si coagulano intorno all’opera d’arte, che lavora su un piano emotivo e inconscio, nel momento del processo creativo e della sua fruizione».

Tenendo lo sguardo disponibile e aperto, la realtà può cambiare sotto i nostri occhi. Le ciotole di porcellana e onice impilate in ritmi sinuosi si trasformano in quei serpenti di cui parlava Warburg, depositari di antichi poteri, e, contemporaneamente, in quelli così reali visti da Camoni nel suo giardino a Seravezza, dove vive e lavora. Silenziosi, scandiscono il ritmo della retrospettiva che l’Hangar Bicocca dedica all’artista da oggi fino al 21 luglio, raccogliendone il corpus di opere più ampio mai presentato finora. «Le mie serpentesse disegnano i corridoi, le stanze e gli spazi della mostra come in un sito archeologico, un giardino all’italiana dove c’è architettura ma lo sguardo vola libero, verso un centro che rimane vuoto e attorno al quale chiamo a raduno le mie creazioni». Sono le Sorelle, falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse del titolo della mostra, che, come un incantesimo, evoca queste presenze fatte di erbe, bacche, fiori, argilla, terra e ceneri. Materiali di ordinaria mitologia.

La sacralità delle opere di Camoni si esprime nel loro essere femminili. Un concetto che per l’artista assume connotazioni olistiche, dove totalità e riappacificazione degli opposti ne definiscono l’essenza. Camoni è un’artista donna senza rivendicazioni né denunce. Lo è, al contrario, nel suo appellarsi a un’antica forza generatrice che, dagli inizi dei tempi, è propria di ogni donna. «Nella costruzione dell’oggetto scultoreo metto al mondo qualcosa che comprende e accoglie tutto: il maschile, il femminile, il neutro, l’animale, il vegetale. Le mie opere sono ricolme di loro stesse, delle loro migliaia di forme, in continua trasformazione. Sono distintamente femminili nel loro vivere con agio nel cambiamento e nell’indeterminatezza. Il vaso in ceramica, declinato nei miei Vasi-farfalla, è l’apoteosi di questa ambiguità, nel suo essere allo stesso tempo pieno e vuoto, dentro e fuori, bellissimo e drammatico».

Nella coralità della sua visione, Camoni si inserisce in una storia di donne, che scarseggia di figure materne per come la Storia ci è stata raccontata, ma che si alimenta di una sensibilità e un sentire condivisi. Insieme alle artiste, poetesse, intellettuali, sorelle spirituali con cui Camoni collabora o a cui si ispira per opere come Pavimento (for Clarice), omaggio alla scrittrice brasiliana Clarice Lispector, l’artista contribuisce a un significativo passaggio di testimone, affinché l’idea di un’identità femminile, ancestrale ma ancora così reale, possa continuare a fiorire. Proprio come i suoi vasi.


(Vogue, 14 febbraio 2024)

di Annalisa Cuzzocrea


Nasce tutto da un doppio riconoscimento. Giorgia Meloni ha scelto la segretaria del Pd Elly Schlein come leader dell’opposizione, e si prepara a sfidarla alle Europee. Così ieri mattina – al telefono – ha ascoltato le sue parole sul Medio Oriente, su quel che sta accadendo a Gaza. Le parole sulla necessità di un cessate il fuoco umanitario nella Striscia, anche per ottenere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. E ha scelto di fare in modo che la mozione parlamentare del Pd passasse grazie all’astensione della maggioranza. Non era previsto, non era scontato. E non era semplice. Non è neanche a costo zero per Meloni, che si ritroverà in casa la Lega – Salvini ha già cominciato – a esercitare distinguo sposando totalmente la posizione del governo guidato da Benjamin Netanyahu. E che sebbene non abbia condiviso le parti della mozione di critica all’esecutivo che sta conducendo la guerra a Gaza, sconterà sicuramente il malumore di Israele.

Il testo passato alla Camera infatti impegna l’Italia a muoversi per un’iniziativa in tutte le sedi che chieda il cessate il fuoco. Può sembrare meramente simbolico, ma non lo è. Significa ad esempio che se si dovesse votare di nuovo una richiesta di cessate il fuoco alle Nazioni Unite, il governo italiano dovrebbe essere conseguente e non astenersi come ha fatto alla fine di ottobre. Significa – anche se le due posizioni non sono minimamente paragonabili – spingersi dove gli Stati Uniti non possono ancora arrivare, e infatti non sono arrivati. Biden e Blinken stanno evidenziando tutti gli errori del premier israeliano, ma questo non li ha portati a chiedere di fermare le operazioni su Gaza. Perché una simile richiesta, fatta da Washington – dai cui rifornimenti in armi Israele dipende – avrebbe tutto un altro peso.

Eppure, quel che è successo alla Camera porta il nostro Paese su una posizione che è già di Germania e Gran Bretagna e che, vista da chi la propone, dovrebbe servire a fermare Netanyahu le cui intenzioni su Rafah porterebbero inevitabilmente a una nuova catastrofe umanitaria, forse ancor più sanguinosa. È probabile che le ragioni di Meloni siano geopolitiche e di posizionamento internazionale, ma è un fatto che questa decisione arrivi attraverso un patto con l’opposizione. Ed è – dal punto di vista di chi è affezionato alla Repubblica parlamentare che ancora abbiamo – un fatto positivo.

A sua volta Schlein riconosce a Meloni il suo ruolo di presidente del Consiglio, l’unica in grado di far avanzare la posizione italiana a livello internazionale: la segretaria Pd ha cercato, come dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, un’interlocuzione diretta con la premier perché pensa che sulle questioni più delicate, che devono trascendere lo scontro ideologico, l’unica strada sia il lavoro comune. Lo ha fatto dopo un’operazione di cucitura attenta fatta nel partito dal responsabile Esteri Peppe Provenzano, che ha cercato anche un accordo con il resto delle opposizioni, Italia Viva compresa. E ha capito che l’unico modo di ottenere qualcosa che non fosse un semplice punto simbolico, era chiamare direttamente Meloni.

Per un giorno il Parlamento è tornato centrale e per un giorno maggioranza e opposizione hanno lavorato come in un Paese maturo. Ma è partita ieri, più di quanto non fosse già accaduto nelle scorse settimane, la corsa solitaria delle due leader. Che necessariamente taglia fuori i comprimari e polarizzerà sulle loro figure i prossimi mesi e soprattutto le prossime elezioni europee. Questo significa che ci saranno ancora scossoni a destra come a sinistra. Dove Giuseppe Conte – che già non amerebbe essere messo dentro a una generica sinistra – cercherà di farsi spazio con la sua proposta politica a danno del Pd. Quanto a Salvini, tenterà di fare lo stesso, come ormai da mesi. La corsa però è già partita. E Schlein e Meloni sembrano decise a non farsi fermare.


(La Stampa, 14 febbraio 2024)

di Donatella Borghesi


La scossa emotiva che è seguita al femminicidio di Giulia Cecchettin ha segnato un cambiamento di clima: che sia arrivato il momento di ascoltarsi, uomini e donne? Gli uomini hanno cominciato a parlare di sé, a interrogarsi sul patriarcato – a volte sinceri, a volte no, spesso a sproposito, “a schiovere”, come direbbe Erri De Luca – ma chissà se ascolteranno la voce delle donne. Sicuramente è il momento giusto per chiedersi quello che si ripete da tempo la filosofa Annarosa Buttarelli: «Per quale ragione le pensatrici di tutti i tempi non sono state ascoltate, né dai filosofi accademici né dalla cultura corrente, nonostante abbiano indagato bene e male con esiti sorprendenti?» 

Proprio al bene e al male – con la minuscola, attenzione – è dedicato un saggio-manifesto appena uscito, dal titolo Bene e male sottosopra, la rivoluzione delle filosofe (Tlon editore), che sembra rispondere a un’ispirazione quasi profetica, e della profezia ha l’andamento acceso e fortemente etico. Formatasi nel pensiero della differenza sessuale, sostenitrice della “presa di autorevolezza” (il suo Sovrane, lautorità femminile al governo ha avuto più edizioni) e fondatrice della Scuola di alta formazione per donne di governo, Annarosa Buttarelli ha sentito l’urgenza di scrivere queste pagine proprio sotto la spinta emotiva di troppi femminicidi avvenuti a pochi giorni di distanza uno dall’altro. «Dobbiamo pensare l’impensato, se desideriamo uscire dall’agonia in cui il mondo è precipitato». Il suo percorso – senza dimenticare gli echi di Platone, Sant’Agostino, Spinoza – segue una genealogia femminile non cronologica, ma di desiderio, mente e cuore insieme. A cominciare da Eva (proprio lei, la prima donna), e poi Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano, Carla Lonzi, Françoise Dolto, infine scrittrici come Flannery O’Connor e Iris Murdoch, tutte voci di un “sottosopra” filosofico che individua nel pensiero antitetico, duale, il responsabile della rovinosa crisi attuale della civiltà europea-occidentale.

Cominciando dalle origini, dall’Antico Testamento. Ricorrendo a un testo importante della mistica ebraica, Il male primordiale nella Qabbalah di Moshe Idel (Adelphi), Buttarelli smonta la simmetria “primordiale” tra il bene e il male, che fa da contrappunto all’altra simmetria della nostra cultura, quella maschile/femminile. Si riteneva che il male anticipasse il bene, cioè fosse emanato per primo, e quindi secondo la Qabbalah dalle prime manifestazioni divine, dalle sefirah. «Ho imparato finalmente che Pensiero, Sapienza e Discernimento sono attributi del male femminile», scrive Buttarelli, «sono attributi di Eva, colei che ha spaventato l’umanità perché ha saputo discernere il bene dal male, ha saputo insegnare a fare le differenze: era la Madre Pensatrice. Mi pare molto interessante sapere che tentare di spezzare l’Uno, come capita di fare a chi osserva con coraggio e lucidamente la realtà “inferiore” terrena, è stato inteso come “male” che spezza il sogno di unione assoluta, radicato nell’antropologia maschile». Trovo echi della necessità di questa rottura anche nell’analisi che ha fatto Stefano Levi della Torre in Dio, edito da Bollati Boringhieri. «La Bibbia configura un Dio che non ha responsabilità solo del bene, ma anche del male. Dio è concepito come vivente, dignitosamente non scarica solo su altri viventi, umani o demoniaci, la responsabilità del male, ma afferma la propria responsabilità sulla tensione tra bene e male che è inerente alla vita. Ciò si riflette anche nella sorprendente invocazione della preghiera ebraica e poi cristiana del Padre nostro: non indurci in tentazione, che attribuisce a Dio attitudini tipicamente demoniache». 

Ma torniamo al lavoro di Annarosa Buttarelli, che riparte da Simone Weil, la ragazza ebrea che stando dalla parte degli ultimi si è consumata facendosi “campo di battaglia” (come farà anche Etty Hillesum nel campo di concentramento). «Non si può sapere ciò che un uomo ha in mente quando pronuncia una certa parola (Dio, libertà, progresso…). Il bene che c’è nella sua anima lo si può giudicare solo mediante il bene che è nei suoi atti, nell’espressione di pensieri originali», scrive Simone Weil. È l’inizio di una metafisica sperimentale o meglio sperimentante, che svilupperà soprattutto la filosofa spagnola María Zambrano. Buttarelli sottolinea come Simone Weil abbia anche una dimensione soprannaturale e inappropriabile del bene: «Dio è il Bene. Non è una cosa, né una persona, né un pensiero. Tuttavia, per afferrarlo, dobbiamo concepirlo come una cosa, una persona, un pensiero». E molto precisa è la sua visione del male: è l’attaccamento del desiderio alle cose terrestri, è la mancanza del limite, la dismisura, l’avidità di impossessarsi di tutto il peccato originale che perseguita la condizione umana. 

Il bene è negli atti, quindi. Per analizzarli la filosofa Buttarelli, che detesta il politicamente corretto, il moralismo giudicante e la retorica dei buoni sentimenti, ricorre alla psicoanalista lacaniana Françoise Dolto, e prende il suo commento alla parabola evangelica del buon Samaritano. Che non è un “buono” qualunque, ma uno che ha fatto solo ciò che occorre, ciò che è necessario, e poi se ne va. Scrive Dolto: «È un samaritano… non un intellettuale di sinistra dell’epoca. Non è neppure una colonna della sinagoga. Fa parte di quella gente che non ha nulla di cui gloriarsi: niente Chiesa e poche virtù. Persone molto vicine alla natura, non certo uomini spirituali. Egli è così com’è! Un uomo materiale, pratico». Ecco, bisogna imparare da chi “fa” qualcosa, lasciando perdere chi non fa. Il “sottosopra” di Dolto consiste proprio in quell’andarsene senza chiedere nulla in cambio, neppure un grazie o un dovere di riconoscenza. Per sentirsi “prossimo”, concetto e valore oggi dimenticato, rilanciato da Dolto: «Il nostro prossimo sono tutti coloro che la sorte ha messo sulla nostra strada, che c’erano quando avevamo bisogno di aiuto e ce lo hanno dato senza che noi lo chiedessimo, e che ci hanno soccorso, senza nemmeno più conservarne il ricordo… Tutti coloro che come fratelli e sorelle ci hanno preso sotto la loro responsabilità fino a quando avessimo ripreso le forze, lasciandoci poi liberi di proseguire per la nostra via, sono stati il nostro prossimo». Questo passaggio potrebbe essere il senso di un cambio di civiltà, sottolinea Buttarelli, «che ci metta di fronte alla perdita del senso di responsabilità, alla cattiva psicologia che invita a prendersi cura solo di sé, alla cattiva filosofia che sostiene ancora l’individualismo e il narcisismo, alla cattiva politica che conosce solo il dettato moralistico del tutto astratto dalle necessità concrete, che non riguardano solo la sopravvivenza ma soprattutto il vivere in relazione». Per ritrovare quella “corrente d’amore” di cui Dolto parla in Il gioco del desiderio e in La libertà damare. Come diceva in fondo Sant’Agostino: «Ama e accetta tutti i rischi».

Parlare del male senza ricorrere a Hannah Arendt non è più possibile dopo la sua illuminazione sulla “banalità del male”, quella che portò alla Shoah (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli). Definita da Buttarelli «l’unica pensatrice tra i filosofi novecenteschi che ha saputo dare un nome definitivo al male incarnato», quello che fa strame della vita umana perché è scontato e convenzionale, Arendt ci conduce «all’imprescindibile presa di coscienza che il male è il prodotto di un agire ordinario, comune, e invisibile ai più». Arendt si rivolge direttamente a Eichmann dicendogli che in politica obbedire agli ordini è la stessa cosa che appoggiarne la politica, in questo caso lo sterminio del popolo ebraico, e non ci sono alibi che tengano. «Hannah Arendt ha visto che non pensare, non sapere, non ricordare, non decidere autonomamente sono proprio tra i fondamenti della diffusa capacità di fare banalmente, insospettabilmente, da gentili vicini di casa, il diffuso male quotidiano che ormai, anche oggi, di nuovo, si fatica a intravedere». 

Pensando al male di oggi, dalle guerre su guerre ai femminicidi quotidiani, si ha un attimo di trasalimento quando si arriva al titolo «Pregare, non domandare, augurare giustizia a chi fa del male». Buttarelli sconfessa ogni tentativo di etica razionale per fronteggiare il male, il male non si può correggere cercando di dimostrare la verità, o cercando il compromesso morale ammettendo che l’odio ha un’energia superiore rispetto al bene. «Ribadisco l’esistenza dell’innocenza», sostiene l’autrice. E qui ricorre all’amata María Zambrano, che scrive in Il sogno creatore (Bruno Mondadori): «Accettare perfino lo sbaglio non commesso, il male non compiuto, farsi carico di tutte le possibilità del male, oltrepassare ogni confine senza ormai sapere e senza voler sapere, dal momento che non è possibile, poiché l’essere e il non essere nel bene e nel male eccedono l’umana conoscenza». 

Il male resta un mistero, e nel male ci può essere anche piacere, lo ricorda Hannah Arendt, in una lezione tenuta a New York nel 1965, quando combatteva i continui tentativi di giustificare e razionalizzare il male che si impossessa della Storia: «Infine per noi, e per l’esperienza che abbiamo fatto (nazismo, fascismo, olocausto), c’è la più seria delle perplessità: l’evasione, l’aggiramento, o la giustificazione della malvagità. Se la tradizione della filosofia morale (distinta dal pensiero religioso) concorda su un punto da Socrate fino a Kant e, come vedremo, fino ad oggi, esso concerne l’incapacità umana di compiere il male deliberatamente, di volere il male per il gusto del male. A essere precisi, l’elenco dei vizi umani è antico e assai lungo, e visto che non vi mancano la gola e l’accidia (in fondo vizi piuttosto secondari), è piuttosto curioso che non ci sia il sadismo, il puro e semplice piacere di causare e contemplare il dolore degli altri. L’unico vizio che a buon diritto possiamo definire il vizio di tutti i vizi per lunghissimi secoli. È possibile che sia sempre stato abbastanza diffuso, ma di solito è relegato alla camera da letto e solo di rado trascinato in tribunale». 

Ma allora che fare? Proviamo a guardare all’autorità femminile custode millenaria del bene-giustizia, suggerisce: «Quali pratiche hanno seguito le donne che non si sono regolate costruendo morali, e non si sono fatte proteggere dalla consolazione delle buone azioni a tutti i costi o del perdono facile? In mancanza di morali e di prescrizioni protocollari, si mostra anche l’altro lato del problema: come evitare di rendersi complici del male contingente, come evitare di aggiungere al male subìto il male della vendetta, come evitare la risposta suicidaria o omicida? Cosa resta da fare?». 

La risposta è non chiedere il perché del male – «l’assidua resa dei conti tra i maschi e Dio». 

E, a proposito dei femminicidi, la filosofa ricorda come per le donne l’abisso della disumanità è spalancato da millenni e si attiva ogni giorno in tutto il mondo, anche se a volte ce ne dimentichiamo. La misoginia è una crudeltà che si esprime anche in forme molto sofisticate, tanto da ingannare la percezione di donne non allenate a cogliere i comportamenti offensivi dei “loro” uomini. Chiedere perché mi fai del male, perché fai il male è una domanda pericolosa: costringe ad alzare la posta, istiga alla rabbia, e la vittima rischia di restare tale per sempre, nella dipendenza fatale dal proprio carnefice. Augurare il giusto al male, anziché maledirlo. Sottraendogli giustificazioni e benevolenza. 

Con una sapienza intuitiva, ci dice Buttarelli, è quello che hanno fatto da sempre le donne, una forma di politica passiva, un «ti auguro che…» rivolto a chi lo sta compiendo. Non lo ha fatto forse Antigone predicendo il futuro a Creonte? E qui entrano a sorpresa le due scrittrici a cui attinge: Iris Murdoch, che ha scritto La sovranità del bene, e Flannery O’Connor, la scrittrice preferita di Tarantino, autrice di Nel territorio del diavolo e Il cielo è dei violenti. «Il cortocircuito che si crea nel destino umano tra bene e crudeltà è da entrambe accettato come misterioso, ma la ricerca tutta interna alla condizione umana permette a Murdoch di concepire l’amore, cioè uno dei nomi del bene, come inseparabile dalla giustizia e dal rispetto del reale». Un assoluto essere-per-nessuno-scopo. Un amore austero per il Bene privo di consolazione. È l’amore necessario di Carla Lonzi per un universo senza risposte. E infine Flannery O’Connor ci regala un sorriso: nel racconto Un brav’uomo è difficile da trovare un Balordo feroce assassino è smascherato da una vecchia signora, che con una semplicissima frase gli toglie il piacere della crudeltà.


(Doppiozero, 13 febbraio 2024)


di Susanna Tamaro


La scrittrice rievoca la sua infanzia in cerca di una identità. E avverte: diamo ai ragazzi il tempo per capire chi sono


Da appassionata naturalista quale sono, sono sempre stata incantata dallo straordinario numero di vie che l’evoluzione ha saputo sviluppare nel corso di milioni di anni per portare avanti la sua unica, ossessiva missione: quella di riprodursi. I modi sono diversi e sorprendenti, neppure il più fantasioso dei maghi avrebbe potuto mettere insieme una simile fiera delle meraviglie.

Il grande caos che da qualche anno si è creato, grazie a una campagna ossessiva sull’identità di genere, mi porta a pensare che ci sia bisogno di fare il punto sulla questione a partire dalla realtà.

Il modello identitario che ci viene continuamente proposto ormai è quello delle patelle, quei minuscoli molluschi che vivono abbarbicati in gruppo sugli scogli a cui la strabiliante creatività evolutiva ha donato l’ermafroditismo proterandrico che permette loro di cambiare sesso a piacere: condannate a vivere su uno scoglio, per avere una maggior sicurezza riproduttiva devono poter rapidamente trasformarsi. Sono un maschio circondato solo da altri maschi? Et voilà, mi trasformo in una femmina, o viceversa. I casi di ermafroditismo possono comparire anche nei mammiferi – io ad esempio ho avuto un gatto con questa peculiarità – ma si tratta di fenomeni isolati.

Negli esseri umani le cose sono più complicate perché, se a un livello di società semplice permane l’imperativo della riproduzione, quando la cultura si evolve e porta complessità di pensiero, si aggiungono altre istanze perché l’essere umano, unico nel vivente, ha il dono del libero arbitrio. Può capitare così di nascere maschi e desiderare di essere femmine o viceversa, di essere attratti da persone dello stesso sesso oppure anche di non provare alcun interesse per questo tipo di argomenti.

Personalmente, ho avuto l’infanzia devastata dalla disforia di genere e per questo ne posso parlare con cognizione di causa. Ho iniziato ad avere problemi fin dall’asilo, quello che nei primi anni era una forza primigenia e inconscia è diventata una disperata consapevolezza: ero scesa in terra nel corpo sbagliato. Data l’epoca, non ho mai confessato a nessuno questa mia devastante certezza ma passavo le notti piangendo se mi veniva regalata una bambola o peggio ancora un qualche vestito da bambina. Verso gli otto, nove anni la sofferenza è diventata incontenibile, avevo sentito dire che a Casablanca si poteva cambiare sesso e quella città improvvisamente si era ammantata per me di una luce magica. Mia nonna, intuiti i miei tormenti, a un Carnevale mi ha comprato un costume da ufficiale, divisa che non mi sono più tolta fino a che le ginocchia non si sono bucate.

Nel corso delle scuole medie, questo mio penare ha iniziato ad affievolirsi; cominciavo ad avere i miei interessi, a immaginare una vita diversa da quella della caserma. Avrei fatto la scienziata, non cera dubbio. E poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano essere estremamente interessanti. Potenza e meraviglia degli ormoni! Sarebbero stati anche loro interessati a me? Davanti alla prorompente femminilità delle mie compagne, tentennavo incerta. Un giorno in cui volli indossare una gonna per cercare di raggiungere il loro livello, lo ricordo come uno dei più spaventosi della mia vita. Ma poi pensai che forse era meglio restare com’ero, con jeans e maglietta, perché se qualcuno si fosse innamorato di me sarebbe stato colpito più dal mio interno che dalla mia carrozzeria. E così è stato. Le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba.

Da molti anni ormai mi chiedo però che cosa ne sarebbe stato di me se, a sette, otto, nove anni, fossi stata presa sotto l’ala protettiva dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini e, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato, avrebbero saputo come risolvere i miei problemi e io avrei baciato con riconoscenza le mani di quegli angeli che promettevano di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore. Psicologi, pillole, ormoni e poi il grande salto di diventare ciò che avevo sempre sognato: un maschio.

Sono fermamente convinta che la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti ai bambini e ai ragazzi come un crimine. Un crimine ideologico, perché se io, sognando di essere un ufficiale, avessi accettato di fare il grande passo, non mi sarei trasformata in un maschio ma in un essere bisognoso di cure a vita, perché la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri e, per contrastarla, a parte le conseguenze degli interventi chirurgici, avrei dovuto ingurgitare ormoni fino alla fine dei miei giorni perché tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina!

Non ho niente in contrario al fatto che una persona ormai adulta, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, decida consapevolmente di fare questo passo, convinta di raggiungere la sua giusta identità. Ognuno è padrone del suo corpo e se non nuoce ad altri può fare quello che vuole. Però non posso aver pace pensando al folle apparato che è stato messo in moto in questi anni per devastare le vite di bambini e di adolescenti, nel silenzio di una società sempre più pavida e confusa, capace solo di affidarsi agli esperti e ad una scienza che tutto ha a cuore, tranne il bene della persona. Come si può pensare di bloccare con la triptorelina lo sviluppo di un bambino nell’attesa che decida cosa voglia essere? La vita non è fatta di foto polaroid. E da quando in qua i bambini hanno la consapevolezza e la capacità di determinare da soli il loro futuro? A dieci, dodici, tredici anni, senza alcuna esperienza di cosa sia la vita del corpo, come ci si può avviare a una trasformazione dalla quale non è possibile tornare indietro?

E qui si rientra nel culto tutto postmoderno del bambino come essere saggio onnisciente, a cui va evitato ogni tipo di sofferenza e i cui desideri diventano improrogabile legge. La saggezza educativa, quella realtà che sembra essersi misteriosamente dissolta, imporrebbe a chi sta vicino a bambini con la disforia di genere di lasciarli liberi di manifestare la loro inquietudine, la loro sofferenza – come ha fatto mia nonna con la divisa da ufficiale e come hanno fatto Brad Pitt e Angelina Jolie con la loro figlia che da bambina voleva essere chiamata John e che ora è diventata l’affascinante Shiloh – accompagnandoli verso l’adolescenza, quando, se non si è caricato ideologicamente questo aspetto della vita, nella maggior parte dei casi la disforia si dissolve. Quante sono le bambine e le ragazze Asperger non diagnosticate avviate al cambiamento di sesso? Quando ci penso, non dormo la notte. E poi, questa ossessione – quella di rinchiudere in un’ideologia la complessità, la ricchezza e la varietà degli esseri umani – vuol dire costringere lumanità in una gabbia da cui sarà sempre più difficile uscire. O sei maschio, e devi essere maschio maschio, o sei femmina, e devi essere femmina femmina. Una femmina che non ama essere frou frou, che non civetta, che ha interessi altri rispetto alla seduzione, viene subito inquadrata come qualcuno che sta a disagio nel suo ruolo; e se qualche infelicità ha, magari di altro genere – famiglie sfasciate, anaffettività, abbandoni educativi – verrà subito caricata di un solo punto. L’identità sessuale. O meglio genitale. La stessa cosa vale per i maschi. Un maschio che ami giochi quieti, riflessivi, che preferisca passare il suo tempo con le bambine invece che buttarsi in risse selvagge verrà subito spinto a pensare che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui si potrebbe porre rimedio.

Da che mondo è mondo, i bambini sono stati liberi di sperimentare, tra le penombre dei cespugli o dei cortili, lontano dagli sguardi degli adulti, l’identità e la potenzialità dei loro corpi, sperimentazioni protette dal sacrosanto velo del pudore e capaci di fingere una continua fluidità: «Facciamo che io ero… facciamo che tu eri…». I ruoli dell’infanzia sono da sempre meravigliosamente intercambiabili. La ricchezza della persona discende proprio da questo continuo dialogo esplorativo, spesso ambivalente. Ci si forma ricercando, indagando, accettando e rifiutando. Ma quando questi movimenti naturali della crescita vengono militarmente guidati in una prospettiva rigidamente ideologica – il cui fine è incasellare e incatenare qualsiasi realtà dell’uomo alla sue genitalità – ci troviamo di fronte a un’umanità spinta nell’angustie di un vicolo cieco.

Eppure, nonostante tutte queste evidenze, la società contemporanea si è abbandonata al sonno della ragione, il pensiero collettivo, astutamente e lungamente indottrinato, continua ad abbattersi con furore come un’onda contro una granitica scogliera e a indicare nella scogliera il grande limite che impedisce a quell’onda di conquistare la libertà del mare aperto. Questa scogliera è in realtà un altare, e su questo altare avviene il sacrificio di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che, a causa di un momento di confusione e di fragilità nella crescita, vengono trasformati in vittime sacrificali, perché a qualsiasi persona di buon senso appare subito chiaro che la disforia di genere nell’infanzia è sintomo di qualche altro profondo disagio, primo tra tutti, forse, quello di vivere in un mondo che ti ripete continuamente che la vita non ha senso, che noi siamo soltanto figli del nulla e del caso e che non esiste alcuna realtà al di là di quella forgiata dai nostri desideri.


(Corriere della Sera, 11 febbraio 2024)

Con Laura Giordano e Benedetta Palazzo. È una pratica straordinaria, multilivello – quindi possono partecipare tutte e tutti-, si tiene una domenica al mese e il ricavato va a sostegno della Libreria! Vi invitiamo ad arrivare per le 10.15. Per qualsiasi ulteriore informazione scrivere a info@libreriadelledonne.it o contattare il numero 3408587963. È necessaria la prenotazione.

Enrico Zarpellon, Alice Walczer Baldinazzo,  Elisa Salerno. Femminista? Sì! Cattolica? Anche! Becco Giallo 2023. Scrittrice, giornalista, pensatrice e attivista, Elisa Salerno (Vicenza 1873-1957) spende la vita “per la santa causa della donna” nel mondo del lavoro, nella Chiesa e nella società. “Testarda, inflessibile, ostinatissima” subisce pesanti censure sia dalla Chiesa sia dal regime fascista. La forza e l’autorevolezza con cui svela compromessi e ipocrisie ne fanno una figura attuale e necessaria. Antonella Cunico dialoga con Enrico Zarpellon, responsabile dell’archivio che custodisce i suoi scritti, e Alice Walczer Baldinazzo, illustratrice e archeologa.

Per acquistare online Elisa Salerno:https://www.bookdealer.it/goto/9788833142579/607

di Silvia Ballestra


È una questione di qualità. Una sfumatura, un’omissione, giorno dopo giorno, a piccole dosi. Ricorda un po’ le truffe: se ti portano via tutto assieme te ne accorgi subito, se ti sottraggono un pezzettino alla volta ci metti un po’ di più.

E allora, ogni giorno da mesi, soprattutto all’ora di pranzo, ci tocca papparci questi telegiornali del primo canale della tv pubblica, in cui il linguaggio si torce impercettibilmente e bisogna avere l’orecchio un po’ fine per accorgersene, una particolare sensibilità per le parole, per la costruzione della frase.

Al momento di parlare di ciò che accade a Gaza, si produce uno strano fenomeno: la lingua del Tg1 diventa piccolina, poverina, come fosse una lingua nascondina, cancellina, dimentichina, sbianchettina dei nomi e dei numeri.

Funziona così: le frasi, quando sono in forma passiva, risultano senza complemento d’agente. I palestinesi vengono bombardati, sì, ma non si dice da chi. E muoiono, questo sì, ma risultano appunto morti, mai “uccisi”, perché se si muore ammazzati vuol dire che c’è qualcuno che ammazza, mentre lì, secondo questi servizi, visto che non si dice bene per mano di chi, si muore così, un po’ all’improvviso, nel nulla, tra bombe che cadono da sole.

In effetti attorno c’è il nulla: macerie, edifici rasi al suolo (case, ospedali, scuole, musei, università), strade cancellate, spianate di nulla desertificato dall’esodo forzato. Ma chi sarà stato mai a ridurle così? Non si sa, non si dice. O meglio, certo è stata la guerra, ma così, astratta. Ci sarà un esercito, tra quella polvere, tra quegli scoppi densi di fumo, ma non si sente, non si nomina.

I nomi dei palestinesi uccisi, sequestrati, arrestati, qualcuno li pronuncia, li scrive, li legge, li comunica? Non al Tg1. E non solo le parole, anche le cifre per mesi sono state taciute. Guai a riferire i numeri, mostruosi, delle vittime civili perché, ti dicono altrove, vai a sapere chi li fornisce. Non importa se sono le agenzie internazionali sul posto, le organizzazioni per i diritti umani, i soccorritori a fornirli ufficialmente: no no, quelli sono «i numeri di Hamas», sostengono, quindi non si possono dire.

E la parola genocidio, nonostante l’assedio, i proclami a togliere cibo, acqua, medicine, carburante, gli appelli contro «gli animali umani», è rimasta impronunciabile, tabù, rimossa per mesi e c’è voluta l’Aja con il «rischio genocidio» per riuscire a sentirla pronunciare.

Che strano, allora, potendo informarsi in rete e su piattaforme, vedere che all’estero non funziona così. Come stona questa lingua del Tg pubblico italiano, se sentita dopo la Bbc! È la lingua di un paese distratto e analfabeta, che assieme alle notizie ha perso i nomi, le parole, le cifre, i concetti. E ci vorrebbe davvero un bravo filologo, con carta e penna, a certificare quanto ci sono e quanto ci fanno i giornalisti del nostro principale telegiornale il cui canone, come si sa, lo paga anche chi analfabeta e distratto non è. Anzi, magari conosce pure qualche altra lingua per fare confronti impietosi.


(Il manifesto, 10 febbraio 2024)

di Fabrizia Giuliani


C’è una ragazza coraggiosa a Catania. Ha tredici anni. La retorica del racconto mediatico può farla diventare una “bambina”, certo l’infanzia è finita da poco, ma il coraggio, la determinazione, l’equilibrio con i quali ha agito portano fino in fondo il timbro della maturità. Non si può dire lo stesso delle reazioni e dei commenti a questa storia, ma riavviamo il nastro. Martedì scorso, tardo pomeriggio, esce per una passeggiata con il suo ragazzo – diciassette anni – nel parco al centro della città, Villa Bellini. Viene importunata da un gruppo di sette giovani di origine egiziana – tre minorenni – che trascina a forza la coppia nei bagni pubblici: lei viene abusata mentre il resto del gruppo tiene fermo lui. Dopo la violenza riescono a scappare, chiamare aiuto e denunciare. Le indagini sono veloci, i possibili aggressori identificati. La ragazza è convocata per il riconoscimento all’americana: molte facce, vetri oscurati. Indica dov’è certa, confermando le prove a carico di due degli indagati, si ferma dove non lo è: «Non voglio accusare persone innocenti». Tredici anni. La celerità delle indagini, la lucidità della deposizione, la puntualità del riconoscimento portano a chiudere il cerchio in tempi veloci: domani l’udienza e la convalida dei fermi.

Catania come Palermo, come Caivano. I luoghi diventano metonimie perché sono i soli tratti distintivi di copioni identici: violenza di molti contro una ragazza, violenza che deve essere filmata, condivisa oltre il presente, esibita. Serve il trofeo, il video, per documentare e ricattare. La tua vergogna garantisce la mia, la nostra impunità. Fermiamoci qui, è un punto nodale: chi abusa, filma e minaccia pensa di poter far leva su un senso comune che anche in presenza di una violenza documentata può rovesciare la colpa. È tua la vergogna come è tua la colpa: non si esce a certe ore, non ci si veste in un certo modo, non si accettano inviti. Questo è il retaggio patriarcale, il “dividendo” come lo battezzò Raewyn Connell, ben chiaro a chiunque esercita violenza. Questo è il tratto da combattere e dovremmo averlo ben presente ogni volta che commentiamo i fatti. Se la condanna oscilla a seconda della nazionalità degli aggressori o delle vittime, se gli abusi diventano il terreno per la strumentalizzazione, come sta accadendo, il fatto retrocede o scompare. La battaglia è persa. Serve responsabilità, invece, quando si governa, senso della misura, equilibrio. Va tenuta la barra ferma, come lo sguardo della ragazza al momento del riconoscimento del suo aggressore. Lavorare perché gli stupri di gruppo non si ripetano, sconfiggere la cultura che li sostiene, vuol dire riconoscere il tratto che unisce Caivano, Palermo e Catania non sacrificarlo in nome di guerre ideologiche che producono nuova intolleranza. La violenza degli uomini contro le donne va riconosciuta, chiamata per nome e combattuta con la stessa forza, ogni volta che accade. Non potremmo mai sperare di sradicarla se non identifichiamo quel tratto che con immensa fatica la battaglia di libertà delle donne ha portato alla luce e che oggi, come mostrano le parole del padre di Giulia Cecchettin, comincia a essere condivisa anche dagli uomini.

La ragazza di Catania, come altre che l’hanno preceduta, ha aperto una strada: non è facile essere all’altezza del suo coraggio e di quello che le servirà per affrontare il processo. Rispettarlo, però, è un dovere e bisogna cominciare adesso.


(La Stampa, 10 febbraio 2024)

di Luisa Fressoia


Articolo apparso su Avvenire il 10 dicembre 2023


Un gruppo di donne che tra loro non si conoscono cominciano a incontrarsi, accomunate dalla forte esigenza di parlare del proprio “essere genitori”, nella specifica e difficile situazione in cui oggi sono venute a trovarsi: il figlio o figlia hanno dichiarato la propria omosessualità, oppure hanno espresso il desiderio di transitare nel sesso opposto. Su invito dell’associazione milanese Agapo (Associazione genitori e amici di persone omosessuali), a cui si erano rivolte, dieci madri hanno accolto la proposta di un percorso di accompagnamento pedagogico finalizzato ad aiutarle ad affrontare le proprie difficoltà a gestire la relazione con il figlio o con la figlia e i propri dubbi sulle problematiche dell’identità sessuale e di genere.

Il percorso, costituito da più cicli di incontri tenutisi a partire dal maggio 2022 negli spazi di una parrocchia della città, si basa sulla metodologia autobiografica sviluppata in Italia a partire dagli studi e dalle intuizioni della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari alla fine degli anni ’90. Dal primo incontro emergono subito due aspetti: il desiderio profondo da parte di tutte le donne di non perdere la relazione con il figlio o la figlia e il bisogno urgente di poter esprimere il proprio dolore e disorientamento. Basta accettare, non esiste il problema. Questa è da anni, in sintesi, la risposta più frequente che si sente nel discorso pubblico. In verità il dolore di queste madri mostra radici più profonde dell’omofobia interiorizzata proveniente dalla nostra società, ovvero la non accettazione o il rifiuto dell’omo o transessualità.

Nel corso degli incontri le madri hanno avuto l’opportunità di esprimere il proprio dolore al fine di elaborarlo insieme alla possibilità di confrontarsi sulla complessità del tema. Il momento in cui un figlio rivela ai genitori la propria omosessualità o il proprio desiderio di cambiare sesso, non sentendosi a proprio agio nel corpo in cui è nato (disforia di genere), è un momento molto delicato sia per il figlio sia per i genitori stessi.

Come pedagogista lavoro soprattutto con i genitori, proponendo loro un percorso di presa di consapevolezza, che riattraversa la storia relazionale con il figlio o la figlia, al fine di migliorarne e arricchirne la relazione. L’obiettivo è che i figli imparino a prendersi cura di sé (che diventa anche cura degli altri). In tal senso il percorso è finalizzato non tanto a focalizzarsi sulla medicalizzazione (ad esempio le somministrazioni ormonali e gli interventi chirurgici irreversibili), ma ad attivare un profondo lavoro su di sé, sulle ansie e paure che il processo identitario comporta all’interno del percorso di crescita, che è sempre comunque faticoso, se pur affascinante.

Negli incontri gli interventi delle madri di giovani con disforia di genere hanno preso sempre più spazio (rispetto a quelle di figli omosessuali), casi che al momento diventano sempre più numerosi, specialmente nel caso di ragazze che desiderano diventare ragazzi. Le situazioni poste sul tavolo mostrano un alto grado di drammaticità, creando immediato coinvolgimento ed empatia da parte delle presenti. Particolarmente difficile da sopportare è per esempio osservare nelle proprie figlie la trasformazione dei tratti somatici, il cambiamento della voce, il comparire della barba, fino alla scelta della mastectomia dei seni sani. Dai racconti delle madri è possibile riscontrare nelle figlie, ancora giovanissime (vent’anni) una assai forte determinazione nell’operare scelte dalle conseguenze fortemente impattanti e spesso irreversibili sul proprio corpo e sulla propria psiche; così come si riscontra una certa fretta nell’iniziare il processo di transizione.

Pur essendo ancora soggetti in formazione, queste giovani hanno ricevuto il sostegno pressoché immediato a scuola sia da parte dei docenti, che da parte dei compagni: ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo di nomi e pronomi maschili e in più casi sono state riconosciute leader o avanguardie di una cultura nuova che, loro sostengono, deve affermarsi. Lo stesso sostegno alla transizione di genere viene ricevuta dai servizi sociosanitari con equipe di specialisti in base a protocolli consolidati. Presso l’ospedale Niguarda ad esempio la prassi per poter iniziare la transizione consiste in alcuni incontri intervallati tra psicologo, endocrinologo e psichiatra, un programma che consente al giovane di ricevere gratuitamente come primo step una cura ormonale insieme al contatto con l’associazione ALA (Associazione finanziata dalla Regione che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione sia sul territorio nazionale che internazionale), guidata da un educatrice e da un avvocato rispettivamente “M to F” e “F to M” (entrambe cioè già transitate, rispettivamente da maschio a femmina e da femmina a maschio). Dall’esperienza diretta di genitori che hanno partecipato agli incontri dell’associazione si registra come sin dall’inizio il messaggio che viene trasmesso sia chiaro: terapia ormonale e intervento chirurgico risolvono il problema di un genere percepito come inaccettabile.

A tal proposito il presidente della Società di psicoanalisi Sarantis Thanopulos in un’intervista rilasciata al Foglio lo scorso 16 ottobre parla di “medicalizzazione dello spazio psichico” e osserva: «Oggi cerchiamo una soluzione medica per ogni problema, distorcendo i processi evolutivi e di elaborazione dell’esperienza. Ma i farmaci non risolvono problemi esistenziali» e invita gli analisti a «non restare in silenzio davanti a situazioni he reputano dannose per i cittadini» Lo stesso Thanopulos, nella rubrica settimanale di psicologia da lui curata sul Manifesto osserva anche: «Quando si procede alla manipolazione chirurgica e ormonale del proprio corpo, il che penalizza severamente il piacere sessuale, si slitta nell’assoggettamento dell’intimità psichica all’esteriorità dell’immagine che, lungi da essere una caratteristica in sé della transessualità, è un fatto preoccupante del nostro tempo». Sono aspetti indubbiamente complessi, che affrontati insieme nel gruppo perdono per lo più la dimensione di condizione insopportabile o dagli effetti incontenibili.

Condividendo la vita, anche nella sua attuale sofferenza, ogni esperienza riacquista il proprio valore e la forza per essere affrontata e accolta. Il metodo narrativo-autobiografico usato ha permesso di porre al centro ogni volta il racconto dei propri vissuti e la ricerca dei significati ad essi connessi. È stata posta attenzione anche sulla relazione tra i membri del gruppo formatasi, che è andata progressivamente valorizzandosi e che ha permesso alle donne e madri di superare

l’iniziale stato di pesante solitudine. Un percorso che, in ultima analisi, ha consentito di prendersi cura di sé nel prendersi cura della vita della figlia o del figlio, riuscendo a conoscerli e comprenderli meglio, comprendendo meglio anche se stesse. Le madri uscite dal lavoro svolto su di sé e con le altre godono oggi di una maggiore serenità e autonomia di pensiero e di azione. É sempre interessante scoprire in ognuno di noi come certi “nodi”, che ci hanno tenuto magari per anni sotto scacco, comincino a sciogliersi: occorre fermarsi per riconoscerli per poi metterli a fuoco.

Nodi che possono interessare e liberare l’espressione della propria femminilità o mascolinità, il mondo degli affetti, la vita sessuale, la propria capacità di autonomia e dedizione. Ne va del nostro desiderio di vita e di umanità pienamente vissuta. Un programma che dura tutta la vita, quello della ricerca di una vita da far fiorire in tutte le sue dimensioni con le risorse che abbiamo a disposizione. Un’eredità senz’altro preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli.


(Avvenire, 10 dicembre 2023)

di Redazione del sito


Dalla sua inaugurazione il 16 novembre 2023, la mostra Artemisia Gentileschi. Coraggio e passione, in corso al Palazzo Ducale di Genova fino ad aprile, ha fatto discutere. La mostra include infatti una sala allestita con un letto, delle proiezioni sulle pareti simboleggianti il sangue ed estratti sonori delle dichiarazioni dell’artista al processo, in un punto di passaggio obbligato per accedere al resto della mostra, incentrando tutta la storia di Gentileschi e delle sue opere sugli episodi di violenza sessuale subiti dalla pittrice. Inoltre, il bookshop della mostra propone alla vendita un libro che esalta le “gesta erotiche” dello stupratore e dei gadget con la frase della sua confessione («Io del mio mal ministro fui»).

A seguito delle proteste di attiviste, storiche dell’arte, studentesse e giornaliste, e di una lettera aperta apparsa sul manifesto il 3 febbraio 2024, Ilaria Bonacossa, la nuova direttrice di Palazzo Ducale, ha rilasciato il 7 febbraio un’intervista a Radio Popolare di Milano in cui ha annunciato che i gadget sono stati rimossi dal bookshop. La direttrice si è espressa anche a proposito della sala, dichiarando che verranno aggiunti dei tendaggi per dare la possibilità di passare senza vedere l’allestimento e si aggiungerà un avviso che indicherà che i contenuti della stanza possono offendere chi entra. Bonacossa ha anche affermato che la vicenda di violenza non deve diventare «l’unico motivo per guardare al lavoro di Artemisia» e che nel suo programma futuro ci sarà «una modalità meno teatrale e meno biografica di raccontare le artiste donne. Non è che la biografia di per sé sia il male, è se la biografia diventa l’unico motivo per cui si guarda al talento femminile». Il problema non è questo, bensì l’uso morboso di un evento biografico femminile, che si tratti o no di un’artista.


(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2024)

di Alessandra Pigliaru


Non è una ragazza qualsiasi colei che spunta dalle pagine del libro di Stefano Raimondi, LAntigone (Mimesis, pp. 120, euro 12). Storicamente individuabile nella figlia di Edipo e Giocasta, è sì la straordinaria figura sofoclea ma, nella lettura di Raimondi, risente delle differenti suggestioni e rappresentazioni che di lei ci sono state consegnate, in particolare nel corso del Novecento. Letterarie e filosofiche, una fra tutte – dopo quella di María Zambrano – appartiene a Simone Weil che la descrive diversa dalla timida sorella Ismene.

È infatti Antigone una creatura non comune, piena di coraggio e cuore amoroso. Ed è proprio sull’amore che punta la prefazione di Chiara Zamboni, cogliendo la sessuazione riconosciuta dall’autore, poeta e critico letterario, che segna l’emersione di una donna il cui nome suggerisce con probabilità un’etimologia riferibile al contrasto e alla sostituzione. Vicenda tragica e originaria, quella raccontata da Stefano Raimondi nel suo «recitativo per voce sola», narra di solitudine costitutiva, di un essere umano eccentrico e solitario che tuttavia non esita un istante nello scegliere il bene di un altro essere umano.

L’Antigone però, con quell’articolo davanti, diventa anche topos laterale di memorie collettive, dove si affastellano dilemmi più sentimentali che morali, non cedendo a una certa vulgata che ne ha voluto indicare l’eccesso pulsionale. Bisogna piuttosto stare più accanto a ciò che scrive Luce Irigaray (in diversi testi): la rivoltosa tebana, per esempio, sa distinguere le forme dell’amore, soprattutto «vuole essere il tutto che è in quanto essere vivente. Vuole vivere e non morire».

Ecco perché appare convincente quanto Raimondi immagina che lei dica in proposito: «Qui smetto, ma non di morire, ma di vivere recisa. Ho lasciato dei bulbi, e della terra vicino alla porta della mia casa. Ho lasciato un cielo e delle nuvole ricolme sopra il mio tetto. Li ho lasciati come auguri, come carezze mai date a nessuno».

Creonte, a questo punto, è un interlocutore ancora più indegno di quanto lo ricordiamo, oltre che ingiusto, è lui l’essere in effetti a essere radicalmente in contrasto, ma al vivente. E il monologo poematico depositato nel libro – con una efficace postfazione di Niccolò Nisivoccia e le illustrazioni di Mario Cresci – è il cascame letterario e tutto novecentesco di una riscrittura aperta che deriva non tanto dalle contemporanee rivisitazioni dei classici, quanto da una ermeneutica dei testi foriera di contaminazioni più che di invenzioni. Se la postura di Antigone è qui reietta, diseredata, presagio di abbandoni e maledizioni, Raimondi ne coniuga il tenore politico.

Nelle sue brevi prose poetiche l’autore accoglie la lucidità di una donna che seppellisce il proprio fratello nonostante il divieto e a scapito della sua stessa sorte. Se l’amore è dunque un probabile luogo di scorticati, per dirla con Roland Barthes, è all’attenzione e all’attesa orante che ci si rivolge. Il suo essere “pietra d’inciampo” è memoria di altri teatri violenti della storia dell’umanità, non c’è allora legittima e necessaria custodia del sangue famigliare là dove non si riconosca il volto degli ultimi, dei soccombenti, degli scacciati, dei condannati.

Questo «Io» è in frantumi, questa parola in rovina a sovvertire plasticamente categorie estetiche rifugiandosi in un interno. Arriva dalla tomba, da una prigione, da un riparo anonimo di dolore o da una stanza di pietra – sembra dirci Antigone.

Allora cos’è che manca, tanto da produrre esitazione? Simone Weil risponderebbe forse la verità, ma in primis a disabitare è l’amore, descritto sommamente nella poesia dell’inglese George Herbert dal titolo appunto “Love” e che lei ripete, simile a un mantra. La traduzione che ne fa la filosofa francese la si può leggere nel volumetto Attenzione e preghiera (Meltemi, pp. 139, euro 12, prefazione di Chiara Giaccardi, introduzione e cura sapiente di Marco Dotti, postfazione di Maria Clara Lucchetti Bingemer). Più di una semplice raccolta, i testi che vengono consegnati, datati tra il 1940 e il 1942, sono allenamenti di radicalità e intransigenza, due qualità che legano la traiettoria di amicizia, storica, politica e spirituale con Antigone e altre creature libere (e che non a caso sono state, e sono ancora, di orientamento per il femminismo).

Se l’amore dà il benvenuto a chi si pensa «ingrato» e «meschino», chiede a chi gli sta dinanzi di cosa ha bisogno invitandolo a sedersi e assaggiare il suo cibo. Ecco forse cosa colpisce Weil della poesia di Herbert, imparata a memoria come una preghiera il cui significato è depositato in altre pagine, quando la filosofa scrive che «Gli sventurati non hanno bisogno di nulla al mondo se non di uomini (intesi come esseri umani, ndr) che prestino loro attenzione. La capacità di prestare attenzione agli sventurati è una cosa molto rara, molto difficile. È quasi un miracolo. È un miracolo. Quasi tutti coloro che pensano di avere questa capacità non ce l’hanno. Il calore, l’impulso del cuore, la pietà non sono sufficienti».

Perché in fondo, prosegue Weil, l’amore nella sua pienezza si sostanzia nel saper domandare: «Qual è la tua ferita? Qual è il tuo tormento?». Se attenzione e amore sono inestricabili fili di uno stesso sguardo capace di fare spazio, di allargare la vista mostrando il movimento in cui «l’anima si svuota» è possibile che ci troviamo frontali, ancora una volta, a un apprendistato che potrebbe diventare mistico.

In che termini questo esercitarsi risponda alla esplorazione di sé, come del mondo, lo raccontano magistralmente le donne. Se ne è accorta anche Victoria MacKenzie, scrittrice e poeta, che nel suo romanzo d’esordio, Abbi pietà del mio piccolo dolore (il Saggiatore, pp. 170, euro 17, traduzione di Viola Di Grado) lascia che Margery Kempe e Giuliana di Norwich raccontino di sé stesse fino al loro incontro, in Inghilterra intorno al 1414. Due ritratti che potrebbero essere accolti anch’essi come “recitativo per voce sola”, perché il libro è costruito attraverso brevi inserti che procedono indipendenti e che indagano, in prima persona, ciò di cui le due mistiche inglesi hanno fatto esperienza.

Intanto un affacciarsi, senza esitazione, come si confà all’amore, al viaggio spirituale che non è mai neutro perché si avvia dai corpi sessuati. Se Margery Kempe, analfabeta e appartenente alla classe mercantile, lascia il marito e i quattordici figli per pellegrinare tra Roma, Assisi, Gerusalemme e Santiago di Compostela (le sue memorie sono state dettate e rappresentano la prima autobiografia in lingua inglese), nel caso di Giuliana di Norwich le sue visioni sono state raccolte nelle Rivelazioni dellamore divino.

Tra perdite, ritrovamenti fortuiti e altre storie che hanno interessato entrambi i testi dopo la morte delle autrici, l’operazione condotta oggi da MacKenzie non ambisce a essere una ricostruzione troppo veritiera, sia pure non interferisca eccessivamente con la verità dei fatti. È tuttavia occasione di ripercorrere la parabola della solitudine di due donne che, per espressa volontà, decidono di incontrarsi e pensare insieme.

Di parlare insieme, per la prima volta, di malattia, maternità, lacrime, rivolte. Raccontano delle persecuzioni, hanno i segni di peste e disobbedienze, osservano il senso di un esistere che non è unicamente terreno e che, anche in mezzo alla perdita e alla violenza, trova spazio, prima segreto e poi pubblico, per parlare di Dio. A lui interessano i fondali marini in cui cammina Giuliana che, nel ricordo, ondeggia insieme alle alghe nella corrente, «come il nocciolo che dondolava al vento fuori dalla mia finestra». Non può esserci esitazione, anche se a fronte di «un carico enorme / appeso a un filo sottile», chioserebbe Anne Sexton, dalla stanza di Norwich alle terre di Margery.

Le parole di Antigone, come quelle di Simone Weil e delle protagoniste del romanzo di MacKenzie, saettano allora tra i secoli suggerendo attenzione e amore come antidoti ai numerosi e diversi tipi di esilio a cui condanna la Storia. E agli altrettanti rifiuti. Parlare dunque, e agire, soprattutto quando troppa e ammutolente è la violenza che imperversa nel presente, il nostro come il loro.


(il manifesto, 7 febbraio 2024)

di Valeria Parrella


Ousmane Sylla


Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace.


E quando c’è una scritta così non c’è più niente da aggiungere, l’esercizio stesso della scrittura resta esercizio. È quello che si prova visitando gli archivi di Pieve Santo Stefano, scendendo giù nei ricoveri della Seconda guerra mondiale ricavati dai tunnel borbonici a Napoli, quello che sentiamo andando a Via Tasso a rileggere i messaggi lasciati dai condannati a morte dai nazisti, non lontano da questa nuova lapide del Centro Permanenza e Rimpatrio di Ponte Galeria, in cui non si riesce a entrare, su cui da giorni si rincorrevano allarmi, e infatti, poi, eccolo. Ha lasciato una scritta semplice e incancellabile, quella scritta dice. Una scritta non è una cosa qualunque, una scritta è sempre un manifesto quando fatta su un muro, sta sempre a urlare agli altri anche quando ci sembra intima, come questa.

Quella scritta dice. Dice quello che tutti sempre vogliamo, quello che ogni migrante sogna, andare, vedere, vivere, lavorare, aiutare chi abbiamo lasciato, tornare.

E poi dice che il suicidio è l’unico spazio di libertà, l’ultima capriola concessa nell’angolo della reclusione. Che è insieme un atto di disperazione, ma anche un atto di liberazione e di speranza. Gli altri, i liberi, restano e per gli altri quel gesto deve valere come condanna.

L’impiccagione non è un suicidio qualunque: è un’accusa – Antigone si impicca con i veli che l’avrebbero dovuta vedere sposa – spesso l’unica accusa a cui possono ricorrere i ristretti. E dice che i sistemi di reclusione in Italia ci rappresentano bene come una società incapace e disamorata: abbandonati a loro stessi, luogo di dolore sia fisico che mentale, luoghi in cui fatica a entrare non già il concetto di speranza, ma quello di sopravvivenza. Dice che i centri per il rimpatrio tengono chiuse dentro persone innocenti, in attesa di cosa.

Quelle frasi sono la nostra condanna, il suo atto di accusa per noi perché qualunque persona libera è responsabile per qualunque recluso. L’insostenibile paradosso di trovarla in un centro per il rimpatrio è che dice anche di un nostos negato.

Mentre scriveva aveva ancora ventun anni, e viveva – e vive – di parole bellissime: Vorrei. Mia madre. L’Africa. La mia anima. Pace. Cinque passaggi dal mondo ingiusto a quello giusto.

Ousmane Sylla muore consegnandoci un messaggio che splende tutta l’umanità che non gli abbiamo saputo dare: lui, mentre lo uccidevamo, la custodiva.

Se un funerale nobile dovesse esserci oggi in Italia dovrebbe essere per Ousmane Sylla, poi, dopo: quella parola rimpatrio sotto cui è rimasto, sospeso in vita, sospeso in morte, sarebbe l’unico tardivo atto di pietà.


(il manifesto, 6 febbraio 2024)

di Umberto Varischio


Quasi tutti i mezzi d’informazione di oggi, 5 febbraio, si occupano della vicenda dello stupro della tredicenne a Catania.

Alcuni si pongono il problema di cosa dicano le donne, in particolare le femministe, di questo stupro che è stato commesso da giovani maschi, alcuni minorenni, di nazionalità non italiana.

Molti di coloro che si pongono questa domanda sono uomini.

A quanto mi risulta ben pochi uomini sui mezzi d’informazione si pongono, di contro, la domanda di cosa pensiamo, diciamo e facciamo noi maschi, me compreso.

Forse, in questi casi invece di guardare sempre al fuori di noi, di rendere esterno a noi il problema della violenza, in questo caso anche sessuale, e di puntare il dito accusatore verso altri uomini, meglio se stranieri, sarebbe il caso che volgessimo il dito, lo sguardo su di noi, sui nostri silenzi e sulle nostre omissioni. E tentassimo, con le parole e con le azioni, di cambiare lo stato di cose esistente, senza pensare che violenza sia sempre agita da altri, e non da noi stessi.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 5 febbraio 2024)

di Irene Doda*


Passato il picco di interesse mediatico verso il femminicidio di Giulia Cecchettin, passata l’ondata di rabbia e la manifestazione di piazza, le accuse assurde di satanismo alla sorella Elena, restiamo, ancora una volta, noi. Noi, che un corpo femminile – o femminilizzato – lo abitiamo tutti i giorni. I femminicidi sono proseguiti, così come le tante piccole violenze quotidiane. È rimasta anche la nostra rabbia.

Tanto si è scritto, anche molto bene, della rabbia femminile. Nei giorni successivi alla morte di Cecchettin è uscito un lungo articolo di Viola Stefanello su Lucy che parte dall’esperienza dell’autrice con le rage room per raccontare l’esperienza di repressione che le donne associano alla rabbia. «Da anni si moltiplicano gli studi che mostrano quanto le donne tendano a provare rabbia più spesso, e più intensamente, degli uomini. Le ragioni sono tantissime: la stanchezza e la solitudine della maternità, le disparità sul posto di lavoro e nei lavori domestici, la sensazione di non essere davvero al sicuro negli spazi pubblici, i costanti tentativi di corrosione dei diritti riproduttivi, la sensazione di non avere mai davvero tempo per te stessa come individuo, la gente che ti chiama nazifemminista se fai notare che è faticoso vivere così […]. Ma è spesso una rabbia molto lontana dai pugni tirati ai muri, che non sa cosa fare di sé stessa. Così, l’espressione della rabbia femminile finisce per essere quasi sempre autodistruttiva», scrive Stefanello. La rabbia come sentimento politico, però, quella che ha portato in piazza Non Una di Meno a novembre, che molti movimenti rivendicano come base delle loro pratiche, ha una chiara matrice distruttiva. Bruciamo tutto, ha detto Elena Cecchettin. Per parafrasare un vecchio slogan: il patriarcato si chiude col fuoco.

La mia reazione intima di fronte alla rabbia della piazza è sempre di esaltazione. Forse perché anche io ho dentro quel senso di rivalsa al quale solo la lotta collettiva riesce a rendere giustizia. Forse perché è un antidoto a quell’autodistruzione di cui parla Stefanello. Bruciare tutto per non bruciare noi. Ma dopo la piazza restano dei sentimenti con cui fare i conti, e per quanto, come persone appartenenti a un movimento, ci sforziamo di elaborarli in modo collettivo, i sentimenti hanno quel brutto vizio di essere una questione intima. Il personale è politico, ma resta comunque qualcosa che ha a che fare con, appunto, le persone. Fare i conti con la rabbia, l’esaltazione, e anche l’odio è una parte di responsabilità politica che parte da dentro.

Lodio ha origini lontane

Quando Filippo Turetta (ex fidanzato di Cecchettin, che ha confessato di averla assassinata) è tornato in Italia, i giornali hanno riportato che le forze dell’ordine lo hanno protetto da un possibile linciaggio. Il personaggio di Filippo Turetta ha colpito particolarmente l’opinione pubblica, soprattutto quella femminile: perché non era un criminale, un tossico, un pregiudicato o uno di quei personaggi che, nel nostro immaginario, possono commettere un omicidio. Non corrispondeva a una di quelle figurazioni stereotipate che noi, che ci consideriamo persone attente e con la testa sulle spalle, non frequenteremmo mai. Era il ragazzo della porta accanto, che preparava i biscotti, insieme al coltello e allo scotch da pacchi. Proprio come avevamo sempre detto: non il mostro, ma il figlio sano del patriarcato.

L’odio, come definito dall’enciclopedia Treccani sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui, è la risposta spontanea di fronte a una violenza così abile nel mascherarsi da sembrare ineluttabile. La domanda di come porsi di fronte alla violenza di genere non è un dilemma marginale per i femminismi: è la loro domanda centrale. Dalla risposta che sappiamo dare alla violenza dipende la nostra sopravvivenza come individui, la libertà di movimento dei nostri corpi, e di espressione delle nostre menti e anime. Per quanto, in fondo, sia vero che not all men (nel senso che sì, esistono uomini non pericolosi, non violenti, non sessisti) i nostri sentimenti si proiettano su tutti gli uomini. Anche su quelli più buoni e insospettabili. E come potrebbe essere diversamente? Abbiamo sprecato tanto fiato e tante parole per non farci dipingere come odiatrici seriali di uomini, noi femministe, quando invece a me sembra una conseguenza naturale della violenza che ci minaccia.

Ha scritto la filosofa Katherine Angel nel suo libro “Bella di papà” (in inglese: Daddy Issues) un’esplorazione della figura del padre nella cultura contemporanea, pubblicato in Italia da Blackie: «Uno dei compiti più urgenti che la nostra epoca incerta – nata dopo il #MeToo – ci richiede, è quello di non limitarci più ad un confronto con il nostro status di vittime della dominazione maschile, ma anche di fare i conti con i nostri desideri di retribuzione, vendetta, punizione, con le nostre fantasie di aggressività e di smascheramento». Il parallelo creato da Angel è tra movimento femminista e sviluppo dell’individuo. La filosofia paragona infatti la necessità del bambino di confrontarsi con la sua ostilità verso genitori; i sentimenti negativi nei confronti delle nostre origini sono alla base dello sviluppo di un sano senso del sé. L’ipotesi è che il desiderio di vendetta femminista provenga dunque da una necessità di auto-affermazione.

Nell’ambito di un movimento articolato come il femminismo contemporaneo, questa necessità di fare spazio al desiderio di violenza si combina con un’analisi sistemica del rapporto tra i generi, con un quadro di oppressioni multiple, con la volontà, in ultima istanza, di trasformare la società.

Guarigione e trasformazione

La violenza di genere è una ferita infetta, che continua a fare male. Il movimento femminista non può che posizionarsi a partire da qui. Deve disinfettare la ferita prima di chiuderla con i punti di sutura. La repressione dell’odio, del sentimento negativo che ci attraversa diventa un veicolo per controllare la rabbia femminile e la volontà di cambiamento radicale. I bisogni di sicurezza e di protezione vengono cooptati dallo stato e riproposti alle donne e alle soggettività di genere non conforme in senso nazionalista, classista e razzista. Scrivere la filosofia decoloniale francese Françoise Vergès in Una teoria femminista della violenza (Ombre corte, 2021): «L’uomo non è strutturalmente violento e la donna sempre la sua vittima? Le leggi non sono troppo morbide dal momento che le violenze non diminuiscono o di ben poco? Gettiamo gli uomini in pasto alla vendetta! Allontaniamoli! […] Imprigioniamoli! Facciamo cambiare campo alla paura!» Quando la protezione dalla violenza di genere viene delegata alle istituzioni carcerarie, si crea l’illusione della pacificazione del conflitto di genere, riassorbito in strutture interpretabili secondo una logica familiare, quella binaria del carnefice/vittima. Nonostante possa sembrare il contrario, l’approccio punitivo alla violenza di genere, e il cosiddetto femminismo carcerario, non tengono conto della rabbia delle donne. Anzi, con la tipica autorità patriarcale, la imbrigliano dentro rigidi paletti di rispettabilità. L’insistenza sulla sicurezza e sulla punizione, i due pilastri della società punitiva non solo umiliano la rabbia femminile e la depotenziano, ma non sono neppure efficaci. In primis perché proteggono solo alcune donne, le vittime perfette designate dallo stesso sistema che le vuole difendere: le donne bianche, rispettabili, non tossicodipendenti, che non hanno compiuto atti criminali, che non hanno mai praticato sex work, che sono eterosessuali e monogame fedeli. Diversi osservatori e osservatrici hanno inoltre constatato come le soluzioni esclusivamente punitive non abbiano un impatto nel ridurre la violenza di genere – si possono reperire esempi da tutto il mondo (qualche dato da Stati Uniti, Italia e Sudafrica).

La vittima perfetta, per lo stato e per il femminismo carcerario, soprattutto non è arrabbiata. Non odia, non urla, ma piange. Non brucia nulla, ma brucia dentro. Ingoia la rabbia e costruisce una facciata di donna rispettabile. Nel frattempo, la punizione, inflitta in modo sproporzionato su una fetta particolare di uomini (quelli razzializzati, poveri, emarginati e meno inseriti nel sistema che commina le pene) non fa che slabbrare ancora di più la ferita: la violenza chiama violenza, il trauma chiama trauma. Il cerchio della retribuzione, e del silenzio, si chiude.

Fuori dal labirinto

Uscire da questo ciclo di vittimizzazione, chiamata alla protezione e strumentalizzazione non è certo facile. Ma per riparare il conflitto di genere occorre prima riconoscerlo fino in fondo. Anche nelle sue parti meno piacevoli. Per esorcizzarle, forse, riconoscerle per quello che sono ed evitare di finire nel ciclo infinito di traumatizzazione e ri-traumatizzazione che colpisce sempre le parti più deboli della società. Per tornare al parallelo proposto da Katherine Angel: occorre fare i conti con l’odio per affermare la propria identità, le proprie rivendicazioni come soggetto politico e passare da una fase di lutto a una fase di azione.

Non pretendo di avere in tasca la risposta precisa sul contenuto di tale azione. Può sembrare di essere finite in un vicolo cieco: se agire rischia di riprodurre la violenza, restare inermi ci lascia scoperte. Come in molti altri campi esistono strategie dirette per fare un uso politico dell’aggressività, che vanno dal personale al collettivo. In un ambito così nuovo, emergente, i due aspetti non solo possono coesistere, ma è inevitabile che lo facciano. Il rito collettivo della messa in comune della rabbia attraverso le marce di piazza è una tattica per esorcizzare la violenza, basata sulla presenza corporea e sulla riappropriazione simbolica dello spazio.

La filosofa Elsa Dorlin, nel suo libro Difendersi (Fandango, 2020) traccia una genealogia delle tradizioni di autodifesa: dall’autodifesa schiava, alle arti marziali praticate dalle suffragette. Difendersi, o auto-difendersi sono, secondo Dorlin, una pratica affermativa, una preservazione del sé, che è anche creazione e realizzazione. Se infatti la vendetta è un dispositivo solo vittimizzante, oltre che individuale, l’autodifesa ha anche un aspetto affermativo della soggettività. La difesa, come insegnano, tra le altre, le militanti del Rojava, non può esistere senza la difesa di qualcosa. «Pretendere dallo stato ciò che ci deve, ma rimanendo autonome, porre le nostre condizioni quando dialoghiamo con le istituzioni, bruciare, creare disordine, educarsi collettivamente […], essere solidali con tutte le lotte di liberazione, coltivare l’amicizia e l’amore rivoluzionari», scrive ancora Françoise Vergès in Una teoria femminista della violenza.

Un’altra tattica è quella della sottrazione. Ne ha scritto molto bene Davide Traglia, proprio qui sull’Indiscreto, qualche settimana fa: «In una società che ci mette l’uno contro l’altro, che ha sostituito la presenza corporea con l’avatar e intende il confronto sociale soltanto come un forsennato scontro per la produzione – a discapito di qualsiasi possibile senso di comunità – tocca al singolo individuo provare a invertire la rotta: smetterla di voler esistere a ogni costo, accettare l’ordinarietà delle nostre vite, coltivare l’arte della sottrazione». Traslando la riflessione di Traglia sul piano collettivo, possiamo pensare agli scioperi femministi come manifestazione di una sottrazione radicale, un rifiuto di partecipare a un sistema fondato sulla violenza.

Un movimento femminista che accetta l’odio e il desiderio di vendetta e li guarda in faccia sarà in grado di usare la rabbia in senso trasformativo. Un movimento non in grado di confrontarsi con l’odio non farà altro che farsi usare da esso: non lo vedrà come necessario e naturale punto di partenza, ma come obiettivo politico, con il rischio di farsi strumentalizzare dallo stesso sistema che si propone di combattere.

(*) Irene Doda ha 28 anni, vive e lavora in Romagna. Scrive per Wired, Il Tascabile, Siamomine, Emma Rivista e altre testate online e cartacee. È co-autrice e speaker del podcast Anticurriculum, sul futuro del mondo del lavoro. Ha pubblicato per Edizioni Tlon L’utopia dei miliardari.


(indiscreto.org. 5 febbraio 2024)