di Paola Mammani


Francesca Izzo, nel suo articolo intitolato La libertà di scelta non equivale a diritto, apparso sull’Huffington Post del 5 marzo scorso, ha trascritto con precisione la formula con la quale la Francia ha voluto inscrivere in Costituzione il fatto dell’aborto. «La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza». Nota Izzo che non si tratta di diritto all’aborto, che avrebbe comportato la sostanziale cancellazione del ruolo della donna nella scelta della procreazione. Per un’analisi chiara e convincente delle conseguenze negative che una logica dei diritti avrebbe significato, rimando al suo articolo pubblicato anche su questo sito.

L’autrice apprezza che il testo parli di “libertà” e di “condizioni in cui si esercita tale libertà”.    Penso, tuttavia, che non vi sia da compiacersi per la formula utilizzata dal dettato costituzionale francese. È evidente che il vero soggetto, e non solo grammaticale, di quella formulazione è “la legge” che così, con forza costituzionale, si attribuisce il potere di legiferare sulle condizioni che garantiscono a una donna la libertà di interrompere una gravidanza. Un curioso bisticcio quello di una “libertà garantita” a condizioni determinate dalla legge.

In Italia, senza l’intralcio costituzionale, basterebbe l’abrogazione della l. 194/78 per realizzare ciò che una parte delle donne aveva già chiesto durante il dibattito che ne precedette l’approvazione, e cioè che si dovesse semplicemente depenalizzare l’aborto che era un reato, lasciando alla donna, alle sue relazioni, affettive, amicali, di fiducia con operatrici ed operatori sanitari, la ricerca delle “condizioni” a cui tale procedura medica si sarebbe potuta dare. Sarebbe così sparito del tutto dall’ordinamento giuridico il tema dell’aborto che deve essere una decisione di ciascuna singola donna, affiancata da chi le è più vicino.


(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)

(1)


di Tiziana Nasali


Le parole pronunciate da Papa Francesco al Convegno internazionale “Uomo-donna immagine di Dio” (2) mi hanno fatto immediatamente pensare alla bella immagine con cui Giordana Masotto conclude il suo articolo sul libro di Libera Mazzoleni, Brothels, che racconta l’orrore dei bordelli e che l’autrice dedica «alle donne ferite e uccise dalla violenza del patriarcato e a tutte le donne che rifiutano lo status di vittima».

Scrive Masotto: «Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere». (3)

Il Papa, dopo aver messo in guardia dall’ideologia del gender che definisce il pericolo più brutto, dice che cancellarela differenza è cancellare l’umanità e che uomo e donna stanno in una feconda “tensione”.

Non so cosa intenda esattamente per feconda tensione ma, anche per il mio immaginario di donna laica, è un’immagine forte.

Cosa hanno in comune le parole del Papa con quelle di Masotto/Mazzoleni?

Entrambe condannano la cancellazione delle donne operata, nelle diverse epoche storiche e in modi diversi, dalla cultura maschile e prefigurano uno scenario con uomini e donne finalmente in relazione come soggetti parlanti nella loro differenza.   

Oggi, con la fine del patriarcato, le forme di cancellazione delle donne sono più difficili da smascherare, perché più complesse: mi riferisco all’emancipazione e alla questione del gender.

L’emancipazione: l’avvento della libertà femminile mette al centro della politica il ripensamento del contratto sociale ma l’opinione pubblica, in maggioranza, registra come libertà femminile quella che è solo emancipazione: plaude ogni volta che una donna arriva a traguardi fino ad allora solo maschili e si batte il petto per le percentuali troppo basse di donne presenti nelle tradizionali roccaforti degli uomini, non considerando che l’inclusione paritaria delle donne nell’organizzazione sociale modellata su bisogni e desideri maschili non produce nulla che gli uomini non abbiano già fatto e/o pensato.

Il gender: l’uso del termine “genere” mostra la possibilità di non individuare più gli essere umani a partire da quella unità imprescindibile di natura e linguaggio, di biologico e simbolicoassieme che chiamiamo sesso, potendosi viceversa definire in base alla loro “percezione” psico-sociale. Così, se la differenza sessuale pensata dalla cultura maschile patriarcale ha storicamente prodotto la discriminazione delle donne, oggi, per porre riparo a quella e ad altre ingiustizie, c’è chi propone di prescindere completamente dal sesso come prima definito intendendo che solo in questo modo si eliminerebbero le discriminazioni. Ovviamente ci si deve porre il problema, essendo in aumento il numero di ragazze/i che si dichiarano gender fluid e casi, soprattutto di ragazze, che intraprendono il percorso di transizione. Infatti, nonostante buona parte della scienza medica sia giunta a conclusione che la disforia di genere in gran parte dei casi si risolverebbe da sola alla fine dell’adolescenza e nonostante le ormai numerose testimonianze di ragazze detrans che denunciano l’orribile e inutile calvario affrontato perché non seguite, a suo tempo, da buone terapie psicologiche, l’ideologia gender ha ancora moltissima presa.

Ma qualcosa ci dicono. E cioè che è ancora molto faticoso essere donna nella nostra società. Sono d’accordo con Silvia Motta quando scrive che la gran parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne (4). Probabilmente la stessa cosa accade alle ragazze che pensano di essere nate in un corpo sbagliato e quindi “desiderano” essere dell’altro sesso: le ragazze, più che essere maschi, è probabile che non vogliano affrontare le difficoltà dell’essere donna e/o la loro omosessualità. Forse lo stesso vale anche per i maschi che sempre più si discostano dai modelli di “mascolinità tossica” e si confrontano con il pensiero nato da pratiche di donne.

La libertà femminile permette a donne e a uomini di pensare la differenza sessuale non come contenitore di identità, ma come un processo in divenire, dove si costruisce un senso nuovo dell’essere donna e dell’essere uomo.

Quindi:«che cosa c’è di disumano oggi che consideriamo normale?»

Il Papa dice che cancellare la differenza significa cancellare l’umanità. Io penso che cancellare la differenza tolga a uomini e donne la possibilità di andare ad attingere al proprio sentire più profondo radicato nella differenza sessuale: gli stereotipi di genere sono una gabbia per entrambi i sessi, anche se probabilmente le donne ne patiscono maggiormente le conseguenze. Ma solo la ricerca del significato e del senso che vogliamo attribuire al nostro sesso può aprire a tutti e a tutte un’esistenza veramente libera, anche a chi non si identifica in un sesso o in un genere.


Note

(1) È la domanda che si pone Giordana Masotto nel suo articolo Arte e/è politica, Libreria delle donne, 29 febbraio 2024.

(2)Monito lanciato da papa Francesco durante l’udienza con i partecipanti al Convegno internazionale «Uomo-donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni» promosso dal Centro di ricerca e antropologia delle vocazioni (Crav) e che si tiene in Vaticano nell’Aula del Sinodo, in Avvenire, 1° marzo 2024.

(3) Giordana Masotto, cit.

(4) Silvia Motta, Tre parole che si confondono: parità, uguaglianza, libertà. Considerazioni minime su temi grandi, Libreria delle donne, 17 febbraio 2024


(www.libreriadelledonne.it, 13 marzo 2024)

di Guido Caldiron


Un percorso di letture alla vigilia delle elezioni presidenziali che si svolgono nel Paese dal 15 al 17 marzo. Analisi e letture dell’«era Putin», tra «generazione Z», affari e repressione. E inedite forme di resistenza. «Putinstan» di Giorgio Fornoni (Prefazione di Milena Gabanelli), per Chiarelettere, «I figli di Putin» di Ian Garner, per Linkiesta Books. Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese raccontano repressione e opposizione a Mosca nel loro libro edito da Altraeconomia


«Il mondo è una foresta che brucia, con qualche persona minuscola che cerca di dominare le fiamme, mentre dall’alto cala ancora più orrore». Malgrado a questa immagine funesta faccia seguito un appello a non arrendersi all’oscurantismo e alla tirannia, le parole di Katja Martynova, tra le animatrici della rivista Doxa nata nel 2017 tra gli studenti e i ricercatori del campus moscovita dell’Hse, raccolte da Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese in La Russia che si ribella (Altraeconomia, pp. 118, euro 12), non potrebbero suonare più adatte a descrivere il clima cupo che regna nel Paese. Questo, mentre Mosca si prepara alle elezioni presidenziali, in programma questa settimana, da venerdì a domenica, destinate a confermare il potere ventennale di Vladimir Putin e dopo due anni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina che ha segnato anche l’avvio di un’ulteriore drammatica stretta alle libertà e ai diritti civili culminata con la morte in prigione di Aleksej Navalny.

Difficile semplificareo schematizzare, anche in assenza di affidabili indagini di carattere sociologico o demoscopico, la realtà di uno dei Paesi più estesi del mondo, che vanta comunque oltre 143 milioni di abitanti e rappresenta, malgrado le spinte all’uniformazione culturale che arrivano dalla Chiesa ortodossa come dal Cremlino, almeno in parte ancora oggi un crogiolo di culture e popoli. Ciò che però è possibile abbozzare, grazie ad alcune opere di recente pubblicazione, è il ritratto di cosa la Russia putiniana sia diventata, o sia in procinto di diventare, all’ombra di quell’intreccio di interessi economici, ultranazionalismo, repressione e rinnovati istinti imperiali, e bellicisti, che hanno caratterizzato il pieno approdo di tale società all’era post-sovietica.

La prima raccolta di istantanee ci è fornita da Giorgio Fornoni, da tempo collaboratore della trasmissione televisiva Report, che ha riunito in Putinstan (Prefazione di Milena Gabanelli, Chiarelettere, pp. 284, euro 19,50) i reportage e le inchieste che ha dedicato fin qui alla Russia proprio nell’intento di aiutarci a capire il presente, e forse il futuro, perlomeno prossimo, del grande Paese.

«Difficile capire i missili sulle città ucraine senza essere stati tra le macerie di Grozny nel 2000, senza aver vissuto la gioia dei giovani nella rivolta arancione in piazza Maidan nel 2014, senza aver conosciuto l’onestà intellettuale e l’integrità di una donna coraggiosa come Anna Politkovskaya, che ho incontrato varie volte nella redazione della Novaja Gazeta», sottolinea Fornoni, ricordando la coraggiosa cronista uccisa a Mosca il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Putin, probabilmente per aver denunciato proprio la deriva violenta e nazionalista di cui il presidente è l’emblema, oltre ai crimini di guerra di cui i russi si sono macchiati nel Caucaso.

Non a caso, Putinstan sceglie di raccontare quella che non esita a definire come la realtà di «uno Stato canaglia» lungo due traiettorie che finiscono per convergere in più punti. Da un lato ci sono gli affari e gli interessi legati al gruppo di potere di cui Putin è espressione, a cominciare dal controllo su Gazprom e gli altri colossi russi dell’energia, spesso frutto del modo in cui «l’economia di mercato» sbarcò nel Paese dopo il crollo dell’Urss sotto l’egida del clan Eltsin – «Putin non è un uomo del Kgb o dell’Fsb come si ritiene all’estero, ma è un uomo della famiglia Eltsin», spiega uno degli interlocutori russi di Fornoni. Dall’altro, le stesse mani che controllano saldamente l’economia, fino a far coincidere gli interessi personali con quelli dello Stato, sono spesso sporche di sangue.

L’inviato di Report identifica diversi elementi in tal senso: da quello che chiama «il calvario ceceno», dove Mosca ha condotto per più di 15 anni una guerra brutale all’insegna della «terra bruciata»; alla memoria non assunta del Gulag e dei crimini di Stato perpetrati sia in epoca staliniana che in seguito, l’ultimo tassello in tal senso è stata la messa al bando dell’associazione Memorial che era stata fondata da Andrej Sacharov; dal modo in cui la pena di morte, sospesa ufficialmente nel 1996, continua di fatto ad essere applicata nelle carceri russe dove «speciali squadre della morte» si occupano di «giustiziare» criminali ma anche oppositori politici (difficile non pensare al già citato caso di Navalny); all’attacco costante ai giornalisti indipendenti, che Fornoni, dopo averne incontrati alcuni, spesso in seguito messi a tacere dal regime, definisce «in prima linea» per il semplice fatto di rappresentare spesso i rari volti noti della critica al potere, un esercizio così raro che oggi a Mosca può costare la vita.

Dove si arresta l’analisi del libro di Fornoni, prende avvio la ricerca dello storico britannico Ian Garner che ne I figli di Putin (Traduzione di Anna Zafesova, Linkiesta Books, pp. 314, euro 22) sembra tirare le somme del clima che si è andato costruendo nel Paese nel corso dell’ultimo ventennio e che ha fatto da retroterra ideologico alla guerra in Ucraina. Così, l’«indagine sul nuovo fascismo russo» di Garner si sviluppa proprio intorno alle retrovie dell’invasione del 2022: quella in cui si è affermata la «generazione Z».

«La Russia – precisa Garner – è stata sommersa da simboli di mascolinità, religiosità e nazionalità che sono stati creati ad arte man mano che la guerra sfuggiva di mano ai militari. Immagini attinte dai vari passati della nazione – sovietico-religioso-zarista – vengono ricamate sulle giubbe dei soldati, sventolate dalle automobili, e appiccicate alle finestre delle aule scolastiche. La Z, il simbolo governativo della guerra, è ovunque. La televisione trasmette parate militari e manifestazioni “spontanee” a favore della guerra. E in Internet c’è un profluvio di meme, filmati e slogan che inneggiano alla gloria militare passata e presente della Russia zarista, sovietica, santa o putinista».

È per questa via che nel periodo che intercorre tra la prima elezione di Putin (2000) e la guerra a Kiev (2022), «partendo dai margini del Cremlino» e della politica, alcuni ideologi sono stati promossi al centro del dibattito nazionale come interpreti di potenti narrazioni fasciste. Facile pensare, al riguardo, a figure come quella di Aleksandr Dugin, teorico dell’estrema destra spesso ospite anche del nostro Paese. Descrivendo tappa per tappa dapprima la crescita dei gruppi fascisti nella società russa e poi il loro progressivo recupero, o almeno le loro idee, da parte dell’establishment putiniano, mentre lo scenario mutava, passando dagli spalti degli stadi ai social network, Garner racconta la progressiva militarizzazione della cultura giovanile e quella sorta di «nazionalizzazione delle masse» che si è andata operando in un Paese che, smarrite le promesse del futuro, sembra essersi rifugiato in una costante evocazione del proprio passato immaginario.

Il fatto che la Russia di Putin – e come si è visto fin qui non solo in virtù dei noti legami con l’estrema destra europea e internazionale, da Trump a Le Pen, passando per Salvini -, si sia trasformata in un simbolo della capacità delle culture reazionarie di «farsi Stato», non deve far però credere che non siano attive nel Paese forme di resistenza o di opposizione politica. Anche senza dover tornare ad evocare i nomi di Politkovskaja e Navalny, figure per altro tra loro molto differenti, proprio «contro» questa violenta deriva è attivo da tempo più che un vero movimento, molte e diverse forme di mobilitazione. In La Russia che si ribella, Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese descrivono a un tempo le forme che hanno assunto le proteste e la repressione nel corso dei vent’anni di potere di Putin.

Se la violenza della repressione e i numerosi omicidi politici di oppositori hanno impedito che si sviluppassero strutture di massa in grado di opporsi al potere, proprio le proteste spontanee con cui decine di migliaia di russi si sono opposti due anni or sono all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, segnalano come malgrado la brutalità del potere in molti siano ancora pronti perlomeno a cercare di far sentire la propria opinione critica. Franceschelli e Varese scelgono così di dar voce a cinque protagonisti di questa parte della società russa che non intende arrendersi né a Putin né alla guerra. Anche a costo, come già ricordato a proposito di alcuni noti volti dell’opposizione, di mettere in gioco molto di sé, se non davvero tutto. Ljudmila, Iann, Grigorij, Ivan e Katia, rappresentano generazioni, ambienti sociali, culture tra loro anche molto differenti: a unirli è sia la determinazione ad agire che la ricerca di forme di protesta che possano talvolta essere utilizzate anche individualmente, o comunque sottraendosi al controllo soffocante del potere.

Anzianeche, sopravvissute alla Seconda guerra mondiale, negano con tutte le loro forze l’utilizzo retorico della «Grande guerra patriottica» per giustificare l’invasione dell’Ucraina da parte della propaganda putiniana. Giovani universitarie che raccontano come le autorità abbiano messo a tacere anche le denunce di molestie avanzate dalle studentesse. Attivisti che non esitano a ritenere che «l’azione diretta» sia l’unica forma per opporsi a Putin, ma che sanno anche come solo l’esilio può permettergli di salvare la propria vita.

Nel racconto corale che prende corpo nelle pagine di La Russia che si ribella, che si chiude con un’utile «Cronologia dell’opposizione e della repressione 2000-2024» e un «Glossario della resistenza», c’è spazio anche per un pope di un piccolo villaggio della regione di Kostroma, «il primo e sino a ora unico esponente della Chiesa ortodossa a essere stato condannato per un sermone» contro la guerra in Ucraina. Questo, mentre il Patriarca di Mosca Cirillo è da sempre uno dei più validi alleati di Putin. Non tutto, forse, è perduto. Del resto, come racconta Grigorij, un docente dell’Università di Mosca che ora vive negli Stati Uniti: «In Russia c’è un modo di dire: prima dell’alba c’è il buio peggiore. Ora è molto scuro».


(il manifesto,12 marzo 2024)

di Renata Sarfati


ab rebus rerum simulacra recedunt.

«…dalle cose si distaccano

I simulacri delle cose.»

Lucrezio, De Rerum Natura, libro IV


Il 10 marzo è mancata Valentina Berardinone.

Pochi giorni prima della sua morte ero passata a trovarla. Mi accoglie la gentile Erika, «ormai non si sveglia quasi più…» mi dice. Entro nella sua stanza, voglio guardarla e salutarla, dorme minuta nel suo letto come un uccellino. Poi passo nel suo studio e mi soffermo a guardare quello spazio bello e luminoso che conoscevo bene, con le grandi tele in parte appese al muro e in parte posate a terra quasi a formare delle onde grigie e blu, sulla scrivania gli ultimi fogli che aveva dipinto pur vedendoci poco. Ma il mio sguardo cade su un foglietto scritto a mano attaccato alla parete che riporta il verso di Lucrezio in latino che apre questo ricordo. Mi commuove profondamente il suo modo di dire addio al mondo e la riconosco.

De rerum natura era il libro che teneva sul comodino e costituiva un suo costante riferimento, non a caso il suo lavoro artistico era permeato del mondo classico che aveva assorbito dalla Napoli in cui era nata e a cui era legatissima.

Non voglio parlare del suo percorso artistico e intellettuale che spazia dalla ricerca visiva più avanzata ad opere artistiche di grande rigore. Altre e altri lo faranno con la competenza necessaria.

Ho conosciuto Valentina, mia grande e preziosa amica, in Libreria delle donne. Valentina era tra le artiste che avevano donato una loro opera per finanziare l’apertura della libreria nel 1975 restando sempre parte della libreria e partecipe attiva anche con numerosi e generosi contributi artistici. Ricordo in particolare, in ordine cronologico, la copertina di Sottosopra del 1976, il secondo manifesto della libreria, una bellissima opera tutta d’oro sulla parete del circolo e un grande quadro.

Ritornando agli inizi del mio incontro con Valentina, voglio ricordare il momento in cui è nata tra noi una vera e propria amicizia: è successo nella cosidetta “via Disciplini”, un piccolo studio dove si festeggiava l’uscita della rivista Non è detto realizzata da Silvia Motta, Giordana Masotto, Elena Medi e Valentina che ne curava le immagini. Nell’atmosfera generale di allegria e di festa l’ho conosciuta più da vicino e siamo diventate amiche, un’amicizia che non si è mai interrotta fino a oggi.

Con lei ho scoperto dei mondi. La napoletanità era la sua vera essenza, ma era nel contempo cosmopolita per la sua storia familiare, poteva passare con disinvoltura dall’inglese al francese al portoghese. Amava la conversazione brillante, spiritosa, e lei lo era. Così come profonda era la sua cultura nella poesia, nella musica, nell’arte senza mai essere saccente, perché faceva parte della sua stessa natura.

Ha avuto una vita lunga e ricca di riconoscimenti e soddisfazioni, ma anche attraversata da grandi dolori. Aveva tuttavia conservato in fondo alla sua anima qualche cosa d’infantile che le dava la libertà di un sorriso, di una battuta anche negli ultimi giorni di vita.


Renata Sarfati


Seguono tre belle foto inviate e autorizzate da Paola Mattioli


Paola Mattioli, Valentina Berardinone, 2018


Paola Mattioli, Valentina Berardinone, 1972


Riproduzione copertina Sottosopra, 1976


(www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2024)

di Lucia Capuzzi


L’una è ribelle dalla nascita: sostiene di aver compiuto il primo gesto di disobbedienza civile a cinque anni. L’altra non avrebbe mai pensato di diventare un’attivista.

L’una è cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, ha un passato nelle pubbliche relazioni e un’ironia dirompente. L’altra ha studiato economia, alle parole preferisce i numeri e ha un carattere tranquillo, quasi timido.

L’una ha settantasette anni e l’altra ne ha quarantasei.

Sulla carta queste due donne non potrebbero essere più diverse. Soprattutto perché l’una – Robi Damelin – è israeliana, l’altra – Layla al-Sheikh – è palestinese.

Ciò che le accomuna, però, è più forte di quanto le divide. Primo, a entrambe la guerra ha strappato un figlio. David, secondogenito ventottenne di Robi, è stato vittima di un attentato mentre era in servizio come riservista nella zona di Hebron, il 3 marzo 2002, nel pieno della Seconda Intifada. Poco più di un mese dopo, l’11 aprile, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento quarantott’ore dopo.

Il secondo punto di unione è che Robi e Layla hanno deciso di trasformare il dolore in motore per costruire pace in una terra dilaniata da settantacinque anni di conflitto. Nemmeno il 7 ottobre ha fatto cambiare loro idea. Anzi, da allora hanno intensificato ulteriormente l’impegno in Parents circle. L’organizzazione, dal 1998, fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia, promuove il dialogo. Spesso Robi e Layla sono chiamate a dare la propria testimonianza insieme. Da anni fanno coppia quasi fissa. Stavolta, all’incontro promosso dall’Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica di Milano, però, Robi è venuta da Tel Aviv da sola. Problemi con il passaporto da parte delle autorità israeliane hanno costretto Layla a restare a Battir, villaggio del governatorato di Betlemme dove risiede: è, comunque, riuscita ad essere presente attraverso lo schermo del pc.

Dunque, a dispetto di tutto, continuate a credere nella pace…

Layla: Sennò non sarei qui.

Robi: Altrimenti sarei rimasta a casa a fare la maglia e a giocare con il mio gatto.

Robi, che cosa è accaduto quando avevi cinque anni?

All’epoca vivevo in Sudafrica e adoravo gli animali. Ogni mattina, vedevo l’un uomo che ci consegnava il latte frustare con violenza il suo cavallo per spingerlo a camminare. Quel gesto mi faceva arrabbiare. Un giorno non ce l’ho fata più e, insieme alla mia amica Barbara, abbiamo rubato e nascosto il cavallo. Quando l’ha scoperto, mio padre si è infuriato. Quando, però, ha compreso le ragioni per cui l’avevo fatto, mi ha capita. Sono sempre stata una ribelle: come figlia e come donna.

Per te Layla, invece, l’approdo all’attivismo è stato un processo più lento…

Soprattutto la scelta di impegnarmi per la pace. Quando, in Giordania, dove sono nata e cresciuta prima di sposarmi, sentivo le notizie provavo rabbia per il modo in cui gli israeliani trattavano i palestinesi. La mia indignazione è cresciuta dopo il trasferimento a Betlemme. Poi Qusay è morto ed è cambiato tutto.

Da subito?

No, al contrario. Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica. In realtà, ho accettato solo per farla smettere, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza. Il mio momento è stato quello.

Robi tu, invece, eri già impegnata per la pace da prima della morte di David.

Sono arrivata a Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Non ho mai capito perché l’ho fatto. È stato un impulso. Dovevo restare sei mesi. E, invece, contro ogni previsione, sono rimasta. Fin dall’inizio, ho fatto attivismo per il dialogo in ambito sociale, non politico. Quando i miei figli, Eran e David, sono andati a fare il servizio militare sono rimasta sconvolta nel vederli con un fucile in mano. Perché hanno accettato la leva? Non è facile spiegarlo. C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un istinto molto forte di protezione della comunità. Devi difenderla, è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Non so come viene inculcato ma è così. Si deve partire da questo per comprendere il comportamento attuale degli israeliani. La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi le convinzioni esistenziali delle persone. Le ha fatte sentire indifese, le ha scosse nel profondo, le ha terrorizzate. E cosa si fa quando ci si sente umiliati e impotenti? Si attacca in modo feroce. La presenza degli ostaggi a Gaza e l’impossibilità di liberarli con la forza prolunga il senso di fallimento rendendo ancora più dura la risposta.

Robi, la morte di David l’ha spinta a un maggiore attivismo?

Dopo il militare anche David era entrato nel movimento pacifista. Quando è stato chiamato come riservista, non voleva prestare servizio nei Territori occupati. Alla fine è andato perché pensava che avrebbe potuto trattare i palestinesi in modo degno e il suo esempio avrebbe ispirato altri commilitoni. Così è morto. Quando i militari sono venuti a darmi la notizia, ho detto loro, di getto: «Non uccidete nessuno nel nome di mio figlio». Tre mesi dopo, dovevo andare a una manifestazione contro l’occupazione. I promotori mi hanno chiesto di parlare. E ho accettato subito. Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla. Delle persone di Parents circle mi hanno ascoltato e contattato. Ho cominciato a partecipare agli incontri e alla fine l’organizzazione è diventata la mia vita.

Credete che le donne abbiano una “marcia in più” nella costruzione della pace?

Layla: Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo. Per settantacinque anni abbiamo subito le scelte degli uomini, che hanno distrutto le nostre vite. È il tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace. Uno delle nostre colonne era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica.

Robi: Yonatan, il figlio di Vivian, è entrato in Parents circle. L’organizzazione è stata fondata da un uomo, Yitzhak Frankenthal. Nei primi incontri le donne erano poche. Anche quando sono arrivata io era così. Le palestinesi erano ancora meno: quando c’erano, stavano fuori con i bambini. Ho capito che le cose dovevano cambiare. Così è nato il gruppo femminile che pian piano è diventato il motore dell’organizzazione.

Layla: A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?


(Avvenire, 11 marzo 2024)

di Franca Fortunato


Sarajevo 1992, Gaza 2024. Una città e una Striscia sotto assedio, bombardate e ridotte alla fame. Priscilla Morris nel suo romanzo di esordio “Le farfalle di Sarajevo” racconta il primo anno di assedio della città, il peggiore in termini di morti e distruzione. Lo fa ispirandosi alla storia del prozio, un pittore paesaggista che decise di restare a Sarajevo durante l’assedio. Lo fa attraverso i diari del padre che salvò i suoceri dal loro appartamento bombardato. Lo fa attraverso i racconti di vita quotidiana di amici, parenti e conoscenti. Lo fa con lo sguardo di una donna estranea alla logica della guerra, di amico e nemico, raccontando la vita, la resistenza quotidiana di chi come Zora, la protagonista, tra “combattere e morire” sceglie di “vivere”, mantenendo vivo il desiderio di continuare a dipingere, lei che ha sempre dipinto la sua Sarajevo, i suoi monti e gole, fiumi e foreste, moschee e chiese, e principalmente i suoi ponti ottomani «simbolo dell’unione dei popoli, incontro tra Oriente e Occidente». Zora racconta delle manifestazioni per la pace e dei “cecchini” che sparano addosso ai manifestanti «che portavano candele, cantavano canzoni di pace» e sugli striscioni avevano scritto «Sarajevo, mio amore», «Dite di no al nazionalismo, vogliamo la pace». Lei, serba, innamorata della sua città, vuole continuare a vivere insieme con musulmani e croati, salvando la sua umanità e quella della sua città che «è stata sempre esaltata come un modello di tolleranza». Vuole mantenere le relazioni con i vicini nel suo palazzone di dieci piani, dove musulmani, serbi e croati convivono in amicizia da sempre. Sarajevo assediata, privata dell’acqua, dell’elettricità, delle linee telefoniche, ovunque posti di blocco, ferrovia bombardata, aeroporto bloccato, strade in uscita barricate, è una città isolata dal resto del mondo. La sua gente è intrappolata, come oggi i palestinesi nella Striscia di Gaza dove l’unica scelta è tra morire di fame e di malattie o sotto i bombardamenti. A Sarajevo sparano alle persone in fila per il pane, a Gaza mentre lottano per un sacco di farina. A Sarajevo arrivano gli aiuti umanitari, a Gaza vengono bloccati e pochi «cadono dal cielo». Bombardamenti sventrano case, palazzi, bruciano la biblioteca nazionale e universitaria dove Zora dipinge e insegna. «Una catena umana» cerca di salvare più libri possibili mentre nell’aria volano «farfalle nere», «frammenti bruciati di poesia e arte che si incastrano nei capelli delle persone». Nell’incendio bruciano i quadri di Zora che nella pittura trova «rifugio che la conserva sana di mente». Dipinge sulle pareti del suo appartamento, dà lezione a Una, bimba di otto anni, fino a quando una bomba non l’ucciderà e organizza, con i suoi studenti, nel palazzo squarciato dalle esplosioni, una mostra d’arte mentre le scale del condominio sostituiscono i caffè, i parchi e i bar dove incontrarsi. Zora e i suoi vicini si sostengono a vicenda, dividono il poco cibo che hanno e passano le giornate del rigido inverno intorno alla sua stufa, unica del palazzo, e qui cucinano, mangiano, stanno seduti, parlano e a volte suonano la chitarra, cantano e ballano. Mirsad, il musulmano, racconta storie popolari e tiene aperta l’unica libreria esistente, dove «dà in prestito sulla fiducia i libri che gli sono rimasti in negozio e spesso le persone si fermano a parlare di quello che hanno letto, sedendosi in cerchio sugli sgabelli, come se tutto fosse normale». Zora vede il suo mondo sgretolarsi ma lei, lontano dalla sua Sarajevo, riprenderà a dipingere come prima perché «l’arte sconfigge la distruzione della guerra». La sua Sarajevo non esiste più, Gaza non esiste più. Chi salverà i palestinesi dalla catastrofe umanitaria?


(Quotidiano del Sud, Rubrica Io donna, 9 marzo 2024)

di Farian Sabahi


Di questi tempi l’Iran è di moda, e per questo motivo c’è chi si imbarca in progetti editoriali scrivendo di un Paese complesso, in cui non hanno mai messo piede e di cui non hanno competenze. Ma ci sono libri che, al contrario, sono frutto di un serio lavoro di ricerca e sono una valida lettura di approfondimento anche per gli specialisti di Iran e Medio Oriente.

Il primo si intitola Ero roccia ora sono montagna. La mia battaglia per la libertà delle donne in Iran e nel mondo, lo ha scritto l’alpinista professionista iraniana Nasim Eshqi con l’antropologa e regista Francesca Borghetti (Garzanti, pp. 170, euro 18). Come un fiore che sboccia nel deserto, la determinata Nasim è riuscita a perseguire i propri sogni e ad arrampicare dapprima in Iran e poi in altri Paesi, trasformando la passione per la montagna in un lavoro, riuscendo a mantenersi insegnando ad altre donne come affrontare la parete di roccia. Un libro appassionante, una lettura scorrevole, scritto quando ormai Nasim si era trasferita in Italia. Il documentario Climbing Iran (disponibile su RaiPlay) era invece stato girato da Francesca Borghetti quando Nasim viveva ancora a Teheran e cerca di conciliare da una parte il desiderio dell’autrice di comprendere l’Iran e, dall’altra, di riprendere l’atleta senza metterla in pericolo. Si segnala anche il podcast Nasim, Iran verticale del 2022.

Altrettanto intrigante è il diario di viaggio della motociclista britannica Lois Pryce che nel 2013 e nel 2014 ha compiuto due viaggi in solitaria dell’Iran con la sua Yamaha da cross. Nel libro Un viaggio rivoluzionario. Il vero Iran, in motocicletta (traduzione di Marina Cianferoni, pp. 240, euro 22), Lois racconta il suo primo viaggio: i timori, l’accoglienza calorosa, l’autonomia di un viaggio in moto ma anche la vulnerabilità di una donna che viaggia da sola per migliaia di chilometri. Un libro ricco di emozioni, al tempo stesso frutto di uno studio approfondito sulla storia e sulla cultura di un paese millenario, in cui si percepisce il registro di scrittura della giornalista che nel 2003 ha lasciato la Bbc di Londra per fare il giro del mondo in moto. A dare alle stampe il volume in italiano è La Mala Suerte Ediciones, una piccola casa editrice spagnola in Asturia, specializzata in libri che ruotano intorno alla storia della motocicletta.

Per un’analisi puntuale delle proteste innescate dalla morte della ventiduenne curda Mahsa Amini il 16 settembre 2022, si ricorda il volume Iran. Il tempo delle donne (pp. 172, euro 17,50) di Luciana Borsatti che a Teheran ha trascorso due anni come corrispondente dell’agenzia Ansa. Nulla è semplice quando si parla di Iran, afferma la giornalista, che ripercorre la cronaca delle proteste per soffermarsi sulla rivoluzione della Generazione Z, sul dialogo impossibile tra la leadership iraniana e la piazza, sulle divisioni della diaspora, sulla grande macchina dei social media e sugli scenari possibili. Arricchito da diverse testimonianze, il libro è dedicato al movimento Donna vita libertà e si apre con la prefazione dell’inviata di Rai3 Lucia Goracci.

Sempre sul tema dei diritti, nel saggio Iran, donne e rivolte (Scholé, pp. 160, euro 14) l’antropologa Sara Hejazi scrive che «districarsi per comprendere la natura profonda delle proteste in atto oggi è praticamente impossibile». Partendo dallo slogan Donna vita libertà, la studiosa italo-iraniana osserva come nella Repubblica islamica si registri il tasso di fertilità più basso del Medio Oriente

(1,3 figli a donna) e sempre meno giovani decidano di sposarsi. Dati di fatto, questi, che si spiegano con le contaminazioni con l’Occidente, grazie ai social media e ai parenti nella diaspora, ma anche con l’istruzione femminile diffusa, pure a livello universitario e tra le ragazze dei ceti sociali più tradizionali e religiosi, a cui lo Stato islamico ha permesso di ottenere il consenso delle famiglie per lavorare e guadagnare, entrando così a pieno titolo nella sfera pubblica.


(il manifesto, 7 marzo 2024)

di Sveva Haertter


Abbiamo incontrato Suleiman Khatib ed Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.

Raccontateci brevemente chi siete e come introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).

Suleiman Khatib: Sono nato e cresciuto nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo quindici anni prendendo parte all’Intifada. Ho passato più di dieci anni in carcere, ho studiato la storia e imparato a conoscere Ghandi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della nonviolenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli. CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per pace e libertà per tutti. Il nostro lavoro si incentra anche sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto, vivendo sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono né la risposta né la soluzione.

Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa nei primi anni dalla fondazione di Israele, quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Sono stato a lungo all’estero. Una volta tornato, ho saputo della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno della commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti. Lì ho ascoltato storie di dolore, capendo che tutti soffriamo e che siamo parte di questo gioco. Ora passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni e dell’esercito. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.

Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?

S.K.: Ci aspettavamo una crisi. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. In periodi come questi, le persone in risposta al trauma ritornano alle loro rispettive tribù. Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, c’è anche un palestinese di Gaza, questo non chiude il nostro cuore all’empatia per le vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele, gli attacchi aerei e quello che sta succedendo ora.

E.A.: In questi diciassette anni le relazioni sono diventate così personali, forti e intime, da renderci resilienti. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta è molto peggio di quanto sia mai stato. C’è anche chi trae vantaggio dalla guerra. Quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in riusciranno a scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente nei territori occupati. La gente mi diceva che ero pazzo. Sedici comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciate dal loro territorio.

Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?

E.A.: Prima della guerra c’erano manifestazioni contro le riforme che il governo tentava di fare, ma senza un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male: le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura. All’inizio di questa guerra nessuno manifestava. Ora le manifestazioni sono riprese, molte sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. Facciamo manifestazioni in Israele e anche in Cisgiordania con i nostri amici palestinesi. Per loro i rischi sono enormi. Se li riprendono, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, ne verranno colpite le loro famiglie e chissà cos’altro li aspetta. Per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno.

S.K.: C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema razzista e di apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo alla radicalizzazione. Le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da quella logica. Ora da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica. Guarda il Sudafrica o l’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Senza cambiamento politico, le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro.


(il manifesto, 7 marzo 2024)

di Pinella Leocata


Catania. Il loro 8 marzo non è all’insegna della rivendicazione e della protesta, ma della trasmissione del pensiero femminista che esalta la gioia di vivere e la bellezza del quotidiano e delle relazioni basate sul rispetto e sulla valorizzazione della differenza. Un pensiero che parla di pace in tempi violenti come quelli che attraversiamo. Questo il senso della mostra “Il cuore pensante delle donne per il cambio di civiltà” elaborata dalle femministe de La Città Felice e La Ragna-Tela e proposta nella galleria della biblioteca Bellini in via di Sangiuliano 307.

Ad essere “esposti” sono i volti di filosofe, pensatrici, docenti, scienziate, scrittrici, poetesse, teologhe e politiche che hanno elaborato il pensiero femminista a partire dall’inizio del Novecento e soprattutto dalla metà del secolo scorso. I volti accompagnati dal racconto delle loro vite, dalla riproposizione di brani dei loro scritti e pensieri e da una bibliografia sulle loro opere. Cartelline a disposizione di chi visiterà la mostra che, dopo l’inaugurazione del 7 marzo, è visitabile l’8 e il 9 dalle 9,30 alle 12,30. Le promotrici aspettano le scolaresche e si dicono pronte a portare la mostra negli istituti e nei luoghi della politica catanese, a partire dalle sedi delle varie associazioni.

Una mostra rivolta a tutte e a tutti soprattutto perché queste pensatrici non dimenticano di parlare di pace anche quando testimoniano il male. Come Etty Hillesum che, rinchiusa in un campo di concentramento, anche dietro il filo spinato riusciva a pensare che “la vita è una cosa splendida”. E aggiungeva: “più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo”.  La guerra e i femminicidi, il pensiero bellico e quello misogino sono strettamente legati, spiegano le organizzatrici, consapevoli dell’importanza di diffondere il pensiero femminista in quanto messaggio fertile per tutti. Perché, come dice Luisa Muraro, “quando una donna pensa pensa per tutte e per tutti”. Sottinteso: non come gli uomini che hanno pensato solo al proprio potere, un pensiero che li rinchiude a loro volta in una gabbia mortifera.

Negli ultimi sessant’anni – dicono le promotrici – il pensiero e la pratica delle femministe hanno cambiato la realtà e le relazioni, hanno creato il pensiero della differenza “fluido e tenace, resistente”, un pensiero che va “oltre l’ottusità della guerra, oltre gli egoismi e gli oscuri giochi di potere del maschile, ma sempre in grado di cogliere la pienezza e la bellezza ovunque, nella relazione tra donne così come nella natura e nella quotidianità”. Un percorso di liberazione che gli uomini non hanno fatto perché – come dice Anna Di Salvo – “stanno comodi nel loro potere maschile che pure non li rende felici, non trasmette la bellezza del quotidiano e della vita e li trascina nella guerra, nella violenza”. Di qui gli stupri e i femminicidi che “non sono espressione del patriarcato – che abbiamo combattuto, e che è alle spalle – ma del post-patriarcato che è il colpo di coda del vecchio sistema, la reazione violenta all’autonomia e alla libertà conquistate dalle donne che non dipendono più dallo sguardo maschile, ma dal loro desiderio che affermano insieme alla loro libertà”. Di qui anche la pena per i giovani uomini “costretti a essere ammazzati da anziani autocrati che li trascinano alla guerra”. Di qui la necessità di ripensare il maschile anche attraverso il contributo del pensiero femminista della differenza.

Già nel 1995 Luisa Muraro scriveva che il patriarcato è finito. “È stato interrotto il secolare destino prescritto per le donne, la legge e il desiderio maschile hanno smesso di essere riferimento e misura per le donne. In altri termini le vite femminili sono diventate ricerca di senso in prima persona, le relazioni tra donne sono diventate visibili nello spazio pubblico. È chiaro quindi che bisogna parlare di post patriarcato”.

La presentazione della mostra è preceduta da un momento a microfono aperto in cui le donne presenti possono esprimere la propria gratitudine verso le donne che hanno aperto loro orizzonti di consapevolezza femminile, ed è accompagnata dalle poesie e dai brani delle pensatrici scelti e letti da Cinzia Insinga e Carmina Daniele, mentre l’artista Rosanna Bello presenta i suoi mandala, simboli di vita e di rigenerazione.


(La Sicilia, 7 marzo 2024)

di Alessio Giordano


Olga Karatch è una giornalista e attivista per la pace e per i diritti civili bielorussa. Il 3 marzo, a Bolzano, ha ricevuto il Premio internazionale “Alexander Langer” per il suo lavoro contro la guerra, a favore dei diritti umani e per una svolta democratica in Bielorussia. A causa del suo impegno, il regime di Aljaksandr Lukashenko l’ha accusata di terrorismo, crimine per il quale nel suo Paese è prevista la pena di morte. Oggi vive a Vilnius, in Lituania, dove le è stato negato l’asilo politico perché considerata una “minaccia per la sicurezza nazionale”.

Karatch, per quale motivo il governo del suo Paese l’ha accusata di essere una terrorista?

Durante le proteste del 2020, scoppiate dopo le elezioni presidenziali fraudolente, ho contribuito a organizzare una linea telefonica per le vittime della repressione di Lukashenko, avviando una raccolta fondi per coprire le loro spese legali. Nel 2021 il governo ha interrotto il nostro lavoro, arrestando alcuni di noi e costringendo altri alla fuga all’estero. Il Kgb ha quindi inserito il mio nome nella lista dei terroristi. Questa è la realtà dei fatti. Ufficialmente il regime mi ha accusata però di aver tentato un attacco kamikaze nei pressi di un punto di comunicazione russo su ordine di Angela Merkel.

Il suo impegno con “Our house” è iniziato nel 2005. In quali ambiti si sviluppa l’attività dell’organizzazione?

“Our house” si è dedicata inizialmente a supportare le donne, che in Bielorussia sono vittime di abusi di diversa natura. Con la campagna “252+1”, ad esempio, abbiamo fatto pressione affinché venisse consentito alle donne di accedere ad alcune professioni a loro proibite, spesso lavori meglio retribuiti o legati a stereotipi di genere. Fino a qualche tempo fa la lista comprendeva 252 professioni. Oggi, grazie alla nostra campagna, sono 186. Un focus particolare lo dedichiamo poi ai minori. “Children 328”, per esempio, mira alla liberazione dei minori incarcerati. In Bielorussia, infatti, i ragazzi dai quattordici anni in su possono essere condannati a dieci anni di carcere per il consumo di sostanze stupefacenti. Le conseguenze per la salute fisica e mentale per un giovane possono essere tremende, date le condizioni in cui versano gli istituti di pena bielorussi: non c’è la possibilità di frequentare la scuola, l’assistenza sanitaria è carente e sono frequenti violenze e torture.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, due anni fa, avete dato vita alla campagna “No means no”. Di che cosa si tratta?

“No means no” è una campagna per promuovere e difendere il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, 43mila bielorussi hanno ricevuto la cartolina di precetto dell’esercito. Abbiamo risposto diffondendo materiale informativo per esortare gli uomini a non rispondere alla chiamata e a fuggire. Il nostro obiettivo è l’istituzione di corridoi umanitari per tutti coloro che rifiutano di combattere. Noi garantiamo assistenza legale a chi si rifugia in Lituania. Siamo convinte che l’obiezione di coscienza contribuirebbe a risolvere ogni conflitto sul Pianeta. Si potrebbero combattere le guerre senza soldati?

Quanti sono gli obiettori di coscienza nel Paese e quali conseguenze devono affrontare?

In Bielorussia, dove non esistono tribunali indipendenti, gli obiettori di coscienza vanno incontro a una condanna da sette a dieci anni di carcere. Nel 2023, fonti governative hanno dichiarato che i ricercati per non aver risposto alla chiamata alle armi erano cinquemila. Se chi decide di non arruolarsi – o diserta – fugge in Russia, rischia la deportazione. Lo stesso accade in Lituania, dove si aggiunge la sospensione di cinque anni per un visto di ingresso nei Paesi dell’Unione europea.

Dal punto di vista sociale invece quali effetti produce questa scelta?

Chi rifiuta di imbracciare le armi fa i conti con un forte stigma all’interno di una società, quella bielorussa, in cui si è riaffermato un unico modello di uomo, ossia colui che combatte. La donna, invece, ha il solo compito di ispirarlo e sostenerlo nel compimento del suo dovere. Gli obiettori di coscienza, così come i reduci che non vogliono o non possono più combattere, sono considerati cittadini di livello inferiore.

Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha paventato la possibilità di un intervento delle truppe Nato in Ucraina. Vladimir Putin ha risposto ventilando la minaccia delle armi nucleari. In Europa e non solo si assiste a una sorta di corsa alle armi. Come giudica questa escalation?

Oltre al fatto che, ovviamente, senza veri percorsi di pace l’escalation bellica continuerà con risultati potenzialmente catastrofici per l’umanità, da quello che osservo nella regione e nei Paesi limitrofi – Polonia e Paesi baltici – la militarizzazione ha effetti sulla vita quotidiana di adulti e bambini. “Our house” accende i riflettori sulla militarizzazione dei minori in atto in Bielorussia, dove, nel 2022, 18mila bambini dai sei anni in su hanno partecipato a 480 campi militari estivi sotto l’egida del ministero della Difesa. Di questi, duemila giovani sono stati poi selezionati per un vero e proprio addestramento e oggi sono in grado di sparare, guidare mezzi militari e gestire parte della logistica militare. In molti casi i bambini coinvolti provengono da famiglie marginalizzate, che vedono in questa iniziativa la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Insomma, stiamo assistendo a una escalation che agisce su più livelli e che non sembra facilmente arrestabile.

In Lituania, dove vive, le è stato negato l’asilo politico. Quanto si fa sentire la pressione del governo bielorusso anche al di fuori dai suoi confini?

Enormemente. A me è stato negato l’asilo e ora ho un permesso di soggiorno per motivi umanitari che scadrà tra un anno. Ero arrivata in Lituania, un Paese dell’Ue, con molte speranze, ma ho capito presto di essermi illusa. Anche qui siamo vittime delle operazioni di discredito da parte del regime di Lukashenko. Per essere considerati “minaccia per la sicurezza nazionale” dal Dipartimento di sicurezza nazionale lituano – come nel mio caso – basta solo un sospetto. Nel Paese poi sta prendendo piede un sentimento di avversione nei confronti di chi scappa dalla Bielorussia. Alcuni obiettori di coscienza che hanno presentato domanda di asilo sono stati rinchiusi in strutture simili a prigioni e sono sottoposti a maltrattamenti basati unicamente sulla loro pregressa esperienza militare. Il governo lituano, inoltre, cerca di limitare proprio le nostre attività in sostegno ai rifugiati bielorussi.

Quali richieste vorrebbe avanzare al Parlamento europeo, in vista delle elezioni del prossimo giugno?

Nel Parlamento europeo abbiamo bisogno di persone che lavorino per la pace e che creino spazio per la forza della società civile e dei costruttori di pace, finora esclusi da qualsiasi dibattito. Se davvero si vuole fermare la guerra bisogna puntare sulla diplomazia, creando strumenti alternativi alle armi. Il sostegno agli obiettori di coscienza, a cui finora l’Ue non ha garantito alcun supporto, può essere una misura importante.

Domenica 3 marzo le è stato consegnato il Premio internazionale “Alexander Langer” 2023, dedicato al politico ed eurodeputato altoatesino scomparso nel 1995 e assegnato ogni anno a personalità o organizzazioni che si sono distinte per la loro attività a favore della pace, dei diritti umani e civili. Quale aspetto dell’eredità di Langer la guida nel suo impegno per la pace?

«Meglio un anno di trattative che un giorno di guerra». Questa frase di Alexander Langer deve essere il nostro faro. Per quanto sia complicato e faticoso, in una società in cui le opinioni sono polarizzate e le persone non si ascoltano, dobbiamo continuare a credere nella comunicazione non violenta e nella possibilità di costruire ponti. La via per la pace passa anche dall’affermazione di questi principi.


(Altreconomia.it, 6 marzo 2024)

di Naxarena Bernardi


Il 6 marzo 1931 nasce Carla Lonzi. In una foto del 1968 (apparsa nella copertina del saggio di Giovanna Zapperi Carla Lonzi. Un’arte della vita, Derive e Approdi 2017, ndr.) Carla si mostra circondata da un’aureola, quasi nelle vesti di una santa, seppur evidentemente dei giorni nostri: sorridente e felice, sullo sfondo una costruzione luminosa che, appunto, le incorona la testa come una Madonna di un dipinto medievale. Il sorriso, però, non ha niente di quello delle figure ieratiche e distaccate dal mondo delle sante e vergini che la tradizione pittorica ci ha consegnato. È l’espressione di una donna che, come dirà lei qualche anno dopo parlando di se stessa, ha la capacità di dominare gli avvenimenti e costituire la propria storia.

Non sembri fuori luogo questo accostamento tra una delle principali femministe della nostra epoca e le donne della nostra tradizione religiosa. È lei stessa a raccontare quanto, fin da bambina, adorasse i libri autobiografici di sante: “attraverso le loro parole prendeva consistenza ciò che, in caso contrario, avrei dovuto respingere come conseguenza di emozioni morbose e irreali”.

Ciò da cui Carla era affascinata e attratta era la capacità di indagare e di dubitare di queste donne, che riuscivano a trovare dentro di sé le risorse, rinunciando talvolta a tutto, riuscendo però a non rinunciare a ciò che lei chiama l’essenziale.

Alla ricerca di questo essenziale, ricerca guidata dal bisogno vitale di fedeltà a se stessa, Carla Lonzi ha dedicato la sua intera esistenza, fin dai suoi esordi come critica d’arte, professione che svolse mettendo in discussione e sovvertendo l’usuale impostazione di un rapporto che voleva l’artista e l’opera al centro e tutti gli altri, e soprattutto – dirà lei – tutte le altre, ai margini, nel ruolo di spettatori/spettatrici passive.

È facile cogliere negli scritti di Carla Lonzi questa assoluta incapacità di rinunciare a se stessa: “abbandonare era niente, rispetto al dolore di tradire me stessa. E questa facilità a lasciare appena si richiedesse da me qualcosa che non si accordava con la mia coscienza, è stato l’elemento che più di tutto mi ha impedito di perdermi nella emancipazione e nelle riuscite apparenti”.

Già, perché nonostante i riconoscimenti che non le sono e non le sarebbero mancati, se fosse stata capace di accontentarsi del ruolo che un mondo ormai in parte disposto ad aprirsi alle richieste di emancipazione femminile le offriva, Carla non ha mai confuso le libertà con la libertà: “il femminismo mi si è presentato come lo sbocco possibile tra le alternative simboliche della condizione femminile, la prostituzione e la clausura: riuscire a vivere senza vendere il proprio corpo e senza rinunciarvi. Senza perdersi e senza mettersi in salvo”.

Lascerà così il suo lavoro di critica d’arte e si dedicherà totalmente al femminismo, al gruppo di Rivolta Femminile, di cui fu fondatrice, alla pratica delle relazioni con le diverse donne che condivideranno con lei un percorso tanto intenso quanto fruttuoso. Di questo percorso, che per lei si interrompe precocemente (quando una terribile malattia la porterà via a soli 51 anni), resta testimonianza nei suoi scritti, che sono ciò che di più prezioso il femminismo italiano ha prodotto. L’intelligenza della realtà, la profondità delle analisi, la dote di saper cogliere nel reale ciò che limita la libertà femminile e ciò che invece è in grado di realizzarla, la capacità di mettere al mondo ciò che l’ordine dato non ha previsto, sono la sostanza della sua riflessione, qualcosa da cui è difficile non essere travolte quando ci si accosta al suo pensiero. Per le donne della sua e della mia generazione che hanno avuto la fortuna di conoscere la sua riflessione, Carla Lonzi ha significato molto. Per me personalmente è stato l’incontro giusto al momento giusto: ricordo ancora oggi, con smisurata gratitudine, l’effetto che produsse in me, ancora ragazza, alla ricerca di uno sbocco per la mia sete di giustizia e il mio bisogno di impegno politico, la lettura (ma forse prima ancora il solo titolo) del suo breve saggio Sputiamo su Hegel che seppe ri-orientare e dare senso al mio individuale percorso, in cui già le frustrazioni e gli spaesamenti non mancavano.

Ma, occorre chiedersi, che cosa può offrire ancora Carla Lonzi alle più giovani, a quelle che sono cresciute nell’epoca dell’emancipazione (più o meno) compiuta? Qualcosa di prezioso e irrinunciabile, ritengo, proprio oggi, nel momento in cui la politica pare ridotta a una cosa piccola piccola, a mera gestione di interessi, per di più spesso individuali. Oggi, quando la necessità (economica, politica, sociale) sembra aver ridotto gli spazi per un’azione realmente libera, tempi in cui il mondo sembra qualcosa di tanto immodificabile quanto pieno di pericoli. Un’epoca in cui l’altro sembra incombere soprattutto come presenza minacciosa.

Leggere Carla Lonzi può insegnare che il riferimento femminile al proprio genere crea lo spazio in cui le donne intrecciano le relazioni in grado di far venire al mondo la libertà che sembra a rischio; e la libertà femminile riconosce le differenze (e prima ancora la differenza, quella tra i sessi) e sa che l’alterità è ciò che costituisce la soggettività. È una libertà radicata nel presente, proprio perché nasce nella relazione, che è sempre in qualche modo presenza, di corpi e di parole. È inerente a un soggetto incarnato, uomo o donna, che quindi – come dice Maria Luisa Boccia, una delle principali interpreti del pensiero di Carla Lonzi, parlando della politica delle donne – non solo non prescinde dal proprio sesso, ma anzi rovescia la naturalità della propria determinazione sessuata nella condizione di possibilità della libertà stessa.

Carla Lonzi, con la sua esistenza e con i suoi scritti, che della sua vita sono il frutto, sa mostrare che la libertà femminile è l’imprevisto che apre ad altri imprevisti. È lei – guidata dal suo grande amore della libertà – che ci ha mostrato la via di accesso a un mondo nuovo possibile, facendoci vedere che amore del mondo e amore di sé non divergono.

Questa la strada che apre all’imprevisto, essa si offre a chiunque – donna o uomo – sappia rivolgersi all’essenziale: “Adesso esisto: questa certezza mi giustifica e mi conferisce quella libertà in cui ho creduto da sola […]. Tutte le distinzioni, le categorie che esprimevano appunto il costituirsi della mia identità a partire dal dissenso – non vedevo altra via in quanto donna – non mi appartengono più: faccio ciò che voglio. Questo è il contenuto che mi appare in ogni circostanza, non aderisco a altro che a questo. Capisco quanto posso avere lasciato cadere nel percorso fatto finora, ma capisco che niente mi avrebbe dissuaso dal rivolgermi all’essenziale. Ora il superfluo attira tutta la mia attenzione e i miei desideri”.


(Post in “Movimento per i diritti delle donne”, gruppo facebook, 6 marzo 2024)

di Francesca Izzo


Contrariamente a quanto tutti hanno detto, nella Carta francese non è stata scritta la parola “diritto”. Per fortuna. Sennò si scivola sul terreno dei diritti contrapposti (quello dell’uomo, quello del feto…) e si banalizza una esperienza trascendente.


Da un po’ di tempo spirano verso l’Europa venti minacciosi per conquiste delle donne che pensavamo solide, come la libera scelta nella procreazione. Da ovest, dagli Stati Uniti arrivano notizie di drastici passi indietro in singoli Stati e dalla Corte Suprema; da est nella Russia putiniana è in atto un ritorno massiccio a un’alleanza tra tradizionalismo religioso ortodosso e Stato che non lascia presagire niente di buono per le donne, da sud premono fondamentalismi religiosi di matrice islamica che hanno nel mirino la conservazione del dominio sulle donne.

In questo clima di incertezza e di generale disorientamento, la Francia ha pensato bene di mettere in sicurezza la libera scelta femminile, costituzionalizzandola… non si sa mai. Dico la Francia e non una maggioranza politica, visti gli schiaccianti numeri che hanno approvato, a camere riunite, la proposta. E lo ha fatto con una formula che conviene citare per esteso: “La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza”. Nel testo si parla di “libertà” e di “condizioni” in cui si esercita tale libertà, non di “diritto”. Ma in tutti i commenti parlati e scritti che ho letto o ascoltato la parola usata è stata invece “diritto”, anche qui su Huffpost.

Ora su un terreno così sensibile e aperto ai dilemmi etici e nel quale la differenza del soggetto femminile viene giuridicamente riconosciuta l’uso dei termini giusti è fondamentale. Parlare di libertà o di autodeterminazione nel caso dell’aborto è cosa ben diversa che definirlo un diritto. L’interruzione volontaria di gravidanza non è oggetto di esercizio di un diritto positivo, come può esserlo il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, ecc. No, siamo in un campo diverso in cui il soggetto neutro eguale che è alla base del diritto moderno mostra i suoi limiti.

La donna è un corpo differente da quello maschile, porta in sé la potenza procreativa che l’uomo non possiede. Equiparare questa potenza/potere – sia nel suo versante positivo, come nella scelta della maternità sia in quello negativo come nella scelta dell’aborto – a un diritto significa neutralizzare questa differenza, cancellare il fatto che, mentre il diritto divide in individui, in soggetti distinti, anche in potenziale conflitto tra loro, la potenza procreativa della donna unisce, vincola il sé all’altro. La libera scelta procreativa è nello stesso tempo affermazione di responsabilità verso l’altro. Si riconosce alla donna la libertà di interrompere la gravidanza perché è lei, in ultima istanza, la sola custode e responsabile di un’altra vita. E può, per i più vari motivi, non sentirsi di farcela. Se riportiamo questa differenza femminile allo schema del diritto soggettivo, quello dell’individuo neutro-maschile, allora risulta facile far scivolare questo ambito così peculiare nella logica dei diritti contrapposti. L’abbiamo già visto: perché non prendere in considerazione il diritto dell’uomo o il diritto del feto?

Non solo, io sono persuasa che l’aborto, che sul piano dell’esperienza individuale e interiore ha il senso di “un evento importante e trascendente” (Eva Pattis), non vada banalizzato trasformandolo in uno dei tanti diritti positivamente inteso. Il testo introdotto nella Costituzione francese non va, per fortuna, in questa direzione.


(HuffPost, 05 marzo 2024)

di Benedetta Tobagi


Un amore tossico, violenze psicologiche, gelosia morbosa e umiliazioni Poi la folgorazione: l’idea di un figlio nelle mani di un uomo del genere La forza di andare via e quella di ricominciare. Con grande fatica


Avevo poco più di vent’anni, il mio ragazzo di allora una trentina. Era un tipo all’antica: voleva sposarmi, diceva (con gli occhi lucidi e uno sguardo vulnerabile capace di farmi dimenticare ogni altra cosa), voleva dei figli da me. In una delle tante notti insonni, gli occhi fissi sulla parete bianca accanto al letto della mia stanza in affitto, la folgorazione: «Un bambino nelle mani di un uomo del genere? Mai». Non l’avrei permesso. Io non valevo niente, non meritavo niente. Ma non potevo condannare una creatura innocente all’inferno in cui mi ero cacciata. Pochi giorni dopo, l’ho lasciato.

È stata la mia prima storia importante, durò meno di un anno, ma ne uscii annientata. Il mio Barbablù si mostrava maturo, colto, aveva una professione che lo faceva viaggiare, ma anche una gran cultura musicale, la passione per i film e la fotografia. Mi ero sempre sentita vecchia, dentro, ma lui era un uomo. Mi sentivo diversa, “pesante”: per lui ero speciale. Nel suo desiderio, nell’obiettivo della sua reflex, mi sono vista, per la prima volta, bella. Nei ritratti dei primi tempi rivedo una giovane donna innamorata che gli sorride. Felice, ignara.

È stata una storia di violenza psicologica (che è violenza lo stesso, anche se più difficile da dimostrare). Me ne sarei andata prima, se mi avesse picchiata? Non lo so. Mi aveva drogata: di passione, di attenzioni. Qualunque sia la tua dipendenza segreta, il predatore ha un fiuto infallibile. Ti stordisce abbastanza da impedirti di capire cosa sta succedendo. L’inferno arriva in fretta. La gelosia morbosa. I commenti sprezzanti. Le umiliazioni. Gli sbalzi d’umore. Gli scoppi di rabbia improvvisi — ricordo quelli, soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare. A scatenarli poteva essere qualunque cosa, ma era sempre colpa mia. Ero io a distruggere l’armonia. Ma lui, misericordioso, perdonava. Stop, rewind, favola, noi due soli ovviamente (gli amici, come da manuale, allontanati). Se mi arrabbiavo, mi faceva sentire in colpa. Ma ho smesso presto. Ero una brava bambina, fino al midollo. Zitta, buona, ho cominciato a strisciare sul fondo, per la mia dose di quella cosa tremenda che chiamavo “amore”.

Poco prima della fine, nella panetteria di un piccolo paese, lui discute con donna al banco, poi ordina anche per me. La donna ci guarda, mi dice: «E tu non ce l’hai la lingua?». Gentile, senza giudizio. Aveva capito tutto. Provo vergogna mista a sollievo. Tante volte, dopo, avrei voluto ringraziarla. Tu stai zitta perché ti vergogni, non ti fidi di te stessa, hai paura. E spesso, intorno, c’è una tribù che vede, ma tace, purtroppo. Per conformismo, per connivenza, per evitare grane. Ma ogni parola, ogni sguardo di riconoscimento, può essere la boccata d’ossigeno che ti rianima, la piccola luce in fondo al tunnel: tenetelo a mente, vi prego. Prima del bambino immaginario, io ho avuto F., amica dai tempi del liceo, la più lucida, che ha avuto il coraggio di scrollarmi: Non mi piace come ti tratta, stai attenta, vattene. Parole di amore vero, quello che vuole il tuo bene, a costo di rischiare la lite. Non ero ancora pronta, ma sentivo la differenza: ha scavato un pezzetto della mia via di fuga. F. è ancora uno dei tesori della mia vita e continuiamo a essere testimoni l’una dell’altra, nella gioia e nel dolore.

Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola. Niente di evidente, temevo che lui si sarebbe infuriato o avrebbe riso di me. La notte battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo. Al primo tuffo in mare, l’acqua salata mi tradisce, rivelando i geroglifici rossi sulla pelle. Vedo il suo sguardo compiaciuto. La sua droga era quel potere, credo. Quando l’ho lasciato, infatti, non mi ha più cercata. Ero diventata inutile. Sono stata molto fortunata, solo col tempo ho capito quanto.

Poco dopo, gli aerei entrano nelle Torri gemelle, io sono stesa sul letto e non sento niente, penso solo che il fuori somiglia al dentro. Ho attraversato una lunga depressione. Ma la mia “disperata vitalità” premeva sotto traccia. Lavoravo. Ho finito l’università. Ero così spaventata da quel che avevo lasciato accadere che mi sono trascinata in terapia e la mia dottoressa mi ha salvato la vita. Di nuovo, sono stata fortunata: me la sono potuta permettere. Quante donne non hanno i mezzi e non trovano aiuto nella sanità pubblica? Barbablù era solo un simulacro, lo avevo scambiato per amore perché era ciò che, in diverse forme, conoscevo. La mia radice era un buco nero, il buio di mia madre. La mia intoccabile madre vedova, per cui avrei fatto tutto, da cui avrei accettato qualunque cosa. Come donna, invecchiando, ho imparato a guardarla con compassione. Come figlia, ho dovuto imparare a essere ferma e lucida nel fissare i confini e fortificare gli argini. Alcune grandi scrittrici avevano già trovato parole anche per me. All’inizio, il mio romanzo- talismano è stato Malina di Ingeborg Bachmann, con le sue cronache di assassinii dell’anima; di recente, ho ritrovato con emozione la mia verità di figlia in Lontananza di Vigdis Hjorth. Il bambino immaginario era anche la me stessa che doveva rinascere. Il dolore di qualunque parto è grande. A volte pensi che potrebbe ucciderti. A volte vorresti cavarti gli occhi come Edipo pur di non vedere la cruda realtà del passato. Andare alla radice del problema spesso comporta grande solitudine: per il mondo da cui ti allontani sei pazza, sei malata, sei cattiva e bugiarda. La verità brucia molti ponti. Puoi essere cancellata dalle persone che amavi, dalla tua stessa famiglia, perché hai rotto il patto del silenzio della tribù. Le maledizioni, in questi casi, sono un ottimo segno: sei sulla strada giusta. Ti aspetta la navigazione in mare aperto, un mondo nuovo. Allora potrai trovare la tua famiglia oltre il sangue, in cui amare e amarti (queer o no, come preferite). Sulla strada, servono testimoni: puoi trovarli nell’amicizia, in terapia, nei libri, nell’incontro con altre sopravvissute. Persone che conoscono e riconoscono le dinamiche perverse. Le loro parole sono il luogo in cui specchiarsi e trovare forza e conforto — che è poi il senso di questo progetto. Unite. Come una popolazione di donne dispersa che si ritrova attorno a un fuoco, seguendo il richiamo lontano dei tamburi.

“Gli sbalzi d’umore, gli scoppi di rabbia improvvisi Ricordo quelli soprattutto: vivevo nel terrore di farlo arrabbiare” “Nel punto più basso, ho cominciato a farmi male da sola battevo la testa contro il muro, oppure mi graffiavo con quel che trovavo”


Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla. L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli.


(la Repubblica – Il corpo delle donne/8. Le scrittrici denunciano la violenza di genere, 3 marzo 2024)

di Cristina Piccino


Quando la incontriamo la prima volta Marjane ha otto anni, è figlia amatissima di una famiglia iraniana benestante laica e politicamente molto attiva nella critica contro lo Scià di Persia, lo zio comunista è stato in prigione e lei è affascinata dalle sue storie. Poi, un giorno, comincia la Rivoluzione iraniana che all’inizio i genitori, la nonna voce di caustica saggezza guardano con speranza accorgendosi presto però che lo Stato islamico li avrebbe rinchiusi in una gabbia soffocante, loro che amavano vivere con piacere e divertimento, e soprattutto ogni donna in Iran. È così che la ragazzina ormai cresciuta viene mandata a studiare in Austria dove però le esperienze non sono molto positive, al punto da spingerla disperata a tornare indietro; ma in Iran le cose sono ancora peggiorate, la vita è sotto controllo, le ragazze velate e perseguitate, di fronte alla rassegnazione che pervade i più e la nonna sembra l’unica a resistere. E Marjane? Persepolis quando arrivò sugli schermi, nel 2007 fu subito un successo, venne presentato al Festival di Cannes – e accolto con una standing ovation – fra le molte minacciose proteste dell’Iran che accusava il film di «dare un’immagine irreale della società iraniana a beneficio delle potenze straniere».

A firmarlo era Marjane Satrapi, alla cui autobiografia si ispira, insieme a Vincent Paronnaud, i tratti di quell’animazione che aveva come detto più volte dall’autrice fra i riferimenti ha l’espressionismo e il neorealismo italiano per le atmosfere da “cinema post-bellico” partivano dalle sue graphic novel ripensate su grande schermo nelle magnifiche animazioni in bianco e nero. Persepolis torna in sala domani grazie alla Cineteca di Bologna, nel restauro in 4k curato da Satrapi. Presentandolo l’anno scorso, proprio a Bologna, l’artista che vive a Parigi, aveva detto: «La ragazzina che vedete nel film e che crescendo diventerà la giovane donna che ero io quando ho lasciato il mio Paese, all’età di 23 anni, oggi non avrebbe mai lasciato l’Iran ma sarebbe scesa in strada, avrebbe combattuto, forse avrebbe perso un occhio. All’epoca, noi eravamo così terrorizzati, che non ci azzardavamo a parlare. Ma questa nuova generazione non è spaventata, quel muro di paura è stato abbattuto, ormai è distrutto. Adesso la paura è dall’altra parte, sono loro ad avere paura di noi e fanno bene a essere spaventati. Ma soprattutto, devono temere questa nuova generazione».Un romanzo di formazione che per la protagonista autrice significa una frattura profonda

A distanza di tempo, questa narrazione che attraversa appunto vent’anni di storia iraniana, dal 1978 agli anni Duemila, quando l’autrice lascia il Paese, intrecciando alla dimensione collettiva la vita personale della protagonista, continua a essere di bruciante attualità, a cominciare dal modo in cui illumina le forme repressive messe in atto dal regime iraniano contro ogni espressione di dissenso. È quello di Satrapi un punto di vista rivoluzionario femminile, la bimba che voleva essere Bruce Lee, o un profeta, poi ragazza che sperimenta diverse fasi nel suo rapporto con il mondo, in Iran e fuori, che arriva a Vienna adolescente vivendo uno choc culturale, che passa dal punk ai disastri amorosi, che quando è di nuovo in Iran studia arte ma si annoia perché i corpi da disegnare sono censurati, che deve indossare il velo come tutte, che farà un matrimonio sbagliato – «Ma il primo è la prova del secondo» la consola la solita fantastica nonna fumando – ci dice moltissimo su cosa significa crescere in un luogo governato dal controllo e dalla censura, e come questo si amplifica per le donne. Ma anche sul sentimento dell’esilio, in un romanzo di formazione che per la protagonista/autrice significa una frattura profonda, un dolore ma anche una liberazione seppure altrove di sé, dei suoi desideri, del proprio talento nel mondo.

Satrapi che nel frattempo ha curato il progetto corale Donna, vita, libertà (Rizzoli Lizard), una raccolta di quasi 300 pagine, di cui 192 tavole disegnate, su cui hanno lavorato quattro fumettisti iraniani e 13 provenienti dall’Europa e dall’America, insieme a un politologo, un giornalista e uno storico, tutti esperti di Iran o di origini iraniane, pubblicato a un anno dalla morte di Mahsa Amini, usa in Persepolis la leggerezza dell’ironia, e un umorismo che rende il movimento della sua protagonista ancora più determinato nel suo smascheramento dei paradossi di quella società ira di pasradan e denunce ma anche di ciò quelli che troverà sul suo cammino nell’occidente. Con una forma che afferma un nuovo genere di animazione, la cui singolarità rimane sorprendente oggi, mescola ricordi, aneddoti, emozioni che la distanza narrativa tiene al riparo dal sentimentalismo. E rende Persepolis un film speciale, che oltre al tempo sa parlare a tutte e tutti noi.


(il manifesto, 3 marzo 2024)

Eleonora Graziani


Ho apprezzato molto l’intervento di Massimo Lizzi Noi uomini pacifici e rispettosi siamo davvero sempre pacifici e rispettosi? prima di tutto perché riprende un concetto politico del femminismo anni ’70, non del tutto chiaro o perlomeno non dovutamente evidenziato nei numerosi interventi della stampa e mediatici degli ultimi tempi. La domanda che chiede risposta è se la violenza sulle donne conviene a qualcuno e, in caso affermativo, a chi. La risposta politica del femminismo, ancora influenzato dalle analisi di sistema di impronta marxista, era che la violenza sulle donne fosse funzionale ad un sistema di dominio maschile di matrice capitalista. Lizzi spiega molto bene le ragioni di convenienza dell’indebolimento sistematico delle donne, come competitrici formidabili nel mondo del lavoro: più creative, efficaci ed efficienti sono state contrastate con salari inferiori, con difficoltà a conciliare il tempo di lavoro con gli impegni famigliari, con ricatti sessuali, con mobbing di vario genere. Per queste ragioni le donne hanno spesso rinunciato a privilegiare la carriera e in molto settori pur a netta prevalenza femminile, come la scuola o la sanità, i dirigenti sono spesso uomini.

A questo oggettivo carico di ostacoli nel mondo del lavoro si aggiunge l’ulteriore compito, più che mai urgente, di controllare la propria relazione con il partner. Come scrive acutamente Lizzi: Nella relazione privata, lei tiene conto del potenziale violento di lui, anche quando lui è un uomo pacifico. I commenti che si sono letti sui 118 femminicidi del 2023 e sui 9 del 2024, sono stati quasi tutti di critica a una debole preveggenza femminile, che deve denunciare ai primi segnali, non si deve mettere con individui simili, si deve proteggere prima. A parte il fatto che Filippo Turetta era un ragazzo modello, che molte avevano denunciato e sono state uccise lo stesso, o forse proprio per questo, tali giudizi indicano come la società stia caricando il mondo femminile di un’ulteriore responsabilità: controllare che la rabbia maschile non degeneri in aggressione, come ha scritto Caterina Balotta La rabbia degli uomini, mentre a gennaio 2024 crescono i femminicidi. Non una parola di autoanalisi maschile, a parte Lizzi, sulla carica di violenza che sentimenti comuni come la gelosia, il desiderio di possesso, l’invidia portano gradualmente con sé, se non riconosciuti, compresi, trasformati. Il lavoro di autocoscienza è stato uno dei pilastri del femminismo anni ’70 nella convinzione tuttora riconfermata dell’importanza di partire da sé, non da paradigmi esterni, ma da ciò che si sente e si vuole veramente. In altri termini non si diventa un mostro improvvisamente, ma giorno dopo giorno, accumulando false immagini di se stessi, nella mancanza di sincerità, nella pesantezza del silenzio fra i partner.

Tutte le 127 donne uccise fra il 2023 e il 2024 non si immaginavano che quello che un tempo era stato un amore le potesse ammazzare con decine di coltellate, non per stupida ingenuità, ma perché in una donna è molto raro che la rabbia si trasformi in aggressione. Non riusciamo a immaginarci quello che non ci appartiene e pretendere che siano le donne a difendersi dagli uomini delega ancora una volta le proprie responsabilità ad altri. Per gli uomini il riconoscimento delle proprie emozioni sarebbe un primo passo per non esserne schiavi, aiuterebbe ad arginare il cieco impulso nella sua corrente distruttiva. Noi la nostra autocoscienza l’abbiamo fatta, ora, come ha fatto Massimo Lizzi, comincino gli uomini.


(periscopio online, 2 marzo 2024)

di Cristiana Cella


Gli estremisti governano il Paese nell’indifferenza globale e soffocano sempre di più la popolazione femminile. Non solo nei villaggi ma anche nelle città, dove aumentano i controlli e arresti arbitrari. Il racconto di un’attivista locale.

Eravamo sedute in mezzo al nulla, quattro anni fa, in un villaggio di polvere e fango dello stesso colore ocra delle montagne, nell’Ovest dell’Afghanistan, dove seguivamo un progetto per le donne. A pochi chilometri c’era una postazione talebana e a una trentina una dell’Isis Khorasan. Non si poteva restare più di due o tre ore nello stesso posto, per non lasciare loro il tempo di organizzare un attacco o un rapimento. Narges mi spiegava la geografia politica del suo Paese: una pelle di leopardo, dove ogni villaggio, ogni città, ogni angolo aveva il suo padrone in lotta con gli altri.

C’erano i distretti completamente in mano ai Talebani, altri contesi con le armi al governo, altri ancora formalmente in mano a Kabul, ma con un “esecutivo omba” degli studenti coranici. E poi l’Isis Khorasan contro tutti. Una quantità di poteri diversi che esercitavano una pressione violenta e quotidiana sulla popolazione. Una vita in cui si poteva solo scegliere il male minore.

Oggi il palcoscenico si è svuotato: gli unici attori rimasti, i Talebani, governano nell’indifferenza del mondo. La guerra non c’è più, la delinquenza nemmeno, la produzione di droga diminuisce, è vietato portare armi e si può circolare anche di notte. Se ti comporti secondo le regole non hai problemi, ma se sei una donna puoi solo sparire.  Narges oggi vive a Kabul con la sua famiglia. Riesce a lavorare in un ufficio privato, segretamente, quasi sempre da casa. “Esco il meno possibile. Adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa”.

Perché?

Gli agenti della polizia morale, uomini e donne, girano come cani affamati per le strade, in cerca delle loro prede. Fino a qualche tempo fa ti arrestavano se manifestavi o se l’hijab (il velo, ndr) non era in regola; adesso lo fanno anche se sei completamente coperta accanto al tuo mahram (l’accompagnatore di sesso maschile, ndr). Lo fanno senza motivo. Perché? Non si sa e non si può sapere. Tutto è diventato arbitrario, casuale e imprevedibile. Non sai come proteggerti: ogni passo all’esterno costa un’ansia infinita.

Che cosa succede se ti arrestano?

Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più niente delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari.

Come mai questo ulteriore giro di vite?

La paura è la più forte delle restrizioni, il più economico sistema di controllo. Arriva ovunque e chiude i pochi spazi rimasti. Ho notato alcune cose negli ultimi anni. Da quando è diventato obbligatorio l’hijab, soprattutto qui a Kabul, le più giovani hanno iniziato a vestirsi in modo tradizionale, strettissimo. Mi chiedevo il perché, poi ho capito: era l’unica concessione che avrebbero fatto ai nuovi governanti del Paese. Protette da un hijab perfetto potevano andare nei locali, nei ristoranti, passeggiavano con gli uomini, fumavano l’hookah, la pipa ad acqua, e si divertivano. Insopportabile per i Talebani, che hanno inasprito i divieti. Molte sono state arrestate, ma le guerriere della normalità non si sono arrese.

La vita delle donne è diversa nelle province?

Sì, molto. Gran parte del nostro Paese è stato “talebanizzato” molto prima del loro arrivo a Kabul. Nelle zone rurali, le donne non hanno mai avuto libertà, né diritti. Nei villaggi dell’Helmand, ad esempio, né le ragazze che incontro né le loro madri hanno mai frequentato la scuola. Durante i vent’anni di occupazione delle forze occidentali era possibile studiare, c’erano i servizi per il contrasto alla violenza, i rifugi e la possibilità di lavorare.Ma tutto questo riguardava una parte limitata della società femminile. Se fossero stati cambiamenti strutturali, non sarebbe stato così facile spazzarli via in un giorno. Per noi che viviamo nelle città, che abbiamo studiato e avevamo un lavoro, l’arrivo a Kabul dei Talebani è stato uno shock ma nella gran parte del Paese non c’è stato alcun cambiamento. La situazione tragica dell’Afghanistan non è solo colpa dei Talebani, questa è una versione comoda per gli ex occupanti, ma è responsabilità di chi per vent’anni non ha fatto nulla.

Perché i Talebani odiano tanto le donne?

Narges Sono uomini a cui è stato fatto il lavaggio del cervello molto in profondità e molto presto. I bambini nelle madrase vengono lasciati soli, lontani dalla famiglia, da sorelle, madri e zie. Non hanno alcun rapporto con le donne. Non sanno niente di loro se non quello che dice il mullah. Da adulti, sono a disagio, ne hanno paura e non sanno fare altro che opprimerle, diventano così uno strumento politico dell’Islam estremo.

Le donne che incontri hanno qualche speranza per il futuro?

No, nessuna. Tutti vogliono andarsene, lasciare il Paese. Affrontano qualsiasi pericolo per questo.

Che consenso ha il governo talebano?

Narges Adesso molto poco. Nei vent’anni di occupazione la popolazione ha sofferto molto e ha sviluppato un profondo risentimento verso le forze straniere. Quando queste se ne sono andate, gli afghani erano pronti ad accettare i Talebani, ma adesso non ce la fanno più.

Con chiunque tu parli, anche con gli sconosciuti, il primo argomento di conversazione sono le critiche nei confronti degli attuali governanti. Farlo è molto pericoloso, ci sono spie ovunque, ma le persone si lasciano andare lo stesso. Sono esasperati, hanno fame e si impedisce alle madri di famiglia di nutrire i propri figli. I divieti per le donne, infatti, creano difficoltà a tutti.

I Talebani resteranno a lungo al governo?

Loro stessi non hanno speranza di durare molto. Molti si stanno preparando per quando perderanno il potere politico: avviano business, comprano case, preparano una sicurezza per il loro futuro. Mio marito, che è negli affari, lo vede ogni giorno.

Per ora sono stabili però. Che appoggi hanno?

Principalmente il denaro che gli arriva regolarmente dagli Stati Uniti, che faceva parte degli accordi di Doha. Senza questi soldi non ce la farebbero. Cercano di aumentare gli introiti con le tasse e cresce la corruzione: ma non basta. Non sarà mai abbastanza per sostenersi.

Quali altri sponsor hanno oltre agli Usa?

Il governo precedente dipendeva al 100% da Washington. Se altri Paesi volevano entrare nel “grande gioco” afghano dovevano rivolgersi ai ribelli. Allo stesso modo, anche oggi ci sono i Talebani iraniani, pakistani, russi. Ognuno ha le sue pedine. E questo non piace agli Stati Uniti: finché non avranno la sicurezza che i Talebani resteranno una forza mercenaria a loro leale continueranno a tenerli sulla corda. Trattano, dialogano ma ancora non vengono ufficialmente riconosciuti. La strada per Kabul è stata aperta all’interno di un piano prestabilito nel quale gli Usa devono mantenere la posizione preminente e limitare le influenze di altri Paesi.

Se gli americani volessero, quindi, potrebbero far cadere il governo talebano?

Hanno smantellato il governo di Ashraf Ghani in una settimana, potrebbero deporre questo in tre giorni.

E con chi potrebbero sostituirli? Con i vecchi signori della guerra, con un governo condiviso, con il giovane Ahmad Massud, il figlio di Ahmad Shah?

Potrebbero. Massud e gli altri sono in cerca di sponsor, ma non li trovano. Nessuno vuole sostenerli per ora. I signori della guerra aspettano pazientemente di ritornare in campo e riprendere gli affari. Sanno che non sono esclusi per sempre, ma aspetteranno a lungo. Nessuno ha interesse in questo momento a far cadere i Talebani, soprattutto agli americani non conviene: controllano i governanti di Kabul con il denaro e mantengono la loro influenza. Del nostro inferno non si vede la fine, ma le donne afghane sono molto forti. Abbiamo fatto una cura drastica a base di guerre, violenze, soprusi. Dobbiamo solo impegnarci a sopravvivere.


(Altraeconomia, 1 marzo 2024)

di Alfonso Gianni 


Da gennaio in poi stiamo assistendo a un susseguirsi di accordi di cooperazione in materia di sicurezza fra l’Ucraina e diversi stati europei, sia che facciano parte della Ue che no, ed anche d’oltreatlantico. A partire dal 12 gennaio di quest’anno, tali accordi bilaterali, che più propriamente e realisticamente dovremmo chiamare di alleanza militare, sono stati firmati dalla Gran Bretagna, Francia, Germania, Danimarca e da ultimo Italia e Canada. Il tratto comune di questi accordi, che rivela apertamente la loro finalità, consiste nel riferimento a una collaborazione immediata e rafforzata tra le due parti con un sistema di risposta di emergenza in 24 ore da attivarsi su richiesta di uno dei due contraenti il patto in caso di un futuro attacco armato da parte della Russia. Infatti all’articolo 11, primo comma, dell’accordo fra Italia e Ucraina si legge: “In caso di futuro attacco armato russo contro l’Ucraina, su richiesta di uno dei partecipanti [ovvero Italia o Ucraina], questi ultimi si consultano entro 24 ore per determinare le misure successive necessarie per contrastare o scoraggiare l’aggressione”.

Per comprendere di quali misure si sta parlando, si può continuare a leggere il testo dell’accordo che impegna il nostro paese: “L’Italia afferma che in tali circostanze […] fornirà all’Ucraina, a seconda dei casi, un sostegno rapido e sostenuto nel campo della sicurezza e della difesa, dello sviluppo delle capacità militari e dell’assistenza economica, cercherà di raggiungere un accordo in seno alla Ue per imporre costi economici e di altri tipo alla Russia o a qualsiasi altro aggressore e si consulterà con l’Ucraina in merito alle sue esigenze nell’esercizio del diritto di autodifesa sancito dall’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite”. Quindi sostegno all’economia, armi, tecnologia militare, incrudimento delle sanzioni economiche nei confronti del paese aggressore nonché tutto ciò che potrebbe derivare da una interpretazione espansiva del diritto di autodifesa. Alcuni accordi prevedono la misura esatta dello stanziamento economico, come ad esempio quello firmato dal premier canadese Trudeau che promette per l’anno in corso 2,25 miliardi di dollari. L’Italia è stata più evanescente riguardo alle cifre da stanziare. L’articolo 17 dell’accordo esclude qualsiasi “costo aggiuntivo per il bilancio dello Stato della Repubblica italiana e dell’Ucraina”, ma il contributo finanziario fornito in passato dal nostro paese è stato, come sappiamo, già molto consistente.

Complessivamente calcoli ufficiali stimano che gli accordi firmati dai sei paesi citati superano già la cifra di 20 miliardi di dollari.  Ma gli accordi non si limitano a ribadire il già fatto e il già dato. Siamo di fronte ad un salto di qualità ma in negativo. Cioè alla strutturazione di un sistema di guerra che va al di là dell’eventuale cessazione del fuoco e della conclusione di una conseguente trattativa fra Russia e Ucraina, di cui peraltro ora non si vedono le premesse, pur essendo la guerra su quel fronte in uno stato di stallo. Non contenta di quanto finora ottenuto, l’Ucraina è in “negoziazioni attive” con il Giappone, mentre ha aperto negoziati con altri paesi, quali la Romania, i Paesi Bassi, la Svezia e forse la Polonia, stando a quanto ha dichiarato Ihor Zhovkva, consigliere per la politica estera del presidente ucraino, a una giornalista di Euractiv.com.

Questi accordi hanno durata decennale. Da un lato si moltiplicano per rispondere alla attuale impossibilità di accettare l’Ucraina nella Nato in base all’articolo 10 del suo statuto che prevede la possibilità di invitare nuovi paesi europei ad aderire al Trattato purché condizionata alla possibilità di questi “di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. Il che non potrebbe avvenire per un paese in stato di belligeranza. Dall’altro lato, favoriti dalla loro durata decennale, questi accordi vogliono costituire un precedente per rendere ancora più semplice l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, appena le condizioni lo possano permettere. Su questo l’Accordo firmato della Meloni è esplicito, poiché l’articolo 14 recita: “I Partecipanti [ovvero i firmatari dell’Accordo] collaboreranno per aiutare l’Ucraina a realizzare le forme necessarie nel suo percorso verso la futura adesione alla Nato”.

Insomma questi accordi di alleanza militare sono insieme sostitutivi, nell’immediato, quanto propedeutici, in un non lontano futuro, all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Nello stesso tempo il loro fine e il loro effetto più prossimi sono prolungare la guerra, impedendo il cessate il fuoco e l’apertura di trattative di pace. Lo dimostra anche la mossa del solito Macron che ha immediatamente parlato della possibilità dell’invio di truppe europee nello scacchiere ucraino, visto anche il fallimento della controffensiva nei confronti degli aggressori russi, su cui Zelensky aveva fondato la sua propaganda nei suoi giri europei, e vista la difficoltà di impiegare forze fresche al fronte da parte di Kiev. La boutade del premier francese ha suscitato immediate reazioni negative e smentite, anche da parte italiana, ma è evidente che non si tratta di una distrazione o di una battuta di spirito, quanto di una ulteriore spinta verso l’appesantimento di quel clima di guerra in cui da tempo l’Europa è immersa.

Lo stato di stallo nel quale attualmente verte il conflitto russo-ucraino non è certo una sorpresa. L’ex capo di stato maggiore americano, Mark Miley, lo aveva previsto da tempo e ne aveva tratto la convinzione che nella primavera di quest’anno sarebbero iniziate, quasi per forza di cose, trattative per concludere in qualche modo una guerra impossibile ad essere vinta per entrambi i contendenti. Una previsione legata all’andamento dello scontro sui campi di battaglia e alla valutazione della potenza delle armi e della quantità di munizioni in mano all’Ucraina, che, a differenza della Russia che le produce a ritmi sostenuti, è costretta a chiederle in giro per il mondo. A questo va aggiunta l’incertezza del quadro politico statunitense con la pervicace presenza di Trump nella competizione per le elezioni presidenziali del 5 novembre prossimo. In questo quadro la continuità del sostegno finanziario e militare degli Usa all’Ucraina è messo in dubbio. È un altro dei motivi degli accordi bilaterali voluti e ottenuti da Zelensky sia dentro che fuori dal contesto europeo.

Ma vi è di più. Creare e appesantire un clima di guerra, costruire un vero e proprio sistema di guerra, dal piano culturale a quello economico, da quello della produzione di armi a quello di una tecnologia piegata a impieghi bellici, è funzionale a qualcosa che va al di là del conflitto in corso. Riguarda direttamente la possibilità – che molti analisti americani considerano inevitabile – di un conflitto dalle proporzioni ben più catastrofiche fra Usa e Cina. Gli analisti militari la chiamano “la trappola di Tucidide” che si verifica ogni volta, a partire dallo scontro fra Sparta e Atene di ben oltre duemila anni fa, che una potenza emergente mette in discussione il primato su un certo territorio, in questo caso l’intero mondo, di quella dominante, nella quale  compaiono evidenti i segni di un declino. Ed è questa la situazione e la relazione nella quale si trovano attualmente Usa e Cina. Non so se può bastare un incidente per fare deflagrare il conflitto fra due potenze nucleari. Quello che è certo è che uno stato psicologico delle popolazioni preparato ad una simile prospettiva di guerra mondiale, dopo tanti decenni di pace apparente, è funzionale ad un simile disegno. L’abitudine allo stato di guerra ne favorisce l’estensione e l’aggravamento da tutti i punti di vista. Servirebbe dunque un’Europa, una Unione europea che, anche in virtù della sua massa critica, agisse politicamente ed economicamente per evitare questo esito. La transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est è probabilmente un processo storico inarrestabile. Ma non sta scritto che debba avvenire, come nelle precedenti transizioni, come un esito di una guerra, che in questo caso, lascerebbe poche speranze per la sopravvivenza delle specie viventi su questo nostro pianeta.


(Odissea, 29 febbraio 2024)

di Giordana Masotto


In occasione della presentazione in Libreria delle donne di Milano di Brothels di Libera Mazzoleni (Boîte Editions, 2023)


Il libro è nero, com’è giusto che sia. In copertina un taglio, la ferita feritoia da cui entreremo nelle stanze dell’orrore: stanze invisibili nei campi di concentramento, segrete e nascoste vicino ai reparti di esperimenti con cavie umane; stanze disciplinate e controllate nelle case di tolleranza fasciste; professionali nella vasta gamma di casini e bordelli parigini; fino alle vaste pratiche degli eserciti stupratori e dei campi militari di prostituzione forzata e alle schiave in gabbia dei quartieri a luci rosse di Tokyo.

No alla Cancellazione

Libera Mazzoleni fa un lavoro di svelamento che si rivela anche nei fogli semitrasparenti che trovi dentro al libro e che non sono rilegati come le altre pagine, sono mobili: li puoi togliere se vuoi!

C’è svelamento nel silenzio di quelle immagini deformate: il silenzio è sentire il mondo. E quel flusso deformato ci chiama in causa. Architetture e persone ci fanno vedere città che non vediamo.

Denuncia la cancellazione, dà visione/immagini e parola/testi, a queste donne cancellate: è proprio questo che non le blocca, non le oggettiva nella condizione di vittime. È il “fuori campo” (come ci ha ben spiegato Daniela Brogi, Lo spazio delle donne) che spezza la visione consolidata.

E, insieme alle immagini, ci sono testi che rivelano tutto il lavoro di ricerca che ci sta dietro, ma anche poesie dell’artista, testimonianze, lettere alla senatrice Merlin. Giustamente varie e plurali sono le voci di queste donne: pro e contro la Merlin, le tenutarie, le imprenditrici creative, le schiave.

Ma attenzione, questa non è documentazione storica: la memoria è viva quando la metti in gioco con il presente, ti metti in gioco con il tuo sguardo, con il tuo corpo di oggi. È generativa: dar voce è rigenerare.

Incrinare lo storytelling

Svelare l’indicibile. Il corpo della donna può essere usato dal potere come incentivo/premio di produzione con una graduatoria: SS, militari, internati. Il corpo della donna è contenitore per il “bisogno/sfogo” maschile, relax, divertimento, arma di guerra.

Non c’è bisogno di spettacolarizzare (come “la stanza dello stupro” nella mostra su Artemisia Gentileschi a Genova).

Questi uomini li vediamo nelle immagini e nelle storie: non sono mostri, sono uomini normali. Possiamo usare l’aggettivo “normale” nel senso svelato da Hannah Arendt in La banalità del male. Voglio ricordare queste parole preziose di H.A.:

«Oggi, in effetti, sono dell’avviso che il male sia sempre e solo estremo, ma mai radicale: non ha profondità e non ha niente di demoniaco. Può devastare il mondo intero perché prolifera in superficie, come un fungo. Profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».

Oggi possiamo chiederci: che cosa c’è di disumano che consideriamo normale?

Il grande rimosso: il contratto sessuale

Dal bordello al matrimonio il passo è breve, come ci ha spiegato un testo che rimane fondamentale: Carole Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna. Il contratto sociale istituisce il potere che regola l’umana convivenza. La convivenza umana, infatti, deve essere pensata, non può essere lasciata alla natura: per questo gli uomini liberi acconsentono liberamente a subordinarsi al potere. Invece – come ha ben svelato C.P. – il diritto degli uomini sulle donne viene considerato naturale. Poi c’è l’avvento della libertà delle donne: ma il contratto sociale non viene ripensato in maniera radicale, viene semplicemente rimosso il contratto sessuale che gli sta dietro. È questa rimozione che fa sì che emergano oggi ipotesi di contrattualizzare la prostituzione e la maternità, come argomenta nel capitolo finale del libro. Ma, più in generale, tutte sappiamo la fatica che ci vuole per portare il nostro “stare intere” nei diversi contesti sociali in cui viviamo, mettendo in discussione la logica paritaria dell’inclusione nel contratto sociale esistente. O per resistere alla logica invasiva dell’individuo neutro competitivo che cancella la vita di donne e uomini.

Dal bisogno al desiderio

Per spezzare l’invasiva e devastante banalità del male dobbiamo “rimettere in relazione”. La natura della relazione amorosa non può andare distinta dai rapporti sociali e questa interazione va portata alla luce, svelata, in ogni ambito: amore, lavoro, politica. È questa rottura di barriere che può cambiare donne e uomini, generare insieme nuovo mondo.

Esempio: nella modalità bordello, ma anche in altri rapporti sessuali, oggi anche in rete, il sesso si trasferisce dalla modalità desiderio alla modalità bisogno (Sarantis Thanopulos, La Città e le sue emozioni, Edizioni ETS 2019). Libera Mazzoleni lo dice benissimo nella poesia “L’uomo idraulico” in cui ladonna è contenitore per il bisogno impellente di “svuotare”. Ma non è diversa anche la logica del sesso premio di produzione.

Questo discorso – rianimare il desiderio – è più che mai attuale e impellente in tutti i campi. Detto in altre parole, si tratta di vivere nella logica non di trovare, ma di cercare. Riscoprire il desiderio per rigenerare la convivenza nello spazio comune, le relazioni come incontro tra differenze.

Essere artista o Lavoro Artistico

E proseguendo in questo cammino aperto dal desiderio, arrivo lì: essere artista. C’è qualcosa di radicale nell’arte, qualcosa che si genera radicalmente da te, dall’essere insieme corpo-pensiero-desiderio. È il bello che si può trovare anche nel lavoro artigianale, nel canto, nel recitare. Le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda: dobbiamo metterci in gioco, farci coinvolgere attivamente nella relazione.

Ma l’arte è anche politica per nascita, perché genera novità rispetto all’esistente. Come ho letto da qualche parte: «Si fotografa, si dipinge e si scrive per rendere meno chiare le cose che all’apparenza sembrerebbero inconfutabili ed evidenti». L’arte è necessaria alla politica e tutte e tutti dobbiamo riaccendere l’immaginario.

Anna Longo, citata da Judith Butler (Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica)dice: «Nei tempi in cui viviamo l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti [corsivo mio]: non creatori di nuove maschere che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».

Ragionando e confrontandomi sul tema del lavoro ho visto che sempre di più chi lavora cerca/vuole esprimersi. Vuole coltivare integrità, in sé e intorno a sé. Cercare insieme impegno e piacere. Competenza e passione. Espressione e riconoscimento. Potremmo dire che c’è un desiderio di “mettersi in opera”, non diversamente dal lavoro dell’artista, che vuole vivere ed esporsi nel proprio lavoro.

Contemporaneamente questo desiderio si scontra con contesti spesso sempre più mortiferi che aprono contraddizioni radicali, fino all’andarsene e mollare tutto. Oppure a vivere come puro privilegio la possibilità di “esserci”: se ti esprimi, se fai qualcosa in cui ti identifichi profondamente non sei pagata!

Chiamo questo aspetto del problema “lavoro artistico”: lo chiamo volutamente così per mettere in connessione questi due poli, che per certi aspetti si intendono in genere pertinenti a due ambiti contrapposti: necessità e libertà, bisogno e desiderio. E che anche nell’ambito propriamente artistico possono generare non poche contraddizioni. Problemi più che mai aperti.

Finale

E poiché tutte le opere d’arte sono strutturalmente relazionali, si fanno in due, chi opera e chi guarda, ed è giusto farsi coinvolgere attivamente nella relazione, adesso voglio fare la mia parte. Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere. Perché «profondo e radicale, invece, è sempre e solo il bene».


(www.libreriadelledonne.it, 29 febbraio 2024)

di Ida Dominijanni


La parata di no alla proposta di Macron di mandare i boots on the ground contro la Russia era una parata di no fino a un certo punto. E il certo punto l’ha chiarito oggi Ursula von der Leyen, cadendo, e facendoci cadere, dalla padella di Macron nella brace della Ue. Ursula infatti le truppe non le nomina, no, ma in compenso programma di armare l’Europa fino ai denti, col duplice scopo a) di dichiarare guerra alla Russia, b) di rilanciare l’economia dell’Unione con una bella riconversione bellica, altro che ecologica o energetica. È una bestemmia, ma poi c’è la bestemmia nella bestemmia, questa: con le armi dobbiamo fare come con i vaccini, cassa comune e solidarietà reciproca. Dunque la pandemia a questo è servita: non a metterci in testa che siamo tutti interdipendenti e tutti vulnerabili, non a farci reinvestire nei servizi sanitari devastati da decenni di neoliberismo, non a stringere maggiori vincoli di solidarietà a difesa della vita. No. Ci è servita a diventare più aggressivi, a riesumare gli eserciti e a seppellire quella vecchia storia dell’Europa figlia di Venere, pacifista e imbelle e perennemente in debito verso l’alleato d’oltreoceano figlio di Marte e sempre pronto a presentarsi a questo o quel fronte.

Lasciamo perdere il corredo di utilità economica che questa folle presidente in cerca di riconferme porta a sostegno della sua tesi, e che, va da sé, Mario Draghi approverà nella sua nuova funzione di consigliere per la competitività della Ue. Ancor più rabbrividente è il corredo politico del ragionamento: la belle époque della pace è finita, adesso la guerra in Europa «non è imminente ma non è impossibile». Tradotto: è probabile. Per colpa delle mire espansioniste di Putin, ovviamente, e delle tentazioni isolazioniste di Trump, non dei calcoli economici di Ursula.

Non abbiamo mai avuto nella storia della modernità europea una classe politica così cieca e incosciente. Fermiamola in qualche modo. Non dobbiamo produrre armi come i vaccini, ma vaccinarci contro il regime di guerra in cui ci stanno trascinando.


(https://www.facebook.com/ida.dominijanni/, 29 febbraio 2024)

di Gabriella Colarusso


A Teheran molte non osservano le leggi sulla moralità e si preparano a boicottare le elezioni “farsa” di domani.


È stata come una scossa elettrica, una vertigine. «Ero per strada, senza velo, una signora mi è passata accanto, mi ha guardata e mi ha detto: “Grande! Brava!”. Era eccitata più di me. In quel momento qualcosa è cambiato. Il Movimento ci ha fatto conoscere l’una con l’altra, diventare una comunità. Ci ha dato potere». Sono passati due anni dalla scossa che ha attraversato l’Iran: la morte di Mahsa Amini, le grandi proteste contro il velo obbligatorio e per i diritti, la repressione, la disobbedienza civile. Donna, vita, libertà. O come adesso lo chiamano tutti qui, semplicemente: il Movimento. Una parola entrata nel lessico comune. L’Iran che sta cambiando.

Quei giorni di protesta Najme li ha vissuti lontano dalle piazze, «non sono tipo da manifestazioni, dipingo». Ma dentro le si è ribaltato tutto. «Ho trentott’anni, e venticinque li avevo passati a litigare con mio padre, religioso, e i suoi dogmi. Dopo Mahsa ho capito che il problema ero io: non avevo coscienza di me. Il Movimento mi ha dato una forza nuova. E ora non ho paura di uscire senza velo. Ma non è una rivoluzione, attenti. Quelle sappiamo come finiscono: con la violenza. È una trasformazione, lenta. And it’s going on». È la nuova normalità senza velo per moltissime donne a Teheran, le vedi con i capelli scoperti in métro e nelle piazze, capannelli in mezzo ad altre velate, nel Nord ricco come nel Sud popolare, universitarie e madri di famiglia, laiche in gran parte ma pure conservatrici, moderate a cui l’imposizione non è proprio andata giù. Fatemeh, sessantaquattro anni, maestra in pensione, è avvolta nel suo chador nero. Anche lei ammette: «Le ragazze che non lo indossano si perdono qualcosa, ma non vanno punite».

Reza racconta le nuove diatribe con la moglie, la loro è da sempre una famiglia pia: «Ha smesso di indossare il velo dopo quello che è successo, arrabbiata per la repressione, e così anche mia figlia quindicenne», dice e scuote il capo: vorrebbe evitare guai. «Per strada devo tenerla a bada, altrimenti comincia a litigare se le dicono qualcosa». La temuta polizia morale, la Gersh Ershad, non si vede più in giro. Hanno cambiato nome, dice qualcuno. Lo fanno solo perché si vota, ma poi torneranno, speculano altri. Resta il fatto che i fermi delle donne senza velo, soprattutto quelli eseguiti con durezza, sono diminuiti. «La polizia non dice nulla», racconta Myriam, 24 anni, svelata e sorridente alla fermata della metro Dowlat Abad, sud di Teheran, zona conservatrice. «Magari sono i conservatori a dirti qualcosa, ma adesso intervengono le altre persone a difenderti». Le telecamere, quelle invece sono dappertutto. «Hanno capito che eravamo troppe, tante, e non potevano arrestarci tutte. Ora si sfogano facendoci le multe».  

Sepinud aspetta il bus a piazza Vanak, nel Nord, l’agorà delle grandi occasioni mancate. Qui nel 2015 i moderati festeggiavano la firma dell’accordo sul nucleare e la promessa di un rapporto nuovo con l’Occidente. Trump stracciò quel sogno. I moderati di Rohani sono caduti in disgrazia. E con l’ultraconservatore Raisi l’Iran è andato altrove, a Est, verso la Russia e la Cina, stringendo le maglie delle libertà sociali. Venerdì si vota per le elezioni parlamentari, con una crisi economica i cui effetti il governo è riuscito ad attutire solo in parte e a due anni dall’esplosione del Movimento che ha messo anche i conservatori di fronte a una realtà ineludibile, al punto che oggi il conservatore Haddad Adel dice che pure le donne senza velo possono votare.

«Io non ci andrò. Per Mahsa e per tutte le altre ragazze vittime della repressione», rivendica Sepinud, trentanove anni, mentre comincia a nevicare. Chi è sceso in piazza, e chi ha tifato da casa per la battaglia delle donne, diserterà le urne. Grève du vote, sciopero del voto, c’è scritto sul muro di un caffè alla moda nei pressi di Enghelab, via della Rivoluzione. Anche la premio Nobel Narges Mohammadi dal carcere ha invitato a boicottare i seggi. Lo faranno molti riformisti delusi. Le autorità in apparenza sembrano preoccuparsene, gli appelli a difendere la “democrazia” si moltiplicano tra i conservatori preoccupati che si scenda sotto il 40% delle precedenti legislative, già il dato più basso nella storia della Repubblica Islamica. Eppure molti candidati riformisti sono stati esclusi dalla corsa, quasi che al Sistema non dispiaccia un parlamento monocolore. Persino all’ex presidente moderato Rohani non è stato consentito di correre per l’altra elezione, davvero cruciale, di questo venerdì: quella per il Consiglio degli Esperti, l’organo che nomina la Guida Suprema. Ancora aspetta le motivazioni.

«103 riformisti candidati in tutto l’Iran», titola indignato il giornale riformista Ham Mihan, quello di Elahé Mohammadi, la reporter che insieme a Niloufar Hamedi per prima ha raccontato la storia di Mahsa Amini: arrestata, accusata di intelligenza col nemico, rilasciata dopo oltre un anno di prigione su cauzione, Mohammadi non è ancora stata scagionata. «Sta bene, e ci auguriamo che presto tornerà a lavorare», ci dice il direttore responsabile di Ham Mihan, Gholamhossein Karbaschi, ex sindaco riformista di Teheran, quando ci accoglie nella piccola redazione a nord della capitale. Sono tutti giovani, la maggior parte donne. In 400 giorni Ham Mihan ha avuto “200 denunce”, «sono andato in tribunale per 20 processi. 17 sono state assoluzioni, uno è finito con una multa di 140 euro e due cause sono ancora pendenti». Più che una redazione, un fortino. «Il Movimento ha cambiato molte cose», secondo Karbaschi. «Ha fatto venir fuori il potenziale di una generazione che vuole prendersi le sue responsabilità. Donne colte, determinate, che ambiscono a diventare capi, dirigenti, direttori. È il loro momento». Ma sbaglia chi pensa di poterci arrivare biocottando il voto, avverte: «In Parlamento dobbiamo esserci, far sentire la nostra voce, correggere gli errori ovunque possiamo».

I rifomisti però sono divisi, storditi. I vecchi leader, quelli del 2009, Karroubi e Mousavi, stanno ancora ai domiciliari. I “nuovi” non ci sono o sono accusati di aver tradito la promessa delle riforme. E di non aver fatto nulla in difesa dei ragazzi e delle ragazze nei giorni delle proteste. Mohammad Ali Abtahi si sente chiamato in causa. Tra i padri nobili del riformismo iraniano, braccio destro di Khatami, ne è stato il vice durante la grande stagione delle riforme, anni Novanta. «Capisco la delusione, è fondata, e ce ne assumiamo la responsabilità. Abbiamo fatto errori, come quando ci dividemmo contro Ahmadinejad. Ma ci sono due vie: o la violenza e la guerra civile, che abbiamo visto in tanti Paesi intorno a noi, o le riforme. Noi abbiamo scelto la seconda strada e la difendiamo». La speranza è in questa «nuova generazione connessa con il mondo, che sta cambiando le cose. Il potere non la capisce, non ci parla, la distanza è sempre più ampia».

Cos’è allora questa trasformazione? In Iran «i satelliti sono proibiti, il velo è obbligatorio, molti generi musicali sono vietati, Instagram, Telegram sono banditi». Però, nei fatti, «la gente sta sui social, non porta il velo, usa l’antenna satellitare. Il riformismo è un pensiero. E lo stanno realizzando, anche senza i riformisti al potere».


(la Repubblica, 29 febbraio 2024)