di Widad Tamimi
Oggi ricorre la Giornata delle donne musulmane istituita nel 2017 per restituire loro voce nella battaglia per i diritti. A partire da una corretta interpretazione delle norme religiose.
Amani Al-Khatahtbeh nel 2017 aprì un blog con un investimento iniziale di sette dollari: ne nacque MuslimGirl.com, che lanciò la prima Giornata ufficiale delle donne musulmane, per amplificare le loro voci. Era il 27 di marzo e da allora questa giornata è stata dedicata a molte iniziative. Amani, cresciuta nel New Jersey all’indomani dell’11 settembre, aveva nascosto a lungo di essere musulmana per evitare giudizi negativi da parte dei suoi coetanei. Ora, pochi anni più tardi, MuslimGirl ha decine di migliaia di follower e sprona le donne musulmane a essere padrone della propria narrativa. Ma le sfide rimangono tante e per quanto la conversazione sulle donne musulmane in occidente ruoti soprattutto intorno a stereotipi, quali il velo o le pratiche di mutilazione genitale femminile, lo spettro è più ampio e molto più complesso.
Soprattutto è bene ricordare che sia la mutilazione dei genitali femminili che l’imposizione del velo sono, peraltro, aspetti fortemente influenzati dalla cultura dei luoghi. In Africa, infatti, la mutilazione è praticata sia dai musulmani che dagli animisti e dai cristiani, non per ragioni religiose ma di costume, dettate dalla volontà di esercitare il controllo sulla sessualità femminile. L’aver confuso questa pratica con un rituale religioso è il tipico esempio di un errore diffuso, quello o di radicalizzare una fede senza criticarne storicamente gli abusi o di esecrarla identificandola con gli abusi stessi.
Si pensi alla Sharia. In occidente, ma anche per alcuni musulmani, essa è diventata sinonimo delle leggi patriarcali. In realtà la Sharia, letteralmente “la via”, nella fede musulmana è la volontà di Dio rivelata al profeta Maometto. Il corpus giurisdizionale, invece, chiamato Fiqh, che significa “comprensione”, fa riferimento al processo dei tentativi umani di discernere ed estrarre le norme giuridiche dalle sacre fonti dell’Islam, vale a dire il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta, come contenuta negli hadith, Tradizioni) e le “leggi” desunte da questo processo. Il Fiqh, come ogni altro sistema di giurisprudenza, è umano e legato a coordinate temporali e locali.
L’Islam oltre a non essere una religione dogmatica, si fonda sul rapporto diretto del musulmano con Dio. Non esistono intermediari e l’imam è una figura che fa da ponte mettendo a disposizione della comunità la propria conoscenza profonda dei testi sacri e assumendosi il compito di condurre la preghiera. Ogni fedele rimane però l’unico responsabile della propria comprensione e applicazione dell’insegnamento del Corano. Per questo la corretta lettura e la profonda conoscenza del Corano sono strumenti fondamentali di interpretazione dello stesso, grandemente influenzati dal livello di istruzione e purtroppo potenzialmente manipolati da chi ne detiene il dominio impedendo soprattutto alle donne, ma non solo, di essere primi interpreti della parola di Dio.
Per questa ragione, fin dai tempi di Huda Sha’arawi, nata in Egitto nel 1879, il femminismo musulmano esortò le donne a iniziare l’importante compito di leggere il Corano attraverso occhi femminili. Una delle persone che ha dedicato con passione la sua vita a questo compito è Amina Wadud, studiosa dell’Islam e che ha adottato nei suoi confronti un approccio riformista.
Lei l’hijab lo indossa solo nelle occasioni pubbliche: il Corano, dice, non impone il velo, ma raccomanda piuttosto la modestia dell’abbigliamento sia per l’uomo che per la donna. La ragione per cui lo indossa in pubblico è politica, rappresentando il velo il simbolo più eloquente dell’Islam in Occidente. Essendo diventato però, a causa dell’islamofobia, simbolo politicamente negativo, Amina ha deciso di indossarlo come segno di identificazione con le persone più oppresse, intendendo per oppressione anche il pregiudizio culturale dell’Occidente verso le donne musulmane.
Purtroppo è vero che l’intensificarsi dell’islamofobia, invece che aiutare le donne musulmane finisce per prenderle di mira e propone un dibattito su di loro senza includerle. Invece, proprio come non dovrebbe esserci dibattito sulle donne senza le donne, allo stesso modo non dovrebbe esserci dibattito sulle donne musulmane senza le donne musulmane.
Perché si giunga ad un’interpretazione egualitaria del Corano come primaria e unica fonte divina dell’Islam è fondamentale che le donne musulmane siano incluse nella formazione e nello sviluppo del pensiero islamico, e questa è, nei fatti, l’unica mossa rivoluzionaria che sarà in grado di costruire una nuova struttura delle società e delle comunità musulmane. È a causa di interpretazioni errate delle regole islamiche, se le donne vengono private dei diritti, della dignità, dell’onore e dello status conferiti loro nell’Islam e talvolta sono soggette a oppressione. Per prevenire la dominazione maschile e la subordinazione delle donne e assicurare loro i diritti così come sono garantiti dall’Islam, abolendone le distorsioni, è essenziale che le donne abbiano piena consapevolezza dei fondamenti dell’Islam. Nimat Hafez Barazangi, ricercatrice presso la Cornell University, ci ricorda con le parole del Corano che «Dio non cambierà le condizioni delle persone finché queste non cambieranno ciò che è in loro stesse»: qualunque cambiamento, cioè, nel contratto sociale tra i musulmani e l’Islam non può che essere innanzitutto interiore. Le studiose e le attiviste musulmane sanno e avvertono che prima ancora che la reinterpretazione del Corano è necessario un passaggio fondamentale: l’allargamento della libertà di cambiare la percezione stessa che la donna ha del proprio ruolo nell’interpretazione del testo sacro, che deve diventare da complementare e secondario a primario. Questo è il primo passo essenziale verso la realizzazione di diritti umani pieni e verso la tanto necessaria sfida all’autorità patriarcale che per quattordici secoli si è arrogata il dominio esclusivo dell’interpretazione del testo sacro nell’Islam. Si pensi a hazrat Khadija, la prima moglie del profeta Maometto: è stata il più lampante esempio di donna musulmana forte e indipendente con uno spirito imprenditoriale, di alto profilo in quanto a successo negli affari e a profondità spirituale. Khadija era più anziana del marito, fu lei a chiedergli di sposarla, la sua casa fu trasformata in una moschea, dove conduceva lei stessa la preghiera, come oggi fanno le donne imam.
Ma l’impegno delle attiviste musulmane nelle società islamiche non è cosa semplice. Presuppone un cambiamento nelle premesse culturali, nelle percezioni e negli posture di ruolo e saranno loro, le donne, come in ogni rivoluzione succede a chi la rivoluzione la fa, a pagarne il prezzo più alto.
La lotta delle donne musulmane pulsa e non sempre urla. Nonostante i movimenti integralisti abbiano avuto tra le conseguenze più negative quella di averne snaturato l’essenza più intima, l’Islam valorizza la sobrietà e la moderazione. Per questo le donne musulmane continuano il loro cammino di lotta e di emancipazione senza necessariamente sbraitare, ma con iniziative innovative come ad esempio nuove pratiche di conduzione della preghiera da parte di imam donne. Uno tra i più importanti momenti di confronto e sostegno per le donne musulmane nel mondo è Musawah, movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana. Guidato da femministe islamiche, vi si rivendica l’Islam e il Corano per la donna attraverso interpretazioni progressiste dei testi sacri. Il patriarcato, si contesta, è una forma di idolatria: il fatto che gli uomini si pongano al di sopra delle donne contraddice di per sé la visione coranica di uguaglianza e giustizia, fondamento dell’Islam, e viola il requisito della esclusiva supremazia di Dio.
I dibattiti nelle riunioni di Musawah e più diffusamente tra le donne musulmane sono accesi e spaziano dalle esegesi delle Scritture ai dettagli più pratici della vita della donna nell’Islam. Il velo, per quanto preoccupi la società occidentale, è l’ultima delle questioni. Ben prima dell’abbigliamento della donna, assolutamente prioritario è difenderne i diritti specialmente in ambiti quali il divorzio, la custodia dei figli, la violenza domestica e, prima ancora, il diritto di studiare e l’indipendenza lavorativa, temi oggi cruciali per le donne di tutto il mondo, a prescindere dall’abito che indossano.
(la Repubblica, 27 marzo 2024)
di Pasquale Pugliese
“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.
Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.
Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi” scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato.
Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una ‘economia di guerra’”, come se le spese militari dei Paesi Ue aderenti alla Nato non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato Enaat aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.
Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace?
L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-escalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal Sipri: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.
Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carriarmati, navi da guerra e testate nucleari.
Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”.
Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.
Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace.
Intanto, nella sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’Isis, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.
(Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2024)
di Claudia Fanti
A 6 anni e 10 giorni dall’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes (avvenuto il 14 marzo 2018), si sono aperte finalmente, domenica, le porte del carcere per i mandanti del crimine: Domingos Brazão, attuale consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio, suo fratello Chiquinho, deputato federale del partito di centrodestra União Brasil e l’ex capo della polizia civile locale Rivaldo Barbosa.
«Una vittoria dello stato contro il crimine organizzato», ha esultato il ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski. E anche «un grande giorno» per le famiglie delle due vittime: dopo «2.202 giorni di attesa», la verità «inizia a essere svelata», hanno scritto in una nota le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus, dicendosi sorprese per il coinvolgimento di Rivaldo Barbosa, che le aveva ricevute dopo l’assassinio assicurando che la soluzione del caso sarebbe stata per lui una questione d’onore. Il suo ruolo indica, evidenziano, «la portata dell’abisso che viviamo a Rio de Janeiro, con istituzioni ampiamente coinvolte nelle trame più sordide del crimine».
Era stato proprio Barbosa, tra l’altro, a suggerire ai suoi complici di tenersi alla larga dalla Camera municipale di Rio, perché, se l’omicidio avesse evidenziato un movente politico, il caso sarebbe stato trasferito alla Polizia federale – come poi avvenuto solo con l’avvento del governo Lula – e lui non avrebbe potuto più fare nulla.
A risultare cruciale per le indagini è stato l’accordo di collaborazione con la giustizia firmato dall’ex poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come autore materiale del crimine (insieme a un altro poliziotto, Élcio Queiroz): secondo la sua testimonianza, già nel settembre del 2017 i fratelli Brazão avrebbero deciso di eliminare Marielle perché di ostacolo all’espansione territoriale e immobiliare delle milizie di Rio de Janeiro.
È noto come Chiquinho Brazão avesse reagito in maniera scomposta di fronte al voto contrario di Marielle a un progetto sull’occupazione del suolo presentato alla Camera municipale di Rio, benché in questa battaglia la consigliera del Psol non avesse, in realtà, giocato un ruolo significativo. Tant’è che la stessa polizia federale ipotizza che potrebbero esserci state altre motivazioni per l’omicidio.
Contento per gli arresti dei mandanti è apparso anche Flávio Bolsonaro, che non aspettava altro per denunciare i tentativi di vincolare la sua famiglia all’omicidio: è ovvio, ha detto, che «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine».
Con l’ambiente che lo ha prodotto, quello delle milizie di Rio, di relazioni però il clan ne ha eccome. Non è un caso che le indagini siano rimaste ferme per 5 anni, in mezzo ad assassini di testimoni, distruzione di prove, sabotaggi e rimozioni di funzionari. Laerte Silva de Lima, un agente infiltrato nelle file del Psol per raccogliere informazioni utili (poi arrestato nel 2020), era un membro di spicco dell’Escritório do Crime guidato da Adriano da Nóbrega, a cui Flávio aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale.
C’è inoltre la testimonianza, poi ritrattata, di Alberto Jorge Mateus, il portiere del condominio Vivendas da Barra dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite. Ed è proprio da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera dei Deputati.
Assai significative anche le voci di una relazione tra il suo figlio minore Jair Renan e la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa.
Fa discutere anche il ruolo del generale Braga Netto, all’epoca incaricato dal presidente Temer di assumere il controllo della sicurezza pubblica a Rio per poi essere nominato da Bolsonaro ministro della Difesa: è stato lui, dietro indicazione del generale Richard Nunes, a nominare Rivaldo Barbosa, una settimana prima del crimine, a capo della polizia civile di Rio, malgrado il sottosegretario dell’intelligence Fábio Galvão avesse messo in guardia sui vincoli di Barbosa con le milizie (ed era stato per questo rimosso da Braga Netto cinque mesi dopo).
Se, insomma, il direttore generale della polizia federale Andrei Passos ha annunciato domenica la conclusione dell’attuale fase delle indagini, sono in tanti in Brasile, a cominciare dalla famiglia di Marielle, a ritenere che il caso non si chiuda qui.
(il manifesto, 26 marzo 2024)
di Doranna Lupi
Ai giorni nostri molte ragazze sostengono il sex work, considerando la prostituzione un lavoro come un altro, alcune anche convinte che il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo sia il fondamento della libertà di poterlo mettere in vendita. Proseguendo nel solco del ciclo “quale libertà?”, dopo aver indagato con la filosofa Valentina Pazé le nuove forme di sfruttamento giustificate nel nome della libertà, in epoca neoliberista, nel laboratorio sulla prostituzione e pornografia dell’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne) ci siamo interrogate su quali siano i dispositivi mediatici e simbolici messi in campo dal mercato per far leva sulle nostre coscienze facendo passare l’idea che vendere il proprio corpo sia non solo possibile, normale, ma addirittura appetibile e in un certo senso liberante.
La tavola rotonda organizzata su zoom il 13 dicembre 2023 Dall’oggettivazione dei corpi allo sfruttamento sessuale ha preso il titolo dalla tesi di laurea in psicologia clinica di Maria Laura Cinquegrana, una delle nostre giovani ospiti, che sta per pubblicare il suo testo rivisto e ampliato, con la casa editrice Erickson.
Lo sfruttamento sessuale, secondo l’autrice, discende da un problema socioculturale: l’oggettivazione sessuale sperimentata dalle donne in età sempre più precoce, attraverso molestie nei luoghi pubblici, come il cosiddetto “catcalling”, oppure attraverso l’esposizione passiva ai media che ripropongono continuamente l’immagine artefatta di corpi femminili ridotti a mero oggetto decorativo. Ci sarebbe quindi proprio l’oggettivazione sessuale alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, la quale rende possibile e legittima la disumanizzazione e l’uso del corpo di un’altra persona come fosse un oggetto sessuale.
In sintesi, ha argomentato Cinquegrana, non solo esiste una correlazione tra oggettivazione sessuale e violenza sessuale, ma l’oggettivazione è di per sé una forma di violenza psicologica e simbolica che ha delle ripercussioni sulla salute mentale di donne e minori. Per arginare la violenza e lo sfruttamento sessuale c’è bisogno prima di tutto di un cambiamento culturale.
Femminismo in vendita
Il tema dell’oggettivazione dei corpi è stato affrontato in apertura anche da Daniela Santoro del collettivo femminista Le Compromesse attraverso l’osservazione critica del rapporto che hanno sviluppato le sue coetanee con i social. Si tratta delle cosiddette “femministe della quarta ondata” che viaggiando su Internet, tra i blog, Instagram, conoscendosi in gruppi Facebook e vedendosi su Meet, hanno creato reti più ampie di donne di diversi contesti sociali e di diverse parti del mondo ma, allo stesso tempo, hanno sottratto il corpo alle relazioni tra donne. Questo però è un nodo rilevante, ci ha spiegato Daniela Santoro, perché quando parliamo di femminismo, non possiamo prescindere dal corpo se non a costo di rendere più labili alcune tematiche centrali che concernono il corpo delle donne. Inoltre si insinua un’altra insidia sul web: la mercificazione dello stesso femminismo che sui social diventa un business. Si è visto con le influencer che fanno del femminismo un modo per vendere gadget, libri, foto dando al mercato liberista la possibilità di appropriarsi delle tematiche femministe. L’incorporeità di internet ha permeato i contenuti del femminismo e la libertà è diventata un concetto individuale più che un concetto sociale. Non a caso proprio il capitalismo ci parla di libera scelta, siamo tutte/i liberi di fare tutto, ma parlando solo dell’individuo non riusciamo a mettere a fuoco realmente quello che è il problema sociale e simbolico della mercificazione dei corpi delle donne.
“Siamo sicure di essere veramente libere di scegliere in una società che ti impone, anche solo per arrivare a fine mese e dover mettere un pezzo di pane in bocca a tuo figlio, di vendere il tuo corpo? E soprattutto in una società in cui OnlyFans fa le pubblicità tutti i giorni ed è diventato ormai uno schema piramidale in cui le stesse persone che sono iscritte alla piattaforma guadagnano se ti iscrivi alle piattaforme usando il loro link, siamo veramente liberi di scegliere?”
Fiere di esistere per gli altri
Cecilia Alagna, la terza ospite della nostra tavola rotonda, ha un suo blog “Myrina’s eyes” e una sua pagina Instagram, pratica da tre anni l’autocoscienza e la scrittura autocoscienziale con il gruppo Le Ammoniti, fa parte del collettivo Lune e Lame, un luogo politico abitato da femministe lesbiche e bisessuali. Andando a monte del problema, secondo lei, non è mai possibile disgiungere la libera scelta dalla libera condizione. Come si è arrivati a rendere l’esposizione di sé così necessaria da dipendere in forma quasi maniacale dall’essere sui social? Un esserci che spesso non è veicolo di pensiero bensì dell’immagine di sé. La messaggistica istantanea e i social hanno esposto le giovani donne a una progressiva accettazione del principio della perenne disponibilità, 24 ore su 24, in cui porti quel mondo dentro casa e diventa il mondo. Ma si tratta di un non tempo e un non luogo dove non si dematerializzano solo i corpi bensì entra in gioco la dematerializzazione totale delle relazioni. Il compenso si può ottenere in termini di follower, naturalmente con una esposizione del corpo completamente coerente con il desiderio maschile. Secondo Alagna, OnlyFans ha fatto semplicemente il passaggio successivo, cioè se già su Instagram era possibile trasformare in follower la ricompensa si è passati a trasformare i follower in denaro. Si tratta quindi di una libertà completamente asservita a questa totale disponibilità.
Oggi non si potrebbero dominare le donne, quantomeno nel contesto europeo, con il mantra della maternità come destino e il famoso binomio santa-puttana in realtà non è più un binomio ma ha creato una sorta di mostruosa sintesi fra le due cose. Uno dei motti molto amato da una parte del femminismo che si definisce transfemminismo è “fiera di essere puttana”.
Le ragazze, in un’età in cui non hanno ancora avuto il tempo e il modo di indagare il loro desiderio, vengono invitate a essere delle puttane. Perché questo si realizzi è un’ottima palestra l’accesso, sempre più precoce, ai contenuti pornografici attraverso i quali passa un discorso su come deve essere la sessualità. In questo modo si normalizza, viene creata letteralmente una norma che si fonda sul principio: sei una puttana, devi essere fiera di esserlo anche se quello che farai non coincide con il tuo desiderio. In un certo senso le giovani donne oggi sono in una condizione persino peggiore delle donne che le hanno precedute, perché connesse 24 ore su 24, in una perenne vetrina, sempre in mostra per gli altri, sempre e totalmente alienate da se stesse.
Per Alagna e per le donne del collettivo Lune e Lame è sempre più urgente scalfire questa idea di libera scelta fortemente capitalistica e ritornare a un concetto di autodeterminazione che si radichi nella libertà collettiva delle donne, scardinata dall’economia neoliberista del denaro e della mercificazione di ogni cosa, anche dei corpi.
Ripartire dal corpo
Ripartire dal corpo, tornando sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile è ciò che possiamo e dobbiamo condividere, a livello intergenerazionale, con le giovani femministe della quarta ondata.
Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato, la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata escludendole da quella pubblica (Carole Pateman, Il contratto sessuale). I valori normativi del patriarcato oggi non fanno più presa sulle menti di molte giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri, direi indomabili. Per questo l’esigenza maschile di dominio sulle nostre menti e sui nostri corpi si fa ancora più pressante. Nel nostro tempo si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che non vuole lasciare la presa sui nostri corpi attraverso i quali fa enormi profitti.
Siamo profondamente d’accordo con le nostre giovani amiche nel dire che è fondamentale uscire dalle gabbie del neoliberismo e tornare a un concetto di libertà e autodeterminazione collettiva. Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono contare su una ricca e viva eredità e sul desiderio, che nutrono le donne di ogni generazione, di costruire insieme spazi di libertà mantenendo e creando sempre più luoghi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio femminile.
(OIVD Newsletter Febbraio 2024, https://www.oivd.it/wp-content/uploads/2024/03/ NEWSletter-2024-febbraio.pdf)
di Francesco Ognibene
Dopo due anni di studi il governo inglese mette al bando i farmaci per fermare lo sviluppo dei minori con problemi di identità. A fine mese la chiusura del centro nazionale. Le domande per l’Italia
Una «decisione storica». Impressiona che lo stesso Ministero della Salute che aveva a lungo sostenuto l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) in centri specializzati con l’autorizzazione dello Stato ora definiscano con questa espressione – usata martedì 12 dalla ministra della Salute Mary Caulfield – la decisione esattamente opposta, cioè il bando a quegli stessi farmaci, al termine di una lunga quanto rigorosa procedura scientifica e istituzionale.
Questo dietrofront clamoroso di cui giunge notizia da Londra, amplificato da tutti i media britannici come il capolinea annunciato di una vicenda assai travagliata, è il segno di una onesta ammissione dell’errore alimentato da chi ha sponsorizzato la transizione di genere come esito pressoché inesorabile di tutte le difficoltà di costruzione della propria identità caratteristiche della pubertà e della preadolescenza. In Inghilterra (e altrove in Europa e oltreoceano) si era scelto di fare da avanguardia e di affidare l’esame dei casi come la somministrazione dei farmaci a un centro nazionale unico, sotto controllo pubblico: la Clinica Tavistock di Londra (nome completo: Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust, dove Nhs sta per ‘Servizio sanitario nazionale’).
Un primo, determinante colpo di freno era giunto nel 2022 con la Commissione d’indagine presieduta da Hilary Cass, pediatra di fama, che aveva esaminato i sempre più numerosi casi sospetti di sbrigativa prescrizione dei farmaci bloccanti della pubertà, somministrati a giovanissimi pazienti dei quali i medici ipotizzavano una incongruenza tra sesso alla nascita e identità personale concludendo per l’arresto farmacologico dello sviluppo, in modo da poter riattribuire il sesso secondo la scelta del giovane.
Una linea di condotta che la Commissione censurò osservando che nella grande maggioranza dei casi (si parla dell’80%) è una incertezza che non persiste nell’adolescenza. Un sintomo che scompare, insomma, ma che se preso come la prova che bisogna cambiare sesso produce conseguenze devastanti e quasi sempre irreversibili, se si ricorre ai farmaci o addirittura al bisturi. Allo stop annunciato per le attività della Tavistock erano seguite le nuove linee guida che in una fase transitoria delimitavano i casi da sottoporre a terapia farmacologica alla sola ricerca scientifica. Ora la decisione definitiva del governo inglese di mettere al bando i bloccanti della pubertà perché non ci sono «prove sufficienti» della loro efficacia e sicurezza. Una pietra tombale su qualsiasi farmaco dispensabile dai medici, a maggior ragione per prodotti che hanno effetti estremamente impattanti sulla salute della persona cui vengono prescritti.
La frenata che da due anni l’Inghilterra ha impresso al trattamento della disforia di genere ha numeri impressionanti: da 5.000 casi trattati nel 2022 ai 100 attuali. Un cambiamento di rotta a 180 gradi assai eloquente, non solo sul piano clinico e scientifico ma forse soprattutto su quello culturale: si pensi al supporto mediatico e ideologico assicurato al trattamento della disforia nella direzione della riassegnazione del genere e dell’identità sessuale come costrutto culturale soggetto alla scelta di ciascuno. Oltre al piano della salute dei minori, le conseguenze sono state rilevantissime. Come sulla gestione dei casi da parte delle scuole (si pensi agli istituti che in Italia senza alcun dibattito o esame di vicende-laboratorio come quella inglese hanno adottato la “carriera alias”) e degli stessi medici di base, che spesso hanno preferito assecondare la pressione ambientale e le paure dei genitori rimandando ogni caso problematico sul piano della personalità a centri per il trattamento della disforia, medicalizzando situazioni che richiedevano forse solo ascolto, pazienza, accompagnamento, impegno educativo e – nei casi più complessi – supporto psicoterapeutico.
Ora Londra aggiunge alla decisione di chiudere a fine mese il Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (il famoso Gids), gestito dalla Tavistock, la parola fine per la prescrizione dei farmaci. Un doppio colpo che deve far riflettere e che si lascia irreversibilmente alle spalle l’idea che in campo vi siano due teorie contrapposte e in fondo equivalenti (sì o no al trattamento della disforia per via farmacologica o chirurgica), rispetto alle quali non ci sarebbe nessuna evidenza prevalente. Col risultato che i farmaci ora banditi hanno continuato a circolare indisturbati.
E in Italia? Siamo dentro questo intreccio spesso inestricabile, che rende assai difficile assumere decisioni realmente nell’interesse del minore. Che qualcosa anche da noi non andasse nella direzione giusta l’ha rivelato l’indagine aperta in gennaio sul centro attivo presso il prestigioso Ospedale Careggi di Firenze, con l’intervento dapprima del Ministero della Salute con un’ispezione e poi della magistratura per far piena luce su possibili prescrizioni non necessarie di bloccanti della pubertà. I primi risultati fanno riflettere: il team di esperti ministeriali inviati a Firenze avrebbe infatti rilevato che non in tutti i casi di disforia di genere sarebbe stato effettuato il percorso preliminare di psicoterapia necessario a stabilire se fosse davvero inevitabile il ricorso a soluzioni senza ritorno.
Un anno fa sul delicatissimo tema intervenne la Società psicoanalica italiana, che per voce del presidente Sarantis Thanopulos scrisse al governo per esprimere «grande preoccupazione» e «forti perplessità» riguardo all’uso dei bloccanti della pubertà. «La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale – fece notare la Spi – è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso», mentre «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». E in queste limitate situazioni? «Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre». Morale: «È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica». Che in Inghilterra è già arrivata a conclusione, dopo due anni di studi. Potremmo far tesoro del grande lavoro svolto in un Paese che, in un primo tempo fortemente favorevole, ora capisce di doversi fermare. Nell’interesse prioritario dei minori.
(Avvenire, 13 marzo 2024)
di Naomi Klein
È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina. Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.
Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.
Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile? Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.
Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, so-prattutto se palestinesi, arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista. Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?
Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo. Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.
All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani. Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.
In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.
Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo. Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.
Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington. Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”.
(Internazionale, 22 marzo 2024)
di Filippo La Porta
[…] «Il coraggio di alzare bandiera bianca». Le parole del papa ci costringono a una riflessione che va oltre la resistenza ucraina, rispetto alla quale continuo ad avere alcuni dubbi (Putin interpreterebbe qualsiasi cessate il fuoco come conferma che solo l’uso della violenza paga). In che senso? Associare il coraggio, e dunque cose molto “virili” come l’onore, la dignità, l’eroismo, etc. al pacifismo e alla non-violenza, a me pare un gesto eversivo. Sono però convinto che questo gesto, apparentemente “scandaloso”, possa essere compreso soltanto dalle donne. Credo di non fare un outing personale così clamoroso se confesso che nei film di guerra, anche quelli risolutamente contro la guerra, un po’ mi eccito sempre quando sullo schermo ci sono azioni guerresche, operazioni di commando, assalti, bombardamenti spettacolari. Il mio immaginario è assai meno evoluto dei miei principi morali. Mentre mia moglie di fronte alle stesse scene si annoia e non nasconde una estraneità totale, di tipo antropologico. Si obietterà: ma la grande tradizione epica consiste proprio nella esaltazione di imprese eroiche, di guerre e avventure, dai poemi eroici ai western di John Ford. Eppure ci volevano due donne a rileggere genialmente l’Iliade e a vedere in esso non tanto e solo il poema della forza ma un’opera che assume la forza stessa come illusione, e non come verità ultima della condizione umana. Simone Weil e Rachel Bespaloff, ebree in esilio, nei primi anni ’40 si sono rivolte all’Iliade per capire la tragedia del presente (segnato dalla guerra), scrivendo due saggi gemelli – e certamente audaci – pur non conoscendosi e non incontrandosi mai!
Non si riflette mai abbastanza su come nel corso del ’900 solo il pensiero femminile ha saputo indicare una via d’uscita dalla crisi, dalla spirale autodistruttiva della nostra stessa civiltà.
Provo qui a indicare due saggi apparsi su rivista a distanza di venticinque anni che insistono giustamente su questo aspetto. Nell’estate del 1997 Giancarlo Gaeta, curatore e traduttore dell’opera di Simone Weil per Adelphi, scrisse un saggio – La libertà di pensare le cose come sono – (“Lo straniero”), che così cominciava: «Virginia Woolf, Simone Weil, Etty Hillesum. Provo a ragionare intorno a queste tre figure di scrittrici del Novecento tra un gruppo assai più vasto, la cui frequentazione è stata importante per la mia vita intellettuale e spirituale. Tra queste Marina Cvetaeva e Karen Blixen, innanzitutto, e poi altre che si sono espresse nei decenni successivi alla guerra, come Elsa Morante, Hannah Arendt, Anna Maria Ortese […] una generazione più giovane di pensatrici e di scrittrici, quella formatasi nel cuore drammatico del secolo, non aveva esitato a spingere lo sguardo fino al fondo dell’abisso, cercando risposte nuove alla crisi […] A me sembra che nell’insieme la risposta più alta alla crisi della civiltà occidentale sia venuta lungo l’arco di questo secolo da alcune donne». E aggiunge: «Non solo hanno saputo cogliere e interpretare perfettamente il carattere distruttivo della crisi, ma hanno anche trovato in se stesse energie sufficienti per indicare le porte strette per ricominciare, senza distogliere lo sguardo dal cumulo delle macerie». Insomma, nel pensiero femminile l’ultima parola non è mai la morte, il nulla, la distruzione, e poi solo lo sguardo femminile è capace di vedere le cose come sono, senza calcoli di dominio, senza secondi fini, senza alcuna volontà di controllo sulle cose stesse. L’idea stessa di conoscenza muta radicalmente: in María Zambrano, filosofa andalusa, diventa passività ricettiva, saper accogliere. In Zambrano la conoscenza è «un lasciar alle cose il tempo e il modo di manifestarsi nel loro essere proprio». E, al fine di «lasciare che l’altro venga alla presenza da sé», bisogna restare fiduciosamente in attesa e rinunciare a qualunque esito immediato. […]
Gaeta e Cacciari, studiosi pur diversissimi tra loro, giungono alle stesse conclusioni: solo nel pensiero di alcune donne del ’900 si schiude la possibilità di salvarsi per l’Occidente (salvarsi dall’autodistruzione cui porta la mera volontà di potenza). Solo una obiezione, o piuttosto una considerazione in margine: non bisognerebbe mai sottacere la radicalità di pensiero e di esistenza di queste donne. Zambrano, Weil, Bespaloff hanno attraversato gli orrori del secolo breve: sempre disperatamente in fuga. Per loro la “salvezza” è legata a una esperienza interiore di tipo mistico, inaccessibile e inscrutabile, a un salto vertiginoso così distante dalle nostre quiete, protette esistenze.
Torno al papa. Se pensiamo che l’essere umano consiste solo in una volontà di potenza che «assale il diverso e lo conosce solo come barbaro», sia esso il migrante o il nemico in guerra, non capiremo mai il papa. Se invece riteniamo che «siamo capaci anche nel più duro conflitto di rispettare l’avversario» (Cacciari), allora potremmo farlo. La conclusione del poema, il ritorno del corpo di Ettore a Priamo, il piano che accomuna Priamo ad Achille, uccisore di suo figlio, interrompe la logica della guerra e – pur riconoscendo per intero il tragico della nostra condizione – ci fa intravedere qualcos’altro: gli antagonisti irriducibili possono riconoscere reciprocamente il proprio valore, entro una umanità comune. Non sempre prevalgono inimicizia e odio. La pace contiene una verità forse più profonda della guerra. Ecco, anche soltanto immaginare questa possibilità – che ci hanno mostrato alcune pensatrici del secolo scorso e poi la chiesa nei suoi momenti più alti –, è oggi un dovere per tutti noi.
(L’Unità, 21 marzo 2024)
di Adriana Cavarero
Una lezione sul momento che viviamo, con guerre, questione demografica e questione climatica. La filosofa femminista analizza la maternità come esperienza conoscitiva partendo dal pensiero di autrici come Elena Ferrante, Annie Ernaux, Simone De Beauvoir, Maria Zambrano e Clarice Lispector.
Il link al video: https://youtu.be/lGLJkZzJzNs?si=5k4-OqfrewzBoHyu
(You Tube, https://lucysullacultura.com/, 21 marzo 2024)
di Michele Giorgio
Storica portavoce palestinese, esponente di punta della società civile nei Territori occupati e docente universitaria, Hanan Ashrawi non ha smesso un giorno nei passati cinque mesi di invocare la fine dell’offensiva israeliana a Gaza e la realizzazione dei diritti del suo popolo negati da Israele e dai suoi alleati. L’abbiamo intervistata sugli ultimi sviluppi.
Il governo Netanyahu non sembra avere intenzione di fermare il suo attacco a Gaza.
È così. Non riesco a immaginare altro che la continuazione di bombardamenti e raid israeliani che stanno radendo al suolo Gaza e uccidendo e portando alla fame la sua intera popolazione. Tutto ciò potrebbe terminare solo se gli alleati di Israele, Stati uniti ed Europa, decidessero di far fermare il genocidio in atto. Washington a parole si spende per gli aiuti alla popolazione mentre fornisce a Israele munizioni, bombe, per continuare distruzione e massacri.
Quali gli aspetti più contesta della politica occidentale nei riguardi di Israele e Gaza?
Siamo scioccati. Siamo rimasti senza parole di fronte alla rapidità con cui gli Usa hanno accettato certe menzogne israeliane. E dalla velocità con cui gli europei si sono allineati alle posizioni americane. Dopo il 7 ottobre i leader dell’Ue si sono precipitati a dare il via libera a qualsiasi mossa (del governo Netanyahu) contro Gaza, anche la più brutale. Non si sono posti il problema di verificare certe affermazioni, hanno accettato tutto ciò che Israele ha detto e fatto contro i palestinesi. Usa, Gran Bretagna e vari paesi europei hanno inviato forze militari in Medio Oriente a protezione di Israele, assieme ad armi e munizioni. Sono stati complici nella distruzione di Gaza. Poi, quando la loro gente, le loro società civili hanno protestato nelle strade contro gli orrori a Gaza, per convenienza hanno mutato il tono delle loro dichiarazioni. Ma non cambiano politica.
Aiuti umanitari che peraltro arrivano solo in minima parte ai palestinesi di Gaza.
I paesi occidentali dovrebbero imporre a Israele l’apertura dei valichi terrestri e la distribuzione senza limite di cibo e generi di prima necessità alla popolazione. Invece non vanno oltre qualche proclama. Cosa vogliono, che la popolazione scampata alle bombe muoia di fame? Ripetono che Israele non deve invadere Rafah mentre l’attacco a quella città è già cominciato. Penso che la mentalità colonizzatrice non permetta ai paesi occidentali di avere un approccio serio e razionale verso Israele.
L’amministrazione Biden afferma l’appoggio alla creazione di uno Stato palestinese. È una svolta o sono solo parole?
Sono parole. Biden ha capito di essere andato troppo in là nel sostegno al genocidio a Gaza. Ha visto che i sondaggi (per le presidenziali di fine anno, ndr) lo danno sfavorito tra i cittadini americani, in alcuni Stati importanti che si oppongono al sostegno di Israele. Così ha moderato la sua linea e propone la creazione di uno Stato palestinese. Ma di concreto c’è solo il sostegno che Biden garantisce a Israele. I palestinesi non sono stupidi. A Biden dico: non venderci solo parole, ferma l’invio di bombe e armi a Israele.
Ci sono stati negli ultimi giorni movimenti nell’arena politica palestinese. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha nominato premier incaricato l’economista Mohammed Mustafa, un suo fedelissimo, scatenando l’ira di Hamas che parla di una mossa unilaterale contro l’unità nazionale palestinese. Cosa ne pensa?
Penso che mai come in questo momento abbiamo bisogno di unità nazionale e di un processo decisionale democratico e inclusivo. Sostituire un premier ubbidiente con un altro premier ubbidiente non cambia nulla. Piuttosto è necessario coinvolgere tutti, non solo partiti e movimenti politici, ma anche le espressioni della società civile. Siamo chiamati tutti a recuperare la fiducia della popolazione nel nostro sistema politico. I palestinesi non hanno più alcuna fiducia nel governo, nel presidente, nelle istituzioni, vanno attuati cambiamenti reali. Abu Mazen in pratica segnala di voler realizzare le riforme nell’Anp chieste da Washington, a cominciare da un governo di tecnici. Ma non è quello che si aspettano tutti i palestinesi, l’unità nazionale.
Le fratture politiche avranno riflessi nel futuro di Gaza?
L’unità nazionale palestinese è fondamentale. Ora però la priorità assoluta è la fine dei massacri israeliani a Gaza, dei bombardamenti e delle distruzioni e cibo per la nostra gente. Il cambiamento deve avvenire prima di tutto nell’atteggiamento dei paesi occidentali e in Israele dove un governo fascista tiene prigioniero il mondo intero.
(il manifesto, 21 marzo 2024)
di Antonella Mariani
Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti – nessuno dei quali ritirato – che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato frequentare i corsi universitari, vietato praticare sport, vietato entrare in bagni pubblici, musei, palestre, parchi o saloni di bellezza, vietato lavorare fuori casa e per le organizzazioni non governative straniere, vietato viaggiare se non con un parente stretto, vietato mostrarsi in pubblico senza il burqa… Il risultato è un apartheid di genere senza precedenti, che genera nelle ragazze ansia e frustrazione, senso di ingiustizia e depressione. Se le più piccole hanno ancora una speranza, seppur lieve, di potere in futuro tornare in classe, le più grandi vedono sfuggire, anno dopo anno, ogni prospettiva non solo di emancipazione e di indipendenza, ma di crescita. Gli osservatori assistono impotenti a un aumento di suicidi giovanili, di matrimoni e di parti precoci. Si tratta di un dramma che colpisce un’intera generazione, ma anche di una grave ipoteca sul futuro del Paese, privato non solo oggi ma per i decenni a venire di metà delle sue risorse intellettuali e professionali. Se il bando all’istruzione secondaria e universitaria femminile durerà ancora a lungo, si creerà un fossato difficilmente recuperabile, se non con il rapido ritorno in patria degli esuli, appartenenti all’ex élite afghana istruita e produttiva del Paese nel ventennio dell’occupazione occidentale.
«L’istruzione è essenziale per la pace e la prosperità» si limita a scrivere su X la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), invitando il governo taleban a porre fine a «questo divieto ingiustificabile e dannoso». Da due anni e mezzo gli organismi internazionali e le diplomazie occidentali – che non riconoscono l’Emirato islamico - sono impegnati ad aprire spiragli di dialogo con i taleban, più recettivi su altri punti (ad esempio la cooperazione umanitaria: si calcola che il 50% della popolazione viva una condizione di estrema povertà e decine di ong operano sul territorio), ma completamente sordo su questo. Uno scenario che i taleban stanno profilando è quello di allestire nuove scuole coraniche per le ragazze, sul modello delle madrasse in cui generazioni di giovani maschi sono stati educati a una visione estremista e distorta dell’islam. L’Onu ha documentato l’esistenza di 7.000 madrasse, di cui 400 femminili, dove la frequenza è senza limitazioni di età; nel 2023 i taleban hanno lanciato una campagna di reclutamento per 100mila nuovi insegnanti. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da una parte le ragazze hanno la prospettiva di uscire di casa e spezzare l’isolamento, dall’altra c’è il rischio concreto di una ulteriore radicalizzazione a lungo termine del Paese. Un altro triste scenario nel Paese più triste del mondo, dove per le femmine la campanella non suona più.
(Avvenire, 21 marzo 2024)
I volumi di Annarosa Buttarelli, Monica Farnetti e Stefania Tarantino tra femminismo e genealogia. Preziosi strumenti per decifrare l’oggi nella sua complessità, indicano un possibile orientamento storico, etico e politico del tempo, nelle sue categorie incarnate di bene e male
«Controtempo» è una parola interessante che, quando attiene alla musica, si riferisce ai tempi deboli e forti. È però nel suo significato largo di contrasto ritmico che si immagina qualcosa in opposizione e, insieme, capace di arrivare a scompaginare il già noto e accordare la differenza.
Che sia anche una faccenda politica lo spiega Annarosa Buttarelli nel volume Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe (Tlon, pp. 124, euro 15), riprendendo le fila di alcuni fra i momenti cari al femminismo della differenza sessuale italiano.
Che la genealogia di pensatrici di cui scrive l’autrice abbia assunto una collocazione critica e politica, lo dobbiamo infatti a decenni di dedizione condotta dentro e fuori dalle accademie, dentro e fuori i collettivi, le librerie, le pratiche e i saperi di altrettante donne. Il controtempo convoca infatti la breccia del «pensare veramente», come suggerito da María Zambrano, ovvero ciò che si sottrae alle interpretazioni e che resta come una «eredità senza testamento» o ancora, per dirla con Alice Ceresa, una prodigalità il cui esito è sovversione trasformativa.
Le categorie di bene e di male, fondanti il pensiero occidentale nella loro accezione maiuscola e spesso muscolare, sono qui il filo per decifrare il presente, cominciando da uno degli esercizi meno attraenti per la deriva neoliberista in cui ci troviamo: prendere corpo, leggere e rileggere oltre la retorica delle sintesi a buon mercato. Simone Weil, Françoise Dolto, Flannery O’Connor e Hannah Arendt sono state maestre di un pensare incarnato, tanto generoso da essere di orientamento anche oggi; per esempio nel concetto di «illimitato», introdotto da Weil in riferimento al male e che Buttarelli segnala, insieme a quello più intraducibile di malheur. L’illimitato oltre a determinare l’incapacità di avere misura di sé, è una più ampia avidità, una prevaricazione costante. Dalle relazioni quotidiane a quelle che hanno, e hanno avuto, conseguenze collettive rilevanti, un esempio di protervia illimitata lo ha mostrato Laura Conti, intervenendo sul disastro di Seveso avvenuto il 10 di luglio del 1976. Se l’illimitato diventa il metodo di un potere predatorio, non stupirà osservare quanto sottile ribaltamento vi sia nelle parole di Dolto quando definisce il concetto di «prossimo» o quando scrive che «Se io so che tu mi ascolti, mi so parlante».
Si assiste a una lunga conversazione con la misura, in questo caso dello scorrere, della durata e delle sue rappresentazioni – frequentemente fuorisesto -, nell’esplorazione di traiettorie genealogiche che andando controtempo sono ora assunte a pieno titolo nei riferimenti teorici e nelle pratiche. «Io scrivo a ritmo, non a trama», diceva Virginia Woolf e, seppure ciò possa essere applicato a molte scritture novecentesche di donne, in Ritratti del tempo, di Monica Farnetti (ombre corte, pp. 140, euro 12), approfondiamo ciò che per l’autrice di Mrs Dalloway è stato uno degli elementi elettivi: il tempo. Le scrittrici italiane con cui Farnetti fa interloquire Woolf comportano l’emersione di un genere letterario da accostare, nella sua qualità paradossale. Il romanzo storico incardina in tal senso tre principali obiettivi (che sono altrettante esperienze): il disassamento, ovvero stare fuori dai gangheri, la discontinuità, le asincronie; il secondo elemento è la ricomposizione delle discordanze, quindi la congiunzione tra un tempo della storia sociale e quello della vita; il terzo è il flusso di memorie tenendo salda l’alleanza tra letteratura e storia delle donne. Secondo Monica Farnetti, che propone qui un volume eccellente in cui matura alcuni dei suoi utili e precedenti interventi sull’argomento, si può avanzare un’etica della differenza temporale, seguendo le sollecitazioni della filosofa svedese Fanny Söderbäck che ha lavorato sui due crinali proposti rispettivamente da Julia Kristeva e Luce Irigaray riguardo il women’s time e l’etica della differenza sessuale. Il magistero di Virginia Woolf, maestra di onde – portatrici di continuità e impermanenza -, ha avuto in questo senso un profondo riscontro su scrittrici come Anna Banti, Gianna Manzini, Fausta Cialente, Maria Bellonci, Elsa Morante, Gina Lagorio, Goliarda Sapienza Melania Mazzucco e Marguerite Yourcenar.
Nella struttura radicalmente relazionale e politica di simili riferimenti, si affaccia un altro nome, quello di Sarah Kofman, filosofa raffinata che, di origini ebraiche, nel 1934 nasce a Parigi dando «un contributo importante al pensare altrimenti», come afferma Stefania Tarantino che le ha dedicato il suo ultimo libro: Il “rimosso” nell’operazione filosofica (edito dall’Istituto italiano per gli studi filosofici, pp. 198, euro 22). Un’occasione rara di poter fare il punto intorno a una figura poco tradotta in Italia (nel 1982 la prima è stata a firma di Luisa Muraro, nel 2000 un’altra a cura di Lisa Ginzburg e pochi altri esempi). Il volume di Tarantino, frutto di un seminario a Napoli nel 2022, porta un ulteriore tassello alla conoscenza e alla comprensione di una parabola complessa e originale, «un corpo a corpo con la storia della filosofia. Un corpo a corpo con la propria sopravvivenza, con le aporie l’una dell’altra».
Colpisce la capacità di lettura del pensiero occidentale, la rigorosa e partecipata scomposizione delle sue fonti, la sessuazione del discorso. Basterebbe leggere ciò che ne scrive Federica Negri nel suo saggio, ospitato nel volume, che affronta Kofman lettrice di Nietzsche, o ancora quello di Christiane Veauvy che interviene su Kofman, Freud e la psicoanalisi, insieme alle parole speciali che le riserva Françoise Collin. «Gesto nudo» è la sua scrittura secondo Jean-Luc Nancy, «atti ed esperienza stessa» secondo Jacques Derrida, ma è Stefania Tarantino che ne ribadisce la «devozione alla vita e così pure il metodo analitico freudiano: «un lavoro di scavo per riportare alla luce tutti quei “resti”, da intendersi come “scarti”, su cui la filosofia ha eretto un immaginario svalutativo e gerarchico della realtà che ci circonda». Una scrittura differente, che Orietta Ombrosi nel suo contributo di fronte alle aporie di Auschwitz (il padre di Kofman muore nel campo di concentramento), definisce anche «diffidente». Il «rimosso» contenuto nel titolo del volume di Tarantino è di valenza semantica estesa, riconosce e nomina l’intollerabile, stanando l’economia della rimozione e insieme il suo grido di angoscia. Nel tempo.
(il manifesto – il controtempo e la sua passione, 17 marzo 2024)
di Elisa Cornegliani
Costi alti, librerie di catena e poco sostegno dopo anni difficili stanno facendo abbassare molte serrande. I racconti e le soluzioni dei librai
«Abbiamo appena restituito le chiavi». Anita Ballabio e Alice Angelotti iniziano così la telefonata con noi. Sono le ideatrici e titolari della libreria indipendente Corteccia, aperta da loro nel 2014 in zona Solari. Ha chiuso ufficialmente a fine febbraio, fra la delusione e le proteste dei clienti abituali. «Il 2023 è stato un anno difficilissimo. Ci siamo interrogate a lungo su cosa fare», spiegano.
A dicembre la decisione definitiva, comunicata in gennaio tramite social e newsletter. «Non sappiamo nemmeno quante volte abbiamo modificato questo testo, parole che non avremmo voluto scrivere e voi non avreste voluto leggere. Ma è arrivato il momento di dare corpo alle voci che vi hanno accompagnato in questi ultimi mesi: Corteccia chiuderà», si legge sul loro account Instagram. Segue un coro di commenti rattristati: «Tutti i nostri clienti si sono fatti avanti per chiederci come possono aiutare. Ma lo hanno già fatto nel corso di questi anni, sostenendoci sempre. Il loro affetto è bellissimo. E straziante, perché ormai la decisione è presa».
Le difficoltà
Vendita online, cambiamenti nel quartiere e aspettative disattese sono infatti fra le cause che hanno portato la Corteccia a chiudere. Non è un caso isolato: recente anche l’interruzione della libreria Tintoria, in via Govone. In generale, le librerie indipendenti a Milano stanno attraversando un momento di difficoltà che si inserisce su un contesto di crisi cronicizzata e minaccia la resistenza delle singole attività.
Il cantiere e la pandemia
«Abbiamo iniziato dieci anni fa con l’idea di offrire soprattutto testi per l’infanzia, a cui poi abbiamo aggiunto libri di design», spiegano le titolari di Corteccia. «Fin dalla nostra apertura il quartiere ci ha accolto benissimo. È da sempre molto vivo». Nel 2017 arrivano i primi problemi con il cantiere della metropolitana M4: «La strada è stata completamente chiusa e parte della nostra utenza ha cambiato giro. Passavano in continuazione mezzi pesanti addetti ai lavori. Ci siamo ritrovati in una nuvola di polvere».
A risollevare la situazione è – per quanto inusuale – la pandemia. L’interesse per la lettura cresce nei giorni di lockdown e Ballabio e Angelotti mantengono acceso il rapporto con i clienti tramite consegne a domicilio e attività da remoto. «Le aspettative di quegli anni sono state tuttavia disattese nel periodo successivo». Si arriva perciò al 2023, l’anno più difficile. «L’impatto del mercato online è stato molto forte. Ma non è l’unico problema che riguarda il nostro mestiere. La Lim (l’associazione delle librerie indipendenti di Milano) non è supportata a livello istituzionale o comunale. Una libreria compie un lavoro importante sul tessuto sociale di un quartiere, e non viene valorizzato. Si tratta di un impegno nei confronti dei clienti intesi come persone con esigenze e interessi specifici, che non si può mettere a bilancio», proseguono Ballabio e Angelotti.
Qual è la principale differenza fra un librario di quartiere e uno di catena? «L’ascolto. Per esempio, in molti ci chiedevano libri utili per aiutare i propri figli o i propri amici a superare un momento difficile. E nel tempo siamo riuscite a mostrare la nostra visione al punto che i clienti stessi la condividevano: se intorno a Natale notavano qualche titolo più commerciale in vetrina, protestavano», sorridono le due titolari. I loro acquirenti in un primo momento erano in prevalenza famiglie, a cui si sono aggiunte molte persone con un’età superiore ai sessant’anni. Apprezzavano il fatto che i libri, una volta ordinati, arrivassero in tempi brevi. «In generale pensiamo sia molto importante promuovere un contesto editoriale variegato, in termini di idee e di offerta. È giusto ci siano le librerie di catena, ma è altrettanto giusto che abbiano una controparte. Ci deve essere un dialogo con alcune realtà dall’identità marcata».
Il sostegno che serve
Secondo Luca Ambrogio Santini, presidente Lim, la presenza delle librerie indipendenti serve a mantenere alto il livello di “bibliodiversità”, cioè a garantire a tutti la possibilità di far conoscere il loro prodotto. «Ogni anno escono in media circa 90mila titoli. Una libreria indipendente ne può contenere un numero molto ridotto, variabile a seconda della sua grandezza. Il cliente che ci sceglie, quindi, non sempre troverà quello cerca. Ma incontrerà una proposta ben definita e assente altrove», spiega.
La Lim sta cercando di colmare le mancanze riscontrate all’interno del settore. Nei giorni scorsi ha lanciato un appello al comune per avere un confronto diretto (anche) sui finanziamenti. La richiesta arriva a seguito del Forum dell’economia urbana, che ha affrontato fra i tanti temi anche lo stato di salute dei negozi di prossimità. Fra le proposte avanzate da Lim c’è l’istituzione di un albo che superi quello già esistente, l’Albo delle librerie di qualità: «Quest’ultimo esiste dal 2022 ma non ha avuto conseguenze concrete sul nostro settore. Quello che abbiamo in mente noi risentirebbe del modello francese e permetterebbe agli iscritti di ottenere agevolazioni fiscali e sugli affitti», spiega Santini. «Vorremo inoltre che venissero concessi – a prezzi calmierati – locali di proprietà comunale per l’apertura di nuove librerie. L’interesse ad avviare attività c’è: continuiamo a ricevere richieste».
Al momento si è svolto un incontro con l’assessore alla Cultura del comune di Milano Tommaso Sacchi, che a detta di entrambe le parti ha dato esito positivo. Secondo Sacchi, infatti, le librerie indipendenti sono «un presidio culturale fondamentale per la città» ed «è necessario trovare forme di supporto. La nostra Amministrazione, pur avendo margini di manovra di bilancio sempre più limitati, offrirà tutto il sostegno che sarà possibile alla rete dei librai. Spesso, è proprio grazie al loro coraggio che i quartieri meno centrali acquisiscono ricchezza sociale, culturale e occasioni di rinascita». A breve ci sarà un’altra riunione, con l’assessora al Lavoro e allo Sviluppo economico Alessia Cappello.
I libri tra i quartieri fuori dalle librerie
Santini ha chiuso la propria libreria dieci anni fa e l’ha resa itinerante. Gira il sud di Milano con una bici attrezzata per portare con sé i titoli che rientrano nella sua proposta: «In tutto circa duecento, è un’accurata selezione. E non posso fare errori, sarebbe solo peso in più». Sebbene le librerie indipendenti siano in difficoltà, infatti, nel tempo sono riuscite a rinnovarsi: «In particolare durante il Covid, molti colleghi hanno capito l’importanza di guardare oltre la propria vetrina. Hanno perciò tentato di portare la lettura al di fuori della libreria, con le consegne a domicilio. In seguito, quando è stato possibile, si sono creati i gruppi di lettura. Persone che si accordano per leggere lo stesso libro in un determinato periodo di tempo e poi ne discutono». Questo ha compensato in qualche modo i due fattori responsabili della parabola discendente in corso: «La vendita online e la carenza del numero di lettori».
Anita Ballabio e Alice Angelotti non sanno ancora cosa ne sarà dello spazio che lasciano, ora che non ospiterà più la Corteccia. Sono però consapevoli dei problemi principali del settore: «Servirebbe uno snellimento delle pratiche burocratiche. Noi avevamo molte richieste di eventi esterni alla libreria stessa: un esempio su tutti è fare letture al parco. I clienti erano interessati e noi disponibili, ma spesso si incontravano ostacoli», chiudono. «Per quanto riguarda i finanziamenti, sono le istituzioni a doversi mettere le mani in tasca. Loro devono smuovere i fondi necessari. Il margine di una libreria è molto basso: gli imprenditori devono sempre metterci del loro, e non tutti lo possono fare senza aiuti».
(Milano Today, 17 marzo 2024)
di Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi
A Valentina Berardinone piaceva l’azzurro. Lo stendeva sulle tele; lo acchiappava incorniciandolo. D’altronde è il mare della Costiera, visto dalla sua casa di Massa, che precipita verso Nerano.
Per arrivare da lei, bisognava parcheggiare in alto: a dominare pretenziosamente la collina, si intravedeva la villa che era stata dei Lauro.
Poi giù, una discesa di gradini sgarrupati e Valentina che saliva dalla cucina trascinandoci sul terrazzo che guarda Capri.
Aveva sempre avuto una predilezione Valentina per le dimore scomode. Anche a Milano. Attraverso le stanze si arrivava comunque allo studio luminoso, zeppo di album di disegni, “prove d’artista”, tele ammonticchiate oppure attaccate alle pareti.
Disseminati nel disordine, sul tavolo, quei piccoli “oggetti”, creati sembrava a dispetto, con la colata d’inchiostro che invece di espandersi scendeva a cascata su uno zoccolo di legno.
È vero, lo scrive Renata Sarfati, Valentina era spiritosa. E intelligente. Osservava le cose, ne ribaltava il senso. Amava la conversazione, le osservazioni taglienti, le battute colte. Le piacevano le donne capaci di ridere con lei, che assaporassero la sua lingua, civettuolamente altalenante tra le tonalità napoletane.
Aveva un piccolo gozzo. Il marito, Luciano, stava seduto al timone. Davano appuntamento per mare, davanti a Recommone oppure a Ieranto.
Una volta a noi due, Franca e Letizia, si era incagliata l’ancora – una grossa pietra scomoda a lanciarsi, infernale a tirarla su – trattenuta dalle rocce. Arrivarono a “liberarci”. Ma la pietra venne recuperata. Lasciarla lì sarebbe stato uno smacco troppo umiliante.
Valentina rideva. E scuoteva la testa, le braccia, le mani, per sottolineare la differenza tra veri e finti marinai con quel suo modo tutto particolare di unire generosità e allegria. Dipendeva dall’origine napoletana questa unione oppure dal mare azzurro che era riuscita a adagiare nei quadri?
(www.libreriadelledonne.it, 17 marzo 2024)
di Oren Ziv
Un’adolescente israeliana è in carcere per aver rifiutato il servizio militare. Sofia Orr spiega perché non abbia mai dubitato della sua scelta nonostante in Israele la repressione contro chi si oppone alla guerra sia durissima
Domenica mattina [24 febbraio scorso, Ndt], la diciottenne obiettrice di coscienza israeliana Sofia Orr è arrivata al centro di reclutamento dell’esercito vicino a Tel Aviv e ha dichiarato il suo rifiuto a prendere parte al servizio militare obbligatorio per protestare contro la guerra di Israele a Gaza e contro l’occupazione. Seconda adolescente israeliana a rifiutare pubblicamente la leva per motivi politici dal 7 ottobre, dopo Tal Mitnick, che lo fece a dicembre, Orr è stata condannata a 20 giorni iniziali nel carcere militare di Neve Tzedek, che saranno probabilmente estesi se continuerà a rifiutare l’arruolamento.
«L’atmosfera attuale è molto più violenta contro chi ha le mie convinzioni, quindi ovviamente ho più paura, ma penso che di questi tempi la cosa più importante sia esprimere una voce di resistenza», ha detto a +972 e Local Call in un’intervista la settimana scorsa. «Scelgo di rifiutare l’arruolamento perché non ci sono vincitori in guerra. Lo stiamo vedendo ora più che mai. Tutte le persone, dal fiume Giordano al mare [Mediterraneo], soffrono a causa di questa guerra e solo la pace, una soluzione politica e la presentazione di un’alternativa possono portare a una vera sicurezza».
Orr ha spiegato che aveva già deciso di rifiutare la leva obbligatoria molto prima dell’inizio della guerra, a causa «dell’occupazione e dell’oppressione che l’esercito impone contro i Palestinesi in Cisgiordania». Gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ha detto, «ci hanno mostrato ancora una volta che la violenza porta solo ad altra violenza e che dobbiamo risolvere il problema pacificamente invece che con altra violenza».
Circa trenta attivisti di sinistra, la maggior parte dei quali adolescenti, hanno accompagnato Orr al centro di reclutamento. Hanno organizzato una protesta a sostegno della sua decisione di rifiutare l’arruolamento, suscitando l’interesse di diversi studenti ultraortodossi venuti per ottenere l’esenzione dal servizio militare.
Ogni anno migliaia di adolescenti israeliani vengono esentati dalla leva, principalmente per motivi religiosi, ma solo una manciata si dichiara politicamente contraria al servizio militare. Oltre alla variabilità della durata del carcere, l’obiezione di coscienza può ridurre le prospettive di carriera e comportare stigmatizzazione sociale.
Ciononostante, Orr era una dei 230 adolescenti israeliani che avevano firmato una lettera aperta all’inizio di settembre, prima della guerra, annunciando la loro intenzione di rifiutare l’arruolamento come parte di una più ampia protesta contro gli sforzi del governo di estrema destra israeliano di limitare il potere della magistratura. Collegando la riforma del sistema di giustizia al dominio militare di lunga data di Israele sui Palestinesi, gli studenti delle scuole superiori – che si sono organizzati sotto lo slogan “Giovani contro la dittatura” – hanno dichiarato che non si sarebbero arruolati nell’esercito «finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano».
Con la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana pienamente favorevole all’attacco dell’esercito a Gaza all’indomani del 7 ottobre e con gli/le attiviste di sinistra che affrontano la pesante repressione della polizia e la persecuzione politica per aver preso posizione contro la guerra, la posta in gioco per gli obiettori di coscienza si è elevata ancora di più. Nella seguente intervista, Orr spiega perché non ha mai vacillato nella sua decisione di rifiutare l’arruolamento.
Come sei arrivata alla decisione di rifiutare il servizio militare?
Ho sempre sentito l’impegno più verso le persone che verso gli stati, ma [la mia opposizione alla leva] ha iniziato ad apparirmi chiara quando avevo circa quindici anni. Ho iniziato a pormi delle domande: chi avrei servito effettivamente nel mio esercito? E cosa li avrei aiutati a fare? Ho capito che, se mi fossi arruolata, avrei preso parte e avrei normalizzato un ciclo di violenza decennale. Non solo mi sono resa conto che non potevo arruolarmi, ma anche che dovevo fare tutto il possibile per porre fine a tutto ciò e per resistervi.
Spero che parlare apertamente di cosa significhi per me l’arruolamento spinga altre persone a riflettere sul proprio arruolamento e su quanto faccia loro del bene o meno. Lo faccio con empatia, solidarietà e amore per tutti gli Israeliani che vivono in Israele e per tutti i Palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione, semplicemente perché credo che ogni essere umano meriti di vivere una vita sicura e degna.
Hai formato le tue opinioni in anni in cui molti israeliani liberali protestavano contro il governo: dalle proteste “Balfour” a Gerusalemme nel 2020 e alle proteste “Kaplan” a Tel Aviv nel 2023. Eri attiva in quei movimenti?
Quelle proteste erano importanti, ma non si concentravano su quella che credo sia la radice del problema. Quindi è stato molto importante per me andare lì e ampliare la discussione. La società israeliana si sforza di ignorare l’occupazione e i palestinesi, pensando che questo problema passerà. Ma non sta passando, come vediamo adesso. Il problema non scompare solo perché smetti di guardarlo. Rimane e continua a crescere finché non esplode.
Qual è stata la reazione alla tua decisione tra amici, familiari e compagni di scuola?
Molte persone pensano che io sia strana e non capiscono di cosa stia parlando. Dicono che sono ingenua ed egoista e talvolta anche che sono antisemita, una traditrice, e che mi augurano ogni genere di cose violente. Per fortuna non tra le mie cerchie più immediate, ma ho ricevuto risposte di questo tipo sia da amici che da parenti.
Le cose sono peggiorate molto dopo il 7 ottobre con l’ondata di “disillusi”, persone che prima del 7 ottobre credevano che ci fosse la possibilità di una soluzione [politica pacifica] e dopo hanno perso la speranza in tale possibilità. Ma il 7 ottobre ha solo dimostrato che è necessaria una soluzione politica, altrimenti la violenza continuerà.
C’è un desiderio di vendetta senza precedenti nella società israeliana. Consideri il tuo rifiuto come un tentativo di persuadere il pubblico o come un’azione dichiarativa di fronte a questa ondata?
Per me è importante farlo anche se non convinco nessuno. È la cosa giusta da fare. Ma non so se lo avrei fatto pubblicamente se non avessi avuto la speranza che le persone potessero sentire e ascoltare e che ci fosse ancora spazio per il dialogo. È molto importante raggiungere la società israeliana, in particolare i giovani che stanno nella mia stessa condizione, e mostrare loro perché ho scelto quello che ho scelto.
Hai amici o conoscenti che attualmente prestano servizio a Gaza?
Dentro Gaza, no. Ma ho molti amici che prestano servizio o hanno prestato servizio nell’esercito. Voglio il meglio anche per loro. Voglio che lo Stato smetta di mandare soldati a morire. Voglio che possano vivere una vita normale, ma loro non la vedono in questo modo.
L’incontro con i Palestinesi ti ha aiutato a prendere la decisione di rifiutare?
Le mie opinioni erano già relativamente consolidate anche prima che iniziassi a incontrare i Palestinesi, ma questo mi ha aiutato a renderle tangibili: incontrare persone che
ci viene insegnato fin da piccoli che sono nostre nemiche e vedere che sono persone comuni proprio come me, che vogliono vivere le loro vite proprio come me. C’è un grave problema di disumanizzazione, quindi questi incontri sono davvero importanti. Nel momento in cui smetti di credere che i Palestinesi siano persone, è molto più facile respingere l’idea che le loro vite valgano qualcosa e ucciderli senza pensarci due volte.
Hai preoccupazioni riguardo al fatto di andare in prigione, soprattutto nel clima attuale?
Sì, senza dubbio. L’atmosfera attuale è molto più violenta ed estrema contro chi ha le mie convinzioni e chi prende la mia decisione. Quindi è ovvio che ho più paura sia del periodo in prigione che della reazione esterna. Ma questo è anche ciò che rende questa scelta più importante per me. In questi tempi è molto importante esprimere questa voce di resistenza e solidarietà, non restare a guardare.
(Traduzione a cura di Riccardo Carraro per Dinamopress da 972 Mag, 16 marzo 2024)
intervista di Livio Partiti
La questione del bene e del male è un interrogativo eterno nel pensiero umano. Annarosa Buttarelli in questo saggio compie un gesto teorico tanto sottile quanto significativo: togliere a questi concetti l’iniziale maiuscola, per riportarli nella nostra realtà vivente. L’autrice ci mostra l’inefficacia dei sistemi filosofici e culturali che non riescono a fronteggiare l’emergere della violenza e della prevaricazione che attraversano il mondo. Per proporre un’etica della vita, Buttarelli ci accompagna in un viaggio tra le grandi pensatrici che hanno esplorato in modo originale il male e il bene nell’esperienza quotidiana. In questo libro scopriamo quindi le concezioni rivoluzionarie di Simone Weil, Hannah Arendt, Iris Murdoch, Flannery O’Connor, María Zambrano e Françoise Dolto, che dischiudono prospettive e pratiche inattese in un mondo della vita in cui la “cura” è il cardine delle relazioni.
(www.ilpostodelleparole.it 12 dicembre 2023)
di Cgil Pordenone
L’8 marzo 2024 a Pordenone in piazzetta Cavour flash mob promosso dalla CGIL di Pordenone. È stata un’iniziativa per richiamare l’attenzione su alcune parole, espressioni e modi di dire che utilizziamo tutte e tutti indistintamente, ogni giorno e troppo spesso inconsapevolmente, senza valutare il grande impatto che possono avere sulla società. Discriminazioni e pregiudizi iniziano proprio dall’uso di un linguaggio talmente condiviso e consolidato da averne perso il senso e il vero significato.
Premesso che siamo tutte e tutti responsabili della società che vogliamo costruire, dobbiamo iniziare dalla scelta delle parole e da un uso consapevole del linguaggio.
(8 marzo 2024)
di donne e uomini firmatari
Ci rivolgiamo a chi ha milioni di contatti con il mondo, a un movimento, una rete, un hacker che abbia a cuore la nostra sopravvivenza e la disfatta di chi la sta mettendo in pericolo. Chi è nato durante la seconda guerra mondiale è cresciuto pensando “mai più”. Mai più una guerra. 50 milioni di morti sembravano aver fatto rinsavire il mondo. Da allora guerra e genocidi non sono mai finiti. Gli ultimi li abbiamo sotto gli occhi: l’avanzata inarrestabile della Nato; l’invasione russa dell’Ucraina; l’atroce attacco di Hamas e la risposta inumana di Israele; il martirio infinito delle genti di Gaza. Stragi, stragi, stragi. Quando vedo la gente mitragliata mentre va a prendere la farina penso che loro siamo noi.
Non in senso evangelico, ma storico. Nessuno ci vuole salvi. Tutti ci vogliono armati. C’è una fame di guerra che somiglia ai prodromi della prima guerra mondiale e annuncia la terza, e veramente ultima. Ho paura.
Abbiamo tutti paura. Ma crediamo che armandoci ci difenderemo. No, armandoci ci consegneremo alla guerra, al nemico, alla morte. Abbiamo un sogno. Che qualcuno che abbia i mezzi di
comunicazione adeguati a svegliare la terra, dichiari uno sciopero mondiale contro la guerra. Per un giorno incrociamo le braccia. Per un giorno non si produce e non si consuma. Se anche il 20 per cento aderisse, anche solo per qualche ora, produciamo un danno economico come dieci guerre. Così il mondo si accorgerà che esistiamo: noi che vogliamo la pace, perché la pace è la condizione per qualunque altra cosa. Certo, ogni sciopero ha un costo. Ma niente costa come la guerra. Come questa guerra. L’ultima.
Prime e primi firmatari:
Barbara Alberti, Ginevra Bompiani, Amitav Ghosh, Raniero La Valle, Massimiliano Fuksas, Luca Guadagnino, Margherita Buy, Gianni Dessì, Viola Di Grado, Vauro, Simonetta Sciandivasci, David Riondino, Lidia Ravera, Valerio Magrelli, Chiara Barzini, Fiamma Satta, Michelle Müller, Virginia Raffaele, Sabrina Giannini, Geneviève Makaping
Per adesioni: inviare mail con oggetto partecipo a assembleaperlapace@gmail.com
(Pressenza.it, 15 marzo 2024)
di Giuliano Milani
Gabrielle Blair,Eiaculate responsabilmente,Feltrinelli, 2024, 143 pagine, 16,00 euro.
Mentre con una vera rivoluzione la Francia, primo paese al mondo, inserisce nella propria costituzione la libertà delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza, in Italia esce questo libro che riformula il problema elencando ben 28 argomenti in favore della tesi per cui la responsabilità dell’aborto è degli uomini. Lo ha scritto Gabrielle Blair, designer, creatrice del blog Design Mom, madre di sei figli, mormona e convinta sostenitrice del diritto alla scelta per le donne. Partita da un thread del vecchio Twitter di qualche anno fa, Blair spiega in questo pamphlet che sono gli uomini a portare la colpa delle gravidanze indesiderate e che non è giusto che questo peso ricada sulle donne, le quali normalmente sono fertili 24 ore al mese, mentre gli uomini lo sono 24 ore al giorno. La contraccezione maschile è più accessibile e più facile da usare di quella femminile, provoca meno problemi, eppure l’attenzione di tutti resta concentrata sulle donne che subiscono – volenti o nolenti – tutte le conseguenze dei rapporti non protetti: gravidanza, parto o aborto. Elencando queste e altre ragioni con uno stile semplice, chiaro e grintoso, Blair punta i riflettori su un paradosso fondamentale, che rende difficile continuare a negare il peso che il patriarcato continua ad avere nel mondo attuale, anche nei paesi più ricchi.
(Internazionale, numero 1553, pag. 82, 8/14 marzo 2024)
di Sara Lucaroni
La forza della donna di pace Nadia Murad non sta tanto nel coraggio, nella lotta per la giustizia come un dovere, nel diritto di rimarginare ferite. Sta nella schiettezza con cui racconta da dieci anni la sua storia ai leader della terra e nell’esercizio dell’umanità più pura: «Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia». Rapita il 15 agosto 2014 poco più che ventenne dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, durante la campagna genocidaria dello Stato Islamico contro le minoranze, in particolare quella yazida, Nadia Murad quel giorno ha perso la madre e sei fratelli. Con le sorelle è stata venduta ai mercati delle sabaya, le schiave, e comprata dai miliziani islamisti che l’hanno più volte violentata e rivenduta. Dopo quattro mesi di torture è riuscita a fuggire e nel novembre 2015, arrivata in Germania grazie ad un programma umanitario, ha deciso di testimoniare per la prima volta la tragedia delle donne yazide ad un forum delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata nominata Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e insignita dal Parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la pace, insieme all’attivista e medico congolese Denis Mukwege, «per i loro sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato». Impegno portato avanti anche attraverso la sua fondazione, Nadia’s Initiative, in prima linea sia nella ricostruzione dei servizi nei villaggi della sua comunità distrutti dall’Isis, sia nell’impegnare governi e organizzazioni internazionali a sostenere i sopravvissuti alla violenza sessuale e soprattutto a prevenirla. Gli yazidi sono una minoranza etno-religiosa originaria del nord iracheno. La loro storia affonda le radici nelle culture dell’antica Mesopotamia e nei secoli hanno sempre subito discriminazioni, persecuzioni e uccisioni di massa. Le donne e i bambini rapiti da Daesh durante l’occupazione di vaste aree dell’Iraq e della Siria nell’estate 2014 sono state quasi 7.000. Ad oggi ne mancano ancora all’appello la metà: in parte sono nelle mani dei rapitori, rientrati nei paesi di origine. Di altre non si ha nessuna notizia.
Nadia Murad, le donne impegnate nei processi di pace, per i diritti e l’uguaglianza sono più concrete degli uomini e possono ottenere più risultati. È possibile affermarlo?
Conosco molti uomini in gamba che sono altrettanto impegnati per la pace e l’uguaglianza, e non sono sicura che sia utile o vero dire che le donne lottano per la pace mentre gli uomini sono per la guerra. Se vogliamo pace ed equità durature non è solo responsabilità di una parte della società, ma una responsabilità collettiva per tutti noi, specialmente per coloro che occupano posizioni di potere e sono in grado di apportare cambiamenti significativi. Tuttavia, la ricerca ci mostra che quando le donne ricoprono posizioni di leadership e sono attivamente coinvolte nella costruzione della pace nelle loro comunità, questa dura più a lungo. Quindi, penso che sia importante che le donne siano incluse in ogni fase della costruzione della pace e, inoltre, che le ragazze credano che un giorno potranno guidare le loro comunità. Allo stesso modo, gli uomini devono essere allevati nella convinzione che le donne siano capaci di input e leadership significativi. Abbiamo bisogno di fratelli, mariti e figli che ci aiutino ad amplificare le nostre voci e le nostre idee.
C’è una persona, una donna, a cui si ispira, un punto di riferimento che la guida e la motiva ogni giorno nelle sue battaglie e nell’impegno per la pace?
Mia madre era e rimane la mia luce guida e ispirazione. Era una madre single, con poca istruzione, che cresceva undici figli nelle zone rurali dell’Iraq. Ha instillato in me il senso di giusto e sbagliato, la compassione e avere obiettivi.
Ha fatto commuovere leader politici e capi di Stato con la sua storia personale. Siamo tutti colpiti dal suo forte senso di giustizia. Qual è la caratteristica personale che le ha permesso di ottenere così tanto?
Sono assolutamente determinata a garantire che gli attacchi perpetrati contro le mie sorelle, i miei nipoti, i miei amici e me – insieme a migliaia di altre ragazze yazidi – non si ripetano in nessun’altra parte del mondo. Guidata da questo principio ho parlato più e più volte, rivolgendomi ai leader politici non solo per proporre problemi, ma anche per proporre soluzioni. Ho scritto nel mio libro che volevo essere “l’ultima ragazza” che ha subito la violenza sessuale legata a un conflitto. Purtroppo così non è stato: la violenza sessuale è endemica nelle zone di guerra di tutto il mondo. Tuttavia non smetterò di fare campagne, di sostenere o di dire la verità a chi è al potere.
Perché è difficile per ogni vittima di violenza, anche sessuale, denunciare e far rispettare i propri diritti? È un paradosso.
Penso che le vittime della violenza siano spesso le più vulnerabili della società, tanto per cominciare; minoranze, donne, poveri. Quindi, quando vengono attaccati, le strutture non sono in grado di aiutarli o proteggerli. In più, per le sopravvissute alla violenza sessuale legata al conflitto, vi è lo stigma e la vergogna associati ai crimini che hanno subito, il che rende ancora più difficile la loro denuncia. Denunciare un crimine può essere di per sé traumatico. Soprattutto se la giustizia non è garantita. Una volta che i crimini sono stati denunciati e magari anche indagati, è normale che non succeda altro. In Iraq, l’UNITAD ha documentato l’omicidio, la violenza sessuale e la riduzione in schiavitù di migliaia di yazidi, ma i combattenti dell’Isis sfuggono ancora alla giustizia. Solo tre membri dell’Isis sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini di genocidio. Sapendo che il sistema è a scapito delle vittime, diventa molto più difficile denunciare i crimini.
Nadia’s Initiative, la sua fondazione, è un progetto che sta aiutando molto la vostra comunità nel nord dell’Iraq e le azioni di pace. Qual è l’emergenza più importante ad oggi?
Penso intanto che ci troviamo di fronte a un’emergenza sfollati globale. 110 milioni di persone sono state costrette con la forza a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo. Molte di loro vivono in campi che offrono solo soluzioni a breve termine e non sono certamente case adeguate in cui le famiglie possano prosperare. La ricostruzione e il ripristino delle zone post-conflitto per permettere il ritorno a casa degli sfollati dovrebbero essere una priorità globale, per ragioni economiche, politiche e morali. L’ISIS ha distrutto gran parte di Sinjar durante l’invasione nel 2014 e, dieci anni dopo, Nadia’s Initiative lavora duramente con i sopravvissuti per ricostruire le infrastrutture, le fattorie e le scuole che sono la linfa vitale delle comunità. Molte donne sono state lasciate da sole a prendersi cura delle proprie famiglie, quindi dare loro istruzione, e le competenze e gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere è una parte importante del nostro lavoro. Un lavoro reso più difficile dal fatto che Sinjar è ancora una zona contesa, priva di una governance chiara o infrastrutture burocratiche. Abbiamo un disperato bisogno di rappresentanza politica e di un sindaco, nonché di finanziamenti e sostegno da parte del governo iracheno.
Quest’anno ricorre il decimo anniversario dell’attacco dell’ISIS a Sinjar. Dieci anni dopo, gli yazidi si sentono sicuri, c’è pace oppure no?
La comunità yazida è più diffusa di quanto lo fosse in passato. Molti sono partiti per rifarsi una vita all’estero, centinaia di migliaia rimangono nei campi profughi e nonostante tutte le sfide, più di 160.000 sono tornati a vivere a Sinjar. Ma penso che tutti gli yazidi si sentirebbero più sicuri se coloro che ci hanno attaccato fossero ritenuti responsabili delle loro azioni. Se sapessimo che l’agosto 2014 non si ripeterà perché è stata fatta giustizia ed esistesse un deterrente per chi decidesse di agire ancora in questo modo. Ci sono anche problemi di sicurezza più immediati. Per le donne yazide nei campi profughi c’è una reale mancanza di sicurezza e privacy. E le famiglie yazide in Germania sono preoccupate per i rimpatri, poiché il governo ha introdotto una nuova legge che obbligherà alcuni a tornare in Iraq. Ci sono problemi di sicurezza da molto tempo per coloro che vivono a Sinjar. Credo fermamente che dobbiamo ricostruire la nostra patria in modo che le famiglie possano lasciare i campi e crearsi vite con uno scopo per sé stessi. Abbiamo bisogno che il governo iracheno contribuisca a stabilizzare la regione e a garantire un po’ di sicurezza a Sinjar.
Ci sono ancora donne e bambini che riescono a tornare a casa dopo essere stati rapiti dieci anni fa?
Sì, ci sono. L’anno scorso siamo riusciti ad aiutare un numero maggiore di donne a ritornare dalle loro famiglie. Ma quasi 3.000 sono ancora detenuti dall’Isis e da persone affiliate. Garantire il loro rilascio dovrebbe essere una priorità. In Germania ci sono stati i primi processi contro membri dell’Isis grazie alla giurisdizione universale.
Perché altri paesi hanno paura di fare giustizia?
Questa è una buona domanda. Suppongo che siano preoccupati per i soldi e il tempo che ci vorrebbe. Molti paesi occidentali non vogliono assumersi la responsabilità delle azioni intraprese dai propri cittadini in Iraq. Sono incredibilmente grata alla Germania per aver assunto un ruolo guida nella giustizia e nella responsabilità verso il mio popolo.
Come sta andando l’azione intrapresa contro la corporation francese del calcestruzzo Lafarge, per il suo presunto sostegno economico all’Isis?
Siamo ancora nelle fasi iniziali del procedimento legale ma la mia speranza è che riusciremo a dissuadere le grandi multinazionali dall’aiutare e favorire i terroristi.
Come è stato accolto “Codice Murad”, che fissa linee guida per raccogliere testimonianze di violenze nel pieno rispetto delle vittime?
È un progetto di cui sono fortemente orgogliosa e mi rincuora sapere che aiuta le sopravvissute a raccontare le loro storie. L’anno scorso sono stata invitata in Ucraina per incontrare donne che avevano subito violenza sessuale e molte di loro hanno affermato che il Codice ha dato loro coraggio e fiducia mentre raccontavano le loro esperienze.
Nella guerra Hamas-Israele abbiamo ancora assistito alla violenza sulle donne. Per prevenirla nei conflitti sono sufficienti norme preventive più severe e una giustizia certa che punisca i colpevoli oppure è più importante un maggiore sostegno alle donne in tempi di pace e investimenti nella cultura dell’uguaglianza?
Assolutamente entrambe le cose. Responsabilità e educazione, ma anche consapevolezza a livello globale che la violenza sessuale contro le donne non è semplicemente un effetto collaterale inevitabile della guerra, ma un crimine utilizzato da secoli per spezzare il cuore stesso delle comunità. E deve esserci giustizia per coloro che commettono violenza sessuale legata ai conflitti, quei terroristi che perpetrano questi crimini devono essere ritenuti responsabili: cos’altro potrebbe dissuadere altri dall’usare questa tattica in guerra?
Credi che stiamo assistendo alla “fine dei diritti umani” nel mondo? Come far comprendere ai giovani l’importanza di impegnarsi sempre perché pace e diritti non siano mai dati per scontati?
Non penso che stiamo assistendo alla loro fine, gli esseri umani avranno sempre diritti. Infatti qualche mese fa abbiamo visto tante persone riaffermare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, giunta al suo 70° anniversario. Però il nostro mondo si trova in una situazione molto precaria e ci sono paesi e attori non statali che non attribuiscono un valore sufficientemente elevato ai diritti umani. Ma ho incontrato tanti giovani che hanno passione per l’umanità e vogliono creare un futuro pacifico. Il loro desiderio di difendere e cambiare il mondo in meglio mi dà speranza. Penso che forse le persone di cui abbiamo bisogno per essere sicuri di comprendere l’importanza dei diritti umani sono gli adulti, i leader e i decision-makers. Devono agire a lungo termine e nell’interesse degli altri.
(Avvenire, 14 marzo 2024)
di Luciana Tavernini
Ho conosciuto Rosella Cardano nel gennaio del 1990 nel gruppo Dalla relazione madre-figlia alla relazione tra donne che coordinavo all’Associazione Melusine. Nel gruppo ascoltava molto e parlava poco, mentre nella relazione con me, che si è protratta per diversi anni, si apriva. Leggeva molto, soprattutto libri di donne, partecipava agli incontri aperti alla Libreria delle donne e qualche sera si fermava a dormire da me. Cercava, come dice Luisa Muraro, di dare giorno per giorno un senso libero al suo essere donna e per farlo esplorava relazioni femminili. Per lei avevo scritto questa poesia:
– Rosa, Rosina, Rosella –
saltelli
su una corda tesa
impavida
contro il cielo vuoto,
canticchi
– sembra senza darci peso –
un mandala sottile
di parole
un labirinto azzurro
in filigrana
di cui cerchi la chiave.
Poi ho cambiato casa e ci siamo perse di vista. Lei continuava a seguire, attraverso la rivista Via Dogana e i libri che via via venivano pubblicati, le riflessioni sul presente che le donne della Libreria di Milano mettevano in circolo. Se ne nutriva e ha voluto dimostrare la sua riconoscenza lasciando la sua eredità i suoi “amatissimi libri” e la sua casa proprio alla Libreria, perché questo luogo di incontro aperto, di invenzione di pratiche di libertà femminile, di pensiero in presenza sul mondo possa, anche col suo aiuto, continuare a esistere. Lo ha fatto con l’aiuto di un’altra donna, la sua amica Anna Denes, da lei conosciuta fin dalla fine degli anni Settanta mentre preparava la tesi. Un modo generoso, come quello della scrittrice Bibi Tomasi, che con la sua eredità ha permesso la ristrutturazione della Libreria e al cui tavolo di lavoro parlano con noi le ospiti invitate negli incontri pubblici, non solo a partire dai libri che hanno scritto.
Rosella viveva a Galliate, vicino a Novara, dove era nata il 20 febbraio 1956, scriveva poesie che l’aiutavano a fermare il suo sentire e a rafforzare ciò che l’aiutava a vivere. Infatti scriveva: «Mi sento come Ipazia fatta a pezzi ho l’arma della poesia e della parola femminile». Negli ultimi anni ne aveva inviate alcune alla pagina facebook La biblioteca femminista, ora intitolata a Donatella Massara, una delle fondatrici che ci ha lasciate lo scorso settembre. Donatella, qualche mese dopo la morte di Rosella avvenuta il 22 agosto del 2021, le aveva pubblicate nel sito da lei curato Donne e conoscenza storica perché non si perdessero.
Tra queste il delicato Autoritratto in cui Rosella apre la descrizione di sé così: «Sensibile come rugiada su una foglia/ appena curva, me ne sto su un ramo/ di albicocco con sana ignoranza/ sudicio trastullo». Lei, che aveva studiato filosofia all’Università statale di Milano e aveva provato su di sé quello che nel libro Il piacere femminile è clitorideo la storica María-Milagros Rivera Garretas nomina come «violenza ermeneutica dell’Accademia», segnala come il restare presso di sé sia giudicato un «sudicio trastullo» e come le sia necessaria trovare «una lingua/ saliva d’amore più verbale» che riscatti l’infanzia e i suoi dolori. Da qui, nelle altre liriche si delinea un percorso in cui troviamo momenti di solitudine come in Crudele cecità dei parchi, di valorizzazione di sé come in Ali carnee infantili in cui si afferma «io, abbecedario gioioso del mio mondo/ amato» o di rapporto quasi mistico con la natura come in Quiete d’anima in cui il giallo di un campo di grano è «l’abbraccio solare/ che mi accarezza gli occhi/ nella penombra/che si chiama vita».
Sono otto poesie da leggere al link http://www.donneconoscenzastorica.it/2022/01/27/testi-politica-delle-donne-autoritratto-poesia-di-rosella-cardano/
Qui invece ne propongo alcune da lei copiate a macchina e su cui ritornava spesso correggendo.
Ci parlano di genealogia femminile, di piacere clitorideo, dell’amore che non nasconde l’orrore ma non ce ne rende succubi, della pace che si costruisce col lavoro sul simbolico.
A MIA NONNA
Eri la magnolia piena di sole,
golosa, bevevi la luce e l’ombra degli anni;
negli angoli bui di ancestrali cortili ti ubriacavi
di nenie profumate;
a chi passava accanto porgevi petali e colori che avevi dipinto
quando il cielo era più limpido e ancora non avevi
quel viso di bimba affamato di vita,
tra la pelle del viso caduta,
per la stanchezza di un dio persecutore in ombra straziata,
nel corpo a riccio, la tua ultima ribellione alla morte…
Eri la magnolia aperta alla risata, ora ti sento afferrare da
un lontanissimo sonno, gravidanza di un sogno mortale.
Al mistero io guardo e, ancora ti vedo in un angolo di vita
chiedere l’amore di figlia in figlia…
ANTILOGICA: LIBERTÀ VAGINALI
Tra le mie gambe
nonché nel mio umido pensiero sei perla
non ha sussiego, né urla da ossessa, sei…
Domandi timida, inquieta, forse smarrita, perché? Come?
Nel corallino mondo sei perla, spasimo di luce, scintilla istintuale…
Tra le mie gambe sussurri “ancora voglio vivere”
spensierata, paga di sole.
Dimenticare vuoi chi dall’intelletto e dalle sue alte sfere fa abuso
di infimo potere…
SPIRITUALITÀ
C’era un’ombra ad Auschwitz…
ma io sarò stella, cometa, futuro…
e sempre amore, amore, amore
in primavere, ancora.
PACE
A Luisa e alla cara Bibi Tomasi
Non più violenza,
la culla della poeta è allegria e mestizia,
così soave una forsizia
dice sì alla vita tra inverno e primavera.
Non più violenza,
ma penna per gli intrigati giorni
descrivere accennando,
così è la vita frastuono e silenzio, è alba è sera,
tempesta, arcobaleno, primavera…
Non più violenza,
ma miti le parole
giuochi, incanti e fole…
Ricordo ero un animale
barrivo col mio naso…
vezzosa mi inchinavo, in stelle birichine,
la culla della poeta è allegria e mestizia…
Ricordo è una vita, vita è ricordare…
(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)