di Maria Novella De Luca
E se fosse il desiderio a mancare? Difficile confessarlo mentre i dati raccontano una catastrofe demografica prossima ventura. Eppure, forse, per capire come mai nel 2023 sono nati nel nostro ormai vecchissimo paese soltanto 379mila bebè, nemmeno gli abitanti di un quadrante di Roma, bisogna allargare il punto di vista. Perché al netto di tutto ciò che manca, dal welfare ai nidi a uno straccio di lavoro sicuro, tra le ragioni della crescita zero c’è un dato esistenziale che oggi anche i demografi iniziano a conteggiare. È il movimento, non più carsico, chiamato childfree, enclave all’interno dei cinque milioni di coppie già senza figli in Italia, donne e ragazze ma anche sempre più maschi che apertamente dichiarano: «Bambini no grazie, non vogliamo riprodurci, non vogliamo essere madri o padri, non fa parte del nostro progetto di vita». Età media dai trenta ai quarantacinque anni, ultime Millennials e prime Zoomers (Generazione Zeta), fino a ieri nascoste perché mica è facile uscire allo scoperto e affermare, senza essere definite egoiste o nichiliste, che non è una questione di natura, cioè la sterilità ad esempio, o una questione economica, la mancanza di welfare e di sicurezza. No, non volere figli, è qualcosa che viene dal profondo del cuore, come raccontano Stefania Antonini, che ha quarantotto anni e questa scelta l’ha fatta già molto tempo fa, o Clara Di Lello, che di anni ne ha trenta, ma è già certa della sua decisione childfree. Oppure Mario, dice di essere «uno zio fantastico», ma, aggiunge, «con Samanta abbiamo una buona vita, i nostri ritmi, i nostri lavori, i nostri viaggi, per un bambino il posto non c’è».
Sono tante e tanti, sempre di più, come dimostra una indagine dell’Istituto Toniolo su settemila donne tra i 18 e i 34 anni senza figli: il 21 per cento dice chiaramente di non volerli, mentre il 19 per cento afferma di essere “debolmente interessata” alla maternità. Dunque il 50 forse non sarà madre. Complice una rivoluzione antropologica e sociale che (per fortuna) ha “liberato” le donne dallo stigma per il quale non essere madre voleva dire imperfette, mancanti, persone a metà. Una contraddizione nell’affanno occidentale contro le culle vuote, ma come spiega il demografo Alessandro Rosina, «avere figli è una scelta libera, non è cercando di convincere chi non li vuole che cambieranno le cose, ma sostenendo invece chi vuole diventare genitore». Non è un gioco di parole, ma la constatazione di un mutamento radicale in atto. «I giovani non sentono la procreazione come un imperativo biologico e sociale, vogliono pensare al proprio destino liberamente, se il progetto di un figlio si integra con le proprie scelte di vita, se non ostacola i progetti, allora scelgono la maternità e la paternità. Altrimenti no grazie, senza rimpianti».
Nell’universo delle donne childless, ossia senza figli per le più diverse ragioni, il numero delle childfree, cioè “libere” dai figli, è in netto aumento. «Tra le donne nate alla fine degli anni Settanta e l’inizio degli ottanta, la quota che non ha figli è del 22 per cento. Di questo 22 per cento, circa il 12 per cento è childfree. Donne cioè che hanno liberamente scelto di non essere madri e oggi rivendicano il diritto, in una società che ancora le giudica perché non procreano, di dimostrare che l’identità femminile non è necessariamente coincidente con la maternità». (Tra le nate negli anni Cinquanta il numero delle childless era soltanto dell’11 per cento). Dunque mentre si urla alla catastrofe demografica è invece da questo dato di mutazione antropologica che si dovrebbe partire. Suggerisce Rosina: «Non saranno le ossessive campagne sulla natalità che faranno cambiare idea alle donne che non vogliono figli». La fatica poi delle famiglie, tra le difficoltà di conciliazione e precarietà, «sta creando una narrazione negativa che spaventa ancora di più le coppie incerte e in particolare le donne».
Già, ma chi si dichiara childfree lo è davvero? Quanto una non-maternità è frutto di volontà o invece di rinvii, di un desiderio inascoltato o ascoltato troppo tardi? Stefania Antonini fa l’insegnante di yoga ed è anche councelor. Del suo essere childfree è diventata testimonial, «perché troppo spesso ci trattano da egoiste, ci rinfacciano che gli italiani si estingueranno». «Non ho rimpianti: un figlio non l’ho mai voluto. Mio marito Andrea l’ho incontrato a trent’anni, a quaranta ci siamo chiesti se davvero saremmo voluti diventare genitori e la risposta è stata no, restiamo così, questa è la nostra felicità. Il desiderio di maternità non l’ho mai sentito, mi piacciono i bambini ma amo una vita dove posso avere il pieno controllo del mio tempo e delle mie giornate, dei miei spazi». Stefania è serena: «Andrea e io viaggiamo molto, prendiamo la moto e via senza orari, non volevo prendermi cura di una terza persona, avere la responsabilità di educarla. Egoismo? Perché? Non facciamo male a nessuno. E di fronte alle vite affannate delle mie amiche, con figli adolescenti, penso di essere fortunata». Mario ha trentotto anni, Samanta la sua compagna ne ha trentacinque. Lavora nella cooperazione, va dove c’è bisogno di aiuto, Afghanistan, Nigeria, Ucraina. «Saremmo pienamente in tempo per diventare genitori, ma non lo diventeremo. Abbiamo vissuto entrambi un’infanzia complicata, genitori separati, famiglie divise. Avere un bambino ci è sembrato un compito troppo grande, difficile. Anche Samanta parte spesso, lavoriamo moltissimo, poi però ci ritroviamo in casa con i nostri libri, la musica e questo basta». Anche Mario non ha rimpianti: «Abbiamo un bel gruppo di amici, con e senza figli, condividiamo vacanze, cinema, serate. Fratelli, sorelle, nipoti, genitori di cui ci prendiamo cura. Una vita piena. Assisto bambini malati, denutriti, in zona di guerra: anche senza un figlio mio e di Samanta il mondo può andare avanti lo stesso».
(la Repubblica, 15 aprile 2024)
Sonia Sodha
“Primo, non nuocere” è il principio sacrosanto che dovrebbe essere alla base della medicina moderna. Ma la storia è piena di esempi di medici che l’hanno violato. La scorsa settimana, la pubblicazione del rapporto finale di Hilary Cass sull’assistenza sanitaria ai bambini con dubbi sul genere ha messo a nudo la portata devastante dei fallimenti del Servizio Sanitario Nazionale nei confronti di un gruppo vulnerabile di bambini e giovani, sostenuti da attivisti adulti che hanno intimidito chiunque osasse mettere in discussione un modello di trattamento così chiaramente basato sull’ideologia piuttosto che sull’evidenza.
Cass è una pediatra di fama e la sua accurata revisione è durata quattro anni. L’autrice spiega come la clinica specialistica del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) per bambini, ora chiusa, abbia abbandonato la medicina basata sull’evidenza per affidarsi a speranze e preghiere. Un numero significativo di bambini con dubbi sulla propria identità di genere – è impossibile sapere con esattezza quanti siano perché la clinica non teneva registri, il che è uno scandalo – è stato sottoposto a un percorso medico non comprovato con farmaci che bloccano la pubertà e/o ormoni del sesso opposto, nonostante i rischi di danni legati allo sviluppo cerebrale, alla fertilità, alla densità ossea, alla salute mentale e al funzionamento sessuale da adulti.
Cosa ha portato a questo? Il percorso medico si basa sulla convinzione che molti, o la maggior parte dei bambini che si interrogano sulla propria identità di genere, avranno un’identità trans in età adulta e che è possibile distinguerli da quelli per i quali si tratta di una fase temporanea. Ma gli studi suggeriscono che la disforia di genere si risolve naturalmente in molti bambini. È spesso associata alla neurodiversità, a problemi di salute mentale, a traumi infantili, al disagio per la pubertà, in particolare nelle ragazze, e a bambini che stanno elaborando la loro nascente attrazione verso lo stesso sesso; un gran numero di bambini che si sono rivolti al Servizio di Sviluppo dell’Identità di Genere (Gids) erano gay. Inserire questi bambini in un percorso medico non comporta solo rischi per la salute, ma può anche patologizzare un disagio temporaneo in qualcosa di più permanente. Cass è anche chiara sul fatto che la transizione sociale di un bambino – trattandolo come se fosse del sesso opposto – sia un intervento psicologico con conseguenze potenzialmente durature e con una base insufficiente di prove, che la transizione in clandestinità può essere dannosa e afferma che per i bambini in età pre-puberale questa decisione dovrebbe essere informata dal contributo di medici con una formazione adeguata.
Al centro del rapporto c’è un dilemma. La Cass ha rilevato che una diagnosi infantile di disforia di genere non è predittiva di un’identità trans duratura e i medici che hanno partecipato alla revisione hanno dichiarato e di non essere in grado di determinare in quali bambini la disforia di genere sarebbe durata fino all’età adulta. Se questo è davvero impossibile, è etico avviare una persona giovane a un percorso medico che cambierà la sua vita? Se non esistono criteri diagnostici oggettivi, su quale base un medico può prendere questa decisione se non su un’intuizione professionale?
Il rapporto raccomanda una revisione totale dell’approccio alla cura dei bambini e dei giovani con dubbi sul genere da parte del Servizio Sanitario Nazionale: servirebbero servizi olistici e multidisciplinari basati sulla salute mentale che valutino le cause alla radice di tali dubbi e adottino un approccio terapeutico. I bloccanti della pubertà dovrebbero essere prescritti solo nell’ambito di una sperimentazione del Servizio Sanitario Nazionale e la dottoressa raccomanda “estrema cautela” circa gli ormoni del sesso opposto per i ragazzi tra i 16 e i 18 anni; ci si potrebbe aspettare che ciò dipenda dalla possibilità di sviluppare criteri diagnostici per la disforia di genere che dureranno fino all’età adulta.
Come Cass prospetta nel suo studio, i bambini che pongono dubbi sul proprio genere meritano di essere trattati con lo stesso livello di cura di tutti gli altri, non come piccoli progetti per attivisti adulti che cercano di convalidare le proprie identità e i propri sistemi di credenze. Ma per il Servizio Sanitario Nazionale sarà una sfida immensa, e non solo a causa del tremendo sottofinanziamento dei servizi di salute mentale infantile. Ci saranno resistenze tra i medici legati a credenze quasi religiose; è sorprendente che sei cliniche per adulti su sette si siano rifiutate di collaborare alla revisione di uno studio per far luce sui bambini sottoposti a cure mediche dal Servizio Sanitario Nazionale. Un ricercatore senior dell’NHS di un ente non nominato ha detto che l’opposizione a partecipare alla revisione non è venuta dal consiglio di amministrazione, ma da alcuni medici del loro ente, e questo non si è mai visto in altre parti dell’NHS.
Cass ha anche commentato l’estrema tossicità del dibattito. Ovvero il fatto che, a suo dire, i medici professionisti avessero paura di essere definiti transfobici o accusati di praticare terapie di conversione se avessero adottato un approccio più cauto, in un clima in cui attivisti e associazioni come Stonewall erano pronti a lanciare accuse di bigottismo a chi segnalava preoccupazioni e gli informatori del Servizio Sanitario Nazionale venivano diffamati dal loro datore di lavoro. Questo non solo ha prolungato i danni evitabili che alcuni giovani hanno subito, ma renderà difficile il reclutamento di medici per il nuovo servizio. Cass ha messo in guardia i ministri sui rischi di vietare penalmente la terapia di conversione, cosa che invece gli attivisti stanno spingendo; le sfide definitorie rischiano di criminalizzare le terapie esplorative e potrebbero aumentare ulteriormente la paura tra i medici. L’ex direttore generale di Stonewall ha già avallato l’idea che il modello Cass sia esso stesso una terapia di conversione.
Considerato ciò che viene detto sulla transizione sociale, le implicazioni della revisione Cass vanno oltre il Servizio Sanitario Nazionale e arrivano fino alle scuole e ai servizi per l’infanzia, dove esistono simili situazioni di presa ideologica. Notizia di oggi: i genitori di un bambino la cui scuola, a loro insaputa, ha facilitato la transizione sociale hanno dato due settimane di tempo al consiglio comunale di Brighton per ritirare il kit-trans approvato per l’uso in tutte le scuole, altrimenti il comune subirà un’azione legale alla luce del parere del noto avvocato per l’uguaglianza e i diritti umani, Karon Monaghan KC, secondo cui il kit è di per sé illegale e spinge le scuole ad agire illegalmente.
L’avvocato spiega come la legge sia estremamente sbagliata in diversi punti, tra cui la tutela del benessere dei bambini che hanno dubbi sul loro sesso e che vogliono effettuare una transizione sociale. Sui servizi e gli sport divisi per sesso, questa legge suggerisce erroneamente che l’identità di genere scelta da un bambino debba prevalere sul suo sesso, cosa che potrebbe portare a discriminazioni nei confronti degli altri alunni, in particolare delle ragazze. Questo kit è utilizzato dalle scuole di diverse autorità locali; i genitori hanno pubblicato consigli per consentire ad altri genitori di contestare alle scuole la sua illegalità.
La revisione di Cass rappresenta un risultato immenso; ha eliminato la tensione da una delle aree più controverse della medicina moderna e ha riportato il ruolo delle prove al posto giusto. Tuttavia, c’è ancora molta strada da fare per smantellare l’influenza di un’ideologia adulta contestata e controversa – e in alcuni casi profondamente radicata – riguardo al genere, dal modo in cui i bambini vengono assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale, dai servizi per l’infanzia e dalle scuole.
Link all’articolo originale:
https://www.theguardian.com/commentisfree/2024/apr/14/hilary-cass-review-gender-trans-young-people-children-nhs-evidence
(The Guardian, 14 aprile 2024)
di Francesca Lazzarato
È stata una delle spagnole più note del Ventesimo secolo e ha esercitato una leadership senza precedenti, diventando la prima donna del suo paese a occupare la carica di segretaria generale e poi di presidente di un partito, ha attraversato il regime di Primo de Rivera, la Seconda Repubblica, la Guerra Civile, la dittatura di Franco, la Transizione alla democrazia, e parlare di lei significa approfondire argomenti come la formazione del movimento operaio in Spagna, la storia del comunismo o il rapporto tra genere e coscienza di classe.
E se, come ha scritto di recente su El País l’autorevole storico Gutmaro Gómez Bravo, è necessario che lo studio del passato come radice del presente non sia condizionato dalla polarizzazione e dallo scontro, non c’è dubbio che oggi abbia un senso preciso rievocare Dolores Ibárruri, mentre è in corso una vera “guerra alla memoria” scatenata dall’estrema destra, in Spagna come altrove.
Appare dunque particolarmente opportuno che alla già vasta letteratura su Ibárruri si siano aggiunte, in coincidenza con il centenario del PCE, due nuove biografie: ¡No pasarán! Biografía de Dolores Ibárruri, Pasionaria (Ediciones Akal, pp. 608) di Mario Amorós, e Pasionaria. L’inaspettata vita di Dolores Ibárruri di Jorge Díaz Alonso (People, pp.424, e. 20, traduzione di Marcello Belotti), corredata nella nuova edizione italiana da una prefazione di Pablo Iglesias e uno scritto di Luciana Castellina sul “giorno caldissimo” dei funerali di Togliatti, cui l’ormai anziana Dolores partecipò con intrepida energia.
Nel suo libro (che include una cronologia, un indice biografico dei personaggi citati e un’ampia bibliografia), Díaz affronta con sguardo contemporaneo una figura affascinante e complessa, mettendone in luce i meriti, le ombre, le contraddizioni, le asprezze, l’adesione all’ortodossia sovietica ma anche la duttilità necessaria ad affrontare tempi nuovi.
A suscitare l’interesse del biografo, però, è soprattutto il cammino che portò Ibárruri, nata nel 1895 in una comunità di minatori baschi dove le donne potevano solo «filare, partorire e piangere», a costruirsi una «vita inaspettata». Come riuscì, la ragazzina studiosa che avrebbe voluto fare la maestra e che invece dovette andare a servizio in un’osteria, a trasformarsi in un simbolo dell’antifascismo e in una dirigente politica di primo piano, che conobbe il carcere e un lungo esilio, viaggiò per il mondo, si lasciò alle spalle un matrimonio infelice e si concesse una lunga relazione con un uomo di quattordici anni più giovane?
La sua sorte cominciò a cambiare dopo le nozze con Julián Ruiz, giovane minatore del PSOE: un’unione che per Dolores significò il primo contatto con la politica (nel 1921 lei e il marito parteciparono insieme alla nascita del PCE), ma che fu segnata dalla repressione, da una miseria estrema, da molte amarezze e dalla morte di quattro dei sei figli. Per anni Ibárruri lavorò duramente, provvedendo alla famiglia quando Julián era in carcere, ma non smise di coltivare l’assidua militanza che le aveva aperto altri orizzonti e di scrivere sul giornale dei minatori El Minero Vizcaíno, dove si firmava Pasionaria, un nom de plume che sarebbe diventato celeberrimo. Il matrimonio finì nel 1930, quando Dolores, chiamata alla redazione madrilena di Mundo Obrero, entrò nel Comitato Centrale del PCE e venne eletta deputata durante la Seconda Repubblica.
Fu con la guerra civile, però, che si trasformò in una leggenda: la sua voce e la sua immagine, mentre visitava il fronte o chiedeva il sostegno internazionale, diventarono familiari non solo ai soldati e alla popolazione civile, ma anche agli antifascisti di tutto il mondo e, ovviamente, ai loro avversari.
Aveva l’aspetto di una popolana qualsiasi, una madre e una sposa vestita modestamente di nero, con i capelli raccolti in una crocchia severa: un personaggio che ormai le assomigliava solo in parte; ma Ibárruri sapeva bene che, nonostante la Repubblica prevedesse l’uguaglianza tra i sessi in ogni ambito, rappresentare il “nuovo” e insieme rimandare a echi tradizionali era il modo più efficace per fare breccia in un contesto ancora profondamente maschilista.
C’erano poche presenze femminili sulla scena pubblica, e Dolores, autodidatta e di estrazione proletaria, vi aveva fatto irruzione con enorme forza, una straordinaria capacità oratoria e un carisma indiscutibile: «una donna reale che per la sua differenza riesce a diventare un referente mitico davanti al quale la società maschile, in bene o in male, reagisce», disse di lei Vázquez Montalbán.
Secondo Irene Montero, ex ministra de Igualdad del governo spagnolo, rileggerne la vita in un’ottica femminista è oggi inevitabile, e Díaz, pur sottolineando che Ibárruri non si definì mai tale, la considera portatrice di un femminismo “diverso” e con forti connotazioni di classe, che includeva finalmente le operaie, le lavoratrici del terziario e le contadine: Pasionaria le sollecitava a mobilitarsi per l’uguaglianza salariale e il diritto al lavoro, per l’aborto e il divorzio, per un sistema pubblico di assistenza.
Essere comunista, disse nel ’47, significa anche lottare «contro le trappole feudali e i pregiudizi che hanno fatto della donna, attraverso i secoli, non solo la schiava della società, ma dell’egoismo degli uomini».
Amata e odiata, venerata come una santa laica o diffamata come «strega bolscevica», Dolores Ibárruri è stata una formidabile protagonista del suo tempo, e in esso va collocata; quando morì, a novantaquattro anni, più di duecentomila persone accompagnarono i suoi funerali, e forse il modo migliore per ricordarla sta in quel che scrisse di lei Ernest Hemingway: «Se aveste potuto sentirla… Le parole nascevano dalla sua bocca irradiando una luce che non è di questo mondo. La sua voce aveva l’accento stesso della verità».
(il manifesto, 13 aprile 2024)
di Laura Forcella Iascone*
Come si educa nella scuola israeliana? Come vengono presentati la Palestina e i palestinesi nei più popolari manuali di storia, geografia, educazione civica attualmente in uso? Qual è la finalità dell’educazione in uno stato come Israele in cui l’identità nazionale e personale si fondano su quella che viene definita la grande narrazione sionista, capace di orientare scelte e coscienze? E ancora: come l’insegnamento può divenire un’arma per garantire la legittimità di uno stato?
A queste domande risponde, in dense 286 pagine, il lucido saggio di Nurit Peled-Elhanan, docente presso la facoltà di Scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme che, insignita nel 2001 dal Parlamento europeo del premio Sacharov per la libertà di pensiero e i diritti umani, è tra i fondatori del Tribunale Russel sulla Palestina istituito nel 2009. Il libro, Palestine in Israeli School Books. Ideology and Propaganda in Education, è stato pubblicato a New York nel 2012 e tradotto in italiano per le Edizioni Gruppo Abele nel 2015 [con il titolo La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, Ndr].
In Israele, dove «la lettura critica della narrazione ufficiale è considerata tuttora un atto non patriottico, se non addirittura di puro tradimento», il libro non ha trovato editori.
L’interesse del saggio è almeno duplice perché, oltre a consentire di inquadrare il discorso in un contesto storico che dà ragione della natura di particolare “etnocrazia” o “democrazia etnica” dello Stato ebraico, svela, secondo i principi della teoria socio-semiotica, i meccanismi di costruzione del consenso messi in atto, attraverso raffinate strategie di comunicazione, anche in altri Paesi.
L’autrice, con un linguaggio specialistico ma di facile comprensione, aiuta a decodificare messaggi apparentemente neutri e oggettivi per rintracciarne la matrice ideologica e mettere in guardia il lettore dai possibili inganni di un’educazione formale finalizzata a produrre e riprodurre memoria collettiva e non a fornire strumenti di indagine storica.
Attorno all’illuminante distinzione tra storia e memoria si fonda la premessa della ricerca che dimostra come la costruzione di una memoria mitica e dittatoriale, che mette nell’oblio duemila anni di civiltà palestinese, sia in contraddizione con le esigenze della storia che dovrebbe interpretare, con disinteresse e innocenza, i fatti del passato. Il sionismo, nei testi scolastici analizzati, è un assunto indiscutibile, anche in quelli considerati progressisti. L’obiettivo è chiaro:
preparare giovani soldati che, a diciotto anni, a conclusione della scuola, possano attuare con determinazione la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi.
Il comune sentire “antiarabo” è diffuso in Israele, dove «l’appellativo arabo richiama masse sporche di gente esagitata, terrorismo, primitività, oppressione delle donne, sovracrescita demografica e fondamentalismo»: le sue radici stanno anche negli stereotipi diffusi dai libri di testo, il canale privilegiato attraverso cui gli studenti ebrei acquisiscono informazioni sui palestinesi che vivono accanto a loro senza avere con loro contatti dal momento che costituiscono un out group
connotato negativamente e discriminato. Si tratta di un razzismo che viene alimentato da élite culturali come insegnanti, giornalisti, accademici, scrittori, uomini politici che aboliscono qualsiasi emotività nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, percepiti come problema da risolvere, non come cittadini, o semplicemente esseri umani, portatori di diritti.
Anche l’iconografia dei libri di testo, con un uso sapiente anche dell’inquadratura solitamente al di sotto della nostra vista, o la stessa cartografia, che veicola il principio dell’esclusione, o il layout della pagina contribuiscono a radicalizzare la percezione dei palestinesi come problematici, distanti, inferiori, spesso ridotti alla stregua di oggetti da porre sotto controllo: l’emarginazione politica, sociale e culturale di cui sono vittime si riflette nell’emarginazione che subiscono nei libri di testo e i massacri subiti, che il saggio presenta con puntualità in una raccapricciante sintesi di quelli principali, sono giustificati e resi inoffensivi alla coscienza.
La conclusione è sconfortante e inequivocabile: le pratiche razziste e discriminatorie sono trasmesse dalla scuola e, più in generale, dall’apparato statale di Israele che meriterebbe, secondo l’autrice, l’inclusione nella lista dei Paesi razzisti da parte della Commissione delle Nazioni Unite. L’immagine scontata e tradizionale in Israele che vede ogni arabo seduto a fumare il narghilè o pronto ad abbracciare un’arma va cancellata. La scuola, che dovrebbe insegnare la complessità del giudizio e la diffidenza nei confronti delle semplificazioni identitarie, in Israele fallisce il suo obiettivo. Purtroppo non solo lì.
(*) Laura Forcella Iascone insegna italiano e latino in un liceo scientifico di Brescia, per il quale è responsabile delle iniziative culturali. Laureata in Lettere con una tesi di argomento geografico, ha collaborato con riviste, enciclopedie e libri di testo ed è coautrice di manuali scolastici di latino per la casa editrice “La Spiga”.
(Zeitun.info. Notizie e libri sulla Palestina, 20 luglio 2016)
di Antonella Mariani
Un forno per riaccendere la speranza. Un pane per uscire dalla fame. Nell’Afghanistan dei taleban alle donne sono concesse poche chance, non solo per vivere ma perfino per sopravvivere. Così anche un piccolo progetto di cooperazione internazionale può innescare un grande cambiamento e fare la differenza per centinaia di persone. Un manipolo di operatori di un ente italiano del Terzo settore ha riattivato alcune panetterie in disuso nei distretti più poveri di Kabul, affidandole a piccole équipe di donne che cuociono i pani tradizionali, naan in lingua dari, distribuendoli poi a centinaia di madri capofamiglia.
È un’idea semplice ma che per realizzarsi ha avuto bisogno di oltre un anno. A partire dal nome del progetto, “Bread for women”*, pane per le donne, che le autorità taleban hanno cambiato in “Bread for families”, pane per le famiglie. «Non è stato facile convincere i capi dei distretti – racconta Livia Maurizi, Capo dei programmi di Nove Caring Humans, una giovane donna che dietro un aspetto dolce e paziente cela una volontà di ferro e una motivazione altrettanto intensa. E non è stato nemmeno facile trovare donne che si fidassero di noi». Perché uscire di casa da sole è vietato, e i rischi per chiunque si voglia rendere indipendente sono tanti e concreti.
Ma dallo scorso febbraio i forni dismessi, alimentati a gas anziché a legna per consentire una produzione più ampia, sono stati ristrutturati, resi funzionali, efficienti e sostenibili sia per l’ambiente sia per la salute delle donne che vi lavorano. Le panettiere sono state formate non solo sulle tecniche di panificazione, ma anche sui rudimenti di contabilità e di gestione economica: in tutto, tra fornaie, assistenti fornaie e addette alla distribuzione del pane, è impegnata una dozzina di operatrici. Gli impianti – in realtà poco più sofisticati di grandi bidoni metallici interrati – funzionano dodici ore al giorno: grandi quantitativi di naan vengono sfornati e distribuiti a un totale di 120 donne (40 per ogni forno) selezionate in base ai bisogni; per lo più si tratta di vedove – l’Afghanistan è il Paese al mondo con più donne sole capofamiglia a causa del succedersi decennale di guerre – con molti figli a carico e nessuna fonte di sostentamento. Ciascuna beneficiaria riceve gratuitamente 5 pani da 300 grammi, sette giorni alla settimana, e questo contribuisce a sfamare almeno 800/1000 persone. Il pane è l’alimento base del regime degli afghani, il cibo più economico e l’unico che la maggior parte delle famiglie possa permettersi.
«A causa delle restrizioni dei taleban io e le mie figlie non possiamo lavorare – racconta Mahdiya, quarantacinque anni, vedova dal 2019, madre di cinque figli – Far parte di “Bread for women” mi ha aiutato a sfamare i miei figli. La mia famiglia non riusciva a comprare neppure un pane al giorno, immaginate come cinque pani hanno cambiato la mia vita».
Come funziona il progetto? «Noi paghiamo alle fornaie il prodotto finito, loro si organizzano con le materie prime e i compensi alle assistenti – continua Maurizi – Così possono disporre di un piccolo reddito personale, e in Afghanistan è una grande conquista. Stiamo gettando le basi per una sostenibilità economica: quando il progetto finirà, e non finanzieremo più la vendita di pane, le fornaie avranno il know-how e l’infrastruttura per proseguire l’attività con le loro gambe. L’idea è che il forno diventi “di comunità”; le famiglie o i ristoranti potranno portare i loro cibi a cuocere pagando un piccolo canone».
Un altro grande traguardo, oggi, è poter contribuire ai bisogni alimentari di decine di famiglie in un Paese afflitto da una carestia sempre più grave per l’effetto combinato della crisi economica, dell’aumento dei prezzi delle materie prima e dei beni di prima necessità e dal crollo dell’occupazione femminile. L’80% delle donne – spesso capofamiglia – non ha più i mezzi sufficienti per rispondere ai bisogni primari per sé stessa e i propri figli.
E non è tutto. Il progetto “Bread for women” ha ottenuto un effetto non secondario: far uscire le donne dall’isolamento, creare per loro una minima occasione di socializzazione in un Paese dove il minimo movimento delle donne è osservato e potenzialmente sanzionato. «Venire al forno mi aiuta economicamente – racconta Aliyah, trent’anni e sette figli, vedova da sette, quando il marito è stato ucciso da una bomba in strada a Kabul. – Ha un impatto anche sulla mia salute mentale, vedere altre donne, parlare con loro, condividere le preoccupazioni mi fa bene. Osservare la resilienza e la forza delle donne afghane anche in questa situazione difficile, la loro battaglia per essere forti e lottare per la loro famiglia, rende più forte anche me».
(*) “Bread for women” è un progetto pilota di forni di comunità, finanziato da Linda Norgrove Foundation, dall’8×1000 all’Unione Buddista italiana e da Uplift Afghanistan Fund. Ma è stato studiato in modo che sia replicabile su larga scala, in altri distretti di Kabul e in altre regioni più bisognose e remote dell’Afghanistan, per generare un impatto economico positivo su più larga scala.
(Avvenire, 11 aprile 2024)
di Hanno Hauenstein
La nota filosofa Nancy Fraser avrebbe dovuto tenere la cattedra Albertus Magnus all’Università di Colonia il prossimo maggio. Alla fine della scorsa settimana, però, il suo invito è stato ritirato dal rettore dell’università, Joybrato Mukherjee, per aver firmato una lettera di solidarietà pro-Palestina lo scorso autunno. In questa intervista, Fraser parla per la prima volta di quel che è successo.
L’Università di Colonia l’ha disconosciuta dalla cattedra Albertus Magnus. Cosa prevedeva questo incarico?
La cattedra prevedeva un soggiorno di alcuni giorni e conferenze pubbliche nell’ambito di un programma che doveva essere dedicato allo scambio aperto. Ho deciso di tenere delle conferenze a partire dal mio attuale progetto di libro sui tre volti del lavoro nella società capitalista, un argomento che non aveva nulla a che fare direttamente con Israele o la Palestina. Avevo lavorato sodo per scrivere queste conferenze. Tra l’altro, avevo anche comprato un costoso biglietto aereo.
Può spiegare come è avvenuta la cancellazione?
Qualche giorno fa ho ricevuto un’e-mail da un professore di Colonia, Andreas Speer, che organizza questi eventi. Mi ha detto che aveva appena sentito il rettore dell’università, che era preoccupato per il fatto che avevo firmato la dichiarazione Philosophy for Palestine a novembre e voleva che chiarissi la mia posizione. Ho pensato: che faccia tosta! Voglio dire, che cosa gli importa di sapere quali sono le mie opinioni sul Medio Oriente? Sono un soggetto libero, posso firmare quello che voglio.
D’altra parte, non volevo essere eccessivamente conflittuale. Così ho risposto dicendo: «Certo, ci sono molti punti di vista diversi sulla Palestina e su Israele, e c’è molto dolore da tutte le parti, compreso quello che ho provato io stessa come ebrea. Ma c’è una cosa su cui non ci può essere disaccordo». Ho citato una frase di una dichiarazione che il rettore dell’università aveva pubblicato sul sito dell’ateneo, sull’importanza di una discussione aperta e rispettosa. Quindi, ho detto al signor Speer: «La prego di assicurare al rettore che può assolutamente contare su di me quando si tratta di una discussione aperta e rispettosa». Pensavo che questo avrebbe messo fine alla questione. Ma in realtà, appena uno o due giorni dopo, ho ricevuto una mail diretta dal rettore che diceva di non avere altra scelta se non quella di ritirare l’invito. È scritto esplicitamente, nero su bianco, che poiché ho firmato questa lettera e non l’ho disconosciuta nelle nostre successive comunicazioni, sono stata cancellata.
Qual è stato il principale punto di scontro? L’uso dei termini apartheid e genocidio? O il boicottaggio delle istituzioni israeliane, a cui la lettera invita a partecipare?
Non lo so davvero, perché non ho ricevuto ulteriori spiegazioni. Il rettore mi ha proposto di fare una video chiamata in cui mi avrebbe spiegato ulteriormente il suo punto di vista. Non ho risposto. È una questione pubblica. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di parlare apertamente. Quindi, spetterà a lui chiarirlo. Ora c’è anche una dichiarazione sul sito dell’università. A me sembra che tutto questo sia una cortina di fumo. È una chiara violazione della politica dichiarata dall’università e degli stessi valori che invocano con il nome Albertus Magnus. Tali valori sono proprio quelli della libertà accademica, di opinione, di parola e di discussione. Qualunque complicata razionalizzazione venga fornita per spiegare perché questo procedimento non violi tali valori mi sembra vuota. È un segnale molto forte a tutte le persone dell’università e agli studiosi di tutto il mondo: se osate esprimere certe opinioni su certi argomenti politici, non sarete i benvenuti qui in Germania. Ha un effetto raggelante sulla libertà di espressione politica delle persone.
Quando dice che questa è una violazione delle politiche dell’università, prevede di intraprendere un’azione legale?
Ci ho pensato. Non è la mia priorità. Ma non lo escludo nemmeno. Prima di tutto voglio convincere le persone che questo è un caso davvero oltraggioso di quella che, secondo molti, è una tendenza molto più ampia nella Germania di oggi. Le persone che occupano posizioni di potere nelle università e nelle istituzioni artistiche tedesche e i membri del governo federale tedesco che potrebbero incoraggiarli in questo senso dovrebbero pensarci due volte. Stanno violando chiaramente le norme accademiche e, francamente, anche quelle costituzionali ampiamente diffuse in materia di libertà politica e libertà di parola. Ciò danneggerà notevolmente l’accademia tedesca.
Considerando solo la storia più recente dell’indignazione pubblica e delle cancellazioni in Germania, sembra che lei sia in buona compagnia. Ci sono stati i casi di Maša Gessen, Ghassan Hage, Judith Butler e molti altri. Molti di loro, come lei, sono ebrei. È preoccupata per questo?
Non per me stessa. Sono installata a New York e ho un enorme sostegno, tra cui una lettera estremamente forte del presidente della mia università, la New School, Donna Shalala, che si apre con la grande frase: «Albertus Magnus sarebbe inorridito!». Fa notare che è particolarmente preoccupante che un’istituzione tedesca cancelli un membro della facoltà della New School, che non solo ha salvato gli studiosi tedeschi in fuga dal fascismo, ma ha anche creato uno spazio per continuare il corpo della teoria critica che era stato spazzato via in Germania. La New School ha contribuito a quel corpo di pensiero così come ho fatto io personalmente. Quindi, questo è un insulto alla New School, oltre che a me. Ma soprattutto è una violazione delle norme sulla libertà accademica.
Crede che questa sia una tendenza?
Sì, e sono molto preoccupata. La vedo come una febbre che sta attanagliando la Germania e, in misura minore, l’Austria. È una cosa molto dannosa. Penso anche che sia importante che i tedeschi capiscano qualcosa della complessità e dell’ampiezza dell’ebraismo, della sua storia, della sua prospettiva. I tedeschi stanno in un certo senso sottoscrivendo l’idea di un giuramento incondizionato di fedeltà a Israele, come se la responsabilità storica tedesca comportasse il sostegno incondizionato allo Stato di Israele. Considerando ciò che Israele sta attualmente facendo, questo è un tradimento di quelli che definirei gli aspetti più importanti e pesanti dell’ebraismo come storia, prospettiva e corpo di pensiero. Mi riferisco all’ebraismo di Maimonide e di Baruch Spinoza, di Sigmund Freud, Heinrich Heine ed Ernst Bloch.
Può specificare cosa intende?
Quest’altra tradizione dell’ebraismo sta riducendo l’ebraismo non solo al nazionalismo, ma a un ultranazionalismo del tipo di quello che sta calpestando e fondamentalmente distruggendo la Striscia di Gaza. A proposito, ho appena firmato un’altra lettera! Non sono pentita. Una lettera contro lo “scolasticidio” israeliano, cioè la distruzione di scuole e università a Gaza. Più di cento professori sono stati uccisi lì. Nove rettori di università sono stati uccisi. I nomi delle persone che vi ho menzionato prima sono solo una lista, ma ce ne sono molte altre. Basti pensare ad Albert Einstein, a cui fu offerta la presidenza dello Stato di Israele e che rifiutò. Si tratta di persone che per la loro stessa ebraicità hanno difeso diritti universali, non una ristretta identità tribale.
Alcuni dei suoi critici hanno sostenuto che in realtà lei non è stata cancellata, ma semplicemente le è stato rifiutato una sorta di tributo.
Ci sono tedeschi che sono tentati di sorvolare e di dire che si trattava solo di un premio onorario. Molti tedeschi, anche giornalisti, sono stati intimiditi e hanno accettato una visione molto distorta del significato della libertà accademica. L’argomentazione secondo cui si potrebbe semplicemente togliere qualcosa perché è solo un premio e non è veramente un ruolo accademico è una sciocchezza. In realtà quella di visiting professor è una nomina accademica. Come tutti gli altri titolari di questa cattedra, sono stata scelta per il mio lavoro accademico. L’idea che ciò che faccio giustifichi il ritiro di un invito dice già che l’autonomia accademica viene violata. Su questo non c’è dubbio. Voglio dire a queste persone che è vero che avete la responsabilità di pensare profondamente agli ebrei. Ma ci state pensando nel modo sbagliato. C’è un altro modo di pensare.
Critici come Maša Gessen hanno sostenuto che negli ultimi anni l’interpretazione specifica della «Staatsräson” (ragion di stato) tedesca nei confronti di Israele ha aiutato gli estremisti di destra come l’Alternative für Deutschland (AfD). È d’accordo?
Non posso fare commenti specifici sull’AfD. Ma posso dirle che negli Stati uniti la destra cristiana evangelica ha la sua versione del “maccartismo filosemita”, per usare l’espressione di Susan Neiman. E hanno una logica teologica che è di per sé profondamente antisemita. Ma la cosa più preoccupante della Germania per me non è l’AfD.
Che cos’è?
Il centrismo di destra, dove risiede il vero peso dell’opinione pubblica. È così facile che venga influenzata da argomenti che per me sono palesemente falsi. Come l’argomentazione secondo cui, cancellando il mio invito, nessuno starebbe violando la libertà accademica, ma semplicemente scegliendo di non onorare una persona che ha le opinioni che pensano io abbia.
Lei ha detto che non c’è un legame profondo tra Filosofia per la Palestina e il ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere a Colonia. Ma direbbe che non c’è un legame tra la posizione assunta nella lettera e i suoi scritti accademici?
Indosso più di un cappello. Svolgo un lavoro teorico. Occasionalmente firmo lettere come cittadina. Non credo che questi aspetti debbano essere direttamente collegati. Tuttavia, a volte scrivo in modo più agitato o propagandistico. L’esempio migliore è Femminismo per il 99% di cui sono coautrice con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya. Abbiamo preso le idee che ognuna di noi aveva sviluppato nel proprio lavoro e le abbiamo fuse. Si tratta di un manifesto su come tracciare un percorso diverso per l’attivismo femminista, per intenderlo come interesse del 99%, delle donne, degli uomini e dei bambini, in contrapposizione a un certo tipo di femminismo neoliberale aziendale. Ho cercato di divulgare le mie idee accademiche, ma non ho mai scritto sul Medio Oriente. Non ho grandi competenze, ma sono una cittadina che pensa e legge. E come ebrea, sento la speciale responsabilità di dire «non in nostro nome».
Forse perché ciò che viene fatto a Gaza è, in una certa misura, fatto in nome del popolo ebraico?
Esattamente. Non c’è dubbio che ci sia una strumentalizzazione, o addirittura si faccia un’arma, dell’accusa di antisemitismo applicata in modo del tutto sbagliato alle persone che ritengono che condannando l’attuale corso del governo israeliano, si sostiene una correzione di rotta per migliorare la situazione dei palestinesi così come del popolo ebraico ovunque.
Sembra una cosa onorevole da dire. In Germania, tuttavia, il Bundestag ha approvato una risoluzione che dichiara il boicottaggio delle istituzioni israeliane come un caso di antisemitismo.
Molti in Germania associano tali boicottaggi a immagini di boicottaggi storici contro gli ebrei tedeschi negli anni Trenta.
È un’associazione interessante. Però all’epoca non esisteva uno Stato ebraico che si impegnava in una carneficina militare illegittima. Un parallelo migliore sarebbe il Sudafrica, dove c’è stato un forte boicottaggio accademico, un boicottaggio sportivo e un boicottaggio culturale, che ha avuto un certo impatto insieme al boicottaggio economico per porre fine all’apartheid. Tra l’altro, i tedeschi non si limitarono a boicottare gli ebrei. Li espulsero, li radunarono, li mandarono nei campi di concentramento e li uccisero. Niente di tutto ciò sta accadendo qui.
Ha intenzione di ripetere il ciclo di conferenze di Colonia altrove?
Lo farò altrove! Si tratta di una nuova versione ampliata e rivista di alcune conferenze che ho tenuto a Berlino due anni fa. Ora ho molto materiale nuovo, che non vedevo l’ora di presentare. La mia università, la New School, sta organizzando un evento. Mi è stato anche suggerito di tenere una conferenza in altre parti della Germania con il titolo: Questo è ciò che non volevano farvi sentire a Colonia.
Alcuni professori tedeschi hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. Crede che la gente in Germania possa cambiare idea su questi temi?
Non sono abbastanza vicina per avere un’opinione informata in merito. Ma ho l’impressione che la febbre si diffonderà. Non sono in grado di dire se il mio caso sarà l’evento scatenante, o il prossimo, o quello successivo. C’è un crescente disagio al riguardo. Almeno a New York.
Si vede come una vittima di quello che prima ha descritto come antisemitismo filosemita?
Suppongo di sì. Sono stata cancellata in nome della speciale responsabilità tedesca per l’Olocausto. Presumo che tale responsabilità ne debba comportare una nei confronti degli ebrei. Ma, naturalmente, si restringe alle politiche statali di qualunque governo si trovi a governare in Israele. Per noi negli Stati uniti, maccartismo è una parola potente. È un modo per mettere a tacere le persone con il pretesto che si è presumibilmente a favore degli ebrei.
Negli ultimi sei mesi gli Stati uniti e la Germania sono stati i due principali fornitori di sostegno e armi a Israele. Che peso ha questo nella sua visione della Germania?
Il primo colpevole sono gli Stati uniti. Non sto salvando la Germania, ma in realtà, se vi interessa sapere chi finanzia le politiche di Israele, sono gli Stati uniti. Tuttavia, per la prima volta nella mia vita, e credo in assoluto, c’è una discussione pubblica equilibrata sulla questione della Palestina. Le voci palestinesi sono presenti nella sfera pubblica. Le organizzazioni, comprese quelle ebraiche di sinistra, che criticano la politica israeliana sono nella sfera pubblica. Joe Biden è sotto pressione. Ha parlato in modo più duro delle condizioni degli aiuti a Israele e ha chiesto un cessate il fuoco. Resta da vedere se questo si tradurrà in veri e propri tagli o condizionamenti degli aiuti, se i democratici al Congresso cercheranno di forzare la questione. Ma almeno il rubinetto aperto del nostro governo sugli aiuti militari è diventato politicizzato e contestato.
Mi auguro che qualcosa di simile si sviluppi anche in Germania. Che almeno diventi una questione pubblica su cui si possa discutere, senza essere accusati di antisemitismo o essere cancellati.
(Jacobin Italia, 11 aprile 2024)
di Angelo Mastrandrea
Il ricorso delle klimaseniorinnen. Sono 2.500, hanno un’età media di 73 anni, collaborano con Greenpeace e vanno in piazza
«Oggi è un giorno di gioia, di sollievo e di emozioni fortissime, ci spiace per l’esito della causa dei giovani portoghesi, abbiamo detto loro che la nostra vittoria è anche per loro», dice da Strasburgo Norma Bargetzi-Horisberger, una donna di 69 anni che vive a Cassina D’Agno, nel canton Ticino, ed è una delle militanti più attive dell’associazione KlimaSeniorinnen, anziane per il clima. Ieri mattina era a Strasburgo con un gruppo di attiviste per assistere alla sentenza della Corte europea per i diritti umani (Cedu).
Le Anziane per il clima erano già state a Strasburgo un anno fa, per la prima udienza del processo, hanno sfilato insieme a Greta Thunberg, simpatizzano per le azioni degli attivisti di Ultima Generazione che si incollano all’asfalto per bloccare il traffico e gettano vernice lavabile su monumenti e opere d’arte, e a febbraio hanno marciato da Landquart a Davos nella manifestazione che ha contestato il Forum economico globale. «Sono diventata un’attivista perché mi sento in parte responsabile di questo disastro, è inutile negare che è stata la mia generazione a fare i danni più grandi», ha detto Norma Bargetzi-Horisberger al Corriere del Ticino nei giorni del summit.
L’associazione Anziane per il clima è nata nel 2016, nel 2020 ha presentato il ricorso alla Corte di Strasburgo, con l’appoggio di Greenpeace Svizzera, e ieri ha ottenuto una vittoria che potrebbe influenzare le politiche sul clima in Svizzera e, in maniera indiretta, nel resto del mondo. All’inizio erano in 150, ora sono 2.500 in tutti i cantoni elvetici, con un’età media di 73 anni, ma è facile prevedere che nel futuro prossimo i numeri cresceranno ancora. «Il nostro lavoro è stato fondamentale per sensibilizzare la Svizzera e il mondo intero in merito al fatto che i cambiamenti climatici costituiscono la principale minaccia per i diritti umani», dicono.
L’iscrizione è consentita solo alle donne che hanno compiuto i 64 anni di età, perché «le anziane sono le vittime principali dei cambiamenti climatici» e non tutelarli, per loro, vuol dire violare un diritto umano. Secondo l’avvocato delle ricorrenti Jessica Simor, il caldo aumenta il rischio di problemi renali, provoca attacchi d’asma e disturbi cardiovascolari negli anziani, soprattutto fra le donne. Le statistiche parlano chiaro: tra il 1991 e il 2018 il 31 per cento delle morti registrate in Svizzera per le ondate di calore sono state attribuite alle conseguenze di cambiamenti climatici provocate da azioni umane e ad avere la peggio sono stati soprattutto bambini e donne anziane. Uno studio sull’impatto delle ondate di calore pubblicato nel 2022 da Environmental Health Perspectives dimostra che le ultrasettantacinquenni appartengono alla categoria più a rischio.
(il manifesto, 10 aprile 2024)
a cura di Laura Minguzzi
Ė accaduto non per caso. Un invito di Silvia Aonzo a partecipare a un Convegno, una tre giorni (8-9-10 dic.) nella scuola parentale di ispirazione montessoriana che lei sostiene, creata da Barbara Cerutti con altre mamme solo tre anni fa, dove entrambe insegnano come volontarie a un piccolo gruppo di bambini e bambine della Primaria. Titolo dell’incontro Archeosaperi femminili. Luogo dell’incontro, le sale di via San Dalmazio 24, del quartiere Lavagnola. Un progetto educativo CreAttiva in collaborazione con Comunità femminile di Cura ed Eredibibliotecadonne.
Venerdì pomeriggio, primo giorno dell’incontro è stato proiettato il film documentario Segni fuori dal tempo, sull’archeologa e linguista lituana, naturalizzata americana, Marija Gimbutas, che avvalendosi dell’innovativo metodo multidisciplinare ha ridisegnato il volto delle antiche civiltà matriarcali dell’antica Europa, poi invase tra il terzo e il quarto millennio a.C. dagli Indoeuropei. E fu l’inizio del patriarcato.
Io mi sono sentita profondamente in stretto legame con questa linea di ricerca fondata sull’origine della nostra storia, su una storia che fa leva e pone a suo fondamento l’orizzonte simbolico della madre. La storia è tempo e la memoria è madre della storia. È con l’invenzione linguistica e simbolica della pratica della storia vivente che noi della Comunità di storia vivente di Milano, con Marirì Martinengo, sua ideatrice (La voce del silenzio. Storia di Maria Massone, donna sottratta, 2005), abbiamo posto le basi di un nuovo inizio della narrazione storiografica. Un percorso di risignificazione o destoricizzazione, come si usa dire oggi, avvenuto rielaborando i nostri nodi irrisolti: le ferite reali o simboliche, che la storia patriarcale ci ha inferto per migliaia di anni. Fare di noi stesse documento storico è stata l’idea rivoluzionaria che ha permesso la svolta. Lo scavo in profondità dove il presente e il passato arcaico si collegano a partire da sé, dalla nostra esperienza svelata, nel contemporaneo, nel nostro tempo. Spezzando il tempo lineare incentrato sul maschile come valore dominante abbiamo posto al centro le nostre ferite obliate, rimosse, il rimosso della storia, nel mio caso, la tragedia della morte di mia madre quando avevo vent’anni. La mia orfanità è diventata nella Comunità di storia vivente da evento personale a evento storico universale, riletto in chiave politica tramite l’autocoscienza, come segno di una profonda trasformazione della storia italiana. La modernità violenta che negli anni sessanta ha trasformato l’economia italiana. Intendo la mutazione da paese agricolo a paese altamente industrializzato. Una società violentata. Questa risignificazione antropologica immessa nella narrazione storiografica è stata possibile grazie all’agire di un’autorità femminile che ha prodotto una modificazione dello sguardo interiore e un punto di vista differente. Dal 2006 al 2018, per tutti questi anni, ci siamo riunite in Libreria o a casa di qualcuna e insieme a partire dal racconto orale di ciascuna abbiamo portato alla luce il nodo irrisolto annidato nelle “viscere”, come scrive Marίa Zambrano, e con la pratica dell’autocoscienza, cui siamo debitrici, abbiamo rielaborato la nostra esperienza e abbiamo scritto e pubblicato i nostri racconti di Storia. Un debito di riconoscenza alle invenzioni del femminismo delle origini (alla pratica dell’autocoscienza, alla disparità, all’affidamento) e all’autorità di Marirì, che abbiamo riconosciuto perché ci ha permesso di crescere soggettivamente ed essere presenti nella vita pubblica. Figura di madre simbolica che ci ha portato a riscattare la madre reale. Per me la voce del silenzio è stata quella di Eva, mia madre. Abbiamo posto fine alla scissione cultura/natura, uno dei pilastri del patriarcato. Questi racconti di verità soggettiva, storie che fanno la Storia, testimoniano la fine del patriarcato nelle nostre menti. Esprimono la forza della parola, veritiera, indipendente perché fedele alla propria origine insieme alla gioia e al piacere della riappropriazione della propria storia, non in contrapposizione con l’altro, nel mio caso con mio fratello, negazionista climatico e anche incapace di fare i conti con la memoria. Anche lui è stato danneggiato dall’inconsapevolezza del ruolo che il patriarcato gli ha imposto e dalla legge patriarcale dell’oblio. Sono riuscita a fargli comprendere il valore della memoria e del pensare veramente a partire da sé. Anche nel piccolo gruppo esperienziale della domenica mattina ho sentito che veniva compresa dalle donne presenti la modalità innovativa della storia vivente e ognuna delle partecipanti ha individuato e raccontato un nodo della propria storia. Noi della Comunità di Milano dopo tredici anni di lavoro sulle parole, con le parole, in stretta relazione di fiducia, abbiamo pubblicato La Spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (2019). Nel titolo, suggerito da Marirì stessa, è sottesa la nostra pratica rivoluzionaria. La forma della spirale indica un percorso aperto, non dicotomico che, pur andando in profondità, essendo bidirezionale vola in alto e tocca la trascendenza e l’universale. Rappresenta la fine della storia sacrificale come scrive María Zambrano in Persona e democrazia. Fine della storia sacrificale, non è la fine della storia come predetto negli anni ottanta da alcuni storici e filosofi ma la fine della storia fatta e scritta da uomini, dal “cosiddetto” popolo eletto che fa la guerra per diffondere “la democrazia”, quella di impronta ateniese, che non prevede la libertà femminile. Libertà per le donne è libertà per tutti.
(puntodivista.libreriadelledonne.it, 9 aprile 2024)
di Davide Coppo
Nessun fenomeno sociale, negli ultimi anni, mi sta affascinando tanto quanto il mutamento del lavoro. Guardo con entusiasmo e speranza agli esperimenti di settimane lavorative di quattro giorni, osservo turbato le statistiche che hanno fatto poi parlare di “great resignation”, grandi dimissioni, e mi chiedo a cosa porteranno. Mi interesso a quell’altro fenomeno molto chiacchierato di questi anni, il “quiet quitting” [mantenere il proprio posto di lavoro facendo il minimo indispensabile e senza impegnarsi per avanzare], e per la prima volta nella mia vita sono riuscito a sperimentare qualcosa di simile a un’organizzazione, raccogliendo le opinioni e i desideri di molti colleghi e colleghe su come creare, al termine dell’emergenza sanitaria, un giusto bilanciamento del lavoro tra la casa e l’ufficio. Mentre mi adoperavo in quest’ultimo sforzo così nuovo mi accorgevo che tutti i fenomeni a cui guardavo con curiosità avevano una caratteristica comune: riguardavano la sfera dell’individuo, e mai quella del collettivo.
Negli anni in cui “attivismo” è diventata una parola per definire, nove volte su dieci, dei cialtroni che parlano di banalità arrabbiate davanti a un ringlight su Instagram, è appena uscito un libro che intende ribaltare la prospettiva, rimettere la parola in buona luce, e tornare a parlare di dimensione collettiva quando si parla di lavoro, senza self-help e altri automiglioramenti. Si chiama Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024) e l’ha scritto Irene Soave, scrittrice e giornalista per il Corriere della Sera. Contiene uno spettro veramente ampio di argomenti trattati: vigilanza, felicità, Sud e Nord, salute mentale e fisica, discriminazioni, ascensore sociale, gravidanze. Sarebbe stupido pretendere di farne un riassunto esaustivo in un articolo, e quindi posso dire che quello che unisce meglio tutti i capitoli è, nelle intenzioni della scrittrice o nei miei occhi, la necessità di ritrovare uno spirito di comunità e organizzazione tra lavoratori – o lavoratrici. La mancanza di questo senso di collettività, mi sembra, sta in tutte queste reazioni disordinate all’infelicità lavorativa che abbiamo scoperto durante il Covid, e che ha dato origine ai fenomeni di cui sopra.
Se il problema del lavoro è collettivo, dice Soave, la risposta non può essere individuale. Un esempio recente: la nascita del MeToo è una delle poche e rare risposte collettive a un problema (anche) lavorativo che abbiamo visto negli ultimi anni. Ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, ha spaventato chi deteneva e detiene il potere, ha anche dato il panico a centinaia di migliaia di uomini terrorizzati di perdere un privilegio che hanno sempre ritenuto diritto naturale. Soave traccia un filo rosso tra quell’hashtag e il Rapporto Hite, un celebre – appunto – rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 1976. Era basato su oltre tremila interviste a donne americane, e ne veniva fuori, in breve, che il piacere sessuale non era una cosa che molte donne provavano, e che la figura dell’uomo non era una conditio sine qua non per il raggiungimento dell’orgasmo. Anzi. «Il Rapporto Hite (…) ai lettori maschi diceva: state sbagliando tutto. Alle lettrici diceva una cosa più potente ancora: no, non succede solo a te». Sentirsi comunità. Il 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano scrive su Twitter: «Se sei stata molestata o aggredita sessualmente scrivi “me too” nelle risposte a questo tweet». Nelle prime dodici ore arrivano più di cinquecentomila risposte.
Un momento: ma questo è un libro che parla solo di lavoratrici, quindi? No: con una mossa audace, Soave usa un “femminile sovraesteso”. È quello che da sempre, in molte lingue, si fa con il maschile. Quello per cui scriviamo cose che si chiamano “Statuto dei lavoratori”, per esempio, per intendere tutti gli spettri di genere, o ancora diciamo “i cittadini”, “i consumatori”, “i clienti”, e così via. Risolvendo i problemi che escludono le lavoratrici, si legge, starebbero meglio tutti i lavoratori. Il maschile di solito si sovraestende per abitudine e pigrizia, per poca cura del femminile. Il femminile di Soave si estende per solidarietà e protezione: è una mantella per ripararsi tutti – e tutte – insieme dalla pioggia. E la pioggia sono le sofferenze di noi, lavoratori e lavoratrici in diversi modi insoddisfatti e infelici, aspiranti quiet quitter.
C’è un bel fraintendimento, nel significato profondo di quiet quitting. Che significa? È stato tradotto come “dimissioni silenziose”, una grande presa di consapevolezza – finalmente! leggevamo sui soliti New Yorker e New York Times e Guardian e così via – del fatto che così non va bene. Eppure non vuol dire lasciarlo per davvero, questo lavoro, pur se in silenzio e di nascosto. «No», scrive Soave, «significa che fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”. Anche farlo malvolentieri significa lo stesso lavorare».
Si è visto che al quiet quitting le aziende rispondono spesso con un “quiet firing”: impedendo alla lavoratrice (sovraestendo pure io) di avanzare, riducendole i compensi o i bonus, rendendole la vita più complicata. Quindi, molte quiet quitter hanno rinunciato, e sono tornare a lavorare come prima, più di prima. Questo succede perché il quiet quitting è un atto solitario, e privo di protezione. «Come tale», scrive ancora Irene Soave, «i suoi ritorni ma anche i suoi costi si scaricano tutti e solo su chi lo mette in pratica. Se a farlo fossero tanti si chiamerebbe, in italiano, stato di agitazione, o sciopero bianco».
La colpa di questa infelicità è talvolta di quelli che il filosofo David Graeber chiamava bullshit jobs. Chi lavora in campo creativo li conosce bene: Graeber parla addirittura di «violenza spirituale» per questi compiti senza regione, che generano un tipo di insoddisfazione e alienazione più profonda perché privi di una apparente logica. Così alienati, appunto, che non riusciamo a immaginare come uscirne. Ancora Soave: «Il nostro quiet quitting non è collettivo, e più che rivendicare è un ritirarsi, se per rivendicazione e collettività non intendiamo la condivisione di stories Instagram con lo slogan I don’t dream of labor […]. E a scioperare da soli, comunque, come si fa?».
C’è molta rassegnazione e nostalgia, e poca rabbia e concretezza, nel modo in cui ci rapportiamo al lavoro. Piagnucoliamo, e pensiamo commossi a quando credevamo di poter guadagnare i soldi dei nostri genitori. O ci commuoviamo ancora di più se ci ricordiamo della fine che hanno fatto i sogni di madri che immaginavano per le figlie una parità ormai prossima, un’indipendenza totale, e invece. Un mio amico dice sempre che il lavoro è normale che faccia schifo, altrimenti non ci pagherebbero per farlo. Soave la mette giù un po’ più epica, e ricorda che è dalla Genesi 3:19 che il lavoro è assegnato all’uomo come punizione divina. Ma se fa così schifo, che dobbiamo fare? Organizzarci un po’ di più, dice in fondo Lo statuto delle lavoratrici. E questa organizzazione passa in primo luogo dal conoscere un po’ meglio i propri diritti, doveri e confini.
C’è poi da dire che questo saggio ha la forza narrativa che libri simili di solito non hanno: è arricchito da una scrittura vivace e brillante, e costellato di storie di amiche ed esempi e pioniere, lavoratrici fortunate e sfortunate e altri casi di donne che lottano e spesso perdono e talvolta vincono, che mi sembra si potrebbero pure leggere come modelli di storie per “bambine ribelli” più ispirazionali e reali di una Chiara Ferragni o una Margaret Thatcher.
Questo Statuto è soprattutto un libro intelligente, quasi rivoluzionario: mi ha ricordato che si possono dire cose radicali senza gridare su Instagram, e che si può farlo con competenza e preparazione. C’è in fondo la storia di un dissidente bielorusso che dice una frase che diventa la scintilla da cui parte tutta questa operazione. Lui dice: «Se non puoi parlare al mondo, parla al Paese. Se non puoi parlare al Paese, parla alla città. Se non ti lasciano, ai quartieri. Se non ti sentono, ai vicini. Se i vicini sono delatori, tieni un diario, e un giorno a cambiare le cose sarà proprio quel diario. Se non cambia niente, scrivilo lo stesso». Soave l’ha scritto. Io penso sia un’ottima idea consigliarlo e regalarlo.
(RivistaStudio, 9 aprile 2024)
di Nicole Janigro
Frammenti incompiuti, aneddoti brevi, riflessioni teoriche, letteratura e poesia. Le improvvisazioni procedono per associazioni libere, la clinica poetica della psicoanalista Gohar Homayounpour piroetta al ritmo del blues. «Il blues è un genere legato alla depressione, al turbamento, alla sventura, al tradimento e alle sue ferite, al dolore e al rimpianto. Però guai a dimenticare che il blues è anche musica da ballo, un ballo scatenato che inneggia al piacere, al trasporto, all’umorismo e alla vita».
In Blues a Teheran. La psicoanalisi e il lutto, (Raffaello Cortina, 2024), il “doppio sguardo” di iraniana cittadina di molti mondi e la sua formazione poliglotta permettono all’autrice la spontaneità di un discorso aperto, di una riflessione teorica originale. Nelle interviste non vuole parlare dell’attualità, non vuole essere ridotta a espressione critica della situazione politica di un regime repressivo, crudele e spietato soprattutto nei confronti della popolazione femminile, proprio perché le donne sono da anni l’avanguardia delle proteste contro il regime islamico. Si fa guidare dalla bella espressione di Adam Phillips di “tirannia dello scopo”: l’illusione di sapere che cosa si vuole davvero va interrogata per sfuggire alla tirannia del consumismo, ma anche allo schematismo ideologico che vorrebbe restringere l’immagine della donna iraniana a vittima, oppure a una caricatura dell’erotismo orientalista.
Non solo il dolore è tale dappertutto, ma anche la tragedia di Edipo è, per Gorah Homayounpour, un copione che può funzionare a tutte le latitudini. La rilettura culturale del mito la porta alla figura di Shahrazād, l’archetipo della donna persiana, a tipi femminili del tutto scomparsi nelle rappresentazioni mainstream in Iran, che non parlano di amore, di donne che amano le donne, di donne che stanno sia con uomini che sia con donne, di donne che hanno l’amante ma non vogliono sposarsi.
«Presentare le donne iraniane come vittime significa adottare un’ottica riduzionista che ignora moltissime donne lavoratrici, donne che negli ultimi decenni sono state il volto della resistenza politica, donne che si sono prese cura delle loro famiglie in situazioni di migrazione, donne che hanno rifiutato di piegarsi alle leggi opprimenti che le cingono d’assedio, giovani donne perlopiù laureate. Quella visione riduzionista impedisce anche di vedere le donne castranti (e quindi uomini “evirati”) che popolano certe famiglie iraniane».
A partire da queste considerazioni Gohar Homayounpour sviluppa l’idea di una variante specifica del complesso d’Edipo. La sua lunga esperienza clinica la porta a concludere che, per molte ragazze iraniane, il grande oggetto d’amore rimane la madre. Generazioni di donne iraniane hanno vissuto in rapporto fusionale con la madre, che a sua volta era in simbiosi con la propria: la genealogia femminile è un collante fin troppo tenace. Per reazione, per difendersi da questo abbraccio materno che vuole le figlie tutte per sé, si va alla guerra fra donne, verso un territorio di morte attraversato da invidia, odio, aggressività. In questo spazio claustrofobico e chiuso non è facile far entrare un terzo, una funzione paterna/maschile. Anche perché questi uomini, accuditi dalle madri, snobbati dalle mogli e dai figli, si rifugiano in uno stato inerziale, oppure sfogano modo violento una frustrazione infinita.
Goran Homayounpour chiama “complesso di Shahrazād” questa ribellione alla legge del padre in una società retta dal diritto patriarcale. Ritornare all’archetipo di Shahrazād, andare alla sua ricerca, significa far risorgere le sue figlie, ritornare a narrare anche tutto ciò che fa ancora paura nelle Mille e una notte.
Nata a Parigi da genitori iraniani – suo padre ha tradotto in farsi i testi di Kundera e nel libro sono riprodotte le cartoline che si sono scambiati –, scopre per la prima volta Teheran da ragazzina. Poi ha vissuto in Canada e negli Stati Uniti, Boston è la città della sua formazione psicoanalitica, ma fa una scelta controcorrente e si trasferisce a Teheran. La sua esperienza di poliglotta nomade nutre un punto di vista critico su cosa capita quando un flusso si inverte. In Iran – che nel 1979 ha accolto tre milioni di afghani in fuga dalla guerra sovietica –, dopo le sanzioni imposte dal 2018 dagli Stati Uniti la situazione economica è così peggiorata che ora migliaia di afghani cercano di rientrare nel loro paese. L’autrice propone una prospettiva diversa da quella stereotipata del senso comune populista, secondo la quale gli arrivi sono sempre troppi, e la chiama “Migrazione a rovescio”. Quando accade agli esseri umani è «un indizio incontrovertibile: nulla prova in maniera più lampante che un paese o una città non sono più quelli di una volta. Se una persona mi lascia, analogamente, non posso non provare un sentimento di angoscia, perché vuol dire che anch’io mi sono esaurita, che non sono più quella di prima. Per questo l’abbandono disorienta». Quando arrivano gli altri diciamo che ci tolgono possibilità, ma quando se ne vanno? È la prova che noi siamo esauriti, che non abbiamo più risorse, mentre finché vogliono venire da noi significa che siamo vivi e vegeti. Vitali.
Docente di psicologia e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association, e in Italia della SPI, Gohar Homayounpour ha fondato nel 2007 il Freudian Group di Teheran. Un’associazione non riconosciuta né autorizzata dal governo, impossibilitata a rilasciare diplomi e certificati, tuttavia in affanno per le numerosissime richieste di adesione.
Proprio in un contesto dove pare impossibile eludere nella stanza d’analisi il discorso sociopolitico, «l’aspetto più grandioso della mia condizione di psicoanalista a Teheran è che posso fare psicoanalisi nella sua forma originaria, sovversiva, rivoluzionaria» – come possedere un terzo occhio, un terzo orecchio. Perché «la lingua dell’inconscio è la lingua del margine» che permette di intuire significati in un garbuglio di frasi smozzicate che emergono in una situazione di paura.
Nel suo testo precedente, Una psicoanalista a Teheran (Raffaello Cortina, 2013), anche questo censurato, raccontava che in Iran le era più facile identificarsi con ogni cosa e ogni persona, con una fatica emotiva molto maggiore in tutte le situazioni e così anche con i pazienti. «Mi sono ritrovata incapace di rifiutare una scatola di dolci che mi aveva portato un’anziana paziente. Inoltre, qui mi sento molto più a disagio nel parlare della mia parcella o quando invito i pazienti a prendere posto sul lettino o devo dire loro che il tempo della seduta è giunto a termine».
Vista da Teheran, la psicoanalisi le appare passata da un eccesso di frustrazione – una sorta di “prova” somministrata a ogni paziente – a un eccesso di cura. Il terapeuta, come certe “madri coccodrillo”, è oggi troppo preoccupato di lasciar cadere l’altro, come se questo fosse un neonato inerme, convinto di dover curare più con la sua presenza che con il suo pensiero. Una clinica dell’accudimento: i terapeuti stessi non riescono a credere nella necessità di una postura più paterna, meno claustrofilica, più indirizzata all’apertura all’esterno.
«Eppure (ma forse qui è in gioco una critica più generale della psicoanalisi contemporanea) ho l’impressione che tendiamo a dimenticare il contributo inestimabile dell’“assenza” allo sviluppo di una mente sana; a dimenticare che l’ansia da separazione riguarda spesso l’eccessiva vicinanza all’oggetto, dal quale temiamo di venire inghiottiti, il desiderio di allontanarci dall’oggetto, accompagnato dal terrore della sua potenziale vendicatività nel momento in cui quel desiderio venisse a manifestarsi».
La psicoanalisi si è fatta melanconica in una realtà condivisa con l’oggetto materno, dove il pensiero, la realtà del tempo e dello spazio risentono di una mancanza di interesse per il contesto collettivo.
All’inizio del libro Gohar Homayounpour riparte da Lutto e melanconia di Freud, anche nel ricordo di un lutto personale: lo strazio delle lacrime sul pavimento di un bagno quando viene raggiunta dalla notizia che il padre era morto mentre nuotava nel lago di Ginevra.
Ecco ancora il blu persiano che tiene lontano il malocchio, il blues che non erotizza ma trasforma la tristezza.
(Doppiozero, 8 aprile 2024)
di Daniela Padoan
“Dal latte materno veniamo” non deve essere consegnata alla clinica della maternità medicalizzata
In memoria della scultrice Vera Omodeo, scomparsa da pochi mesi, la famiglia ha offerto alla città di Milano una scultura in bronzo da lei realizzata negli anni Ottanta, dal titolo Dal latte materno veniamo. Si tratta di una figura femminile ad altezza naturale, i fianchi cinti da un peplo, il viso chinato a fissare con sguardo tenero e serio il bimbo che sta allattando. Ne è nato uno scandalo in un certo senso assonante con la pruderie che a fine Ottocento accolse il dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo, che notoriamente ritrae una vagina, transitato per la collezione privata di Jacques Lacan ed esposto al pubblico solo nel 1995 al Museo d’Orsay. Oggi è scandalosa non la sessualità ma la relazionalità del rapporto escludente tra madre e bambino, la cura che è nutrimento materiale e simbolico, la «lingua della nutrice» propria della donna che ci ha allattato e portato in braccio introducendoci alla vita, che Dante diceva necessaria a parlare di cose d’amore.
Tutto inizia con il parere negativo dato dalla commissione di esperti incaricata di valutare le proposte di collocazione di opere artistiche in spazi pubblici cittadini, un organismo introdotto nel 2015, ai tempi della giunta Pisapia, composto dai referenti della Commissione del paesaggio, della Soprintendenza di archeologia e belle arti, della Direzione cultura e dell’Area governo del territorio del Comune di Milano.
Un parere dato all’unanimità, si legge nel verbale della riunione tenuta in remoto lo scorso 5 marzo, in cui si è «discusso di come la scultura rappresenti valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico». Tanto da stabilire «che l’opera venga data in donazione a un Istituto privato (ad esempio un ospedale o un istituto religioso), all’interno del quale si maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con sfumature squisitamente religiose».
Due frasi che si è indotti a leggere più volte, nel dubbio di non aver capito. L’allattamento materno, la nostra origine dalla madre, sarebbero riferimenti religiosi, non universalmente condivisibili, tali da scoraggiare l’inserimento nello spazio pubblico?
Vale la pena soffermarsi sull’accaduto uscendo dalla cronaca e dal suo utilizzo politico – il prevedibile attacco delle destre a difesa di una maternità ipostatizzata e retriva, l’intervento riparatorio del sindaco Sala, purtroppo risolto in una proposta che sembra non cogliere la questione simbolica in gioco, con la collocazione dell’opera nei giardini della clinica ostetrica Mangiagalli, consegnando dunque Dal latte materno veniamo al luogo della nascita medicalizzata che recentemente il Corriere della Sera ha chiamato «la fabbrica dei neonati», addirittura come messaggio contro la denatalità.
L’unanimità su una simile decisione non sarebbe stata possibile se la commissione non fosse partecipe di una comunità, di una koinè di parlanti, di un humus culturale che impone di riflettere sul senso del materno in un mondo che sembra diventato cieco alla bellezza, alla gratuità del puro accadimento della nascita, quasi che a contenere la generatività femminile fosse l’abbraccio secolare della religione, oppure la produzione di maternità al di là della madre. Eppure la maternità è quanto di più umano, e di più animale, ci sia. Quanto di più legato alla vita. E la vita non è religione, la vita è vita. Se la possibilità femminile di dar vita si trasforma in politiche della nascita, in ideologie della nascita, in tecniche della nascita, mettendo tra parentesi il nostro essere carne, corpi, animali, il nostro mondo sarà sempre più mortifero, incapace di proteggere la vita, perché sarà derealizzata, anche quella dei più piccoli, anche sotto le bombe, o in mare.
Mamma gorilla con il suo piccolo in braccio ci appare umana. Non religiosa, semplicemente materna, e nostra simile. Nella promiscuità sessuale dei primordi della nostra specie, secondo il giurista e antropologo Johann Jakob Bachofen, la discendenza matrilineare sarebbe stata all’origine di una società di diritto materno in cui vigeva la comunità dei beni, ma con l’instaurarsi del patriarcato, dunque della proprietà e del diritto positivo, il potere della generatività è stato sottratto alla donna, lasciandole l’aspetto biologico della gravidanza e del parto. Cosa farne – cosa ne farebbe la commissione – delle Mater matuta etrusche, delle Pomone romane, delle Grandi madri neolitiche e paleolitiche, delle Pachamama andine, di tutte le sculture di dee protettrici della nascita? E del simbolico materno agito in politica, a cominciare dalle Madri argentine di Plaza de Mayo che, dicendosi madri di tutti i desaparecidos e facendosi luogo di quella maternità, seppero sconfiggere una giunta golpista tra le più criminali? Cosa rispondere alle sopravvissute di Auschwitz quando, nella loro testimonianza, alcune affermano che la maggiore forma di resistenza al nazifascismo sia stata mettere al mondo figli, proprio perché si intendeva cancellare dal mondo loro e tutta la loro schiatta?
L’assunzione del materno è diventata una categoria politica laica che riguarda uomini e donne, madri e non madri, che prevede maternità concrete e maternità simboliche, non necessariamente di figli ma di idee, progetti, mondo.
In piazza Duse, dove era stata in origine prevista la collocazione della scultura, in risposta al parere negativo della commissione è nato un flashmob di protesta: donne che allattavano, liberamente, giocosamente. Sarebbe un bel segnale se Dal latte materno veniamo fosse collocata nel cuore di Milano, nel verde, tra le persone, i bambini, i gatti, come un messaggio di vita, affermazione di forza femminile, consapevolezza della nostra realtà di corpi non astratti ma in relazione.
(La Stampa, 8 aprile 2024)
di Monica Ricci Sargentini
Olivia Maurel ha 32 anni, i capelli lunghi neri, un viso solare e un sorriso aperto. Ma la sua vita non è stata sempre rosa e fiori, quando aveva 17 anni ha capito di essere stata concepita attraverso la maternità surrogata e soltanto due anni fa ha avuto la prova definitiva che i suoi genitori avevano pagato una donna in Kentucky per portare avanti la gravidanza con i suoi stessi ovuli, quello che si chiama una surrogata tradizionale. Una scoperta che le ha creato gravi problemi psichici tanto da arrivare a tentare il suicidio. Oggi Olivia, che vive a Cannes in Francia, si batte con tutte le sue forze per l’abolizione universale della pratica ed è stata tra le promotrici della Dichiarazione di Casablanca, firmata nel marzo dell’anno scorso da 100 tra medici, giuristi, psicologi e sociologi di 75 nazionalità per arrivare a vietare la gestazione per altri in tutto il mondo come è accaduto per le mutilazioni genitali femminili. Ieri mattina Maurel è stata ricevuta dal Papa in Vaticano cui aveva scritto una lettera accorata. Oggi e domani all’Università Lumsa si svolgerà la Conferenza Internazionale di Roma sull’abolizione della maternità surrogata.
Ha incontrato il Papa, è stato emozionante?
«Voglio mettere in chiaro che io sono atea e femminista. E l’ho detto anche a lui. Per me è stato un po’ come incontrare un capo di Stato, lui è stato molto amichevole e simpatico. Abbiamo anche riso tanto. Ha detto e ripetuto più volte che la maternità surrogata è un mercato di donne e bambini. E poi mi ha parlato di come durante la gravidanza avviene uno scambio reciproco tra gestante e bambino, le cellule fetali entrano nella circolazione materna e le cellule materne entrano nella circolazione fetale. Mi ha colpito che sapesse questo, non succede tutti i giorni che le persone importanti siano così preparate. Per il Papa è sacrosanta la nostra battaglia per arrivare a definire la maternità surrogata reato universale».
Quando ha realizzato di essere nata attraverso una madre surrogata?
«Ho sempre saputo che c’era qualcosa che non andava: non avevo foto della mia nascita, mia madre era più grande delle altre madri. I miei genitori non me l’hanno mai detto ma io avevo comunque tanti segnali. Poi a 17 anni ho iniziato a fare qualche ricerca e ho visto che nel 1991, anno della mia nascita, la maternità surrogata era legale in Kentucky, dove sono nata. Allora qualcosa è scattato nella mia testa. E poi ho cominciato a parlarne apertamente ma non con miei genitori. Ma la prova l’ho avuta quando avevo 30 anni con il test del Dna che mi aveva regalato mia suocera. Ed è così che l’ho scoperto».
Perché non l’ha mai detto ai suoi genitori?
«Perché c’è un conflitto di lealtà, loro hanno fatto di tutto per averti, non vuoi andare loro contro quindi non gliene parli. Tutti i figli avuti tramite madre surrogata con cui sono in contatto fanno lo stesso. Non vogliamo ferire le persone che amiamo. Non ce l’ho con i miei genitori ma con le leggi che permettono questo commercio. Perché se fosse vietato il mercato non esisterebbe. Non ci sarebbe questo ignobile giro di denaro».
Lei ha avuto problemi psicologici a causa di come è venuta al mondo?
«Depressione, alcolismo, droghe, tentativi di suicidio. Ne ho passate di tutti i colori. Ancora oggi che ho un marito e tre figli sono seguita da uno psicanalista. Ho dovuto affrontare i problemi di identità causati dal fatto di non conoscere le mie origini. È importante sapere da dove vieni. Oggi con la maternità surrogata finisci con l’avere tre madri: quella che porta avanti la gravidanza, quella che ha venduto i suoi ovuli e la madre che ti ha cresciuto. È orribile».
Come hanno preso i suoi genitori questo suo attivismo contro la surrogata?
«All’inizio li ho persi, hanno pensato che ce l’avessi con loro e non con il sistema. Ancora oggi non ci parliamo ma sono in contatto con mio marito e conoscono, naturalmente, i bambini. Ma ora capiscono perché lo faccio. È una missione che compio per puro spirito altruistico, non sono di certo pagata. Io e mio marito abbiamo un solo stipendio, tre figli, e copriamo tutte le spese. Perché crediamo sia giusto».
C’è chi dice che è un gesto di altruismo, di amore verso chi non può avere figli.
«La ragione principale per cui sono contro la maternità surrogata è che i bambini non possono essere comprati. È contro qualsiasi principio etico. Io capisco che ci siano persone che soffrono di infertilità e che desiderano avere un bambino. Le capisco, so quanto sia difficile. Ma non è che siccome tu hai un desiderio devi calpestare i diritti delle donne e dei bambini. Non è un diritto avere un figlio».
C’è un’associazione che si batte a favore della legalizzazione che presenta la storia di due donne, nate da maternità surrogata che sono felici. Cosa risponde loro?
«C’è la libertà di espressione per fortuna e mi piacerebbe discutere serenamente con loro. Io ho sentito storie terribili di madri e di bambini . Se ci sono persone che, invece, sono felici sono contenta per loro ma questo non giustifica la pratica. Voglio dire anche durante la schiavitù potevi incontrare schiavi felici ma a un certo punto abbiamo detto: no questo è sbagliato. Non è etico. Eppure ancora oggi ci sono 36 milioni di schiavi nel mondo. La surrogazione di maternità non sarà mai etica perché sfrutta la donna e mercifica il bambino. Poi ti dicono che lo fanno donne benestanti ma non è vero. È solo la propaganda del mercato che cerca di dire: “È tutto bellissimo, perfetto e buono”».
La tesi è che se venisse regolato non ci sarebbero abusi.
«Ma non è vero. Guardi la Grecia che si vantava di avere una legge a prova di abusi e ha dovuto chiudere un’agenzia che aveva trafficato 160 donne. Non fermiamoci alle immagini che ci propinano sui social media. Ci fanno vedere solo il lato bello ma hanno comprato un bambino. Guardiamo a quello che succede in Ucraina, in Nigeria, in Kenya».
Cosa pensa della legge che sta per essere approvata in via definitiva in Italia?
«Penso che sia fantastica. Va perseguito il reato compiuto all’estero, è lo stesso problema che abbiamo in Francia. Tornano con il bambino in braccio e mettono lo Stato davanti al fatto compiuto. Non è così che si fa. Quindi la legge italiana è un ottimo punto di partenza ma l’obiettivo è il bando universale».
Lei due settimane fa era alle Nazioni Unite. A che punto è la battaglia per il bando universale?
«Sì ho parlato a un evento all’Onu e lo considero un passo avanti. Certo siamo solo all’inizio ma bisogna continuare a lottare come è successo per la schiavitù, anche se non voglio comparare le due cose. Dobbiamo parlare con la gente e spiegare loro cosa è la maternità surrogata, cosa significa affittare il corpo di una donna e comprare un bambino. Una volta che mostri i contratti, che parli della realtà la gente capisce. Perché le madri surrogate non possono parlare, rischiano una causa, dobbiamo parlare noi».
(Corriere della Sera – La 27esima ora, 5 aprile 2024)
di Antonella Nappi
Io partecipo alla politica istituzionale per avere la possibilità di votare contro la guerra alle elezioni europee. Da due anni la aspetto, nel sito c’è il mio articolo: Possiamo votare contro la guerra? Due anni fa tra i partiti c’era il totale silenziatore generale. Forse ora potremo, se non credete alle false imitazioni.
Al link http://paceterradignita.it ci sono tutti i luoghi dove firmare con il notaio.
A Milano: Banchetti Nord ovest - Pace Terra Dignità (paceterradignita.it)
(paceterradignita.it, 5 aprile 2024)
di Ben Arad*
Mi chiamo Ben Arad, ho diciotto anni e mi rifiuto di arruolarmi nell’IDF. Mi oppongo alle uccisioni insensate, alla scelta di far morire di fame e malattie e al sacrificio di soldati, civili e ostaggi per una guerra che non può e non vuole raggiungere gli obiettivi dichiarati e che potrebbe degenerare in una guerra regionale. Per queste e altre ragioni, mi rifiuto di arruolarmi.
Non prenderò parte a una guerra di vendetta, che causa solo distruzione e non darà sicurezza ai cittadini di Israele.
«Se tutto ciò che hai è un martello, tutto sembra un chiodo». – Penso sempre a questa frase quando considero il comportamento di Israele dall’inizio della guerra. L’unico strumento che conosciamo è quello militare. Pertanto, la soluzione a ogni problema deve essere militare.
Ma la nostra strategia di deterrenza non si è dimostrata efficace. Il terrorismo non si può fermare con le minacce, perché i terroristi non hanno molto da perdere. Inoltre, l’uccisione senza precedenti di civili innocenti a Gaza, la fame, la malattia e la distruzione di proprietà non fanno che alimentare la fiamma dell’odio e del terrore di Hamas; prima o poi, pagheremo per il dolore dei palestinesi.
Il 7 ottobre, Israele si è svegliato con un attacco brutale mai visto prima. Bambini, donne e anziani sono stati vittime di atrocità che nessuno dovrebbe subire. La barbarie e la crudeltà dell’attacco avrebbero dovuto sradicare ogni speranza di pace e di un futuro condiviso. L’impatto del 7 ottobre sul popolo di Israele è ancora immenso, soprattutto perché più di 130 ostaggi sono ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza.
Da quel sabato, Israele ha condotto una campagna omicida senza precedenti, non solo contro Hamas, ma anche contro l’intero popolo palestinese. A Gaza si contano più di 30.000 morti, di cui si stima che il 70% siano donne e bambini. Ogni giorno, i funzionari israeliani minacciano un’offensiva di terra a Rafah, dove si sono rifugiati più di 1,5 milioni di palestinesi. L’ingresso di Israele a Rafah causerà la morte di decine o centinaia di soldati israeliani e di migliaia o decine di migliaia di palestinesi. Metterà in pericolo la vita degli ostaggi e farà aumentare in modo significativo i combattimenti con Hezbollah in Libano.
E per cosa? Cosa si ottiene con questi combattimenti? La guerra non riporterà indietro gli ostaggi. Non resusciterà i morti. Non libererà gli abitanti di Gaza da Hamas e non porterà alla pace. È vero il contrario: i combattimenti continueranno a uccidere ostaggi, metteranno in pericolo altri ebrei e palestinesi, perpetueranno il dominio delle organizzazioni terroristiche a Gaza e garantiranno che non ci sarà un orizzonte di pace.
L’opinione pubblica israeliana si trova di fronte a una scelta: mantenere l’attuale ciclo di violenza e sostenere una realtà di distruzione che approfondirà l’odio e creerà un’escalation su tutti i fronti, oppure scegliere un’altra strada, basata sulla sacralità della vita, in cui smettere di mandare persone bellissime a essere uccise o ferite in orribili battaglie. Potremmo garantire il ritorno di tutti gli ostaggi ancora in vita, fermare le uccisioni insensate a Gaza, condannare la violenza dei coloni in Cisgiordania e impedire lo scoppio di un’altra guerra contro Hezbollah e l’Asse della Resistenza?
L’opinione pubblica siamo noi. Abbiamo un grande potere che i governi e le organizzazioni corrotte che ci rappresentano non hanno. Pertanto, la spinta al cambiamento deve venire da noi. Possiamo muoverci verso la pace solo attraverso un movimento sociale intransigente che si impegni per la comunicazione e la de-escalation. Dobbiamo sempre usare il pensiero critico, guardare al quadro generale e lottare per la pace, l’uguaglianza e la verità.
(*) Ben Arad, diciottenne di Ramat Hasharon, è arrivato questa mattina al campo di arruolamento di Tel Hashomer e ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito israeliano per protesta contro la guerra a Gaza. È stato condannato a 20 giorni di prigione militare, che dovrebbero essere prolungati quando rifiuterà nuovamente l’arruolamento. Arad si unirà a Tal Mitnick e Sofia Orr, che stanno scontando pene rispettivamente di 105 e 40 giorni per il loro rifiuto. Ben Arad ha deciso di rifiutare l’arruolamento a causa della guerra a Gaza. Il gesto di Tal Mitnick gli ha dimostrato che è utile rifiutare pubblicamente.
(l’Unità, 4 aprile 2024)
di Ida Dominijanni
Nel 2008 Judith Butler pubblicò un libro, intitolato Frames of war e mai tradotto in italiano, in cui approfondiva le questioni relative alle guerre del dopo-11 settembre già affrontate in Vite precarie. La tesi di Frames of war era – è, quel libro va riletto oggi – che c’erano dei quadri interpretativi sottostanti alle pratiche e alle ideologie delle guerre contro il terrorismo, e che questi quadri interpretativi riguardavano sostanzialmente una gerarchizzazione dell’umano su base razziale, per cui certe vite contano e certe altre non contano niente. Quelle tesi, allora pionieristiche, sono diventate nel frattempo alquanto diffuse grazie allo slogan “Black lives matter”, ma soprattutto risultano molto facilmente verificabili nel regime di guerra in cui viviamo oggi. A proposito del quale c’è chi, nel mainstream guerrafondaio, va lamentando un presunto “doppio standard” dei pacifisti, che sarebbero – saremmo – zelanti nel condannare l’aggressore quando è Netanyahu ma non quando è Putin. La strage efferata dei 7 disgraziati volontari della Ong americana a Gaza mi dà l’occasione per replicare sommessamente che in compenso nel mainstream lo standard è assolutamente unitario, ed è uno standard razzista, per cui ci vogliono 7 vittime “accidentali” e occidentali perché si realizzi quello che 30.000 e passa vittime palestinesi non sono state sufficienti a far realizzare, e cioè che quello che sta accadendo a Gaza è aldilà di qualunque livello minimo di civiltà e di accettabilità. E vale lo stesso per la guerra d’Ucraina, dove i morti russi non sono mai, mai entrati nel conto perché considerati meno occidentali o meno occidentalizzabili, e dunque meno umani, degli ucraini. Non so quanto dovremo ancora aspettare prima che appaia chiara la débâcle dei tanto sbandierati valori europei e occidentali in questa situazione. Perché, guardate, è proprio una débâcle.
(Facebook, 4 aprile 2024
di Giovanna Cifoletti*
È arrivato il tempo del punto di vista femminile: «sia noi che loro», parte dei tre punti essenziali per costruire un dialogo “binazionale” verso un’azione di pace
Il senato accademico dell’Università di Torino ha accolto la richiesta di studenti e professori di non partecipare al bando Maeci 2024 (di collaborazione scientifica per progetti di elettronica dual use con università israeliane). La mozione di studenti e professori richiedeva questa rinuncia al bando per protestare contro l’“educidio” in corso nella striscia di Gaza. La decisione è stata presa democraticamente, quindi gridare immediatamente allo scandalo non sembra comunque appropriato: se ci fosse solo una decisione accettabile la riunione del senato accademico sarebbe puramente formale. Inoltre, contrariamente a quanto viene detto, questo non interrompe tutte le collaborazioni con Israele. La decisione stessa non si può ridurre a un boicottaggio accademico, poiché il bando è stato concepito dal governo, non dalle università: comunque è un’occasione di riflessione su come gli scambi scientifici possano e debbano svolgere la loro missione di reciproco arricchimento culturale e scientifico, ma anche di pace. Infatti il punto del mantenere gli scambi universitari non è di permettere ai professori e agli studenti di andare avanti come se niente fosse in mezzo alle guerre: questo gli studenti non lo accetteranno mai, e per fortuna. Si tratta piuttosto di conservare uno spazio di dialogo, o almeno di non belligeranza e di controversia civile anche in mezzo a tali vicissitudini. Ma preservare il dialogo e la pace è una vera e propria azione, che si può articolare almeno in tre punti.
Il primo puntoè considerare gli scambi di ricerca, individuali e tra università, privilegiando il criterio del dialogo. Nel caso di Israele e della Palestina, una terra con due popoli, gli scambi si devono avere con ambedue i popoli: come scrivono i professori torinesi che volevano partecipare al bando Maeci, «le università sono ovunque luoghi e cenacoli di pensiero critico». Concretamente ciò significa che se si hanno scambi con l’università di Tel Aviv o Haifa se ne cerchino anche con Bir Zeit o Al Quds, cioè con una delle quindici università in Cisgiordania o una delle undici università di Gaza. Solo questo permette di capire come vivano gli uni e gli altri. Nella mia esperienza, avere scambi con università israeliane è facile, mentre le condizioni dei ricercatori palestinesi sono radicalmente cambiate dopo il 2000. Alcuni colleghi palestinesi di Al Quds sono dovuti emigrare da Ramallah al Canada, o non hanno potuto muoversi perché apolidi, mentre altri sono a Gaza attualmente senza contatti e possiamo solo sperare che stiano bene, poiché tutte le università sono state bombardate. Se teniamo veramente alla cooperazione e al dialogo con gli abitanti di quella terra, malgrado queste difficoltà, dobbiamo coltivare il dialogo binazionale, secondo l’espressione degli attivisti sul posto. I gruppi di attivisti della pace sono tra israeliani e palestinesi dei territori occupati e non solo con “arabi israeliani”, i soli che possono iscriversi alle università israeliane. Sono costituiti da persone in lutto per figli e parenti o da disertori. Hanno imparato che non si tratta di stabilire colpe, ma di incontrare delle persone e di lavorare su ciò che si ha in comune. Le gare a chi ha sofferto di più o il “o noi o loro” non possono portare che ad altri lutti e a vite segnate dal dolore e dall’incertezza. Le maggioranze dei due popoli sono contrarie alle politiche dei due governi. È arrivato il tempo del punto di vista femminile: “sia noi che loro”. Intendo dire il punto di vista che in genere hanno le donne nella società, o quello che hanno scelto le donne del Rwanda quando la guerra tra tutsi e hutu aveva decimato i maschi. Anche con noi italiani, solo il dialogo binazionale di Israele e Palestina è dialogo a pieno titolo, che rafforza la parte migliore del popolo israeliano e di quello palestinese e contribuisce alla pace. E noi, tanto più come popolo mediterraneo, abbiamo un ruolo da giocare a questo livello. Per la formazione universitaria completa è sempre stato necessario andare a conoscere modi di studiare e contenuti diversi, la peregrinatio studiorum. In questo senso gli scambi con le università israeliane sono da raccomandare, se sono legali.
Il secondo punto dell’azione di pace sarà quindi verificare la legalità di questi accordi. Gli accordi con università israeliane costruite negli insediamenti in Cisgiordania sono illegali quanto gli insediamenti stessi. Questo è il caso di alcuni nuovi campuses dell’Università di Gerusalemme a Gerusalemme Est e certamente dell’università Ariel. Università statali italiane non devono avere contratti di scambi scientifici con istituzioni illegali, e se questo accade ancora dovrebbe essere evitato.
Analogamente, e questo sarà il terzo punto dell’azione di pace, si può ragionare per quanto riguarda gli scambi scientifici e tecnologici a scopo bellico, o ricerche dual use. In questi giorni il CNR ha elaborato delle linee guida che vanno in questo senso, pur mantenendo il principio della contrarietà al boicottaggio. Infatti, non collaborare sul piano bellico non significa essere nemici o non amici di Israele, ma semplicemente non partecipare alle sue guerre, né alle guerre di altri, proprio in coerenza con l’intento di preservare le università e la ricerca come spazi di dialogo.
Boicottare le università israeliane è ancora un altro livello di politica, non implicato dai punti dell’azione di pace descritta sopra. Il dialogo deve permetterci di esprimere pareri diversi, insegnarci a tollerare; a sopportare anche differenze radicali. Voglio ancora sperare che ciò sia possibile, idealmente gli studenti dovrebbero poter assistere a un dibattito tra esponenti del governo israeliano ed esponenti di Hamas. Meno bombe e più parole: la parola è prioritaria. Certo, questo presuppone la volontà di ascoltare le due ragioni e addirittura di trovare una soluzione che ne tenga conto. Dall’assassinio di Rabin la politica non ha espresso questa volontà. Speriamo che questo nuovo incendio sia l’occasione del cambiamento. In caso contrario si potrà ricorrere al mezzo non violento del boicottaggio, ma solo come extrema ratio, come mezzo per creare le condizioni del dialogo, e forse l’università non è il luogo più indicato, proprio perché è fatta per discutere.
(*) dei Disarmisti esigenti
(Noi donne, 2 aprile 2024)
di Redazione F.Q.
Utilizzare i termini al maschile non è né neutro, né neutrale. Così il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha voluto ribaltare la prospettiva. La presidente, la rettrice, la segretaria, le professoresse, la candidata, la decana: tutto al femminile. È quanto prevede il nuovo Regolamento generale di ateneo che in un comma introdotto all’articolo 1 specifica che «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone», quindi anche quando riguardano degli uomini.
A spiegare la genesi è stato il rettore Flavio Deflorian (o meglio, la rettrice per il nuovo regolamento). Tutto nasce dalla necessità di evitare di appesantire il documento specificando i termini, in tutti i passaggi, sia al maschile che al femminile: da qui è arrivata la decisione, per rendere tutto più fluido, di declinare tutto su un unico genere. E la scelta però è ricaduta per la prima volta su una bozza con «femminile sovraesteso» per «mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione». «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso», racconta Flavio Deflorian: «Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni». Un “segnale” che il cda ha approvato all’unanimità.
(Il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2022)
di Clelia Mori
Al netto della millenaria mitologica voglia maschile di non dipendere dalle donne per nascere, ancora oggi ben rappresentata dalla tecnologia riproduttiva che cancella la relazione tra chi sta diventando madre e chi sta diventando bambino/a e il loro futuro, quanto conta per gli uomini non poter partorire, non avere questo sapere corporeo quando decidono di fare la guerra? Cosa è per gli uomini la vita e la morte, e quanto spazio ha nel loro vivere la nascita e la morte? Me lo sto chiedendo da un po’ e so che non c’è una risposta perché questa relazione è un tabù, per le donne che spaventate dal patriarcato non sanno valorizzare il loro potere e per gli uomini che non vogliono interrogarsi e preferiscono inventare.
Ho appena letto l’interessante libro di Rosella Prezzo Trame di nascita sull’importanza della nascita, i suoi miti maschili, la morte, gli uomini e le donne e dal 2015 lavoro come artista sulla sapienza del far nascere del corpo femminile, la sua preziosità. Da tempo, penso che la nascita e la morte siano viste, sentite, valutate in modo differente tra uomini e donne. Lo stesso vivere e sentire la vita, persino l’amare credo siano diversi tra maschi e femmine e penso che questa differenza incida nello stare e nel fare mondo anche nei confronti della guerra. I femminicidi sono un macabro esempio dell’invenzione maschile del far morire con qualsiasi arma, anche davanti ai propri figli/e. È la forza fisica a far muovere le armi, e le armi unite alla forza “virile” sono all’origine della guerra. Non si può dire non mi riguarda, io non la faccio la guerra. Chi non la fa si chiede meno di quello che potrebbe e forse dovrebbe. C’è un velato e inconscio sentire maschile non detto: come se la guerra cadesse dall’alto e fosse un atroce invisibile volere divino, e questo non detto accomuna i sessi nell’esercizio del potere e nel desiderio di allontanare da sé qualsiasi responsabilità, convincendo chi vota che lo fanno per la democrazia o per il potere da restaurare nel paese. Non vogliono colpe nelle mortali tragedie che creano, incapaci della relazione con l’altro e della necessità della mediazione costante nell’orizzonte prezioso del limite. Quando aspetti che i nove mesi della gravidanza si concludano con la nascita sai che quello è il limite per far nascere la vita, e vuoi dare la vita, allora medi su tutto fino a immobilizzarti se serve. Io l’ho fatto e non sarò stata l’unica. È un lavoro di tessitura continuo sul limite, quotidiano, ora per ora, di cura e attenzione che gli uomini non sembrano portati a fare; non ne hanno bisogno, non fanno nascere. E lì nella tessitura tra un corpo che cresce e l’altro che lo fa crescere dentro di sé, nasce la relazione con l’altro o l’altra uguale a te. Non è così per gli uomini.
Gli uomini della guerra e gli altri che non si interrogano sembrano non sapere cosa sia la relazione tra umani e umane, addirittura anche tra loro stessi, all’interno del loro stesso sesso visto che usano ancora la guerra per risolvere le insidie che si coltivano l’un l’altro. Avendo rinnegato fin dai miti il nascere da donna, non sono in grado di capire fino in fondo come ci si relaziona con l’altro e l’altra, anche se nati da donna e sembra proprio non vogliano riconoscere questa nascita per allontanare una verità disturbante sul potere reale. Non hanno mai fatto spazio a un altro/a nel loro corpo, non l’hanno mai sentito/a crescere nel grembo, non hanno mai respirato anche per lui o lei, non gli hanno mai parlato senza parole perché non servivano dentro di te, e non l’hanno mai partorito/a. Non hanno mai costruito il tempo dell’umanità col loro corpo mettendo al mondo, o saputo cosa voglia dire far nascere aspettando il tempo che serve, finché un altro/a possa, dentro di te, essere in grado di venire alla luce e poi metterlo/a nel mondo e farlo diventare negli anni una persona adulta. Non un soldato, non un uomo armato. Non gli viene in mente alle future madri.
Queste relazioni particolari non fanno parte del bagaglio di vita maschile, a qualsiasi ideologia si rivolgano, e la guerra lo rende perfettamente visibile. Il corpo maschile non aiuta gli uomini a capire la vita, non può, non è fatto per far nascere ma solo per contribuire al concepimento insieme alla donna, come invece fa il corpo delle donne che nelle sue trasformazioni le aiuta a capire come far vivere, a come privilegiare la vita sulla morte. Una vita che va vissuta tutta intera prima di morire, che accadrà quando sarà ora per il tempo che si è avuto in dote. Senza che qualcuno armato o dietro una scrivania o davanti a un microfono si senta in diritto di dare o far dare in anticipo la morte: per prepotenza, aggressività, onnipotenza, senso di proprietà, arretratezza emotiva. Primitività?
Comunque gli uomini del potere rilanciano sempre, come con le palline da tennis, su tutto, in un atto di “virilità” costante anche se ci sono le armi nucleari. Tutto gli perde di senso quando si attaccano alle ideologie e la vita degli altri non conta più. Conta solo la tua, vissuta da arcaico patriarca aspettando da millenni la morte come non ci fosse mai stata una nascita da vivere prima di morire.
Agli uomini, sul nascere, è richiesto un lavoro intellettuale raffinato dal loro corpo che non li aiuta a sentire il farsi della vita, come fa modificandosi quello delle donne, per provare a capire che vuol dire, visto l’esiguo rapporto fisico che intrattengono con la nascita. Una raffinatezza cerebrale che però non fanno o fanno male o superficialmente; preferiscono dare per scontate troppe cose della vita e non le sanno e non vogliono saperle. Le femministe e anche alcuni uomini più illuminati dicono per invidia del potere sulla vita delle donne. Io non lo so di preciso, ma spero intensamente che non sia una questione biologica e sia davvero solo invidia perché forse così rimane aperta una possibilità di incontro che ci possa salvare dall’uomo armato (e dalle forze armate). Solo un uomo, un capo religioso importante e particolare, differente dagli altri uomini: Papa Francesco, ha ragionato sul nascere da donna il primo gennaio 2020 nella sua omelia Nato da donna dove finalmente cita l’importanza del grembo delle donne, mai vista, tranne in Piero della Francesca, nella rappresentazione artistica ufficiale della Natività, salvando, mettendo in luce il grembo di tutte noi insieme a quello di Maria. Ma gli uomini della guerra non lo ascoltano, men che meno quando implora la pace per vivere. Sapranno gli uomini guardarsi dentro diversamente da come lo fanno oggi, sapranno salvare le loro e le nostre vite mettendosi all’ascolto di chi sa far nascere per imparare il valore del vivere? Cominciamo a dirglielo. Per iniziare a mettere fine alle guerre imparando ad ascoltare e a guardare, ma non il loro ombelico.
(www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2024)
di Barbara Uglietti
Yael Deckelbaum, 44 anni, nata a Gerusalemme, è una cantautrice e attivista israeliano-canadese. Si è esibita sullo stesso palco con artisti come Suzanne Vega e Chris Cornell. Nel 2016, la sua canzone“Prayer Of The Mothers”, scritta per sostenere Women Wage Peace – il movimento pacifista fondato da donne israeliane, tra cui l’attivista Vivian Silver, uccisa da Hamas il 7 ottobre nel suo kibbutz Be’eri – è diventata un inno internazionale per la pace in tutto il mondo. È attualmente impegnata in un solo-tour in Europa. È la sesta testimonial della campagna di Avvenire #donneperlapace: per scoprire tutto sul progetto e su quello che ci proponiamo,clicca qui. E per ascoltare una delle sue canzoni più celebri,guarda questo video di Avvenire.
Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».
Partiamo dall’inizio, allora: il 7 ottobre.
No: cominciamo dal 4 ottobre, perché è lì che colloco il mio “inizio”. Tre giorni prima del massacro, ero a un evento di Women Wage Peace (movimento pacifista fondato da donne israeliane) e Women of the Sun (gruppo pacifista di donne palestinesi) a Gerusalemme e sul Mar Morto. La sera ho suonato sul palco “Prayer Of The Mothers”, una canzone in cui tutte, israeliane e palestinesi, potevano riconoscersi. Eravamo migliaia, insieme, unite dallo stesso desiderio di crescere i nostri figli in pace. Sembrava tutto così “possibile”. Tre giorni dopo ho preso un volo per la Germania: avevo un concerto. Mi sono svegliata la mattina del 7 ottobre con la notizia della strage. Dovevamo suonare, la sera. Lo staff aveva sistemato all’ingresso un grande cartellone con il mio nome, il mio volto, la data e una scritta che richiamava il titolo di una mia canzone: “October 7th – War Is Not A Woman’s Game”, (7 ottobre – La guerra non è un gioco da donne). Ironico, no? Noi eravamo lì, sotto choc, a fare e rifare il numero di amici che non rispondevano più al cellulare. Ci hanno proposto di annullare l’evento. Abbiamo detto di no. Poi ci siamo messe in collegamento con alcune amiche arabe. Abbiamo cercato, insieme, di capire l’incomprensibile.
Ci siete riuscite?
Francamente, no. Ero completamente distrutta. Non potevo parlare, nemmeno pensare. Poi è successo qualcosa: una delle persone a me più vicine, Michal Halev, il cui unico figlio, Laor Avramov, è stato assassinato al Nova Festival, sebbene sopraffatta da un dolore insopportabile ha lanciato un appello a guarirci a vicenda invece di ferirci ancora e ancora. Ha chiesto di farlo affinché altre mamme non dovessero soffrire come stava soffrendo lei. Mi ha indicato una strada.
Cosa prova quando vede le immagini di Gaza?
Mi sento male. Terribilmente male. E impotente di fronte a tanto dolore. Mi si spezza il cuore: il mio cuore è davvero diviso in due. Ho persone della mia famiglia nell’esercito, persone che amo profondamente: sono soldati delle Forze di Difesa israeliane, stanno combattendo là dentro. So cosa sta succedendo a Gaza. Quello che non so è come tutti noi, israeliani e palestinesi, si sia potuti arrivare a un punto così basso. Capisco che il Paese in cui sono cresciuta è stato costruito sul trauma di migliaia di anni di persecuzione. Il 7 ottobre c’è stato un pogrom contro bambini, uomini, donne, anziani, arabi, soldati e pacifisti. I terroristi non hanno fatto alcuna differenza. Poi sono arrivati gli attacchi dall’esterno: quelli di un mondo che ha rapidamente dimenticato ciò che Hamas ha fatto, o non lo ha dimenticato affatto e lo giustifica. La gente ha cominciato a dividersi, scegliendo una parte piuttosto che un’altra. Mi sono chiesta a lungo a quale “fronte” appartenessi. Poi ho accettato l’idea che le cose sono molto più complicate di così, che non esiste il bianco e il nero. Che ognuno, ogni singola persona, ogni singolo giorno, deve trovare il proprio ruolo.
Qual è il suo?
Sono una pacifista, in un tempo in cui la maggior parte delle persone crede che l’unica alternativa sia la guerra, perché ormai hanno mille prove che non abbiamo partner per la pace. Inizierò da qui. Dalle storie individuali. Mentre nel quadro ampio vedo una sola prospettiva possibile: la soluzione dei Due Stati, che però nessuna delle due leadership – né la nostra, né la loro – vuole veramente. Il governo Netanyahu non lavora per il bene di Israele: il 7 ottobre è stato preceduto da otto mesi in cui, ogni fine settimana, centinaia di migliaia di persone hanno protestato in piazza contro di lui. Guardatevi intorno: ovunque ci sono graffiti, scritte, cartelli, sit-in che chiedono un cambio di governo. Ma non è così facile ottenerlo.
Lei ritiene che le donne debbano guidare il processo di costruzione della pace. Perché?
Perché sono le donne che portano nel mondo la vita. Perché la natura ci ha predisposte a proteggerla. Abbiamo una maggiore attitudine al dialogo, alla conciliazione: è molto più difficile condurre una donna alla violenza piuttosto che un uomo. Abbiamo meccanismi diversi.
Le donne israeliane hanno organizzato una ferma campagna per protestare contro il silenzio del mondo e delle istituzioni internazionali sugli stupri di Hamas durante e dopo il massacro del 7 ottobre. Come spiegare questa mancanza di solidarietà?
Non riesco a spiegarlo. È stato davvero deludente. I corpi delle donne israeliane, delle donne ebree, sono stati violati nel modo più atroce. Non so davvero come possa essere mancata l’empatia di altre donne nel mondo. Mi rattrista questa moralità selettiva. Vorrei che le donne potessero stare insieme l’una per l’altra. Vorrei che potessimo imparare.
Lei è impegnata in un nuovo tour da solista. L’Europa è attraversata da una forte ondata di antisemitismo. Lo sente sulla tua pelle?
Prima di partire ero molto spaventata: è una paura profonda, poiché condivido la storia di sei milioni di ebrei uccisi. Una parte di me voleva solo che mi isolassi da questo mondo. Molte persone scrivono cose brutte sui miei social, mi taggano semplicemente perché sono ebrea e israeliana. Ma adesso sono in viaggio, e ho concerti sold-out alle spalle dove ho incontrato centinaia di persone pacifiche e amorevoli. E lo so: l’odio è forte, ma ci sono altre voci. Tante! Mi sento di dire, con la responsabilità di chi ha un microfono in mano: se davvero volete aiutare i palestinesi e gli israeliani in questo tempo difficile, invece di istigare altro odio aiutateci a sostenere la pace. E c’è un rimedio: Etty Hillesum – (scrittrice ebrea-olandese, vittima dell’Olocausto) – ha scritto questo nel suo diario: ad ogni atto di odio dovremmo rispondere con un atto d’amore. È quello che sto cercando di fare.
Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».
(Avvenire, 29 marzo 2024)
di Mauro Magatti
L’attentato di Mosca da parte dell’Isis ha impresso un’ulteriore scossa al già precario stato delle relazioni internazionali. I fronti si moltiplicano e sembra quasi che il mondo stia precipitando in una sorta di guerra civile globale.
E mentre i venti di guerra diventano ogni giorno più forti, lo stato del pianeta continua a peggiorare. L’ultimo dato rilasciato dall’Organizzazione metereologica mondiale dice che nel 2023 la media delle temperature sul pianeta Terra ha toccato +1,45 gradi Celsius rispetto al livello pre-industriale. Siamo ormai alla soglia critica indicata dalla Cop di Parigi del 2015. E mentre il pianeta brucia, aumentano i conflitti armati. Al punto che, per quanto assurda, oggi non si può escludere un’escalation verso una guerra globale.
Il risultato è il dato drammatico a cui ha fatto qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu: il numero di coloro che soffrono la fame (330 milioni) è raddoppiato da 2019 a oggi. È come se la società degli uomini (specie i maschi!) continuasse a rifiutarsi di ascoltare la realtà che in tutte le maniere ci sta mandando messaggi di allarme.
La crescita vorticosa degli ultimi decenni – che ha permesso di raddoppiare il Pil del mondo in meno di trent’anni, cosa mai vista nella storia – è stata un grande successo. Ma lascia un’eredità pesantissima. Dobbiamo infatti affrontare una serie di problemi che, apparentemente diversi, rimandano in realtà alla medesima radice: l’idea tipicamente moderna che le persone fisiche e quelle giuridiche (imprese e Stati) siano individualità sovrane dotate di una capacità assoluta di autodeterminazione.
Il problema è che oggi sappiamo come tale presupposto moderno – fondamentale per permettere all’umanità di fare il salto che ha fatto in termini di aumento del benessere, riduzione della povertà, diffusione dell’istruzione, miglioramento della sanità, allungamento della vita media – non abbia fondamento. E lo sappiamo perché la stessa scienza, avvalorando l’antica sapienza religiosa, ci dice ormai da più di un secolo che non esiste forma di vita che non sia in relazione ciò che viene prima, con ciò che le è intorno, con ciò che sta dopo e oltre. Tutte le grandi questioni contemporanee ci fanno capire che il nostro rapporto con la realtà ambientale e sociale, per quanto potente, sia viziato da codesto errore.
È come se vivessimo con un ritardo cognitivo: noi oggi sappiamo che tutto è in relazione, ma il nostro modello di sviluppo continua a procedere come se invece la Terra fosse popolata da atomi individuali che perseguono i propri interessi e desideri indipendentemente da tutto il resto.
Purtroppo, non esistono ricette in grado di risolvere i problemi attuali senza rimettere in discussione tale presupposto. Anzi, se pensiamo che sia possibile districare la matassa continuando ad agire secondo la logica fin qui seguita – ad esempio immaginando che la sostenibilità ambientale sia solo una questione tecnologica e di efficientamento dei processi di produzione e consumo – i problemi sono destinati ad acutizzarsi. Nel caso specifico, producendo tensioni politiche così forti da bloccare il raggiungimento del risultato sperato.
Ma la stessa cosa vale a proposito delle relazioni internazionali. L’attuale grave crisi mondiale è figlia di un pensiero politico inattuale. Con l’invasione dell’Ucraina, l’errore di Putin deriva dalla pretesa di trattare come locali questioni che in realtà sono anche globali. Come se fossimo nell’800 o nel 900. E invece, in questo come in altri campi, da quello migratorio a quello religioso, la pur necessaria esistenza di confini – condizione per riconoscere la pluralità delle culture – si può dare oggi solo in relazione all’intero pianeta. Il che ha importanti implicazioni sulla necessità assoluta di trovare una via d’uscita negoziale del conflitto in corso. Perché l’unica possibilità per il futuro dell’umanità è la convivenza tra culture diverse in un pianeta diventato piccolo.
Non è cosa da poco. Si tratta di rivedere alcuni dei presupposti su cui abbiamo costruito gli ultimi secoli. Ma per quanto il passaggio sia arduo, non possiamo far altro che cominciare a percorrere con intelligenza questa nuova fase storica. Sperando, un po’ per volta, di trovare le vie capaci di tradurre in forme istituzionali economiche e sociali questa nuova consapevolezza. In mezzo a tante difficoltà, c’è una buona notizia: se si comprende la natura del problema e ci si muove nella direzione di una migliore comprensione della realtà e del posto dell’umanità in essa, si apre il cammino verso un mondo migliore di quello attuale. Un’idea importante che dobbiamo condividere con i giovani: al di là di quello che abbiamo fin qui raggiunto, c’è ancora molto da fare. La speranza non è morta. Basta cambiare lo sguardo.
(Avvenire, 27 marzo 2024)