di Maria Nadotti


Partire da sé richiede fiducia, hanno detto alcune di voi, come se il partire da sé poggiasse su una fiducia già esistente. Io credo invece che sia proprio il partire da sé a costruire la fiducia. Non solo la fiducia “tra”, proprio la fiducia “in sé” e “nel sé”.

Mi è piaciuta molto la geometrica intelligenza della relazione introduttiva di Chiara Zamboni, quel suo dare ordine al pensiero di cui sento un profondo bisogno. Credo ce ne sia bisogno proprio per partire da sé con la consapevolezza che essere vivi è essere “nel” e “del mondo” e che la vita è un intreccio continuo di incontri, scontri, attriti, abrasioni con tutto ciò che definiamo “altro” da sé: altrimenti, perché non stare, ognuna/o di noi, là dove già siamo.

Non posso dunque non porre un grande punto di domanda. Che cos’è oggi, nel 2024, nel mondo in cui siamo finite e finiti, che cos’è il sé? Non è certo il sé che era negli anni ’70, per la banalissima ragione che il mondo non è più lo stesso mondo. Ho notato, tra l’altro, un’oscillazione interessantissima da parte delle varie persone intervenute: alcune dicono “partire da sé”, alcune dicono “partire da me”. Non è indifferente, perché sono categorie del pensiero profondamente diverse, come del resto sono stati molto diversi i due partire da sé di Chiara Zamboni e Riccardo Fanciullacci. Se il primo apriva al mondo, ricordandoci che il sé è un fascio effimero di possibilità immerso nella materia tutta, umana e non umana, il secondo tendeva a restringere il campo alle claustrofobiche relazioni di potere che si creano nell’istituzione universitaria. Sarebbe utile capire da dove venga questa differenza.

Un altro interrogativo stimolato dal tema, evocato da Diana Sartori, del perdersi e del trovarsi: ma il sé non è esattamente questo, un luogo di perenne mutazione, di perenne divenire? Chiara lo ha chiamato “nodo”. Io aggiungerei una “s” a quel nodo. Mi piace di più “snodo”, perché il nodo blocca, interrompe, ostacola, ferma, fa problema, mentre lo snodo è un luogo di transito, un luogo di transito di pensieri, emozioni, esperienze, memorie, desideri, ma anche di luce e di buio, di suoni, atmosfere, climi, sensazioni.

Chiara ha parlato di una cosa che in questo momento sta al centro del mio pensiero, che è l’assoluto bisogno di silenzio, o di parole molto, molto ben pensate. E le parole molto ben pensate non possono non venire dopo il silenzio. Il silenzio non è vuoto. Il silenzio è il tempo che ognuna/o di noi deve prendersi proprio perché il mondo sta cambiando a ritmi vertiginosi; è il tempo per capire come mai certe cose ci fanno soffrire, altre ci emozionano, altre non le capiamo, è il tempo in cui fare casa nel disorientamento. E allora, silenzio. Il silenzio è un momento straordinario che spero duri a lungo per me, perché è finalmente il tempo dell’ascolto.

Il partire da sé si è, da alcuni decenni, inflazionato e mercificato, trasformandosi in un seducente inganno narcisistico. Io vorrei, dunque, partire molto dalle altre, dagli altri. E allora ascoltarli, e poi chiedere loro il perché delle cose che dicono, per quali vie, attraverso quali esperienze, ci sono arrivati. Che spazio c’è tra parola e pensiero e, soprattutto, tra opinione e pensiero.

E, in ultimo, che rapporto c’è tra il dentro e il fuori? Chiara ha parlato di questi fasci che ci attraversano. E questo “sé”, appunto, non è oggi un dentro che sa guardare fuori, ma che sa anche lasciarsi guardare da fuori? E un dentro che è tutto teso all’ascolto, ma che è anche tutto disponibile a essere ascoltato?

Infine ringrazio Renata Sarfati e gli altri e le altre che hanno scritto un prezioso documento politico su quanto sta avvenendo nella Palestina storica. Io credo che parlare di “sé” senza cadere nell’ipertrofia del sé che ci viene proposta quotidianamente richieda una grande disponibilità a mettersi in gioco. Ecco, il che a me interessa in questo momento è un sé che si mette a rischio, che è disposto a esporsi, non a esibirsi. Si può definire sé un che non rischia? Ed è proprio questo sé audace a innescare gli altri sé, proponendosi come luogo di un possibile rischio comune. Oggi per me, in questo mondo così alterato, così fuori asse, davvero out of joint, questo provare a rischiare insieme è politica.


(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 19 marzo 2024)

di Alessandra Pigliaru


I volumi di Annarosa Buttarelli, Monica Farnetti e Stefania Tarantino tra femminismo e genealogia. Preziosi strumenti per decifrare l’oggi nella sua complessità, indicano un possibile orientamento storico, etico e politico del tempo, nelle sue categorie incarnate di bene e male


«Controtempo» è una parola interessante che, quando attiene alla musica, si riferisce ai tempi deboli e forti. È però nel suo significato largo di contrasto ritmico che si immagina qualcosa in opposizione e, insieme, capace di arrivare a scompaginare il già noto e accordare la differenza.

Che sia anche una faccenda politica lo spiega Annarosa Buttarelli nel volume Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe (Tlon, pp. 124, euro 15), riprendendo le fila di alcuni fra i momenti cari al femminismo della differenza sessuale italiano.

Che la genealogia di pensatrici di cui scrive l’autrice abbia assunto una collocazione critica e politica, lo dobbiamo infatti a decenni di dedizione condotta dentro e fuori dalle accademie, dentro e fuori i collettivi, le librerie, le pratiche e i saperi di altrettante donne. Il controtempo convoca infatti la breccia del «pensare veramente», come suggerito da María Zambrano, ovvero ciò che si sottrae alle interpretazioni e che resta come una «eredità senza testamento» o ancora, per dirla con Alice Ceresa, una prodigalità il cui esito è sovversione trasformativa.

Le categorie di bene e di male, fondanti il pensiero occidentale nella loro accezione maiuscola e spesso muscolare, sono qui il filo per decifrare il presente, cominciando da uno degli esercizi meno attraenti per la deriva neoliberista in cui ci troviamo: prendere corpo, leggere e rileggere oltre la retorica delle sintesi a buon mercato. Simone Weil, Françoise Dolto, Flannery O’Connor e Hannah Arendt sono state maestre di un pensare incarnato, tanto generoso da essere di orientamento anche oggi; per esempio nel concetto di «illimitato», introdotto da Weil in riferimento al male e che Buttarelli segnala, insieme a quello più intraducibile di malheur. L’illimitato oltre a determinare l’incapacità di avere misura di sé, è una più ampia avidità, una prevaricazione costante. Dalle relazioni quotidiane a quelle che hanno, e hanno avuto, conseguenze collettive rilevanti, un esempio di protervia illimitata lo ha mostrato Laura Conti, intervenendo sul disastro di Seveso avvenuto il 10 di luglio del 1976. Se l’illimitato diventa il metodo di un potere predatorio, non stupirà osservare quanto sottile ribaltamento vi sia nelle parole di Dolto quando definisce il concetto di «prossimo» o quando scrive che «Se io so che tu mi ascolti, mi so parlante».

Si assiste a una lunga conversazione con la misura, in questo caso dello scorrere, della durata e delle sue rappresentazioni – frequentemente fuorisesto -, nell’esplorazione di traiettorie genealogiche che andando controtempo sono ora assunte a pieno titolo nei riferimenti teorici e nelle pratiche. «Io scrivo a ritmo, non a trama», diceva Virginia Woolf e, seppure ciò possa essere applicato a molte scritture novecentesche di donne, in Ritratti del tempo, di Monica Farnetti (ombre corte, pp. 140, euro 12), approfondiamo ciò che per l’autrice di Mrs Dalloway è stato uno degli elementi elettivi: il tempo. Le scrittrici italiane con cui Farnetti fa interloquire Woolf comportano l’emersione di un genere letterario da accostare, nella sua qualità paradossale. Il romanzo storico incardina in tal senso tre principali obiettivi (che sono altrettante esperienze): il disassamento, ovvero stare fuori dai gangheri, la discontinuità, le asincronie; il secondo elemento è la ricomposizione delle discordanze, quindi la congiunzione tra un tempo della storia sociale e quello della vita; il terzo è il flusso di memorie tenendo salda l’alleanza tra letteratura e storia delle donne. Secondo Monica Farnetti, che propone qui un volume eccellente in cui matura alcuni dei suoi utili e precedenti interventi sull’argomento, si può avanzare un’etica della differenza temporale, seguendo le sollecitazioni della filosofa svedese Fanny Söderbäck che ha lavorato sui due crinali proposti rispettivamente da Julia Kristeva e Luce Irigaray riguardo il women’s time e l’etica della differenza sessuale. Il magistero di Virginia Woolf, maestra di onde – portatrici di continuità e impermanenza -, ha avuto in questo senso un profondo riscontro su scrittrici come Anna Banti, Gianna Manzini, Fausta Cialente, Maria Bellonci, Elsa Morante, Gina Lagorio, Goliarda Sapienza Melania Mazzucco e Marguerite Yourcenar.

Nella struttura radicalmente relazionale e politica di simili riferimenti, si affaccia un altro nome, quello di Sarah Kofman, filosofa raffinata che, di origini ebraiche, nel 1934 nasce a Parigi dando «un contributo importante al pensare altrimenti», come afferma Stefania Tarantino che le ha dedicato il suo ultimo libro: Il “rimosso” nell’operazione filosofica (edito dall’Istituto italiano per gli studi filosofici, pp. 198, euro 22). Un’occasione rara di poter fare il punto intorno a una figura poco tradotta in Italia (nel 1982 la prima è stata a firma di Luisa Muraro, nel 2000 un’altra a cura di Lisa Ginzburg e pochi altri esempi). Il volume di Tarantino, frutto di un seminario a Napoli nel 2022, porta un ulteriore tassello alla conoscenza e alla comprensione di una parabola complessa e originale, «un corpo a corpo con la storia della filosofia. Un corpo a corpo con la propria sopravvivenza, con le aporie l’una dell’altra».

Colpisce la capacità di lettura del pensiero occidentale, la rigorosa e partecipata scomposizione delle sue fonti, la sessuazione del discorso. Basterebbe leggere ciò che ne scrive Federica Negri nel suo saggio, ospitato nel volume, che affronta Kofman lettrice di Nietzsche, o ancora quello di Christiane Veauvy che interviene su Kofman, Freud e la psicoanalisi, insieme alle parole speciali che le riserva Françoise Collin. «Gesto nudo» è la sua scrittura secondo Jean-Luc Nancy, «atti ed esperienza stessa» secondo Jacques Derrida, ma è Stefania Tarantino che ne ribadisce la «devozione alla vita e così pure il metodo analitico freudiano: «un lavoro di scavo per riportare alla luce tutti quei “resti”, da intendersi come “scarti”, su cui la filosofia ha eretto un immaginario svalutativo e gerarchico della realtà che ci circonda». Una scrittura differente, che Orietta Ombrosi nel suo contributo di fronte alle aporie di Auschwitz (il padre di Kofman muore nel campo di concentramento), definisce anche «diffidente». Il «rimosso» contenuto nel titolo del volume di Tarantino è di valenza semantica estesa, riconosce e nomina l’intollerabile, stanando l’economia della rimozione e insieme il suo grido di angoscia. Nel tempo.


(il manifesto – il controtempo e la sua passione, 17 marzo 2024)

di Elisa Cornegliani


Costi alti, librerie di catena e poco sostegno dopo anni difficili stanno facendo abbassare molte serrande. I racconti e le soluzioni dei librai


«Abbiamo appena restituito le chiavi». Anita Ballabio e Alice Angelotti iniziano così la telefonata con noi. Sono le ideatrici e titolari della libreria indipendente Corteccia, aperta da loro nel 2014 in zona Solari. Ha chiuso ufficialmente a fine febbraio, fra la delusione e le proteste dei clienti abituali. «Il 2023 è stato un anno difficilissimo. Ci siamo interrogate a lungo su cosa fare», spiegano.

A dicembre la decisione definitiva, comunicata in gennaio tramite social e newsletter. «Non sappiamo nemmeno quante volte abbiamo modificato questo testo, parole che non avremmo voluto scrivere e voi non avreste voluto leggere. Ma è arrivato il momento di dare corpo alle voci che vi hanno accompagnato in questi ultimi mesi: Corteccia chiuderà», si legge sul loro account Instagram. Segue un coro di commenti rattristati: «Tutti i nostri clienti si sono fatti avanti per chiederci come possono aiutare. Ma lo hanno già fatto nel corso di questi anni, sostenendoci sempre. Il loro affetto è bellissimo. E straziante, perché ormai la decisione è presa».

Le difficoltà

Vendita online, cambiamenti nel quartiere e aspettative disattese sono infatti fra le cause che hanno portato la Corteccia a chiudere. Non è un caso isolato: recente anche l’interruzione della libreria Tintoria, in via Govone. In generale, le librerie indipendenti a Milano stanno attraversando un momento di difficoltà che si inserisce su un contesto di crisi cronicizzata e minaccia la resistenza delle singole attività.

Il cantiere e la pandemia

«Abbiamo iniziato dieci anni fa con l’idea di offrire soprattutto testi per l’infanzia, a cui poi abbiamo aggiunto libri di design», spiegano le titolari di Corteccia. «Fin dalla nostra apertura il quartiere ci ha accolto benissimo. È da sempre molto vivo». Nel 2017 arrivano i primi problemi con il cantiere della metropolitana M4: «La strada è stata completamente chiusa e parte della nostra utenza ha cambiato giro. Passavano in continuazione mezzi pesanti addetti ai lavori. Ci siamo ritrovati in una nuvola di polvere».

A risollevare la situazione è – per quanto inusuale – la pandemia. L’interesse per la lettura cresce nei giorni di lockdown e Ballabio e Angelotti mantengono acceso il rapporto con i clienti tramite consegne a domicilio e attività da remoto. «Le aspettative di quegli anni sono state tuttavia disattese nel periodo successivo». Si arriva perciò al 2023, l’anno più difficile. «L’impatto del mercato online è stato molto forte. Ma non è l’unico problema che riguarda il nostro mestiere. La Lim (l’associazione delle librerie indipendenti di Milano) non è supportata a livello istituzionale o comunale. Una libreria compie un lavoro importante sul tessuto sociale di un quartiere, e non viene valorizzato. Si tratta di un impegno nei confronti dei clienti intesi come persone con esigenze e interessi specifici, che non si può mettere a bilancio», proseguono Ballabio e Angelotti.

Qual è la principale differenza fra un librario di quartiere e uno di catena? «L’ascolto. Per esempio, in molti ci chiedevano libri utili per aiutare i propri figli o i propri amici a superare un momento difficile. E nel tempo siamo riuscite a mostrare la nostra visione al punto che i clienti stessi la condividevano: se intorno a Natale notavano qualche titolo più commerciale in vetrina, protestavano», sorridono le due titolari. I loro acquirenti in un primo momento erano in prevalenza famiglie, a cui si sono aggiunte molte persone con un’età superiore ai sessant’anni. Apprezzavano il fatto che i libri, una volta ordinati, arrivassero in tempi brevi. «In generale pensiamo sia molto importante promuovere un contesto editoriale variegato, in termini di idee e di offerta. È giusto ci siano le librerie di catena, ma è altrettanto giusto che abbiano una controparte. Ci deve essere un dialogo con alcune realtà dall’identità marcata».

Il sostegno che serve

Secondo Luca Ambrogio Santini, presidente Lim, la presenza delle librerie indipendenti serve a mantenere alto il livello di “bibliodiversità”, cioè a garantire a tutti la possibilità di far conoscere il loro prodotto. «Ogni anno escono in media circa 90mila titoli. Una libreria indipendente ne può contenere un numero molto ridotto, variabile a seconda della sua grandezza. Il cliente che ci sceglie, quindi, non sempre troverà quello cerca. Ma incontrerà una proposta ben definita e assente altrove», spiega.

La Lim sta cercando di colmare le mancanze riscontrate all’interno del settore. Nei giorni scorsi ha lanciato un appello al comune per avere un confronto diretto (anche) sui finanziamenti. La richiesta arriva a seguito del Forum dell’economia urbana, che ha affrontato fra i tanti temi anche lo stato di salute dei negozi di prossimità. Fra le proposte avanzate da Lim c’è l’istituzione di un albo che superi quello già esistente, l’Albo delle librerie di qualità: «Quest’ultimo esiste dal 2022 ma non ha avuto conseguenze concrete sul nostro settore. Quello che abbiamo in mente noi risentirebbe del modello francese e permetterebbe agli iscritti di ottenere agevolazioni fiscali e sugli affitti», spiega Santini. «Vorremo inoltre che venissero concessi – a prezzi calmierati – locali di proprietà comunale per l’apertura di nuove librerie. L’interesse ad avviare attività c’è: continuiamo a ricevere richieste».

Al momento si è svolto un incontro con l’assessore alla Cultura del comune di Milano Tommaso Sacchi, che a detta di entrambe le parti ha dato esito positivo. Secondo Sacchi, infatti, le librerie indipendenti sono «un presidio culturale fondamentale per la città» ed «è necessario trovare forme di supporto. La nostra Amministrazione, pur avendo margini di manovra di bilancio sempre più limitati, offrirà tutto il sostegno che sarà possibile alla rete dei librai. Spesso, è proprio grazie al loro coraggio che i quartieri meno centrali acquisiscono ricchezza sociale, culturale e occasioni di rinascita». A breve ci sarà un’altra riunione, con l’assessora al Lavoro e allo Sviluppo economico Alessia Cappello.

I libri tra i quartieri fuori dalle librerie

Santini ha chiuso la propria libreria dieci anni fa e l’ha resa itinerante. Gira il sud di Milano con una bici attrezzata per portare con sé i titoli che rientrano nella sua proposta: «In tutto circa duecento, è un’accurata selezione. E non posso fare errori, sarebbe solo peso in più». Sebbene le librerie indipendenti siano in difficoltà, infatti, nel tempo sono riuscite a rinnovarsi: «In particolare durante il Covid, molti colleghi hanno capito l’importanza di guardare oltre la propria vetrina. Hanno perciò tentato di portare la lettura al di fuori della libreria, con le consegne a domicilio. In seguito, quando è stato possibile, si sono creati i gruppi di lettura. Persone che si accordano per leggere lo stesso libro in un determinato periodo di tempo e poi ne discutono». Questo ha compensato in qualche modo i due fattori responsabili della parabola discendente in corso: «La vendita online e la carenza del numero di lettori».

Anita Ballabio e Alice Angelotti non sanno ancora cosa ne sarà dello spazio che lasciano, ora che non ospiterà più la Corteccia. Sono però consapevoli dei problemi principali del settore: «Servirebbe uno snellimento delle pratiche burocratiche. Noi avevamo molte richieste di eventi esterni alla libreria stessa: un esempio su tutti è fare letture al parco. I clienti erano interessati e noi disponibili, ma spesso si incontravano ostacoli», chiudono. «Per quanto riguarda i finanziamenti, sono le istituzioni a doversi mettere le mani in tasca. Loro devono smuovere i fondi necessari. Il margine di una libreria è molto basso: gli imprenditori devono sempre metterci del loro, e non tutti lo possono fare senza aiuti».


(Milano Today, 17 marzo 2024)

di Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi


A Valentina Berardinone piaceva l’azzurro. Lo stendeva sulle tele; lo acchiappava incorniciandolo. D’altronde è il mare della Costiera, visto dalla sua casa di Massa, che precipita verso Nerano.

Per arrivare da lei, bisognava parcheggiare in alto: a dominare pretenziosamente la collina, si intravedeva la villa che era stata dei Lauro.

Poi giù, una discesa di gradini sgarrupati e Valentina che saliva dalla cucina trascinandoci sul terrazzo che guarda Capri.

Aveva sempre avuto una predilezione Valentina per le dimore scomode. Anche a Milano. Attraverso le stanze si arrivava comunque allo studio luminoso, zeppo di album di disegni, “prove d’artista”, tele ammonticchiate oppure attaccate alle pareti.

Disseminati nel disordine, sul tavolo, quei piccoli “oggetti”, creati sembrava a dispetto, con la colata d’inchiostro che invece di espandersi scendeva a cascata su uno zoccolo di legno.

È vero, lo scrive Renata Sarfati, Valentina era spiritosa. E intelligente. Osservava le cose, ne ribaltava il senso. Amava la conversazione, le osservazioni taglienti, le battute colte. Le piacevano le donne capaci di ridere con lei, che assaporassero la sua lingua, civettuolamente altalenante tra le tonalità napoletane.

Aveva un piccolo gozzo. Il marito, Luciano, stava seduto al timone. Davano appuntamento per mare, davanti a Recommone oppure a Ieranto.

Una volta a noi due, Franca e Letizia, si era incagliata l’ancora – una grossa pietra scomoda a lanciarsi, infernale a tirarla su – trattenuta dalle rocce. Arrivarono a “liberarci”. Ma la pietra venne recuperata. Lasciarla lì sarebbe stato uno smacco troppo umiliante.

Valentina rideva. E scuoteva la testa, le braccia, le mani, per sottolineare la differenza tra veri e finti marinai con quel suo modo tutto particolare di unire generosità e allegria. Dipendeva dall’origine napoletana questa unione oppure dal mare azzurro che era riuscita a adagiare nei quadri?


(www.libreriadelledonne.it, 17 marzo 2024)

È una pratica straordinaria, multilivello – quindi possono partecipare tutte e tutti -, si tiene una domenica al mese e il ricavato va a sostegno della Libreria! Vi invitiamo ad arrivare per le 10.15. Per qualsiasi ulteriore informazione scrivere a info@libreriadelledonne.it o contattare il numero 3408587963. È necessaria la prenotazione.

Elena Petrassi, Il libro delle stagioni,Atì editore 2023 Salutiamo l’inizio della primavera: prepariamoci ad accogliere i giorni che arrivano con questo viaggio poetico nel tempo che si consuma. Versi composti in uno stato febbrile, nei giorni della pandemia, con una pratica di attenzione e silenzio che apre all’immaginazione. Perché tutto si rarefà e svanisce: la poesia è la polvere che resta, la bellezza che non scompare. Elena Petrassi dialoga con Luciana Tavernini.

di Oren Ziv


Un’adolescente israeliana è in carcere per aver rifiutato il servizio militare. Sofia Orr spiega perché non abbia mai dubitato della sua scelta nonostante in Israele la repressione contro chi si oppone alla guerra sia durissima


Domenica mattina [24 febbraio scorso, Ndt], la diciottenne obiettrice di coscienza israeliana Sofia Orr è arrivata al centro di reclutamento dell’esercito vicino a Tel Aviv e ha dichiarato il suo rifiuto a prendere parte al servizio militare obbligatorio per protestare contro la guerra di Israele a Gaza e contro l’occupazione. Seconda adolescente israeliana a rifiutare pubblicamente la leva per motivi politici dal 7 ottobre, dopo Tal Mitnick, che lo fece a dicembre, Orr è stata condannata a 20 giorni iniziali nel carcere militare di Neve Tzedek, che saranno probabilmente estesi se continuerà a rifiutare l’arruolamento.

«L’atmosfera attuale è molto più violenta contro chi ha le mie convinzioni, quindi ovviamente ho più paura, ma penso che di questi tempi la cosa più importante sia esprimere una voce di resistenza», ha detto a +972 e Local Call in un’intervista la settimana scorsa. «Scelgo di rifiutare l’arruolamento perché non ci sono vincitori in guerra. Lo stiamo vedendo ora più che mai. Tutte le persone, dal fiume Giordano al mare [Mediterraneo], soffrono a causa di questa guerra e solo la pace, una soluzione politica e la presentazione di un’alternativa possono portare a una vera sicurezza».

Orr ha spiegato che aveva già deciso di rifiutare la leva obbligatoria molto prima dell’inizio della guerra, a causa «dell’occupazione e dell’oppressione che l’esercito impone contro i Palestinesi in Cisgiordania». Gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, ha detto, «ci hanno mostrato ancora una volta che la violenza porta solo ad altra violenza e che dobbiamo risolvere il problema pacificamente invece che con altra violenza».

Circa trenta attivisti di sinistra, la maggior parte dei quali adolescenti, hanno accompagnato Orr al centro di reclutamento. Hanno organizzato una protesta a sostegno della sua decisione di rifiutare l’arruolamento, suscitando l’interesse di diversi studenti ultraortodossi venuti per ottenere l’esenzione dal servizio militare.

Ogni anno migliaia di adolescenti israeliani vengono esentati dalla leva, principalmente per motivi religiosi, ma solo una manciata si dichiara politicamente contraria al servizio militare. Oltre alla variabilità della durata del carcere, l’obiezione di coscienza può ridurre le prospettive di carriera e comportare stigmatizzazione sociale.

Ciononostante, Orr era una dei 230 adolescenti israeliani che avevano firmato una lettera aperta all’inizio di settembre, prima della guerra, annunciando la loro intenzione di rifiutare l’arruolamento come parte di una più ampia protesta contro gli sforzi del governo di estrema destra israeliano di limitare il potere della magistratura. Collegando la riforma del sistema di giustizia al dominio militare di lunga data di Israele sui Palestinesi, gli studenti delle scuole superiori – che si sono organizzati sotto lo slogan “Giovani contro la dittatura” – hanno dichiarato che non si sarebbero arruolati nell’esercito «finché la democrazia non sarà assicurata a tutti coloro che vivono all’interno della giurisdizione del governo israeliano».

Con la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana pienamente favorevole all’attacco dell’esercito a Gaza all’indomani del 7 ottobre e con gli/le attiviste di sinistra che affrontano la pesante repressione della polizia e la persecuzione politica per aver preso posizione contro la guerra, la posta in gioco per gli obiettori di coscienza si è elevata ancora di più. Nella seguente intervista, Orr spiega perché non ha mai vacillato nella sua decisione di rifiutare l’arruolamento.

Come sei arrivata alla decisione di rifiutare il servizio militare?

Ho sempre sentito l’impegno più verso le persone che verso gli stati, ma [la mia opposizione alla leva] ha iniziato ad apparirmi chiara quando avevo circa quindici anni. Ho iniziato a pormi delle domande: chi avrei servito effettivamente nel mio esercito? E cosa li avrei aiutati a fare? Ho capito che, se mi fossi arruolata, avrei preso parte e avrei normalizzato un ciclo di violenza decennale. Non solo mi sono resa conto che non potevo arruolarmi, ma anche che dovevo fare tutto il possibile per porre fine a tutto ciò e per resistervi.

Spero che parlare apertamente di cosa significhi per me l’arruolamento spinga altre persone a riflettere sul proprio arruolamento e su quanto faccia loro del bene o meno. Lo faccio con empatia, solidarietà e amore per tutti gli Israeliani che vivono in Israele e per tutti i Palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione, semplicemente perché credo che ogni essere umano meriti di vivere una vita sicura e degna.

Hai formato le tue opinioni in anni in cui molti israeliani liberali protestavano contro il governo: dalle proteste “Balfour” a Gerusalemme nel 2020 e alle proteste “Kaplan” a Tel Aviv nel 2023. Eri attiva in quei movimenti?

Quelle proteste erano importanti, ma non si concentravano su quella che credo sia la radice del problema. Quindi è stato molto importante per me andare lì e ampliare la discussione. La società israeliana si sforza di ignorare l’occupazione e i palestinesi, pensando che questo problema passerà. Ma non sta passando, come vediamo adesso. Il problema non scompare solo perché smetti di guardarlo. Rimane e continua a crescere finché non esplode.

Qual è stata la reazione alla tua decisione tra amici, familiari e compagni di scuola?

Molte persone pensano che io sia strana e non capiscono di cosa stia parlando. Dicono che sono ingenua ed egoista e talvolta anche che sono antisemita, una traditrice, e che mi augurano ogni genere di cose violente. Per fortuna non tra le mie cerchie più immediate, ma ho ricevuto risposte di questo tipo sia da amici che da parenti.

Le cose sono peggiorate molto dopo il 7 ottobre con l’ondata di “disillusi”, persone che prima del 7 ottobre credevano che ci fosse la possibilità di una soluzione [politica pacifica] e dopo hanno perso la speranza in tale possibilità. Ma il 7 ottobre ha solo dimostrato che è necessaria una soluzione politica, altrimenti la violenza continuerà.

C’è un desiderio di vendetta senza precedenti nella società israeliana. Consideri il tuo rifiuto come un tentativo di persuadere il pubblico o come un’azione dichiarativa di fronte a questa ondata?

Per me è importante farlo anche se non convinco nessuno. È la cosa giusta da fare. Ma non so se lo avrei fatto pubblicamente se non avessi avuto la speranza che le persone potessero sentire e ascoltare e che ci fosse ancora spazio per il dialogo. È molto importante raggiungere la società israeliana, in particolare i giovani che stanno nella mia stessa condizione, e mostrare loro perché ho scelto quello che ho scelto.

Hai amici o conoscenti che attualmente prestano servizio a Gaza?

Dentro Gaza, no. Ma ho molti amici che prestano servizio o hanno prestato servizio nell’esercito. Voglio il meglio anche per loro. Voglio che lo Stato smetta di mandare soldati a morire. Voglio che possano vivere una vita normale, ma loro non la vedono in questo modo.

L’incontro con i Palestinesi ti ha aiutato a prendere la decisione di rifiutare?

Le mie opinioni erano già relativamente consolidate anche prima che iniziassi a incontrare i Palestinesi, ma questo mi ha aiutato a renderle tangibili: incontrare persone che

ci viene insegnato fin da piccoli che sono nostre nemiche e vedere che sono persone comuni proprio come me, che vogliono vivere le loro vite proprio come me. C’è un grave problema di disumanizzazione, quindi questi incontri sono davvero importanti. Nel momento in cui smetti di credere che i Palestinesi siano persone, è molto più facile respingere l’idea che le loro vite valgano qualcosa e ucciderli senza pensarci due volte.

Hai preoccupazioni riguardo al fatto di andare in prigione, soprattutto nel clima attuale?

Sì, senza dubbio. L’atmosfera attuale è molto più violenta ed estrema contro chi ha le mie convinzioni e chi prende la mia decisione. Quindi è ovvio che ho più paura sia del periodo in prigione che della reazione esterna. Ma questo è anche ciò che rende questa scelta più importante per me. In questi tempi è molto importante esprimere questa voce di resistenza e solidarietà, non restare a guardare.


(Traduzione a cura di Riccardo Carraro per Dinamopress da 972 Mag, 16 marzo 2024)

intervista di Livio Partiti


La questione del bene e del male è un interrogativo eterno nel pensiero umano. Annarosa Buttarelli in questo saggio compie un gesto teorico tanto sottile quanto significativo: togliere a questi concetti l’iniziale maiuscola, per riportarli nella nostra realtà vivente. L’autrice ci mostra l’inefficacia dei sistemi filosofici e culturali che non riescono a fronteggiare l’emergere della violenza e della prevaricazione che attraversano il mondo. Per proporre un’etica della vita, Buttarelli ci accompagna in un viaggio tra le grandi pensatrici che hanno esplorato in modo originale il male e il bene nell’esperienza quotidiana. In questo libro scopriamo quindi le concezioni rivoluzionarie di Simone Weil, Hannah Arendt, Iris Murdoch, Flannery O’Connor, María Zambrano e Françoise Dolto, che dischiudono prospettive e pratiche inattese in un mondo della vita in cui la “cura” è il cardine delle relazioni.



(www.ilpostodelleparole.it 12 dicembre 2023)

di Cgil Pordenone


L’8 marzo 2024 a Pordenone in piazzetta Cavour flash mob promosso dalla CGIL di Pordenone. È stata un’iniziativa per richiamare l’attenzione su alcune parole, espressioni e modi di dire che utilizziamo tutte e tutti indistintamente, ogni giorno e troppo spesso inconsapevolmente, senza valutare il grande impatto che possono avere sulla società. Discriminazioni e pregiudizi iniziano proprio dall’uso di un linguaggio talmente condiviso e consolidato da averne perso il senso e il vero significato.

Premesso che siamo tutte e tutti responsabili della società che vogliamo costruire, dobbiamo iniziare dalla scelta delle parole e da un uso consapevole del linguaggio.


(8 marzo 2024)

di donne e uomini firmatari


Ci rivolgiamo a chi ha milioni di contatti con il mondo, a un movimento, una rete, un hacker che abbia a cuore la nostra sopravvivenza e la disfatta di chi la sta mettendo in pericolo. Chi è nato durante la seconda guerra mondiale è cresciuto pensando “mai più”. Mai più una guerra. 50 milioni di morti sembravano aver fatto rinsavire il mondo. Da allora guerra e genocidi non sono mai finiti. Gli ultimi li abbiamo sotto gli occhi: l’avanzata inarrestabile della Nato; l’invasione russa dell’Ucraina; l’atroce attacco di Hamas e la risposta inumana di Israele; il martirio infinito delle genti di Gaza. Stragi, stragi, stragi. Quando vedo la gente mitragliata mentre va a prendere la farina penso che loro siamo noi.

Non in senso evangelico, ma storico. Nessuno ci vuole salvi. Tutti ci vogliono armati. C’è una fame di guerra che somiglia ai prodromi della prima guerra mondiale e annuncia la terza, e veramente ultima. Ho paura.

Abbiamo tutti paura. Ma crediamo che armandoci ci difenderemo. No, armandoci ci consegneremo alla guerra, al nemico, alla morte. Abbiamo un sogno. Che qualcuno che abbia i mezzi di

comunicazione adeguati a svegliare la terra, dichiari uno sciopero mondiale contro la guerra. Per un giorno incrociamo le braccia. Per un giorno non si produce e non si consuma. Se anche il 20 per cento aderisse, anche solo per qualche ora, produciamo un danno economico come dieci guerre. Così il mondo si accorgerà che esistiamo: noi che vogliamo la pace, perché la pace è la condizione per qualunque altra cosa. Certo, ogni sciopero ha un costo. Ma niente costa come la guerra. Come questa guerra. L’ultima.


Prime e primi firmatari:


Barbara Alberti, Ginevra Bompiani, Amitav Ghosh, Raniero La Valle, Massimiliano Fuksas, Luca Guadagnino, Margherita Buy, Gianni Dessì, Viola Di Grado, Vauro, Simonetta Sciandivasci, David Riondino, Lidia Ravera, Valerio Magrelli, Chiara Barzini, Fiamma Satta, Michelle Müller, Virginia Raffaele, Sabrina Giannini, Geneviève Makaping


Per adesioni: inviare mail con oggetto partecipo a assembleaperlapace@gmail.com


(Pressenza.it, 15 marzo 2024)

di Giuliano Milani


Gabrielle Blair,Eiaculate responsabilmente,Feltrinelli, 2024, 143 pagine, 16,00 euro.


Mentre con una vera rivoluzione la Francia, primo paese al mondo, inserisce nella propria costituzione la libertà delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza, in Italia esce questo libro che riformula il problema elencando ben 28 argomenti in favore della tesi per cui la responsabilità dell’aborto è degli uomini. Lo ha scritto Gabrielle Blair, designer, creatrice del blog Design Mom, madre di sei figli, mormona e convinta sostenitrice del diritto alla scelta per le donne. Partita da un thread del vecchio Twitter di qualche anno fa, Blair spiega in questo pamphlet che sono gli uomini a portare la colpa delle gravidanze indesiderate e che non è giusto che questo peso ricada sulle donne, le quali normalmente sono fertili 24 ore al mese, mentre gli uomini lo sono 24 ore al giorno. La contraccezione maschile è più accessibile e più facile da usare di quella femminile, provoca meno problemi, eppure l’attenzione di tutti resta concentrata sulle donne che subiscono – volenti o nolenti – tutte le conseguenze dei rapporti non protetti: gravidanza, parto o aborto. Elencando queste e altre ragioni con uno stile semplice, chiaro e grintoso, Blair punta i riflettori su un paradosso fondamentale, che rende difficile continuare a negare il peso che il patriarcato continua ad avere nel mondo attuale, anche nei paesi più ricchi.


(Internazionale, numero 1553, pag. 82, 8/14 marzo 2024)

di Sara Lucaroni


La forza della donna di pace Nadia Murad non sta tanto nel coraggio, nella lotta per la giustizia come un dovere, nel diritto di rimarginare ferite. Sta nella schiettezza con cui racconta da dieci anni la sua storia ai leader della terra e nell’esercizio dell’umanità più pura: «Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia». Rapita il 15 agosto 2014 poco più che ventenne dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, durante la campagna genocidaria dello Stato Islamico contro le minoranze, in particolare quella yazida, Nadia Murad quel giorno ha perso la madre e sei fratelli. Con le sorelle è stata venduta ai mercati delle sabaya, le schiave, e comprata dai miliziani islamisti che l’hanno più volte violentata e rivenduta. Dopo quattro mesi di torture è riuscita a fuggire e nel novembre 2015, arrivata in Germania grazie ad un programma umanitario, ha deciso di testimoniare per la prima volta la tragedia delle donne yazide ad un forum delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata nominata Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e insignita dal Parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la pace, insieme all’attivista e medico congolese Denis Mukwege, «per i loro sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato». Impegno portato avanti anche attraverso la sua fondazione, Nadia’s Initiative, in prima linea sia nella ricostruzione dei servizi nei villaggi della sua comunità distrutti dall’Isis, sia nell’impegnare governi e organizzazioni internazionali a sostenere i sopravvissuti alla violenza sessuale e soprattutto a prevenirla. Gli yazidi sono una minoranza etno-religiosa originaria del nord iracheno. La loro storia affonda le radici nelle culture dell’antica Mesopotamia e nei secoli hanno sempre subito discriminazioni, persecuzioni e uccisioni di massa. Le donne e i bambini rapiti da Daesh durante l’occupazione di vaste aree dell’Iraq e della Siria nell’estate 2014 sono state quasi 7.000. Ad oggi ne mancano ancora all’appello la metà: in parte sono nelle mani dei rapitori, rientrati nei paesi di origine. Di altre non si ha nessuna notizia.

Nadia Murad, le donne impegnate nei processi di pace, per i diritti e l’uguaglianza sono più concrete degli uomini e possono ottenere più risultati. È possibile affermarlo?

Conosco molti uomini in gamba che sono altrettanto impegnati per la pace e l’uguaglianza, e non sono sicura che sia utile o vero dire che le donne lottano per la pace mentre gli uomini sono per la guerra. Se vogliamo pace ed equità durature non è solo responsabilità di una parte della società, ma una responsabilità collettiva per tutti noi, specialmente per coloro che occupano posizioni di potere e sono in grado di apportare cambiamenti significativi. Tuttavia, la ricerca ci mostra che quando le donne ricoprono posizioni di leadership e sono attivamente coinvolte nella costruzione della pace nelle loro comunità, questa dura più a lungo. Quindi, penso che sia importante che le donne siano incluse in ogni fase della costruzione della pace e, inoltre, che le ragazze credano che un giorno potranno guidare le loro comunità. Allo stesso modo, gli uomini devono essere allevati nella convinzione che le donne siano capaci di input e leadership significativi. Abbiamo bisogno di fratelli, mariti e figli che ci aiutino ad amplificare le nostre voci e le nostre idee.

C’è una persona, una donna, a cui si ispira, un punto di riferimento che la guida e la motiva ogni giorno nelle sue battaglie e nell’impegno per la pace?

Mia madre era e rimane la mia luce guida e ispirazione. Era una madre single, con poca istruzione, che cresceva undici figli nelle zone rurali dell’Iraq. Ha instillato in me il senso di giusto e sbagliato, la compassione e avere obiettivi.

Ha fatto commuovere leader politici e capi di Stato con la sua storia personale. Siamo tutti colpiti dal suo forte senso di giustizia. Qual è la caratteristica personale che le ha permesso di ottenere così tanto?

Sono assolutamente determinata a garantire che gli attacchi perpetrati contro le mie sorelle, i miei nipoti, i miei amici e me – insieme a migliaia di altre ragazze yazidi – non si ripetano in nessun’altra parte del mondo. Guidata da questo principio ho parlato più e più volte, rivolgendomi ai leader politici non solo per proporre problemi, ma anche per proporre soluzioni. Ho scritto nel mio libro che volevo essere “l’ultima ragazza” che ha subito la violenza sessuale legata a un conflitto. Purtroppo così non è stato: la violenza sessuale è endemica nelle zone di guerra di tutto il mondo. Tuttavia non smetterò di fare campagne, di sostenere o di dire la verità a chi è al potere.

Perché è difficile per ogni vittima di violenza, anche sessuale, denunciare e far rispettare i propri diritti? È un paradosso.

Penso che le vittime della violenza siano spesso le più vulnerabili della società, tanto per cominciare; minoranze, donne, poveri. Quindi, quando vengono attaccati, le strutture non sono in grado di aiutarli o proteggerli. In più, per le sopravvissute alla violenza sessuale legata al conflitto, vi è lo stigma e la vergogna associati ai crimini che hanno subito, il che rende ancora più difficile la loro denuncia. Denunciare un crimine può essere di per sé traumatico. Soprattutto se la giustizia non è garantita. Una volta che i crimini sono stati denunciati e magari anche indagati, è normale che non succeda altro. In Iraq, l’UNITAD ha documentato l’omicidio, la violenza sessuale e la riduzione in schiavitù di migliaia di yazidi, ma i combattenti dell’Isis sfuggono ancora alla giustizia. Solo tre membri dell’Isis sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini di genocidio. Sapendo che il sistema è a scapito delle vittime, diventa molto più difficile denunciare i crimini.

Nadia’s Initiative, la sua fondazione, è un progetto che sta aiutando molto la vostra comunità nel nord dell’Iraq e le azioni di pace. Qual è l’emergenza più importante ad oggi?

Penso intanto che ci troviamo di fronte a un’emergenza sfollati globale. 110 milioni di persone sono state costrette con la forza a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo. Molte di loro vivono in campi che offrono solo soluzioni a breve termine e non sono certamente case adeguate in cui le famiglie possano prosperare. La ricostruzione e il ripristino delle zone post-conflitto per permettere il ritorno a casa degli sfollati dovrebbero essere una priorità globale, per ragioni economiche, politiche e morali. L’ISIS ha distrutto gran parte di Sinjar durante l’invasione nel 2014 e, dieci anni dopo, Nadia’s Initiative lavora duramente con i sopravvissuti per ricostruire le infrastrutture, le fattorie e le scuole che sono la linfa vitale delle comunità. Molte donne sono state lasciate da sole a prendersi cura delle proprie famiglie, quindi dare loro istruzione, e le competenze e gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere è una parte importante del nostro lavoro. Un lavoro reso più difficile dal fatto che Sinjar è ancora una zona contesa, priva di una governance chiara o infrastrutture burocratiche. Abbiamo un disperato bisogno di rappresentanza politica e di un sindaco, nonché di finanziamenti e sostegno da parte del governo iracheno.

Quest’anno ricorre il decimo anniversario dell’attacco dell’ISIS a Sinjar. Dieci anni dopo, gli yazidi si sentono sicuri, c’è pace oppure no?

La comunità yazida è più diffusa di quanto lo fosse in passato. Molti sono partiti per rifarsi una vita all’estero, centinaia di migliaia rimangono nei campi profughi e nonostante tutte le sfide, più di 160.000 sono tornati a vivere a Sinjar. Ma penso che tutti gli yazidi si sentirebbero più sicuri se coloro che ci hanno attaccato fossero ritenuti responsabili delle loro azioni. Se sapessimo che l’agosto 2014 non si ripeterà perché è stata fatta giustizia ed esistesse un deterrente per chi decidesse di agire ancora in questo modo. Ci sono anche problemi di sicurezza più immediati. Per le donne yazide nei campi profughi c’è una reale mancanza di sicurezza e privacy. E le famiglie yazide in Germania sono preoccupate per i rimpatri, poiché il governo ha introdotto una nuova legge che obbligherà alcuni a tornare in Iraq. Ci sono problemi di sicurezza da molto tempo per coloro che vivono a Sinjar. Credo fermamente che dobbiamo ricostruire la nostra patria in modo che le famiglie possano lasciare i campi e crearsi vite con uno scopo per sé stessi. Abbiamo bisogno che il governo iracheno contribuisca a stabilizzare la regione e a garantire un po’ di sicurezza a Sinjar.

Ci sono ancora donne e bambini che riescono a tornare a casa dopo essere stati rapiti dieci anni fa?

Sì, ci sono. L’anno scorso siamo riusciti ad aiutare un numero maggiore di donne a ritornare dalle loro famiglie. Ma quasi 3.000 sono ancora detenuti dall’Isis e da persone affiliate. Garantire il loro rilascio dovrebbe essere una priorità. In Germania ci sono stati i primi processi contro membri dell’Isis grazie alla giurisdizione universale.

Perché altri paesi hanno paura di fare giustizia?

Questa è una buona domanda. Suppongo che siano preoccupati per i soldi e il tempo che ci vorrebbe. Molti paesi occidentali non vogliono assumersi la responsabilità delle azioni intraprese dai propri cittadini in Iraq. Sono incredibilmente grata alla Germania per aver assunto un ruolo guida nella giustizia e nella responsabilità verso il mio popolo.

Come sta andando l’azione intrapresa contro la corporation francese del calcestruzzo Lafarge, per il suo presunto sostegno economico all’Isis?

Siamo ancora nelle fasi iniziali del procedimento legale ma la mia speranza è che riusciremo a dissuadere le grandi multinazionali dall’aiutare e favorire i terroristi.

Come è stato accolto “Codice Murad”, che fissa linee guida per raccogliere testimonianze di violenze nel pieno rispetto delle vittime?

È un progetto di cui sono fortemente orgogliosa e mi rincuora sapere che aiuta le sopravvissute a raccontare le loro storie. L’anno scorso sono stata invitata in Ucraina per incontrare donne che avevano subito violenza sessuale e molte di loro hanno affermato che il Codice ha dato loro coraggio e fiducia mentre raccontavano le loro esperienze.

Nella guerra Hamas-Israele abbiamo ancora assistito alla violenza sulle donne. Per prevenirla nei conflitti sono sufficienti norme preventive più severe e una giustizia certa che punisca i colpevoli oppure è più importante un maggiore sostegno alle donne in tempi di pace e investimenti nella cultura dell’uguaglianza?

Assolutamente entrambe le cose. Responsabilità e educazione, ma anche consapevolezza a livello globale che la violenza sessuale contro le donne non è semplicemente un effetto collaterale inevitabile della guerra, ma un crimine utilizzato da secoli per spezzare il cuore stesso delle comunità. E deve esserci giustizia per coloro che commettono violenza sessuale legata ai conflitti, quei terroristi che perpetrano questi crimini devono essere ritenuti responsabili: cos’altro potrebbe dissuadere altri dall’usare questa tattica in guerra?

Credi che stiamo assistendo alla “fine dei diritti umani” nel mondo? Come far comprendere ai giovani l’importanza di impegnarsi sempre perché pace e diritti non siano mai dati per scontati?

Non penso che stiamo assistendo alla loro fine, gli esseri umani avranno sempre diritti. Infatti qualche mese fa abbiamo visto tante persone riaffermare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, giunta al suo 70° anniversario. Però il nostro mondo si trova in una situazione molto precaria e ci sono paesi e attori non statali che non attribuiscono un valore sufficientemente elevato ai diritti umani. Ma ho incontrato tanti giovani che hanno passione per l’umanità e vogliono creare un futuro pacifico. Il loro desiderio di difendere e cambiare il mondo in meglio mi dà speranza. Penso che forse le persone di cui abbiamo bisogno per essere sicuri di comprendere l’importanza dei diritti umani sono gli adulti, i leader e i decision-makers. Devono agire a lungo termine e nell’interesse degli altri.


(Avvenire, 14 marzo 2024)

di Luciana Tavernini


Ho conosciuto Rosella Cardano nel gennaio del 1990 nel gruppo Dalla relazione madre-figlia alla relazione tra donne che coordinavo all’Associazione Melusine. Nel gruppo ascoltava molto e parlava poco, mentre nella relazione con me, che si è protratta per diversi anni, si apriva. Leggeva molto, soprattutto libri di donne, partecipava agli incontri aperti alla Libreria delle donne e qualche sera si fermava a dormire da me. Cercava, come dice Luisa Muraro, di dare giorno per giorno un senso libero al suo essere donna e per farlo esplorava relazioni femminili. Per lei avevo scritto questa poesia:


– Rosa, Rosina, Rosella –

saltelli

su una corda tesa

impavida

contro il cielo vuoto,

canticchi

– sembra senza darci peso –

un mandala sottile

di parole

un labirinto azzurro

in filigrana

di cui cerchi la chiave.


Poi ho cambiato casa e ci siamo perse di vista. Lei continuava a seguire, attraverso la rivista Via Dogana e i libri che via via venivano pubblicati, le riflessioni sul presente che le donne della Libreria di Milano mettevano in circolo. Se ne nutriva e ha voluto dimostrare la sua riconoscenza lasciando la sua eredità i suoi “amatissimi libri” e la sua casa proprio alla Libreria, perché questo luogo di incontro aperto, di invenzione di pratiche di libertà femminile, di pensiero in presenza sul mondo possa, anche col suo aiuto, continuare a esistere. Lo ha fatto con l’aiuto di un’altra donna, la sua amica Anna Denes, da lei conosciuta fin dalla fine degli anni Settanta mentre preparava la tesi. Un modo generoso, come quello della scrittrice Bibi Tomasi, che con la sua eredità ha permesso la ristrutturazione della Libreria e al cui tavolo di lavoro parlano con noi le ospiti invitate negli incontri pubblici, non solo a partire dai libri che hanno scritto.

Rosella viveva a Galliate, vicino a Novara, dove era nata il 20 febbraio 1956, scriveva poesie che l’aiutavano a fermare il suo sentire e a rafforzare ciò che l’aiutava a vivere. Infatti scriveva: «Mi sento come Ipazia fatta a pezzi ho l’arma della poesia e della parola femminile». Negli ultimi anni ne aveva inviate alcune alla pagina facebook La biblioteca femminista, ora intitolata a Donatella Massara, una delle fondatrici che ci ha lasciate lo scorso settembre. Donatella, qualche mese dopo la morte di Rosella avvenuta il 22 agosto del 2021, le aveva pubblicate nel sito da lei curato Donne e conoscenza storica perché non si perdessero.

Tra queste il delicato Autoritratto in cui Rosella apre la descrizione di sé così: «Sensibile come rugiada su una foglia/ appena curva, me ne sto su un ramo/ di albicocco con sana ignoranza/ sudicio trastullo». Lei, che aveva studiato filosofia all’Università statale di Milano e aveva provato su di sé quello che nel libro Il piacere femminile è clitorideo la storica María-Milagros Rivera Garretas nomina come «violenza ermeneutica dell’Accademia», segnala come il restare presso di sé sia giudicato un «sudicio trastullo» e come le sia necessaria trovare «una lingua/ saliva d’amore più verbale» che riscatti l’infanzia e i suoi dolori. Da qui, nelle altre liriche si delinea un percorso in cui troviamo momenti di solitudine come in Crudele cecità dei parchi, di valorizzazione di sé come in Ali carnee infantili in cui si afferma «io, abbecedario gioioso del mio mondo/ amato» o di rapporto quasi mistico con la natura come in Quiete d’anima in cui il giallo di un campo di grano è «l’abbraccio solare/ che mi accarezza gli occhi/ nella penombra/che si chiama vita».

Sono otto poesie da leggere al link http://www.donneconoscenzastorica.it/2022/01/27/testi-politica-delle-donne-autoritratto-poesia-di-rosella-cardano/

Qui invece ne propongo alcune da lei copiate a macchina e su cui ritornava spesso correggendo.

Ci parlano di genealogia femminile, di piacere clitorideo, dell’amore che non nasconde l’orrore ma non ce ne rende succubi, della pace che si costruisce col lavoro sul simbolico.


A MIA NONNA

Eri la magnolia piena di sole,

golosa, bevevi la luce e l’ombra degli anni;

negli angoli bui di ancestrali cortili ti ubriacavi

di nenie profumate;

a chi passava accanto porgevi petali e colori che avevi dipinto

quando il cielo era più limpido e ancora non avevi

quel viso di bimba affamato di vita,

tra la pelle del viso caduta,

per la stanchezza di un dio persecutore in ombra straziata,

nel corpo a riccio, la tua ultima ribellione alla morte…

Eri la magnolia aperta alla risata, ora ti sento afferrare da

un lontanissimo sonno, gravidanza di un sogno mortale.

Al mistero io guardo e, ancora ti vedo in un angolo di vita

chiedere l’amore di figlia in figlia…


ANTILOGICA: LIBERTÀ VAGINALI

Tra le mie gambe

nonché nel mio umido pensiero sei perla

non ha sussiego, né urla da ossessa, sei…

Domandi timida, inquieta, forse smarrita, perché? Come?

Nel corallino mondo sei perla, spasimo di luce, scintilla istintuale…

Tra le mie gambe sussurri “ancora voglio vivere”

spensierata, paga di sole.

Dimenticare vuoi chi dall’intelletto e dalle sue alte sfere fa abuso

di infimo potere…


SPIRITUALITÀ

C’era un’ombra ad Auschwitz…

ma io sarò stella, cometa, futuro…

e sempre amore, amore, amore

in primavere, ancora.


PACE

A Luisa e alla cara Bibi Tomasi

Non più violenza,

la culla della poeta è allegria e mestizia,

così soave una forsizia

dice sì alla vita tra inverno e primavera.

Non più violenza,

ma penna per gli intrigati giorni

descrivere accennando,

così è la vita frastuono e silenzio, è alba è sera,

tempesta, arcobaleno, primavera…

Non più violenza,

ma miti le parole

giuochi, incanti e fole…

Ricordo ero un animale

barrivo col mio naso…

vezzosa mi inchinavo, in stelle birichine,

la culla della poeta è allegria e mestizia…

Ricordo è una vita, vita è ricordare…


(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)

di Paola Mammani


Francesca Izzo, nel suo articolo intitolato La libertà di scelta non equivale a diritto, apparso sull’Huffington Post del 5 marzo scorso, ha trascritto con precisione la formula con la quale la Francia ha voluto inscrivere in Costituzione il fatto dell’aborto. «La legge determina le condizioni in cui viene esercitata la libertà, garantita alla donna, di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza». Nota Izzo che non si tratta di diritto all’aborto, che avrebbe comportato la sostanziale cancellazione del ruolo della donna nella scelta della procreazione. Per un’analisi chiara e convincente delle conseguenze negative che una logica dei diritti avrebbe significato, rimando al suo articolo pubblicato anche su questo sito.

L’autrice apprezza che il testo parli di “libertà” e di “condizioni in cui si esercita tale libertà”.    Penso, tuttavia, che non vi sia da compiacersi per la formula utilizzata dal dettato costituzionale francese. È evidente che il vero soggetto, e non solo grammaticale, di quella formulazione è “la legge” che così, con forza costituzionale, si attribuisce il potere di legiferare sulle condizioni che garantiscono a una donna la libertà di interrompere una gravidanza. Un curioso bisticcio quello di una “libertà garantita” a condizioni determinate dalla legge.

In Italia, senza l’intralcio costituzionale, basterebbe l’abrogazione della l. 194/78 per realizzare ciò che una parte delle donne aveva già chiesto durante il dibattito che ne precedette l’approvazione, e cioè che si dovesse semplicemente depenalizzare l’aborto che era un reato, lasciando alla donna, alle sue relazioni, affettive, amicali, di fiducia con operatrici ed operatori sanitari, la ricerca delle “condizioni” a cui tale procedura medica si sarebbe potuta dare. Sarebbe così sparito del tutto dall’ordinamento giuridico il tema dell’aborto che deve essere una decisione di ciascuna singola donna, affiancata da chi le è più vicino.


(www.libreriadelledonne.it, 14 marzo 2024)

(1)


di Tiziana Nasali


Le parole pronunciate da Papa Francesco al Convegno internazionale “Uomo-donna immagine di Dio” (2) mi hanno fatto immediatamente pensare alla bella immagine con cui Giordana Masotto conclude il suo articolo sul libro di Libera Mazzoleni, Brothels, che racconta l’orrore dei bordelli e che l’autrice dedica «alle donne ferite e uccise dalla violenza del patriarcato e a tutte le donne che rifiutano lo status di vittima».

Scrive Masotto: «Ho guardato le immagini di Libera Mazzoleni e ho immaginato che quegli uomini banalmente malvagi si riscuotessero e vedessero tutto quello che avevano fatto. E quelle donne silenziose dietro le sbarre e le finestre potessero uscire con i loro corpi e i loro desideri. E quegli uomini e quelle donne finalmente si vedessero, si incontrassero e – incontrandosi davvero – potessero vivere». (3)

Il Papa, dopo aver messo in guardia dall’ideologia del gender che definisce il pericolo più brutto, dice che cancellarela differenza è cancellare l’umanità e che uomo e donna stanno in una feconda “tensione”.

Non so cosa intenda esattamente per feconda tensione ma, anche per il mio immaginario di donna laica, è un’immagine forte.

Cosa hanno in comune le parole del Papa con quelle di Masotto/Mazzoleni?

Entrambe condannano la cancellazione delle donne operata, nelle diverse epoche storiche e in modi diversi, dalla cultura maschile e prefigurano uno scenario con uomini e donne finalmente in relazione come soggetti parlanti nella loro differenza.   

Oggi, con la fine del patriarcato, le forme di cancellazione delle donne sono più difficili da smascherare, perché più complesse: mi riferisco all’emancipazione e alla questione del gender.

L’emancipazione: l’avvento della libertà femminile mette al centro della politica il ripensamento del contratto sociale ma l’opinione pubblica, in maggioranza, registra come libertà femminile quella che è solo emancipazione: plaude ogni volta che una donna arriva a traguardi fino ad allora solo maschili e si batte il petto per le percentuali troppo basse di donne presenti nelle tradizionali roccaforti degli uomini, non considerando che l’inclusione paritaria delle donne nell’organizzazione sociale modellata su bisogni e desideri maschili non produce nulla che gli uomini non abbiano già fatto e/o pensato.

Il gender: l’uso del termine “genere” mostra la possibilità di non individuare più gli essere umani a partire da quella unità imprescindibile di natura e linguaggio, di biologico e simbolicoassieme che chiamiamo sesso, potendosi viceversa definire in base alla loro “percezione” psico-sociale. Così, se la differenza sessuale pensata dalla cultura maschile patriarcale ha storicamente prodotto la discriminazione delle donne, oggi, per porre riparo a quella e ad altre ingiustizie, c’è chi propone di prescindere completamente dal sesso come prima definito intendendo che solo in questo modo si eliminerebbero le discriminazioni. Ovviamente ci si deve porre il problema, essendo in aumento il numero di ragazze/i che si dichiarano gender fluid e casi, soprattutto di ragazze, che intraprendono il percorso di transizione. Infatti, nonostante buona parte della scienza medica sia giunta a conclusione che la disforia di genere in gran parte dei casi si risolverebbe da sola alla fine dell’adolescenza e nonostante le ormai numerose testimonianze di ragazze detrans che denunciano l’orribile e inutile calvario affrontato perché non seguite, a suo tempo, da buone terapie psicologiche, l’ideologia gender ha ancora moltissima presa.

Ma qualcosa ci dicono. E cioè che è ancora molto faticoso essere donna nella nostra società. Sono d’accordo con Silvia Motta quando scrive che la gran parte delle donne quando usa il termine parità non allude al voler essere uomo o come un uomo, ma esprime il desiderio che vengano meno i disagi e le ingiustizie di una vita che trova, ancora oggi, tantissimi ostacoli riservati solo alle donne (4). Probabilmente la stessa cosa accade alle ragazze che pensano di essere nate in un corpo sbagliato e quindi “desiderano” essere dell’altro sesso: le ragazze, più che essere maschi, è probabile che non vogliano affrontare le difficoltà dell’essere donna e/o la loro omosessualità. Forse lo stesso vale anche per i maschi che sempre più si discostano dai modelli di “mascolinità tossica” e si confrontano con il pensiero nato da pratiche di donne.

La libertà femminile permette a donne e a uomini di pensare la differenza sessuale non come contenitore di identità, ma come un processo in divenire, dove si costruisce un senso nuovo dell’essere donna e dell’essere uomo.

Quindi:«che cosa c’è di disumano oggi che consideriamo normale?»

Il Papa dice che cancellare la differenza significa cancellare l’umanità. Io penso che cancellare la differenza tolga a uomini e donne la possibilità di andare ad attingere al proprio sentire più profondo radicato nella differenza sessuale: gli stereotipi di genere sono una gabbia per entrambi i sessi, anche se probabilmente le donne ne patiscono maggiormente le conseguenze. Ma solo la ricerca del significato e del senso che vogliamo attribuire al nostro sesso può aprire a tutti e a tutte un’esistenza veramente libera, anche a chi non si identifica in un sesso o in un genere.


Note

(1) È la domanda che si pone Giordana Masotto nel suo articolo Arte e/è politica, Libreria delle donne, 29 febbraio 2024.

(2)Monito lanciato da papa Francesco durante l’udienza con i partecipanti al Convegno internazionale «Uomo-donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni» promosso dal Centro di ricerca e antropologia delle vocazioni (Crav) e che si tiene in Vaticano nell’Aula del Sinodo, in Avvenire, 1° marzo 2024.

(3) Giordana Masotto, cit.

(4) Silvia Motta, Tre parole che si confondono: parità, uguaglianza, libertà. Considerazioni minime su temi grandi, Libreria delle donne, 17 febbraio 2024


(www.libreriadelledonne.it, 13 marzo 2024)

di Guido Caldiron


Un percorso di letture alla vigilia delle elezioni presidenziali che si svolgono nel Paese dal 15 al 17 marzo. Analisi e letture dell’«era Putin», tra «generazione Z», affari e repressione. E inedite forme di resistenza. «Putinstan» di Giorgio Fornoni (Prefazione di Milena Gabanelli), per Chiarelettere, «I figli di Putin» di Ian Garner, per Linkiesta Books. Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese raccontano repressione e opposizione a Mosca nel loro libro edito da Altraeconomia


«Il mondo è una foresta che brucia, con qualche persona minuscola che cerca di dominare le fiamme, mentre dall’alto cala ancora più orrore». Malgrado a questa immagine funesta faccia seguito un appello a non arrendersi all’oscurantismo e alla tirannia, le parole di Katja Martynova, tra le animatrici della rivista Doxa nata nel 2017 tra gli studenti e i ricercatori del campus moscovita dell’Hse, raccolte da Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese in La Russia che si ribella (Altraeconomia, pp. 118, euro 12), non potrebbero suonare più adatte a descrivere il clima cupo che regna nel Paese. Questo, mentre Mosca si prepara alle elezioni presidenziali, in programma questa settimana, da venerdì a domenica, destinate a confermare il potere ventennale di Vladimir Putin e dopo due anni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina che ha segnato anche l’avvio di un’ulteriore drammatica stretta alle libertà e ai diritti civili culminata con la morte in prigione di Aleksej Navalny.

Difficile semplificareo schematizzare, anche in assenza di affidabili indagini di carattere sociologico o demoscopico, la realtà di uno dei Paesi più estesi del mondo, che vanta comunque oltre 143 milioni di abitanti e rappresenta, malgrado le spinte all’uniformazione culturale che arrivano dalla Chiesa ortodossa come dal Cremlino, almeno in parte ancora oggi un crogiolo di culture e popoli. Ciò che però è possibile abbozzare, grazie ad alcune opere di recente pubblicazione, è il ritratto di cosa la Russia putiniana sia diventata, o sia in procinto di diventare, all’ombra di quell’intreccio di interessi economici, ultranazionalismo, repressione e rinnovati istinti imperiali, e bellicisti, che hanno caratterizzato il pieno approdo di tale società all’era post-sovietica.

La prima raccolta di istantanee ci è fornita da Giorgio Fornoni, da tempo collaboratore della trasmissione televisiva Report, che ha riunito in Putinstan (Prefazione di Milena Gabanelli, Chiarelettere, pp. 284, euro 19,50) i reportage e le inchieste che ha dedicato fin qui alla Russia proprio nell’intento di aiutarci a capire il presente, e forse il futuro, perlomeno prossimo, del grande Paese.

«Difficile capire i missili sulle città ucraine senza essere stati tra le macerie di Grozny nel 2000, senza aver vissuto la gioia dei giovani nella rivolta arancione in piazza Maidan nel 2014, senza aver conosciuto l’onestà intellettuale e l’integrità di una donna coraggiosa come Anna Politkovskaya, che ho incontrato varie volte nella redazione della Novaja Gazeta», sottolinea Fornoni, ricordando la coraggiosa cronista uccisa a Mosca il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno di Putin, probabilmente per aver denunciato proprio la deriva violenta e nazionalista di cui il presidente è l’emblema, oltre ai crimini di guerra di cui i russi si sono macchiati nel Caucaso.

Non a caso, Putinstan sceglie di raccontare quella che non esita a definire come la realtà di «uno Stato canaglia» lungo due traiettorie che finiscono per convergere in più punti. Da un lato ci sono gli affari e gli interessi legati al gruppo di potere di cui Putin è espressione, a cominciare dal controllo su Gazprom e gli altri colossi russi dell’energia, spesso frutto del modo in cui «l’economia di mercato» sbarcò nel Paese dopo il crollo dell’Urss sotto l’egida del clan Eltsin – «Putin non è un uomo del Kgb o dell’Fsb come si ritiene all’estero, ma è un uomo della famiglia Eltsin», spiega uno degli interlocutori russi di Fornoni. Dall’altro, le stesse mani che controllano saldamente l’economia, fino a far coincidere gli interessi personali con quelli dello Stato, sono spesso sporche di sangue.

L’inviato di Report identifica diversi elementi in tal senso: da quello che chiama «il calvario ceceno», dove Mosca ha condotto per più di 15 anni una guerra brutale all’insegna della «terra bruciata»; alla memoria non assunta del Gulag e dei crimini di Stato perpetrati sia in epoca staliniana che in seguito, l’ultimo tassello in tal senso è stata la messa al bando dell’associazione Memorial che era stata fondata da Andrej Sacharov; dal modo in cui la pena di morte, sospesa ufficialmente nel 1996, continua di fatto ad essere applicata nelle carceri russe dove «speciali squadre della morte» si occupano di «giustiziare» criminali ma anche oppositori politici (difficile non pensare al già citato caso di Navalny); all’attacco costante ai giornalisti indipendenti, che Fornoni, dopo averne incontrati alcuni, spesso in seguito messi a tacere dal regime, definisce «in prima linea» per il semplice fatto di rappresentare spesso i rari volti noti della critica al potere, un esercizio così raro che oggi a Mosca può costare la vita.

Dove si arresta l’analisi del libro di Fornoni, prende avvio la ricerca dello storico britannico Ian Garner che ne I figli di Putin (Traduzione di Anna Zafesova, Linkiesta Books, pp. 314, euro 22) sembra tirare le somme del clima che si è andato costruendo nel Paese nel corso dell’ultimo ventennio e che ha fatto da retroterra ideologico alla guerra in Ucraina. Così, l’«indagine sul nuovo fascismo russo» di Garner si sviluppa proprio intorno alle retrovie dell’invasione del 2022: quella in cui si è affermata la «generazione Z».

«La Russia – precisa Garner – è stata sommersa da simboli di mascolinità, religiosità e nazionalità che sono stati creati ad arte man mano che la guerra sfuggiva di mano ai militari. Immagini attinte dai vari passati della nazione – sovietico-religioso-zarista – vengono ricamate sulle giubbe dei soldati, sventolate dalle automobili, e appiccicate alle finestre delle aule scolastiche. La Z, il simbolo governativo della guerra, è ovunque. La televisione trasmette parate militari e manifestazioni “spontanee” a favore della guerra. E in Internet c’è un profluvio di meme, filmati e slogan che inneggiano alla gloria militare passata e presente della Russia zarista, sovietica, santa o putinista».

È per questa via che nel periodo che intercorre tra la prima elezione di Putin (2000) e la guerra a Kiev (2022), «partendo dai margini del Cremlino» e della politica, alcuni ideologi sono stati promossi al centro del dibattito nazionale come interpreti di potenti narrazioni fasciste. Facile pensare, al riguardo, a figure come quella di Aleksandr Dugin, teorico dell’estrema destra spesso ospite anche del nostro Paese. Descrivendo tappa per tappa dapprima la crescita dei gruppi fascisti nella società russa e poi il loro progressivo recupero, o almeno le loro idee, da parte dell’establishment putiniano, mentre lo scenario mutava, passando dagli spalti degli stadi ai social network, Garner racconta la progressiva militarizzazione della cultura giovanile e quella sorta di «nazionalizzazione delle masse» che si è andata operando in un Paese che, smarrite le promesse del futuro, sembra essersi rifugiato in una costante evocazione del proprio passato immaginario.

Il fatto che la Russia di Putin – e come si è visto fin qui non solo in virtù dei noti legami con l’estrema destra europea e internazionale, da Trump a Le Pen, passando per Salvini -, si sia trasformata in un simbolo della capacità delle culture reazionarie di «farsi Stato», non deve far però credere che non siano attive nel Paese forme di resistenza o di opposizione politica. Anche senza dover tornare ad evocare i nomi di Politkovskaja e Navalny, figure per altro tra loro molto differenti, proprio «contro» questa violenta deriva è attivo da tempo più che un vero movimento, molte e diverse forme di mobilitazione. In La Russia che si ribella, Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese descrivono a un tempo le forme che hanno assunto le proteste e la repressione nel corso dei vent’anni di potere di Putin.

Se la violenza della repressione e i numerosi omicidi politici di oppositori hanno impedito che si sviluppassero strutture di massa in grado di opporsi al potere, proprio le proteste spontanee con cui decine di migliaia di russi si sono opposti due anni or sono all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, segnalano come malgrado la brutalità del potere in molti siano ancora pronti perlomeno a cercare di far sentire la propria opinione critica. Franceschelli e Varese scelgono così di dar voce a cinque protagonisti di questa parte della società russa che non intende arrendersi né a Putin né alla guerra. Anche a costo, come già ricordato a proposito di alcuni noti volti dell’opposizione, di mettere in gioco molto di sé, se non davvero tutto. Ljudmila, Iann, Grigorij, Ivan e Katia, rappresentano generazioni, ambienti sociali, culture tra loro anche molto differenti: a unirli è sia la determinazione ad agire che la ricerca di forme di protesta che possano talvolta essere utilizzate anche individualmente, o comunque sottraendosi al controllo soffocante del potere.

Anzianeche, sopravvissute alla Seconda guerra mondiale, negano con tutte le loro forze l’utilizzo retorico della «Grande guerra patriottica» per giustificare l’invasione dell’Ucraina da parte della propaganda putiniana. Giovani universitarie che raccontano come le autorità abbiano messo a tacere anche le denunce di molestie avanzate dalle studentesse. Attivisti che non esitano a ritenere che «l’azione diretta» sia l’unica forma per opporsi a Putin, ma che sanno anche come solo l’esilio può permettergli di salvare la propria vita.

Nel racconto corale che prende corpo nelle pagine di La Russia che si ribella, che si chiude con un’utile «Cronologia dell’opposizione e della repressione 2000-2024» e un «Glossario della resistenza», c’è spazio anche per un pope di un piccolo villaggio della regione di Kostroma, «il primo e sino a ora unico esponente della Chiesa ortodossa a essere stato condannato per un sermone» contro la guerra in Ucraina. Questo, mentre il Patriarca di Mosca Cirillo è da sempre uno dei più validi alleati di Putin. Non tutto, forse, è perduto. Del resto, come racconta Grigorij, un docente dell’Università di Mosca che ora vive negli Stati Uniti: «In Russia c’è un modo di dire: prima dell’alba c’è il buio peggiore. Ora è molto scuro».


(il manifesto,12 marzo 2024)

di Renata Sarfati


ab rebus rerum simulacra recedunt.

«…dalle cose si distaccano

I simulacri delle cose.»

Lucrezio, De Rerum Natura, libro IV


Il 10 marzo è mancata Valentina Berardinone.

Pochi giorni prima della sua morte ero passata a trovarla. Mi accoglie la gentile Erika, «ormai non si sveglia quasi più…» mi dice. Entro nella sua stanza, voglio guardarla e salutarla, dorme minuta nel suo letto come un uccellino. Poi passo nel suo studio e mi soffermo a guardare quello spazio bello e luminoso che conoscevo bene, con le grandi tele in parte appese al muro e in parte posate a terra quasi a formare delle onde grigie e blu, sulla scrivania gli ultimi fogli che aveva dipinto pur vedendoci poco. Ma il mio sguardo cade su un foglietto scritto a mano attaccato alla parete che riporta il verso di Lucrezio in latino che apre questo ricordo. Mi commuove profondamente il suo modo di dire addio al mondo e la riconosco.

De rerum natura era il libro che teneva sul comodino e costituiva un suo costante riferimento, non a caso il suo lavoro artistico era permeato del mondo classico che aveva assorbito dalla Napoli in cui era nata e a cui era legatissima.

Non voglio parlare del suo percorso artistico e intellettuale che spazia dalla ricerca visiva più avanzata ad opere artistiche di grande rigore. Altre e altri lo faranno con la competenza necessaria.

Ho conosciuto Valentina, mia grande e preziosa amica, in Libreria delle donne. Valentina era tra le artiste che avevano donato una loro opera per finanziare l’apertura della libreria nel 1975 restando sempre parte della libreria e partecipe attiva anche con numerosi e generosi contributi artistici. Ricordo in particolare, in ordine cronologico, la copertina di Sottosopra del 1976, il secondo manifesto della libreria, una bellissima opera tutta d’oro sulla parete del circolo e un grande quadro.

Ritornando agli inizi del mio incontro con Valentina, voglio ricordare il momento in cui è nata tra noi una vera e propria amicizia: è successo nella cosidetta “via Disciplini”, un piccolo studio dove si festeggiava l’uscita della rivista Non è detto realizzata da Silvia Motta, Giordana Masotto, Elena Medi e Valentina che ne curava le immagini. Nell’atmosfera generale di allegria e di festa l’ho conosciuta più da vicino e siamo diventate amiche, un’amicizia che non si è mai interrotta fino a oggi.

Con lei ho scoperto dei mondi. La napoletanità era la sua vera essenza, ma era nel contempo cosmopolita per la sua storia familiare, poteva passare con disinvoltura dall’inglese al francese al portoghese. Amava la conversazione brillante, spiritosa, e lei lo era. Così come profonda era la sua cultura nella poesia, nella musica, nell’arte senza mai essere saccente, perché faceva parte della sua stessa natura.

Ha avuto una vita lunga e ricca di riconoscimenti e soddisfazioni, ma anche attraversata da grandi dolori. Aveva tuttavia conservato in fondo alla sua anima qualche cosa d’infantile che le dava la libertà di un sorriso, di una battuta anche negli ultimi giorni di vita.


Renata Sarfati


Seguono tre belle foto inviate e autorizzate da Paola Mattioli


Paola Mattioli, Valentina Berardinone, 2018


Paola Mattioli, Valentina Berardinone, 1972


Riproduzione copertina Sottosopra, 1976


(www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2024)

di Chiara Zamboni


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre La scommessa del partire da sé, 10 marzo 2024


La pratica del partire da sé nasce all’interno della politica delle donne ed è – per la sua storia – molto vicina a quella dell’autocoscienza, di cui hanno parlato qui in Libreria Linda Bertelli e Marta Equi. Nel testo Autocoscienza ancora, che leggiamo in VD3, 9 ottobre 2023, aggiungono alcune osservazioni sulla pratica del partire da sé: «Due significati: partire da sé significa esprimersi, prendere parola, in un rapporto con il mondo che non cancelli la presenza dei corpi, l’essere corpo di chi parla e di chi ascolta. Il secondo è che partire da sé significa accettazione di sé per come si è e questo esistere per quello che si è, è, per Lonzi, ancora un passo di natura politica».

Con la comunità filosofica Diotima abbiamo scritto un testo: La sapienza di partire da sé. Nel libro Luisa Muraro dice: «Nell’idea e nella pratica del partire da sé, c’è la prospettiva di uno stare al mondo nella fedeltà a sé». «La pratica del partire da sé fa ritrovare non solo la strada, ma te stessa sulla strada nel punto in cui avevi perduto la strada e te stessa». «Partire, o partire da, significhi un movimento iniziale e un trarre spunto, quasi un attingere da. Dunque la frase mette insieme lo staccarsi e il prendere inizio, il separarsi e l’originarsi». «Il partire da sé, nel suo duplice significato coincidente, è dunque un rinnovare, nel contesto biografico e storico, il movimento della venuta al mondo» (Diotima, La sapienza di partire da sé, Napoli 1996, pp. 13-14). Un venire al mondo caratterizzato da uno slancio di apertura a partire dal qui e ora della contingenza.

Quale efficacia ha avuto questa pratica nel mio agire? L’ho trovata essenziale e mi corrisponde profondamente. È uno scandaglio, una sonda per muovermi in modo orientato e radicato allo stesso tempo.

Un suo presupposto, per come la sperimento, è che tutte e tutti noi, quando cerchiamo di dire quel che viviamo, lo facciamo dall’interno di un quadro di riferimento, di un contesto. Di una situazione, di cui partecipiamo.

Altro presupposto: abbiamo con quel contesto una molteplicità di legami consapevoli e inconsapevoli. Legami molteplici, non scelti, con persone e cose. Con luoghi precisi. Relazioni, di cui in parte sappiamo ma che per lo più tessono il lato inconscio del corpo e hanno a che fare con la memoria involontaria.

Proprio perché siamo all’interno di un contesto di connessioni, non si può dire che siamo dei soggetti trasparenti a noi stessi – coscienza pura – che considerano un contesto oggettivo fuori di sé. Piuttosto: ne partecipiamo dall’interno. Ne facciamo parte.

Questo ha una conseguenza. Quando dico che parto da me, in realtà parto da una molteplicità di legami che fanno il tessuto di un’esperienza. Io ne sono uno snodo e allo stesso tempo sono impegnata ad esprimerla. Certo, sono io a sentire questa esperienza e a metterla in parole, ma con la consapevolezza che sto mostrando il potenziale di ciò che io vivo assieme ad altri e alle cose. Non mi metto al posto loro, non mi sostituisco, ma esprimo un contesto di cui partecipiamo assieme. Parlando di un’esperienza, sto dando voce a ciò che io assieme ad altri viviamo, che le cose attorno a me vivono, però dalla posizione che abito in questi legami. Cioè dalla prospettiva contingente e singolare che occupo. O forse sarebbe meglio dire: che sono.

Porto due esempi.

Per anni d’estate sono andata nello stesso posto in montagna. Tra la metà degli anni Ottanta e Novanta ho cominciato a percepire di anno in anno un cambiamento nel colore del cielo e nelle forme delle nuvole. Nella qualità della luce. A me sembrava evidente e ne parlavo, ma a nessuno interessava veramente. Mi ascoltavano per gentilezza, mentre io ero inquieta per quello che percepivo. Solo col tempo gli studiosi del clima hanno parlato dei cambiamenti che vedevo e ne hanno dato una interpretazione scientifica.

Il secondo esempio. Nel 2007 è passata una legge sull’università che applicava le normative europee, che volevano la governance come sistema di governo delle organizzazioni. All’inizio non è successo nulla. Poi però mi sono resa conto di un certo malessere che serpeggiava per qualcosa di indefinibile che stava cambiando. Il malessere era palpabile. Ho allora cercato i segni di questo mutamento. Segnali minuti, ma precisi. Uno ad esempio: essere obbligati a valutare ed essere valutati in modo anonimo. Senza sapere da chi si era valutati. Valutare le segretarie in modo anonimo. Essere valutati dagli studenti in modo anonimo, che sono obbligati a farlo, altrimenti non si possono iscrivere agli esami. Essere valutati nella produzione scientifica in modo anonimo. L’anonimato della valutazione rompeva di brutto le relazioni. I questionari anonimi spezzavano tutte queste relazioni creando legami non liberi e fasulli.

È chiaro che vi sto dando una lettura già politica di quell’esperienza, il cui primo delinearsi e prendere forma però è stato attorno ad un malessere mio che mi sembrava fosse per lo più condiviso. Un partire dalla mia inquietudine, sentendo che esprimeva qualcosa di vero per tanti altri.

Abbiamo allora scritto testi per dire che l’università che volevamo era quella delle relazioni e della fiducia. Abbiamo discusso di questo pubblicamente. Non abbiamo vinto, ma il fatto importante è che abbiamo mostrato per tutti lo scontro simbolico tra una università delle relazioni e quella delle valutazioni anonime, della governance.

Penso che con questi esempi sia più chiaro quel che dicevo: uno dei presupposti di come mi regolo nella pratica del partire da sé è che, se sento – a partire da me – qualcosa di dirompente e in trasformazione, non lo considero mai qualcosa di solo mio ma come qualcosa che riguarda me in relazione ad un contesto. In relazione agli altri. Alle cose. Poi la conoscenza aiuta, ma il primo passo è sempre un’intuizione, una percezione, un sentire in un’esperienza che non si è fatta ancora chiara e che pure si avverte che segnala qualcosa di essenziale.

Questa pratica, l’ho vista agire da tante donne, femministe e non femministe. Come in altre situazioni, il femminismo ha dato una lettura politica ad un agire comune delle donne. In particolare ho visto che molte donne, quando accadono cose fondamentali che le coinvolgono, attraversano spazi di silenzio, non si precipitano a dare giudizi. Entrano in un tempo sospeso, prima di trovare le parole.

Ricordo quando il governo italiano decise di partecipare con azioni militari a fianco della Nato per la guerra della ex Jugoslavia nel 1991. Era stato uno shock per tanti motivi. I giornali accusarono le donne per non essere intervenute subito sulla questione. Perché avevano aspettato prima di esprimere un giudizio. Ora quello che scrivevano i giornalisti era vero. C’era stato un silenzio intenso. Riporto questa esperienza, perché è stata la prima volta che mi sono resa conto che le donne hanno bisogno di un certo tempo di silenzio quando un’esperienza è coinvolgente e occorrono parole non scontate. Ci sono state e ci sono oggi altre guerre, ma l’esperienza di quel silenzio, che sentivo necessario in me e vedevo in altre, mi ha reso più consapevole.

Credo infatti che occorra un momento di silenzio perché l’anima vada a tastare tutti i legami che abbiamo con la realtà per trovare le parole giuste per un’esperienza. È un silenzio sensibile, in cui accade molto. È quando si avverte una situazione in tutta la sua complessità, ed è come se l’anima toccasse le corde via via dei legami che la muovono, sentisse sensibilmente le vie del mondo, per permetterci poi di dire che esperienza si sta vivendo. E questo aiuta ad arrivare ad un giudizio. Dico l’anima sensibile, ma si può anche dire il corpo nel suo lato inconscio, incrostato di legami invisibili.

Certo – in questa pratica – occorre una grande fiducia in quel che si avverte e una fedeltà a quel sentire, che a prima vista e apparentemente è solo soggettivo. Altrettanto importante è che qualcuna abbia fiducia in noi.

E poi sappiamo che non è facile trovare le parole giuste per dire l’essenziale dell’esperienza che viviamo. Siamo ben consapevoli infatti che ogni nostra esperienza è già interpretata dai media, dalle persone delle istituzioni, dai luoghi comuni della nostra società. Le prime cose che vengono in mente sono proprio le interpretazioni più consolidate, perché hanno funzionato nel passato, oppure quelle subito fornite dai media. La scommessa è dare spazio a ciò che nella nostra esperienza resiste al senso comune abituale e a risposte già formulate. Anche se questo ci obbliga a stare silenziose per un po’, a balbettare piuttosto che essere brillanti e perfette.

Rimango sempre perplessa quando, nelle discussioni politiche con donne, una riporta come proprie le opinioni già date che circolano, identificandosi con quello che è stato già detto. Mi viene da chiedere: ma tu dove sei? Rispondendo a questa domanda, si entra in un percorso simbolico che dice del mondo e contemporaneamente ci ricongiunge con noi stesse.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2024)

di Riccardo Fanciullacci


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre La scommessa del partire da sé, 10 marzo 2024


Nei contesti in cui c’è familiarità con il pensiero della differenza e col suo linguaggio, viene sempre ripetuto, tanto da donne quanto da uomini, che questi ultimi sarebbero in difficoltà a partire da sé. Vorrei ragionare su tale pratica senza accontentarmi di questo discorso già sentito e dei miseri vantaggi che può assicurare in quei contesti, cioè l’approvazione che non deriva da ascolto e comprensione del discorso dell’altro, bensì dal riconoscersi in formule note. Partire da sé non è anche tentare di sottrarsi a quei feticci di identità puntellati da simili riconoscimenti?

Se l’invito ricevuto è di scrivere sul partire da sé partendo da me e se partire da sé non è raccontare di sé, ma cercare le parole per dire una difficoltà in cui si è stretti, mostrando così che è un nodo che ha un significato più ampio, politico, allora si potrebbe tentare il colpo di scena e guardare alla difficoltà di parlare a quelle che troppo ne sanno per poter ascoltare. Ci sarebbe pure l’aneddoto: la sconosciuta che mi ha dato i suoi consigli su come dovrei realizzare il partire da me perché non le risulti noioso. Ridicolo? In effetti avrei riso, se non fosse stato per questo pensiero che ha fatto capolino: un uomo che non abbia il debito di gratitudine che ho io verso le maestre del pensiero della differenza, certo a questo punto avrebbe tagliato l’angolo e lasciato la consigliera a cercarsi il suo specchio. Ad ogni modo, non sarebbe un gran colpo di scena perché Lia Cigarini, una di quelle maestre, ha già dato un nome a questa difficoltà (si veda l’articolo “Usare la mediazione maschile”, nella nuova edizione del suo libro). Soprattutto, quella difficoltà non è davvero la mia: quando un incontro mi ha suscitato il desiderio di incontrare il pensiero della differenza, mi sono messo in ascolto, di voci e scritture, per quasi vent’anni e alla fine l’interlocuzione, la fiducia e lo scambio ci sono stati.

La difficoltà su cui invece, in questo periodo, sto ragionando a partire da me e di cui ho pensato di parlare per raccogliere l’invito a ragionare qui sul partire da sé è una difficoltà che incontro sul luogo di lavoro, nel momento in cui cerco di muovermici in un modo diverso. Se fossi un sindacalista o un giornalista, questa mia difficoltà potrebbe riuscire a dirci qualcosa sui sindacati o sui mass-media, ma insegno in un’università per cui è da lì che devo partire. Si dice spesso che oggi il sapere è mercificato e l’università aziendalizzata. Dicendo così si nominano certo dei processi reali, ma è significativo che, nominandoli in questo modo, si riconosca implicitamente che l’università non è di per sé un’azienda come le altre o un’impresa interna alla logica del mercato. Per capire la difficoltà che sto cercando di esporre, questo è dunque il primo elemento: di per sé, in università ne va di qualcosa di più di un interesse privato, ne va del sapere, della sua ricerca incondizionata e della sua trasmissione alle nuove generazioni. Un po’ come in un ospedale ne va della cura incondizionata della salute, secondo quanto ci ricorda il giuramento di Ippocrate. Sono questi degli ideali e non la realtà? Esattamente, sono gli ideali a cui quelle realtà sono rimandate come alla loro misura. Un ideale può essere investito da un desiderio: non è detto che succeda e se succede le cose possono ancora andar male, ma possono anche andar peggio, ad esempio se il desiderio investe solo l’ultimo modello di smartphone. Ad ogni modo, il mio desiderio investe quegli ideali. Ma dal pensiero della differenza ho imparato che quell’investimento, per non andare a male, deve tradursi in relazioni e tanto nutrirle quanto farsene nutrire. Ecco, dunque, il primo filo del mio nodo: un luogo che convoca un ideale (il sapere), un ideale che suscita un desiderio (il mio), un desiderio che sa di poter coltivare quell’ideale solo in una rete differenziata di relazioni in cui circola fiducia. Ho scritto che la rete delle relazioni è differenziata perché ce ne sono almeno di due tipi: quelle con le e gli studenti e quelle coi colleghi e le colleghe. Il nodo di cui vorrei parlare riguarda queste seconde.

Di solito, il partire da sé ottiene necessità quando il desiderio è come ostacolato o stretto dalle cosiddette “mediazioni ricevute”, le interpretazioni e le forme di rapporto dominanti. Ebbene il desiderio che ho evocato si trova effettivamente stretto da un certo modo di abitare l’università che, è facile notarlo, non favorisce né la coltivazione del sapere (la ricerca autentica, l’insegnamento coinvolgente), né il fiorire di relazioni di fiducia (non si dimentichi però il segreto: non sono due cose separate; se non se ne favorisce una, si soffoca anche l’altra).

Dare il nome giusto a questo modo di abitare l’università, che fa ostacolo, è fondamentale. Cercando questo nome, ho innanzitutto escluso che fosse “avidità o sete di denaro”: troppi pochi soldi circolano in università perché la passione che travia il desiderio sia quella per la ricchezza. Un’altra ipotesi che può venire in mente è che a sviare, soprattutto gli uomini, sia la ricerca del sesso, ma il movimento Metoo è entrato anche all’università accelerando una trasformazione di quei costumi. La terza e più importante ipotesi è che la passione sviante sia quella per il potere in generale (il poter imporre, il poter decidere, il far fare) e, in particolare, per il potere dato dal prestigio. Per quanto di potere in palio all’università (e soprattutto nelle facoltà umanistiche) non ce ne sia poi molto e il prestigio sia calante da vari decenni, è fuori di dubbio che dinamiche di potere ce ne siano e che producano i loro effetti malefici, sia a livello dei vissuti, sia soffocando possibilità. Ho anch’io la mia buona dose di storie in proposito, ma invece di raccontarle, rimando a un’opera cinematografica che riesce a parlarne con competenza, pur col tono della commedia: si tratta della trilogia Smetto quando voglio. In rete si trova anche una mia analisi dei primi due film, ma non meno importante è il terzo che solleva l’inquietante problema di quanto di fatto si sia conniventi con quelle dinamiche, per mediocri paure o ristretti calcoli. Proprio questo problema obbliga il ragionamento a fare un passo in più e a chiedersi: dov’è che queste dinamiche di potere trovano il loro aggancio soggettivo? Interrogando la mia esperienza, mi sto insomma chiedendo perché così tante persone, uomini e donne, le assecondino o vi partecipino. La risposta è semplicemente che sono abitate da un desiderio di potere o prestigio? Ne ho incontrate alcune per cui sembra proprio così, ma le altre? Molte pensatrici e qualche pensatore, ad esempio Sant’Agostino, suggeriscono che quel desiderio sia in realtà un desiderio d’amore che non ha trovato la strada giusta. Da qualche tempo mi chiedo se la spiegazione non sia ancora diversa.

Più che un teatro in cui si scontrano solo grandi ambizioni di potere, a me sembra che gran parte della vita accademica assomigli sempre più a un’associazione a responsabilità limitata. Al posto della dedizione alla ricerca di un sapere che sia all’altezza delle sfide del presente o a un insegnamento che esige l’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni, non stanno le drammatiche vicende di un Macbeth o di una Lady Macbeth, bensì povere routine. Ci si adatta, non senza i consueti lamenti, a richieste e modelli di cui è escluso interrogare i fondamenti o le alternative. Limitando il corso all’esposizione di un manuale, la ricerca alla scrittura di saggetti ben confezionati e il lavoro coi laureandi alla valutazione di elaborati verso cui non c’è attesa, si rinuncia a delle possibili sorprese e persino a delle possibili gioie. Mi chiedo perché succeda tutto ciò e non mi soddisfa la risposta che invoca il desiderio di potere e di carriera. La mia ipotesi è che quei modelli seducano il soggetto promettendogli i vantaggi di una responsabilità limitata. Ossia: schermando il pericolo che si corre quando si lascia la strada vecchia per raccogliere la sfida di un desiderio grande come può essere il desiderio del sapere (che si sente in sé e che si legge negli occhi di altri, ad esempio le e gli studenti). C’è chi dice che sia proprio questo il nuovo volto del potere in università: non più la dinamica tra il servo e il barone, ma i modelli impersonali dell’accreditamento e della valutazione standardizzata. Io aggiungo che nel tornaconto ci sono i vantaggi, di corto respiro, della responsabilità limitata.

Questi vantaggi, comunque, per me sono svantaggi perché mi passa la voglia di fare e finisco per deprimermi. Così, cerco passaggi verso un modo diverso di abitare questo luogo. Provo a fondare situazioni differenti. Lo scorso ottobre, ad esempio, ho organizzato un seminario, che continua ancora, in cui leggiamo Le nuvole di Aristofane, la commedia tra i cui personaggi c’è Socrate: è un seminario che non dà crediti agli studenti e che non viene retribuito ai docenti. Si basa sull’idea di una messa in comune dei saperi e delle esperienze per ragionare su quel testo: partecipano una quarantina di studenti e molti colleghi e colleghe di discipline diverse, dalla letteratura greca a quella bizantina, dalla semiotica alla storia del teatro, dalla filosofia politica alla storia greca, dalla paleografia all’antropologia culturale e alla storia della filosofia antica. Per più versi, si tratta di un contesto generativo.

Sto dunque raccontando una storia che finisce bene? Non proprio, perché c’è qualcosa che mi angustia. Potrei dire che è il terzo filo di questo nodo, insieme al desiderio grande e alle forme della responsabilità limitata. Lo descriverò così: se sono le relazioni di fiducia la risorsa attraverso cui creare un luogo per quel desiderio, entro lo spazio ingombrato da quelle forme, dove cercare la misura per quella fiducia? A me viene spontaneo cercare tale misura prendendo a modello le relazioni di amicizia: cerco, insomma, di diventare amico con quei colleghi e colleghe insieme a cui metto in piedi il tipo di situazioni generative descritte. Ma alcune brutte esperienze vissute qualche anno fa in Francia mi dicono che non è una buona soluzione. In effetti, se ci penso con un po’ di distacco, mi accorgo anch’io che, in un contesto in cui è forte la tentazione della responsabilità limitata, non è un’ottima idea proporre un coinvolgimento così intenso come l’amicizia. Ci si destina a delusioni, che però si potrebbero evitare perché dipendono da attese eccessive. Ho dunque bisogno di un’altra misura per le mie attese, ma quale?

A dire il vero, Aristotele parlava di un tipo di amicizia che si realizza proprio nella coltivazione comune di ciò che è più alto, ma non è chiaro come imparare a praticarla. E se, invece, l’amicizia e la fiducia fossero da coltivare altrove, così che da lì possano nutrire un modo di entrare nei contesti dove prevale la responsabilità limitata, capace di coinvolgimento e di creatività, ma non privo di prudenza? Rileggendo il saggio di Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, mi ha colpito in proposito questa frase: «Quello che devo saper fare sono i conti con la realtà, me compresa, e farli bene». Qui si allude alla possibilità di un conto in cui possano trovare misteriosamente posto anche quelle figure dell’incalcolabile che sono il desiderio e gli ideali (o beni comuni). Quel desiderio, grande ma intimo, che impari a riconoscere entro le relazioni di fiducia, nominarlo e giocarlo poi anche in altre relazioni, di cui accetti la differenza proprio nello stesso momento in cui resisti a che divengano a responsabilità limitata. Penso sia questa contrattazione sapiente la via difficile e stretta che mi indica Muraro.


(Via Dogana Tre, www.libreriadelledonne.it, 12 marzo 2024)

di Lucia Capuzzi


L’una è ribelle dalla nascita: sostiene di aver compiuto il primo gesto di disobbedienza civile a cinque anni. L’altra non avrebbe mai pensato di diventare un’attivista.

L’una è cresciuta nel Sudafrica dell’apartheid, ha un passato nelle pubbliche relazioni e un’ironia dirompente. L’altra ha studiato economia, alle parole preferisce i numeri e ha un carattere tranquillo, quasi timido.

L’una ha settantasette anni e l’altra ne ha quarantasei.

Sulla carta queste due donne non potrebbero essere più diverse. Soprattutto perché l’una – Robi Damelin – è israeliana, l’altra – Layla al-Sheikh – è palestinese.

Ciò che le accomuna, però, è più forte di quanto le divide. Primo, a entrambe la guerra ha strappato un figlio. David, secondogenito ventottenne di Robi, è stato vittima di un attentato mentre era in servizio come riservista nella zona di Hebron, il 3 marzo 2002, nel pieno della Seconda Intifada. Poco più di un mese dopo, l’11 aprile, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento quarantott’ore dopo.

Il secondo punto di unione è che Robi e Layla hanno deciso di trasformare il dolore in motore per costruire pace in una terra dilaniata da settantacinque anni di conflitto. Nemmeno il 7 ottobre ha fatto cambiare loro idea. Anzi, da allora hanno intensificato ulteriormente l’impegno in Parents circle. L’organizzazione, dal 1998, fa incontrare persone di entrambe le parti che hanno perso un familiare e attraverso l’empatia, promuove il dialogo. Spesso Robi e Layla sono chiamate a dare la propria testimonianza insieme. Da anni fanno coppia quasi fissa. Stavolta, all’incontro promosso dall’Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale dell’Università Cattolica di Milano, però, Robi è venuta da Tel Aviv da sola. Problemi con il passaporto da parte delle autorità israeliane hanno costretto Layla a restare a Battir, villaggio del governatorato di Betlemme dove risiede: è, comunque, riuscita ad essere presente attraverso lo schermo del pc.

Dunque, a dispetto di tutto, continuate a credere nella pace…

Layla: Sennò non sarei qui.

Robi: Altrimenti sarei rimasta a casa a fare la maglia e a giocare con il mio gatto.

Robi, che cosa è accaduto quando avevi cinque anni?

All’epoca vivevo in Sudafrica e adoravo gli animali. Ogni mattina, vedevo l’un uomo che ci consegnava il latte frustare con violenza il suo cavallo per spingerlo a camminare. Quel gesto mi faceva arrabbiare. Un giorno non ce l’ho fata più e, insieme alla mia amica Barbara, abbiamo rubato e nascosto il cavallo. Quando l’ha scoperto, mio padre si è infuriato. Quando, però, ha compreso le ragioni per cui l’avevo fatto, mi ha capita. Sono sempre stata una ribelle: come figlia e come donna.

Per te Layla, invece, l’approdo all’attivismo è stato un processo più lento…

Soprattutto la scelta di impegnarmi per la pace. Quando, in Giordania, dove sono nata e cresciuta prima di sposarmi, sentivo le notizie provavo rabbia per il modo in cui gli israeliani trattavano i palestinesi. La mia indignazione è cresciuta dopo il trasferimento a Betlemme. Poi Qusay è morto ed è cambiato tutto.

Da subito?

No, al contrario. Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica. In realtà, ho accettato solo per farla smettere, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza. Il mio momento è stato quello.

Robi tu, invece, eri già impegnata per la pace da prima della morte di David.

Sono arrivata a Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Non ho mai capito perché l’ho fatto. È stato un impulso. Dovevo restare sei mesi. E, invece, contro ogni previsione, sono rimasta. Fin dall’inizio, ho fatto attivismo per il dialogo in ambito sociale, non politico. Quando i miei figli, Eran e David, sono andati a fare il servizio militare sono rimasta sconvolta nel vederli con un fucile in mano. Perché hanno accettato la leva? Non è facile spiegarlo. C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un istinto molto forte di protezione della comunità. Devi difenderla, è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Non so come viene inculcato ma è così. Si deve partire da questo per comprendere il comportamento attuale degli israeliani. La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi le convinzioni esistenziali delle persone. Le ha fatte sentire indifese, le ha scosse nel profondo, le ha terrorizzate. E cosa si fa quando ci si sente umiliati e impotenti? Si attacca in modo feroce. La presenza degli ostaggi a Gaza e l’impossibilità di liberarli con la forza prolunga il senso di fallimento rendendo ancora più dura la risposta.

Robi, la morte di David l’ha spinta a un maggiore attivismo?

Dopo il militare anche David era entrato nel movimento pacifista. Quando è stato chiamato come riservista, non voleva prestare servizio nei Territori occupati. Alla fine è andato perché pensava che avrebbe potuto trattare i palestinesi in modo degno e il suo esempio avrebbe ispirato altri commilitoni. Così è morto. Quando i militari sono venuti a darmi la notizia, ho detto loro, di getto: «Non uccidete nessuno nel nome di mio figlio». Tre mesi dopo, dovevo andare a una manifestazione contro l’occupazione. I promotori mi hanno chiesto di parlare. E ho accettato subito. Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla. Delle persone di Parents circle mi hanno ascoltato e contattato. Ho cominciato a partecipare agli incontri e alla fine l’organizzazione è diventata la mia vita.

Credete che le donne abbiano una “marcia in più” nella costruzione della pace?

Layla: Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo. Per settantacinque anni abbiamo subito le scelte degli uomini, che hanno distrutto le nostre vite. È il tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace. Uno delle nostre colonne era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica.

Robi: Yonatan, il figlio di Vivian, è entrato in Parents circle. L’organizzazione è stata fondata da un uomo, Yitzhak Frankenthal. Nei primi incontri le donne erano poche. Anche quando sono arrivata io era così. Le palestinesi erano ancora meno: quando c’erano, stavano fuori con i bambini. Ho capito che le cose dovevano cambiare. Così è nato il gruppo femminile che pian piano è diventato il motore dell’organizzazione.

Layla: A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?


(Avvenire, 11 marzo 2024)