di Redazione F.Q.


Utilizzare i termini al maschile non è né neutro, né neutrale. Così il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha voluto ribaltare la prospettiva. La presidente, la rettrice, la segretaria, le professoresse, la candidata, la decana: tutto al femminile. È quanto prevede il nuovo Regolamento generale di ateneo che in un comma introdotto all’articolo 1 specifica che «I termini femminili usati in questo testo si riferiscono a tutte le persone», quindi anche quando riguardano degli uomini.

A spiegare la genesi è stato il rettore Flavio Deflorian (o meglio, la rettrice per il nuovo regolamento). Tutto nasce dalla necessità di evitare di appesantire il documento specificando i termini, in tutti i passaggi, sia al maschile che al femminile: da qui è arrivata la decisione, per rendere tutto più fluido, di declinare tutto su un unico genere. E la scelta però è ricaduta per la prima volta su una bozza con «femminile sovraesteso» per «mantenere all’attenzione degli organi di governo la questione». «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso», racconta Flavio Deflorian: «Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni». Un “segnale” che il cda ha approvato all’unanimità.


(Il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2022)

di Clelia Mori


Al netto della millenaria mitologica voglia maschile di non dipendere dalle donne per nascere, ancora oggi ben rappresentata dalla tecnologia riproduttiva che cancella la relazione tra chi sta diventando madre e chi sta diventando bambino/a e il loro futuro, quanto conta per gli uomini non poter partorire, non avere questo sapere corporeo quando decidono di fare la guerra? Cosa è per gli uomini la vita e la morte, e quanto spazio ha nel loro vivere la nascita e la morte? Me lo sto chiedendo da un po’ e so che non c’è una risposta perché questa relazione è un tabù, per le donne che spaventate dal patriarcato non sanno valorizzare il loro potere e per gli uomini che non vogliono interrogarsi e preferiscono inventare.

Ho appena letto l’interessante libro di Rosella Prezzo Trame di nascita sull’importanza della nascita, i suoi miti maschili, la morte, gli uomini e le donne e dal 2015 lavoro come artista sulla sapienza del far nascere del corpo femminile, la sua preziosità. Da tempo, penso che la nascita e la morte siano viste, sentite, valutate in modo differente tra uomini e donne. Lo stesso vivere e sentire la vita, persino l’amare credo siano diversi tra maschi e femmine e penso che questa differenza incida nello stare e nel fare mondo anche nei confronti della guerra. I femminicidi sono un macabro esempio dell’invenzione maschile del far morire con qualsiasi arma, anche davanti ai propri figli/e. È la forza fisica a far muovere le armi, e le armi unite alla forza “virile” sono all’origine della guerra. Non si può dire non mi riguarda, io non la faccio la guerra. Chi non la fa si chiede meno di quello che potrebbe e forse dovrebbe. C’è un velato e inconscio sentire maschile non detto: come se la guerra cadesse dall’alto e fosse un atroce invisibile volere divino, e questo non detto accomuna i sessi nell’esercizio del potere e nel desiderio di allontanare da sé qualsiasi responsabilità, convincendo chi vota che lo fanno per la democrazia o per il potere da restaurare nel paese. Non vogliono colpe nelle mortali tragedie che creano, incapaci della relazione con l’altro e della necessità della mediazione costante nell’orizzonte prezioso del limite. Quando aspetti che i nove mesi della gravidanza si concludano con la nascita sai che quello è il limite per far nascere la vita, e vuoi dare la vita, allora medi su tutto fino a immobilizzarti se serve. Io l’ho fatto e non sarò stata l’unica. È un lavoro di tessitura continuo sul limite, quotidiano, ora per ora, di cura e attenzione che gli uomini non sembrano portati a fare; non ne hanno bisogno, non fanno nascere. E lì nella tessitura tra un corpo che cresce e l’altro che lo fa crescere dentro di sé, nasce la relazione con l’altro o l’altra uguale a te. Non è così per gli uomini.

Gli uomini della guerra e gli altri che non si interrogano sembrano non sapere cosa sia la relazione tra umani e umane, addirittura anche tra loro stessi, all’interno del loro stesso sesso visto che usano ancora la guerra per risolvere le insidie che si coltivano l’un l’altro. Avendo rinnegato fin dai miti il nascere da donna, non sono in grado di capire fino in fondo come ci si relaziona con l’altro e l’altra, anche se nati da donna e sembra proprio non vogliano riconoscere questa nascita per allontanare una verità disturbante sul potere reale. Non hanno mai fatto spazio a un altro/a nel loro corpo, non l’hanno mai sentito/a crescere nel grembo, non hanno mai respirato anche per lui o lei, non gli hanno mai parlato senza parole perché non servivano dentro di te, e non l’hanno mai partorito/a. Non hanno mai costruito il tempo dell’umanità col loro corpo mettendo al mondo, o saputo cosa voglia dire far nascere aspettando il tempo che serve, finché un altro/a possa, dentro di te, essere in grado di venire alla luce e poi metterlo/a nel mondo e farlo diventare negli anni una persona adulta. Non un soldato, non un uomo armato. Non gli viene in mente alle future madri.

Queste relazioni particolari non fanno parte del bagaglio di vita maschile, a qualsiasi ideologia si rivolgano, e la guerra lo rende perfettamente visibile. Il corpo maschile non aiuta gli uomini a capire la vita, non può, non è fatto per far nascere ma solo per contribuire al concepimento insieme alla donna, come invece fa il corpo delle donne che nelle sue trasformazioni le aiuta a capire come far vivere, a come privilegiare la vita sulla morte. Una vita che va vissuta tutta intera prima di morire, che accadrà quando sarà ora per il tempo che si è avuto in dote. Senza che qualcuno armato o dietro una scrivania o davanti a un microfono si senta in diritto di dare o far dare in anticipo la morte: per prepotenza, aggressività, onnipotenza, senso di proprietà, arretratezza emotiva. Primitività?

Comunque gli uomini del potere rilanciano sempre, come con le palline da tennis, su tutto, in un atto di “virilità” costante anche se ci sono le armi nucleari. Tutto gli perde di senso quando si attaccano alle ideologie e la vita degli altri non conta più. Conta solo la tua, vissuta da arcaico patriarca aspettando da millenni la morte come non ci fosse mai stata una nascita da vivere prima di morire.

Agli uomini, sul nascere, è richiesto un lavoro intellettuale raffinato dal loro corpo che non li aiuta a sentire il farsi della vita, come fa modificandosi quello delle donne, per provare a capire che vuol dire, visto l’esiguo rapporto fisico che intrattengono con la nascita. Una raffinatezza cerebrale che però non fanno o fanno male o superficialmente; preferiscono dare per scontate troppe cose della vita e non le sanno e non vogliono saperle. Le femministe e anche alcuni uomini più illuminati dicono per invidia del potere sulla vita delle donne. Io non lo so di preciso, ma spero intensamente che non sia una questione biologica e sia davvero solo invidia perché forse così rimane aperta una possibilità di incontro che ci possa salvare dall’uomo armato (e dalle forze armate). Solo un uomo, un capo religioso importante e particolare, differente dagli altri uomini: Papa Francesco, ha ragionato sul nascere da donna il primo gennaio 2020 nella sua omelia Nato da donna dove finalmente cita l’importanza del grembo delle donne, mai vista, tranne in Piero della Francesca, nella rappresentazione artistica ufficiale della Natività, salvando, mettendo in luce il grembo di tutte noi insieme a quello di Maria. Ma gli uomini della guerra non lo ascoltano, men che meno quando implora la pace per vivere. Sapranno gli uomini guardarsi dentro diversamente da come lo fanno oggi, sapranno salvare le loro e le nostre vite mettendosi all’ascolto di chi sa far nascere per imparare il valore del vivere? Cominciamo a dirglielo. Per iniziare a mettere fine alle guerre imparando ad ascoltare e a guardare, ma non il loro ombelico.


(www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2024)

di Massimo Lizzi


Il partire da sé, pratica inventata dal movimento delle donne alla fine degli anni ’60 del ’900, è stata una politica vincente per le donne. Oggi può esserlo anche per gli uomini? Chiara Zamboni scrisse che per gli uomini è una pratica difficile; il ruolo maschile tradizionale chiede loro di essere oggettivi; hanno paura di cadere nel narcisismo dell’io; lo interpretano come uno stare presso di sé piuttosto che un andare verso il mondo; temono di rimanere in una dimensione pre-politica. Abbiamo torto? Personalmente, non mi oppongo a questa pratica, ma è vero che le faccio resistenza.


Il partire da sé è un concetto che mi risulta sfuggente. Riguardo il cosa e il come. Su cosa sia il sé e su come si parta non esistono risposte chiare e univoche; né esiste un testo che traduca la pratica in teoria o almeno spieghi la procedura. Nel partire da sé ciascuno fa da sé. Questa indeterminatezza insieme con la critica «Manca (nel tuo testo, nel tuo discorso) il partire da sé» mi fa irritare. Tuttavia, ci provo e vado a tentoni. Parlo in prima persona, dichiaro i miei sentimenti, confesso qualcosa. Con impaccio e imbarazzo. Credo che questo modo sia gestibile nei rapporti duali e nei piccoli gruppi, meno nella sfera pubblica delle relazioni formali. Ragione per cui, gli uomini, come pure molte donne, si esprimono in modo neutro e oggettivo. Là dove non c’è conoscenza, fiducia e confidenza, per regolare conflitti e competizioni, si cerca di partire da ciò che è già condiviso o che si pensa dovrebbe esserlo: i principi.

Il mio sé, credo, non sente il bisogno di partire da sé. Quando parto da un principio, vi aderisco, non sono un dissociato. Diversamente, da quel principio non parto. Immagino che le donne abbiano inventato la pratica del partire da sé, per sottrarsi alla definizione di sé imposta dal «primo sesso»; per non essere più «seconde», ma libere e autonome nel proprio definirsi. Se da uomo non ho quel problema, perché dovrei adottare la pratica che lo ha risolto? Posso sentirmi alienato nei gradini inferiori delle gerarchie maschili. Allora voglio scalare la gerarchia oppure abbatterla. Il partire da sé come mi aiuta? Peraltro, alla base della gerarchia, se ho soddisfatto le necessità della sopravvivenza, sono preso dalla routine della quotidianità e del lavoro ripetitivo, il mio vissuto è piatto, le mie relazioni povere. Così, il mio sé. Partire? Meglio ancora, fuggire da sé.

Oltre la dimensione delle relazioni duali e dei piccoli gruppi, dove il partire da sé può essere utile e la sfera pubblica, lavorativa, dove invece sembra impraticabile, esiste la dimensione mass-mediatica, il contesto che Ida Dominijanni dice essere egemonico. È un contesto strano, con il quale sono sempre in contatto, tentato di pronunciarmi su cose molto più grandi di me, fuori dal mio raggio di controllo, già catastrofiche per tanti, in potenza anche per me nel prossimo futuro. Le grandi crisi globali, clima, energia, guerra. Qui, cosa vuol dire partire da sé? Se guardiamo alla pratica dei social e della televisione, come ha accennato la stessa Dominijanni, sembra essere il narcisismo dell’io, la paura attribuita agli uomini da Chiara Zamboni.

Un barlume mi è venuto in mente, ascoltando Letizia Paolozzi dire che l’otto marzo NUDM ha visto solo un orrore, mentre abbiamo davanti tanti orrori e, per fare politica, occorre vederli tutti. Affermazione ineccepibile che, tuttavia, sembra partire da un sacrosanto principio oggettivo. Infatti, se indago il mio sé, scopro che alcuni orrori li vedo più di altri. I crimini commessi dai russi in Ucraina non mi scuotono come i crimini commessi da Israele a Gaza. Perché? Questo mio sentire si espone all’accusa di doppiopesismo, un’accusa ricorrente e reciproca nelle contrapposizioni sulle guerre. Circa un anno fa, Alberto Leiss raccontò di queste contrapposizioni nel dibattito interno a Maschile Plurale, tra favorevoli e contrari all’invio di armi occidentali all’Ucraina. Opinioni politiche divisive. Poi, raccontò di una seconda fase del dibattito, dove emersero gli stati d’animo di angoscia e impotenza di fronte alla guerra. Sentimenti unificanti.

Secondo me, tra i due piani, non c’è necessariamente contraddizione. L’angoscia di fronte alla guerra può portarmi a desiderare la pace con il «nemico» o la protezione dell’amico più potente. Così immagino che tra il nostro sé e i principi oggettivi a cui aderiamo ci sia più associazione di quel che pensiamo. Il mio pacifismo di principio, che mi porta a trattenere e criticare la mia parte, può essere associato al senso di colpa. Il sentimento suscitato dai nostri orrori. Quelli commessi con i nostri soldi, le nostre armi, la nostra legittimazione politica. Nostra, di noi italiani, europei, occidentali. Il 7 ottobre in Israele è stato terribile, ma non sono stato io. Perciò, capisco l’otto marzo di NUDM.

Se le donne, le femministe, le mie amiche, sollecitano gli uomini a partire da sé, vorrei corrispondere, anche se non ne sono sempre e del tutto convinto. Il partire da sé nella misura in cui il sé è accessibile o sembra tale, quando è dato il tempo e il modo di riflettere, aiuta l’introspezione e la consapevolezza. Mi fu detto che il sé è primariamente il proprio desiderio. Eppure, non mi sento mosso dai desideri. Se lo sono, sono trattenuto, perché tendo a considerare i desideri causa di frustrazione, qualcosa da cui è meglio tenere una distanza. Penso che tra i miei principali motori interiori, forse il primo, ci sia proprio il senso di colpa. Così, per me, il partire da sé, rischia di essere il partire dal mio senso di colpa.


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2024)

di Barbara Uglietti


Yael Deckelbaum, 44 anni, nata a Gerusalemme, è una cantautrice e attivista israeliano-canadese. Si è esibita sullo stesso palco con artisti come Suzanne Vega e Chris Cornell. Nel 2016, la sua canzone“Prayer Of The Mothers”, scritta per sostenere Women Wage Peace – il movimento pacifista fondato da donne israeliane, tra cui l’attivista Vivian Silver, uccisa da Hamas il 7 ottobre nel suo kibbutz Be’eri – è diventata un inno internazionale per la pace in tutto il mondo. È attualmente impegnata in un solo-tour in Europa. È la sesta testimonial della campagna di Avvenire #donneperlapace: per scoprire tutto sul progetto e su quello che ci proponiamo,clicca qui. E per ascoltare una delle sue canzoni più celebri,guarda questo video di Avvenire.


Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».

Partiamo dall’inizio, allora: il 7 ottobre.

No: cominciamo dal 4 ottobre, perché è lì che colloco il mio “inizio”. Tre giorni prima del massacro, ero a un evento di Women Wage Peace (movimento pacifista fondato da donne israeliane) e Women of the Sun (gruppo pacifista di donne palestinesi) a Gerusalemme e sul Mar Morto. La sera ho suonato sul palco “Prayer Of The Mothers”, una canzone in cui tutte, israeliane e palestinesi, potevano riconoscersi. Eravamo migliaia, insieme, unite dallo stesso desiderio di crescere i nostri figli in pace. Sembrava tutto così “possibile”. Tre giorni dopo ho preso un volo per la Germania: avevo un concerto. Mi sono svegliata la mattina del 7 ottobre con la notizia della strage. Dovevamo suonare, la sera. Lo staff aveva sistemato all’ingresso un grande cartellone con il mio nome, il mio volto, la data e una scritta che richiamava il titolo di una mia canzone: “October 7th – War Is Not A Woman’s Game”, (7 ottobre – La guerra non è un gioco da donne). Ironico, no? Noi eravamo lì, sotto choc, a fare e rifare il numero di amici che non rispondevano più al cellulare. Ci hanno proposto di annullare l’evento. Abbiamo detto di no. Poi ci siamo messe in collegamento con alcune amiche arabe. Abbiamo cercato, insieme, di capire l’incomprensibile.

Ci siete riuscite?

Francamente, no. Ero completamente distrutta. Non potevo parlare, nemmeno pensare. Poi è successo qualcosa: una delle persone a me più vicine, Michal Halev, il cui unico figlio, Laor Avramov, è stato assassinato al Nova Festival, sebbene sopraffatta da un dolore insopportabile ha lanciato un appello a guarirci a vicenda invece di ferirci ancora e ancora. Ha chiesto di farlo affinché altre mamme non dovessero soffrire come stava soffrendo lei. Mi ha indicato una strada.

Cosa prova quando vede le immagini di Gaza?

Mi sento male. Terribilmente male. E impotente di fronte a tanto dolore. Mi si spezza il cuore: il mio cuore è davvero diviso in due. Ho persone della mia famiglia nell’esercito, persone che amo profondamente: sono soldati delle Forze di Difesa israeliane, stanno combattendo là dentro. So cosa sta succedendo a Gaza. Quello che non so è come tutti noi, israeliani e palestinesi, si sia potuti arrivare a un punto così basso. Capisco che il Paese in cui sono cresciuta è stato costruito sul trauma di migliaia di anni di persecuzione. Il 7 ottobre c’è stato un pogrom contro bambini, uomini, donne, anziani, arabi, soldati e pacifisti. I terroristi non hanno fatto alcuna differenza. Poi sono arrivati gli attacchi dall’esterno: quelli di un mondo che ha rapidamente dimenticato ciò che Hamas ha fatto, o non lo ha dimenticato affatto e lo giustifica. La gente ha cominciato a dividersi, scegliendo una parte piuttosto che un’altra. Mi sono chiesta a lungo a quale “fronte” appartenessi. Poi ho accettato l’idea che le cose sono molto più complicate di così, che non esiste il bianco e il nero. Che ognuno, ogni singola persona, ogni singolo giorno, deve trovare il proprio ruolo.

Qual è il suo?

Sono una pacifista, in un tempo in cui la maggior parte delle persone crede che l’unica alternativa sia la guerra, perché ormai hanno mille prove che non abbiamo partner per la pace. Inizierò da qui. Dalle storie individuali. Mentre nel quadro ampio vedo una sola prospettiva possibile: la soluzione dei Due Stati, che però nessuna delle due leadership – né la nostra, né la loro – vuole veramente. Il governo Netanyahu non lavora per il bene di Israele: il 7 ottobre è stato preceduto da otto mesi in cui, ogni fine settimana, centinaia di migliaia di persone hanno protestato in piazza contro di lui. Guardatevi intorno: ovunque ci sono graffiti, scritte, cartelli, sit-in che chiedono un cambio di governo. Ma non è così facile ottenerlo.

Lei ritiene che le donne debbano guidare il processo di costruzione della pace. Perché?

Perché sono le donne che portano nel mondo la vita. Perché la natura ci ha predisposte a proteggerla. Abbiamo una maggiore attitudine al dialogo, alla conciliazione: è molto più difficile condurre una donna alla violenza piuttosto che un uomo. Abbiamo meccanismi diversi.

Le donne israeliane hanno organizzato una ferma campagna per protestare contro il silenzio del mondo e delle istituzioni internazionali sugli stupri di Hamas durante e dopo il massacro del 7 ottobre. Come spiegare questa mancanza di solidarietà?

Non riesco a spiegarlo. È stato davvero deludente. I corpi delle donne israeliane, delle donne ebree, sono stati violati nel modo più atroce. Non so davvero come possa essere mancata l’empatia di altre donne nel mondo. Mi rattrista questa moralità selettiva. Vorrei che le donne potessero stare insieme l’una per l’altra. Vorrei che potessimo imparare.

Lei è impegnata in un nuovo tour da solista. L’Europa è attraversata da una forte ondata di antisemitismo. Lo sente sulla tua pelle?

Prima di partire ero molto spaventata: è una paura profonda, poiché condivido la storia di sei milioni di ebrei uccisi. Una parte di me voleva solo che mi isolassi da questo mondo. Molte persone scrivono cose brutte sui miei social, mi taggano semplicemente perché sono ebrea e israeliana. Ma adesso sono in viaggio, e ho concerti sold-out alle spalle dove ho incontrato centinaia di persone pacifiche e amorevoli. E lo so: l’odio è forte, ma ci sono altre voci. Tante! Mi sento di dire, con la responsabilità di chi ha un microfono in mano: se davvero volete aiutare i palestinesi e gli israeliani in questo tempo difficile, invece di istigare altro odio aiutateci a sostenere la pace. E c’è un rimedio: Etty Hillesum – (scrittrice ebrea-olandese, vittima dell’Olocausto) – ha scritto questo nel suo diario: ad ogni atto di odio dovremmo rispondere con un atto d’amore. È quello che sto cercando di fare.

Non è facile parlare di pace in un Paese a cui è stata dichiarata guerra. Non è facile parlare di pace con gli israeliani, che sentono di combattere per la loro sicurezza e la sopravvivenza dello Stato. Non è facile parlare di pace con Yael Deckelbaum, che alla pace ha dedicato una carriera e che dopo il 7 ottobre ha visto crollare certezze e prospettive, finite in un “dopo” apparentemente inconciliabile con il “prima”. «Ho dovuto combattere una battaglia dentro la mia testa tra tutto ciò in cui credevo e quello che adesso avevo davanti agli occhi – dice. Ho dovuto “rimapparmi” in questa nuova realtà – spiega, disegnando nell’aria con il dito una cartina senza più riferimenti –. Ho passato mesi in silenzio prima di cominciare a capire. È stato un viaggio lento, molto doloroso».


(Avvenire, 29 marzo 2024)

di Mauro Magatti


L’attentato di Mosca da parte dell’Isis ha impresso un’ulteriore scossa al già precario stato delle relazioni internazionali. I fronti si moltiplicano e sembra quasi che il mondo stia precipitando in una sorta di guerra civile globale.

E mentre i venti di guerra diventano ogni giorno più forti, lo stato del pianeta continua a peggiorare. L’ultimo dato rilasciato dall’Organizzazione metereologica mondiale dice che nel 2023 la media delle temperature sul pianeta Terra ha toccato +1,45 gradi Celsius rispetto al livello pre-industriale. Siamo ormai alla soglia critica indicata dalla Cop di Parigi del 2015. E mentre il pianeta brucia, aumentano i conflitti armati. Al punto che, per quanto assurda, oggi non si può escludere un’escalation verso una guerra globale.

Il risultato è il dato drammatico a cui ha fatto qualche giorno fa il segretario generale dell’Onu: il numero di coloro che soffrono la fame (330 milioni) è raddoppiato da 2019 a oggi. È come se la società degli uomini (specie i maschi!) continuasse a rifiutarsi di ascoltare la realtà che in tutte le maniere ci sta mandando messaggi di allarme.

La crescita vorticosa degli ultimi decenni – che ha permesso di raddoppiare il Pil del mondo in meno di trent’anni, cosa mai vista nella storia – è stata un grande successo. Ma lascia un’eredità pesantissima. Dobbiamo infatti affrontare una serie di problemi che, apparentemente diversi, rimandano in realtà alla medesima radice: l’idea tipicamente moderna che le persone fisiche e quelle giuridiche (imprese e Stati) siano individualità sovrane dotate di una capacità assoluta di autodeterminazione.

Il problema è che oggi sappiamo come tale presupposto moderno – fondamentale per permettere all’umanità di fare il salto che ha fatto in termini di aumento del benessere, riduzione della povertà, diffusione dell’istruzione, miglioramento della sanità, allungamento della vita media – non abbia fondamento. E lo sappiamo perché la stessa scienza, avvalorando l’antica sapienza religiosa, ci dice ormai da più di un secolo che non esiste forma di vita che non sia in relazione ciò che viene prima, con ciò che le è intorno, con ciò che sta dopo e oltre. Tutte le grandi questioni contemporanee ci fanno capire che il nostro rapporto con la realtà ambientale e sociale, per quanto potente, sia viziato da codesto errore.

È come se vivessimo con un ritardo cognitivo: noi oggi sappiamo che tutto è in relazione, ma il nostro modello di sviluppo continua a procedere come se invece la Terra fosse popolata da atomi individuali che perseguono i propri interessi e desideri indipendentemente da tutto il resto.

Purtroppo, non esistono ricette in grado di risolvere i problemi attuali senza rimettere in discussione tale presupposto. Anzi, se pensiamo che sia possibile districare la matassa continuando ad agire secondo la logica fin qui seguita – ad esempio immaginando che la sostenibilità ambientale sia solo una questione tecnologica e di efficientamento dei processi di produzione e consumo – i problemi sono destinati ad acutizzarsi. Nel caso specifico, producendo tensioni politiche così forti da bloccare il raggiungimento del risultato sperato.

Ma la stessa cosa vale a proposito delle relazioni internazionali. L’attuale grave crisi mondiale è figlia di un pensiero politico inattuale. Con l’invasione dell’Ucraina, l’errore di Putin deriva dalla pretesa di trattare come locali questioni che in realtà sono anche globali. Come se fossimo nell’800 o nel 900. E invece, in questo come in altri campi, da quello migratorio a quello religioso, la pur necessaria esistenza di confini – condizione per riconoscere la pluralità delle culture – si può dare oggi solo in relazione all’intero pianeta. Il che ha importanti implicazioni sulla necessità assoluta di trovare una via d’uscita negoziale del conflitto in corso. Perché l’unica possibilità per il futuro dell’umanità è la convivenza tra culture diverse in un pianeta diventato piccolo.

Non è cosa da poco. Si tratta di rivedere alcuni dei presupposti su cui abbiamo costruito gli ultimi secoli. Ma per quanto il passaggio sia arduo, non possiamo far altro che cominciare a percorrere con intelligenza questa nuova fase storica. Sperando, un po’ per volta, di trovare le vie capaci di tradurre in forme istituzionali economiche e sociali questa nuova consapevolezza. In mezzo a tante difficoltà, c’è una buona notizia: se si comprende la natura del problema e ci si muove nella direzione di una migliore comprensione della realtà e del posto dell’umanità in essa, si apre il cammino verso un mondo migliore di quello attuale. Un’idea importante che dobbiamo condividere con i giovani: al di là di quello che abbiamo fin qui raggiunto, c’è ancora molto da fare. La speranza non è morta. Basta cambiare lo sguardo.


(Avvenire, 27 marzo 2024)

di Widad Tamimi


Oggi ricorre la Giornata delle donne musulmane istituita nel 2017 per restituire loro voce nella battaglia per i diritti. A partire da una corretta interpretazione delle norme religiose.


Amani Al-Khatahtbeh nel 2017 aprì un blog con un investimento iniziale di sette dollari: ne nacque MuslimGirl.com, che lanciò la prima Giornata ufficiale delle donne musulmane, per amplificare le loro voci. Era il 27 di marzo e da allora questa giornata è stata dedicata a molte iniziative. Amani, cresciuta nel New Jersey all’indomani dell’11 settembre, aveva nascosto a lungo di essere musulmana per evitare giudizi negativi da parte dei suoi coetanei. Ora, pochi anni più tardi, MuslimGirl ha decine di migliaia di follower e sprona le donne musulmane a essere padrone della propria narrativa. Ma le sfide rimangono tante e per quanto la conversazione sulle donne musulmane in occidente ruoti soprattutto intorno a stereotipi, quali il velo o le pratiche di mutilazione genitale femminile, lo spettro è più ampio e molto più complesso.

Soprattutto è bene ricordare che sia la mutilazione dei genitali femminili che l’imposizione del velo sono, peraltro, aspetti fortemente influenzati dalla cultura dei luoghi. In Africa, infatti, la mutilazione è praticata sia dai musulmani che dagli animisti e dai cristiani, non per ragioni religiose ma di costume, dettate dalla volontà di esercitare il controllo sulla sessualità femminile. L’aver confuso questa pratica con un rituale religioso è il tipico esempio di un errore diffuso, quello o di radicalizzare una fede senza criticarne storicamente gli abusi o di esecrarla identificandola con gli abusi stessi.

Si pensi alla Sharia. In occidente, ma anche per alcuni musulmani, essa è diventata sinonimo delle leggi patriarcali. In realtà la Sharia, letteralmente “la via”, nella fede musulmana è la volontà di Dio rivelata al profeta Maometto. Il corpus giurisdizionale, invece, chiamato Fiqh, che significa “comprensione”, fa riferimento al processo dei tentativi umani di discernere ed estrarre le norme giuridiche dalle sacre fonti dell’Islam, vale a dire il Corano e la Sunna (la pratica del Profeta, come contenuta negli hadith, Tradizioni) e le “leggi” desunte da questo processo. Il Fiqh, come ogni altro sistema di giurisprudenza, è umano e legato a coordinate temporali e locali.

L’Islam oltre a non essere una religione dogmatica, si fonda sul rapporto diretto del musulmano con Dio. Non esistono intermediari e l’imam è una figura che fa da ponte mettendo a disposizione della comunità la propria conoscenza profonda dei testi sacri e assumendosi il compito di condurre la preghiera. Ogni fedele rimane però l’unico responsabile della propria comprensione e applicazione dell’insegnamento del Corano. Per questo la corretta lettura e la profonda conoscenza del Corano sono strumenti fondamentali di interpretazione dello stesso, grandemente influenzati dal livello di istruzione e purtroppo potenzialmente manipolati da chi ne detiene il dominio impedendo soprattutto alle donne, ma non solo, di essere primi interpreti della parola di Dio.

Per questa ragione, fin dai tempi di Huda Sha’arawi, nata in Egitto nel 1879, il femminismo musulmano esortò le donne a iniziare l’importante compito di leggere il Corano attraverso occhi femminili. Una delle persone che ha dedicato con passione la sua vita a questo compito è Amina Wadud, studiosa dell’Islam e che ha adottato nei suoi confronti un approccio riformista.

Lei l’hijab lo indossa solo nelle occasioni pubbliche: il Corano, dice, non impone il velo, ma raccomanda piuttosto la modestia dell’abbigliamento sia per l’uomo che per la donna. La ragione per cui lo indossa in pubblico è politica, rappresentando il velo il simbolo più eloquente dell’Islam in Occidente. Essendo diventato però, a causa dell’islamofobia, simbolo politicamente negativo, Amina ha deciso di indossarlo come segno di identificazione con le persone più oppresse, intendendo per oppressione anche il pregiudizio culturale dell’Occidente verso le donne musulmane.

Purtroppo è vero che l’intensificarsi dell’islamofobia, invece che aiutare le donne musulmane finisce per prenderle di mira e propone un dibattito su di loro senza includerle. Invece, proprio come non dovrebbe esserci dibattito sulle donne senza le donne, allo stesso modo non dovrebbe esserci dibattito sulle donne musulmane senza le donne musulmane.

Perché si giunga ad un’interpretazione egualitaria del Corano come primaria e unica fonte divina dell’Islam è fondamentale che le donne musulmane siano incluse nella formazione e nello sviluppo del pensiero islamico, e questa è, nei fatti, l’unica mossa rivoluzionaria che sarà in grado di costruire una nuova struttura delle società e delle comunità musulmane. È a causa di interpretazioni errate delle regole islamiche, se le donne vengono private dei diritti, della dignità, dell’onore e dello status conferiti loro nell’Islam e talvolta sono soggette a oppressione. Per prevenire la dominazione maschile e la subordinazione delle donne e assicurare loro i diritti così come sono garantiti dall’Islam, abolendone le distorsioni, è essenziale che le donne abbiano piena consapevolezza dei fondamenti dell’Islam. Nimat Hafez Barazangi, ricercatrice presso la Cornell University, ci ricorda con le parole del Corano che «Dio non cambierà le condizioni delle persone finché queste non cambieranno ciò che è in loro stesse»: qualunque cambiamento, cioè, nel contratto sociale tra i musulmani e l’Islam non può che essere innanzitutto interiore. Le studiose e le attiviste musulmane sanno e avvertono che prima ancora che la reinterpretazione del Corano è necessario un passaggio fondamentale: l’allargamento della libertà di cambiare la percezione stessa che la donna ha del proprio ruolo nell’interpretazione del testo sacro, che deve diventare da complementare e secondario a primario. Questo è il primo passo essenziale verso la realizzazione di diritti umani pieni e verso la tanto necessaria sfida all’autorità patriarcale che per quattordici secoli si è arrogata il dominio esclusivo dell’interpretazione del testo sacro nell’Islam. Si pensi a hazrat Khadija, la prima moglie del profeta Maometto: è stata il più lampante esempio di donna musulmana forte e indipendente con uno spirito imprenditoriale, di alto profilo in quanto a successo negli affari e a profondità spirituale. Khadija era più anziana del marito, fu lei a chiedergli di sposarla, la sua casa fu trasformata in una moschea, dove conduceva lei stessa la preghiera, come oggi fanno le donne imam.

Ma l’impegno delle attiviste musulmane nelle società islamiche non è cosa semplice. Presuppone un cambiamento nelle premesse culturali, nelle percezioni e negli posture di ruolo e saranno loro, le donne, come in ogni rivoluzione succede a chi la rivoluzione la fa, a pagarne il prezzo più alto.

La lotta delle donne musulmane pulsa e non sempre urla. Nonostante i movimenti integralisti abbiano avuto tra le conseguenze più negative quella di averne snaturato l’essenza più intima, l’Islam valorizza la sobrietà e la moderazione. Per questo le donne musulmane continuano il loro cammino di lotta e di emancipazione senza necessariamente sbraitare, ma con iniziative innovative come ad esempio nuove pratiche di conduzione della preghiera da parte di imam donne. Uno tra i più importanti momenti di confronto e sostegno per le donne musulmane nel mondo è Musawah, movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana. Guidato da femministe islamiche, vi si rivendica l’Islam e il Corano per la donna attraverso interpretazioni progressiste dei testi sacri. Il patriarcato, si contesta, è una forma di idolatria: il fatto che gli uomini si pongano al di sopra delle donne contraddice di per sé la visione coranica di uguaglianza e giustizia, fondamento dell’Islam, e viola il requisito della esclusiva supremazia di Dio.

I dibattiti nelle riunioni di Musawah e più diffusamente tra le donne musulmane sono accesi e spaziano dalle esegesi delle Scritture ai dettagli più pratici della vita della donna nell’Islam. Il velo, per quanto preoccupi la società occidentale, è l’ultima delle questioni. Ben prima dell’abbigliamento della donna, assolutamente prioritario è difenderne i diritti specialmente in ambiti quali il divorzio, la custodia dei figli, la violenza domestica e, prima ancora, il diritto di studiare e l’indipendenza lavorativa, temi oggi cruciali per le donne di tutto il mondo, a prescindere dall’abito che indossano.


(la Repubblica, 27 marzo 2024)

di Sara Campeggi


La spontaneità è un privilegio che io, da donna, sento di non avere. 

Spontaneità sottintende immediatezza, un agire istintivo, un porsi nel mondo con naturalezza senza calcoli preparatori, tutte situazioni che io, da donna, non posso permettermi. Non è che non possieda tale caratteristica, la spontaneità, perché essa non rientra nella mia natura femminile, ma perché in quanto donna nel momento in cui sono spontanea devo poi fare i conti con le conseguenze della mia spontaneità. Questo avviene in ogni ambito della vita: quando esprimo un’opinione, quando decido cosa indossare, che strade percorrere, chi frequentare, cosa fare nel mio tempo libero… tutto potrà essere usato contro di me e ognuno si sentirà in diritto di esprimere un giudizio sulla mia persona. Ogni volta che cammino nel mondo io so di non essere mai in uno spazio neutro e sento di abitare un contesto che per definizione mi è ostile e con cui entrerò inevitabilmente in conflitto ogni volta che agirò da donna libera. È per questo motivo, secondo me, che le donne hanno inventato la pratica del partire da sé e perché questa scelta si è rivelata vincente, ieri come oggi. Il mondo è cambiato ma la mentalità maschile mantiene la sua egemonia e le donne si trovano ancora a doversi conquistare spazi di libertà, non solo fisici ma anche mentali e immaginari. È per questo che molte donne, consapevolmente o meno, scelgono di partire da sé. Le donne scelgono una pratica, attività che implica non solo un agire concreto ma anche esercizio, conoscenza e relazione, e lo fanno perché sentono che il contesto che abitano crea in loro una sensazione di malessere, malessere a cui devono dare un nome per poterlo affrontare e poterlo esporre nel mondo. Partono da sé perché devono farlo, perché nel silenzio, nel sottrarsi ad un contesto che non le rispecchia, possono interrogarsi, imparare ad accettarsi per quello che sono, rafforzando le loro idee e la loro identità. In quel silenzio si diventa consapevoli e ci si chiede «sono pronta a gestire le conseguenze di quello che dirò e di quello che farò da questo momento in poi?» per poi scegliere di agire. Questa domanda me la sono fatta anch’io per tanto tempo, e finché non mi sono sentita sicura o in luogo sicuro ho sempre scelto il silenzio. E quello che mi fa sentire al sicuro, ho scoperto, ha a che fare con la fiducia. Fiducia in me stessa, quando sento di averla, ma soprattutto fiducia di altre donne nei miei confronti. Le donne che si rendono disponibili all’ascolto senza essere giudicanti, che sono aperte alla relazione, che possono capire il mio vissuto perché condividono l’esperienza di essere donna e che creano spazi alternativi; ecco, loro sono il luogo sicuro dove è possibile rompere il silenzio e partire insieme verso qualcosa di trasformativo.

Questo luogo sicuro, per me, sono state Silvia Protino e Angelica Pirro, grazie al loro podcast A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza[1]. L’evento dirompente accaduto nella mia vita, il malessere di cui ho fatto esperienza, mi ha portata nella dimensione del silenzio. Silenzio in cui mi sono richiusa da sola per sottrarmi al mondo esterno ma anche a me stessa, e l’ho fatto per molto, troppo tempo. In quel silenzio ho cercato di dare un nome a quello che mi era accaduto e a quello che stavo provando, cercando di definire un qualcosa che era tanto difficile da nominare quanto da accettare. E quando ho trovato le parole mi sono resa conto che non c’era un luogo sicuro dove indirizzare la mia nuova consapevolezza perché il mondo esterno non era accogliente per me. Nel mondo esterno, maschile e subdolamente patriarcale, le mie esperienze venivano minimizzate, il mio vissuto veniva messo in discussione, i miei bisogni erano inascoltati. Siamo nel 2024 e ci sembra che essere donna non sia più sinonimo di discriminazione. Ci siamo dette che ora siamo libere e che gli uomini non hanno più potere su di noi, che il patriarcato è finito. Eppure quando si parla di violenza maschile ci sentiamo ancora sole e ci chiudiamo nella nostra solitudine. Quando si parla di violenza maschile sappiamo che non possiamo affidarci alle forze dell’ordine, alla legislazione, alla politica o al contesto culturale in cui viviamo. Quando si parla di violenza maschile, quando si vive questo malessere, si può trovare accoglienza solo nelle altre donne che sperimentano questo stesso malessere. È così che ho trovato il mio luogo sicuro, nella voce di altre donne che hanno raccontato le loro esperienze e che mi hanno fatto capire che non sono sola. Che non sono io il problema. Che il malessere di una interessa tutte e riguarda un intero contesto. È con questo partire da sé che si creano le relazioni trasformative, che interessano prima noi stesse e poi tutto il contesto che viviamo.

(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 26 marzo 2024)


[1] Angelica Pirro e Silvia Protino raccontano il loro podcast nell’incontro di Via Dogana 3 “Autocoscienza, ancora” del 1° ottobre 2023, con l’intervento “Ritrovare sé stessa nelle parole delle altre: un podcast contro la violenza maschile”, che si può leggere qui [Ndr].

di Pasquale Pugliese


“Si mettano le maiuscole a parole vuote di significato, e, per poco che le circostanze spingano in questa direzione, gli uomini verseranno fiumi di sangue, accumuleranno rovine su rovine, ripetendo queste parole, senza poter mai ottenere effettivamente qualche cosa che a queste parole corrisponda. (…) Il successo si definisce allora esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le parole nemiche. (…) Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.

Mi sono tornate in mente le parole che Simone Weil scriveva in un testo nel 1937 dal titolo Non ricominciamo la guerra di Troia, leggendo il documento che alla vigilia del Consiglio d’Europa del 21 e 22 marzo – ribattezzato “consiglio di guerra” – Charles Michel ha recapitato a molti quotidiani europei (in italiano su La Stampa). Una lettera piena di “maiuscole”, non di un qualsiasi articolista con l’elmetto ma del Presidente dell’organismo di indirizzo delle politiche europee, che conferma e rilancia la svolta bellicista già espressa dalla Commissione e dal Parlamento.

Rileggiamo, dunque – con il compito di chiarificazione indicatoci da Simone Weil – alcuni passaggi di questo testo che vuole segnare un cambio di paradigma, preparando scenari di guerra per il continente che si era dato istituzioni politiche per costruire, invece, un progetto di pace. “La Russia rappresenta una seria minaccia militare per il nostro continente europeo e per la sicurezza globale. Se la risposta della Ue non sarà adeguata e se non forniamo all’Ucraina sostegno necessario per fermare la Russia, saremo i prossimi” scrive Michel, attribuendo al regime di Putin – come da manuale di propaganda bellica – l’intenzionalità autodistruttiva di attaccare paesi Nato, dai quali ormai è circondato.

Ma spiegando subito dopo il vero significato di quelle parole: “Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare ad una ‘economia di guerra’”, come se le spese militari dei Paesi Ue aderenti alla Nato non arrivassero già complessivamente a 346 miliardi di euro (dato Enaat aggiornato al 2022), aumentata del 30% in otto anni e già quattro volte maggiore della spesa militare della Russia.

Ciò perché “dobbiamo essere in grado di parlare non solo la lingua della diplomazia, ma anche quella del potere”, aggiunge Michel, senza spiegare quando l’Unione europea abbia messo in campo una proposta diplomatica: quando ha convocato, in quanto organizzazione terza, un tavolo di negoziati? Quando ha avviato una Conferenza internazionale di pace, come chiede inascoltata da due anni la rete Europe for Peace?

L’unica lingua praticata fin dall’inizio è stata quella dell’invio al governo ucraino di armi sempre più distruttive, partecipando attivamente alla dinamica dell’escalation, fino alla “vittoria” – come ribadito dal Consiglio europeo – anziché a quella della de-escalation. Mentre la lingua del “potere” militare, ovvero dell’industria bellica europea e mondiale, ha già visto schizzare in alto i suoi profitti, come certificato dal Sipri: quella italiana, per esempio, ha raggiunto +86% dall’inizio della guerra.

Per rendere definitivo questo passaggio da un’Europa di pace ad una di guerra è necessario, esplicita Michel, mettere in campo una torsione culturale e valoriale: “Sarà necessario che il nostro pensiero compia una transizione radicale e irreversibile verso una forma mentis incentrata sulla sicurezza strategica”. In che cosa si concretizzi questa dichiarazione di ideologia bellicista è ribadito poche righe più avanti: “Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti dall’industria [bellica] europea”. Che, tradotto, significa tagliare drasticamente gli investimenti per la “sicurezza” sociale dei cittadini europei, trasferirli all’industria di guerra e – contemporaneamente – convincere tutti che la “sicurezza” non la forniscano più sanità, welfare, scuola e università, ma cannoni, carriarmati, navi da guerra e testate nucleari.

Nelle conclusioni di questo manifesto infarcito di “maiuscole”, Charles Michel fornisce la chiave interpretativa dell’intero messaggio: “Questa battaglia richiede una leadership forte per mobilitare i nostri cittadini, le nostre imprese e i nostri governi a favore di un nuovo spirito di sicurezza e di difesa in tutto il continente europeo”. E’ una chiamata alla mobilitazione generale, che si fonda sul principio con il quale chiude: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”.

Ancora l’obsoleta formula che dimostra come ai vertici delle istituzioni europee sia insediata una sacca di “pensiero” irrazionale e magico, che abusa della credulità popolare a beneficio dell’esplosione dei profitti del complesso militare-industriale: i governi nel loro insieme non hanno mai speso così tanto per “preparare la guerra” e infatti, inevitabilmente, la guerra dilaga ovunque. Perfino, di nuovo, in Europa.

Il proclama di guerra, sul quale hanno lavorato i capi di governo e di stato nella riunione del Consiglio europeo, prepara davvero una “transizione radicale e irreversibile”: il passaggio alla guerra nucleare. Mentre è necessario andare esattamente nella direzione opposta, passare dal pensiero magico a quello razionale e responsabile, indicato da tempo dai movimenti nonviolenti: se vuoi la pace, prepara la pace.

Intanto, nella sera del secondo giorno di Consiglio europeo “di guerra”, un attentato terroristico in un teatro di Mosca, rivendicato dall’Isis, ha provocato 137 morti innocenti: i pezzi della terza guerra mondiale in corso si saldano sempre più pericolosamente.


(Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2024)

di Claudia Fanti


A 6 anni e 10 giorni dall’omicidio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes (avvenuto il 14 marzo 2018), si sono aperte finalmente, domenica, le porte del carcere per i mandanti del crimine: Domingos Brazão, attuale consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio, suo fratello Chiquinho, deputato federale del partito di centrodestra União Brasil e l’ex capo della polizia civile locale Rivaldo Barbosa.
«Una vittoria dello stato contro il crimine organizzato», ha esultato il ministro della Giustizia Ricardo Lewandowski. E anche «un grande giorno» per le famiglie delle due vittime: dopo «2.202 giorni di attesa», la verità «inizia a essere svelata», hanno scritto in una nota le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus, dicendosi sorprese per il coinvolgimento di Rivaldo Barbosa, che le aveva ricevute dopo l’assassinio assicurando che la soluzione del caso sarebbe stata per lui una questione d’onore. Il suo ruolo indica, evidenziano, «la portata dell’abisso che viviamo a Rio de Janeiro, con istituzioni ampiamente coinvolte nelle trame più sordide del crimine».

Era stato proprio Barbosa, tra l’altro, a suggerire ai suoi complici di tenersi alla larga dalla Camera municipale di Rio, perché, se l’omicidio avesse evidenziato un movente politico, il caso sarebbe stato trasferito alla Polizia federale – come poi avvenuto solo con l’avvento del governo Lula – e lui non avrebbe potuto più fare nulla.

A risultare cruciale per le indagini è stato l’accordo di collaborazione con la giustizia firmato dall’ex poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come autore materiale del crimine (insieme a un altro poliziotto, Élcio Queiroz): secondo la sua testimonianza, già nel settembre del 2017 i fratelli Brazão avrebbero deciso di eliminare Marielle perché di ostacolo all’espansione territoriale e immobiliare delle milizie di Rio de Janeiro.

È noto come Chiquinho Brazão avesse reagito in maniera scomposta di fronte al voto contrario di Marielle a un progetto sull’occupazione del suolo presentato alla Camera municipale di Rio, benché in questa battaglia la consigliera del Psol non avesse, in realtà, giocato un ruolo significativo. Tant’è che la stessa polizia federale ipotizza che potrebbero esserci state altre motivazioni per l’omicidio.

Contento per gli arresti dei mandanti è apparso anche Flávio Bolsonaro, che non aspettava altro per denunciare i tentativi di vincolare la sua famiglia all’omicidio: è ovvio, ha detto, che «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine».

Con l’ambiente che lo ha prodotto, quello delle milizie di Rio, di relazioni però il clan ne ha eccome. Non è un caso che le indagini siano rimaste ferme per 5 anni, in mezzo ad assassini di testimoni, distruzione di prove, sabotaggi e rimozioni di funzionari. Laerte Silva de Lima, un agente infiltrato nelle file del Psol per raccogliere informazioni utili (poi arrestato nel 2020), era un membro di spicco dell’Escritório do Crime guidato da Adriano da Nóbrega, a cui Flávio aveva concesso la Medaglia Tiradentes, il massimo riconoscimento dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro, e di cui aveva assunto la madre e l’ex moglie nel suo gabinetto di deputato statale.

C’è inoltre la testimonianza, poi ritrattata, di Alberto Jorge Mateus, il portiere del condominio Vivendas da Barra dove Bolsonaro viveva a Rio de Janeiro e dove abitava, al n. 66, lo stesso Ronnie Lessa, da cui Élcio Queiroz si era recato quello stesso 14 marzo. Nella sua prima deposizione, il portiere aveva riferito che, poche ore prima dell’assassinio di Marielle, Queiroz gli aveva detto che stava andando a casa di Bolsonaro, allora deputato, al n. 58, come sarebbe risultato anche dal registro delle visite. Ed è proprio da quell’appartamento che un uomo identificatosi all’interfono come il “signor Jair” aveva autorizzato il suo ingresso nel condominio. L’ex presidente aveva però respinto le accuse, sostenendo che quel giorno si trovava in Brasilia per una sessione alla Camera dei Deputati.

Assai significative anche le voci di una relazione tra il suo figlio minore Jair Renan e la figlia di Ronnie Lessa, benché quest’ultima all’epoca vivesse negli Stati uniti. Una relazione quanto mai opportuna, potendo offrire una spiegazione plausibile allo scambio di telefonate, emerso dalle indagini, tra la casa di Bolsonaro e quella di Lessa.

Fa discutere anche il ruolo del generale Braga Netto, all’epoca incaricato dal presidente Temer di assumere il controllo della sicurezza pubblica a Rio per poi essere nominato da Bolsonaro ministro della Difesa: è stato lui, dietro indicazione del generale Richard Nunes, a nominare Rivaldo Barbosa, una settimana prima del crimine, a capo della polizia civile di Rio, malgrado il sottosegretario dell’intelligence Fábio Galvão avesse messo in guardia sui vincoli di Barbosa con le milizie (ed era stato per questo rimosso da Braga Netto cinque mesi dopo).

Se, insomma, il direttore generale della polizia federale Andrei Passos ha annunciato domenica la conclusione dell’attuale fase delle indagini, sono in tanti in Brasile, a cominciare dalla famiglia di Marielle, a ritenere che il caso non si chiuda qui.


(il manifesto, 26 marzo 2024)

di Doranna Lupi


Ai giorni nostri molte ragazze sostengono il sex work, considerando la prostituzione un lavoro come un altro, alcune anche convinte che il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo sia il fondamento della libertà di poterlo mettere in vendita. Proseguendo nel solco del ciclo “quale libertà?”, dopo aver indagato con la filosofa Valentina Pazé le nuove forme di sfruttamento giustificate nel nome della libertà, in epoca neoliberista, nel laboratorio sulla prostituzione e pornografia dell’OIVD (Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne) ci siamo interrogate su quali siano i dispositivi mediatici e simbolici messi in campo dal mercato per far leva sulle nostre coscienze facendo passare l’idea che vendere il proprio corpo sia non solo possibile, normale, ma addirittura appetibile e in un certo senso liberante.

La tavola rotonda organizzata su zoom il 13 dicembre 2023 Dall’oggettivazione dei corpi allo sfruttamento sessuale ha preso il titolo dalla tesi di laurea in psicologia clinica di Maria Laura Cinquegrana, una delle nostre giovani ospiti, che sta per pubblicare il suo testo rivisto e ampliato, con la casa editrice Erickson.

Lo sfruttamento sessuale, secondo l’autrice, discende da un problema socioculturale: l’oggettivazione sessuale sperimentata dalle donne in età sempre più precoce, attraverso molestie nei luoghi pubblici, come il cosiddetto “catcalling”, oppure attraverso l’esposizione passiva ai media che ripropongono continuamente l’immagine artefatta di corpi femminili ridotti a mero oggetto decorativo. Ci sarebbe quindi proprio l’oggettivazione sessuale alla base della cosiddetta “cultura dello stupro”, la quale rende possibile e legittima la disumanizzazione e l’uso del corpo di un’altra persona come fosse un oggetto sessuale.

In sintesi, ha argomentato Cinquegrana, non solo esiste una correlazione tra oggettivazione sessuale e violenza sessuale, ma l’oggettivazione è di per sé una forma di violenza psicologica e simbolica che ha delle ripercussioni sulla salute mentale di donne e minori. Per arginare la violenza e lo sfruttamento sessuale c’è bisogno prima di tutto di un cambiamento culturale.

Femminismo in vendita

Il tema dell’oggettivazione dei corpi è stato affrontato in apertura anche da Daniela Santoro del collettivo femminista Le Compromesse attraverso l’osservazione critica del rapporto che hanno sviluppato le sue coetanee con i social. Si tratta delle cosiddette “femministe della quarta ondata” che viaggiando su Internet, tra i blog, Instagram, conoscendosi in gruppi Facebook e vedendosi su Meet, hanno creato reti più ampie di donne di diversi contesti sociali e di diverse parti del mondo ma, allo stesso tempo, hanno sottratto il corpo alle relazioni tra donne. Questo però è un nodo rilevante, ci ha spiegato Daniela Santoro, perché quando parliamo di femminismo, non possiamo prescindere dal corpo se non a costo di rendere più labili alcune tematiche centrali che concernono il corpo delle donne. Inoltre si insinua un’altra insidia sul web: la mercificazione dello stesso femminismo che sui social diventa un business. Si è visto con le influencer che fanno del femminismo un modo per vendere gadget, libri, foto dando al mercato liberista la possibilità di appropriarsi delle tematiche femministe. L’incorporeità di internet ha permeato i contenuti del femminismo e la libertà è diventata un concetto individuale più che un concetto sociale. Non a caso proprio il capitalismo ci parla di libera scelta, siamo tutte/i liberi di fare tutto, ma parlando solo dell’individuo non riusciamo a mettere a fuoco realmente quello che è il problema sociale e simbolico della mercificazione dei corpi delle donne.

“Siamo sicure di essere veramente libere di scegliere in una società che ti impone, anche solo per arrivare a fine mese e dover mettere un pezzo di pane in bocca a tuo figlio, di vendere il tuo corpo? E soprattutto in una società in cui OnlyFans fa le pubblicità tutti i giorni ed è diventato ormai uno schema piramidale in cui le stesse persone che sono iscritte alla piattaforma guadagnano se ti iscrivi alle piattaforme usando il loro link, siamo veramente liberi di scegliere?”

Fiere di esistere per gli altri

Cecilia Alagna, la terza ospite della nostra tavola rotonda, ha un suo blog “Myrina’s eyes” e una sua pagina Instagram, pratica da tre anni l’autocoscienza e la scrittura autocoscienziale con il gruppo Le Ammoniti, fa parte del collettivo Lune e Lame, un luogo politico abitato da femministe lesbiche e bisessuali. Andando a monte del problema, secondo lei, non è mai possibile disgiungere la libera scelta dalla libera condizione. Come si è arrivati a rendere l’esposizione di sé così necessaria da dipendere in forma quasi maniacale dall’essere sui social? Un esserci che spesso non è veicolo di pensiero bensì dell’immagine di sé. La messaggistica istantanea e i social hanno esposto le giovani donne a una progressiva accettazione del principio della perenne disponibilità, 24 ore su 24, in cui porti quel mondo dentro casa e diventa il mondo. Ma si tratta di un non tempo e un non luogo dove non si dematerializzano solo i corpi bensì entra in gioco la dematerializzazione totale delle relazioni. Il compenso si può ottenere in termini di follower, naturalmente con una esposizione del corpo completamente coerente con il desiderio maschile. Secondo Alagna, OnlyFans ha fatto semplicemente il passaggio successivo, cioè se già su Instagram era possibile trasformare in follower la ricompensa si è passati a trasformare i follower in denaro. Si tratta quindi di una libertà completamente asservita a questa totale disponibilità.

Oggi non si potrebbero dominare le donne, quantomeno nel contesto europeo, con il mantra della maternità come destino e il famoso binomio santa-puttana in realtà non è più un binomio ma ha creato una sorta di mostruosa sintesi fra le due cose. Uno dei motti molto amato da una parte del femminismo che si definisce transfemminismo è “fiera di essere puttana”.

Le ragazze, in un’età in cui non hanno ancora avuto il tempo e il modo di indagare il loro desiderio, vengono invitate a essere delle puttane. Perché questo si realizzi è un’ottima palestra l’accesso, sempre più precoce, ai contenuti pornografici attraverso i quali passa un discorso su come deve essere la sessualità. In questo modo si normalizza, viene creata letteralmente una norma che si fonda sul principio: sei una puttana, devi essere fiera di esserlo anche se quello che farai non coincide con il tuo desiderio. In un certo senso le giovani donne oggi sono in una condizione persino peggiore delle donne che le hanno precedute, perché connesse 24 ore su 24, in una perenne vetrina, sempre in mostra per gli altri, sempre e totalmente alienate da se stesse.

Per Alagna e per le donne del collettivo Lune e Lame è sempre più urgente scalfire questa idea di libera scelta fortemente capitalistica e ritornare a un concetto di autodeterminazione che si radichi nella libertà collettiva delle donne, scardinata dall’economia neoliberista del denaro e della mercificazione di ogni cosa, anche dei corpi.

Ripartire dal corpo

Ripartire dal corpo, tornando sul primo terreno di scontro con il patriarcato da cui è partito tutto il cammino di libertà femminile è ciò che possiamo e dobbiamo condividere, a livello intergenerazionale, con le giovani femministe della quarta ondata.

Il corpo delle donne è sempre stato il principale oggetto di controllo da parte del patriarcato, la posta in gioco più alta del contratto sessuale, che regola il dominio degli uomini sui corpi delle donne nella sfera privata escludendole da quella pubblica (Carole Pateman, Il contratto sessuale). I valori normativi del patriarcato oggi non fanno più presa sulle menti di molte giovani donne attive, assertive, istruite, progettuali, determinate, competenti, figlie amate e sostenute dalle loro madri, direi indomabili. Per questo l’esigenza maschile di dominio sulle nostre menti e sui nostri corpi si fa ancora più pressante. Nel nostro tempo si giocano due partite fondamentali e interconnesse, quella del controllo, attraverso strategie di contrattacco al femminismo e alla libertà simbolica delle donne, e quella del libero mercato che non vuole lasciare la presa sui nostri corpi attraverso i quali fa enormi profitti.

Siamo profondamente d’accordo con le nostre giovani amiche nel dire che è fondamentale uscire dalle gabbie del neoliberismo e tornare a un concetto di libertà e autodeterminazione collettiva. Le donne delle nuove generazioni hanno un grande lavoro da fare ma possono contare su una ricca e viva eredità e sul desiderio, che nutrono le donne di ogni generazione, di costruire insieme spazi di libertà mantenendo e creando sempre più luoghi per curarci, nutrirci a vicenda, per comunicare tra noi restando radicate nel desiderio femminile.


(OIVD Newsletter Febbraio 2024, https://www.oivd.it/wp-content/uploads/2024/03/ NEWSletter-2024-febbraio.pdf)

Marja Aljokhina, Riot Days. Una prigionia politica nella Russia di Putinenciclopediadelledonne.it, 2023. Traduzione dall’inglese di Dafne Calgaro.  Marja (Masha) Aljokhina, artista e attivista politica del collettivo femminista punk Pussy Riot, racconta con ironia e leggerezza, in una sorta di diario illustrato, i due anni di internamento in una colonia penale degli Urali. Giorni di lotta per trasformare le condizioni di vita sua e delle compagne di detenzione, affermando la sua fiducia nella forza delle relazioni. Un manifesto di creatività, indomito coraggio e fede nel riscatto del popolo russo. Ne parlano Laura Minguzzi, conoscitrice del mondo russo, Margherita Marcheselli, editrice e Dafne Calgaro, traduttrice. Interviene da remoto Giulia De Florio, docente di storia russa all’Università di Parma e attiva nella Fondazione Memorial Italia.

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di Francesco Ognibene


Dopo due anni di studi il governo inglese mette al bando i farmaci per fermare lo sviluppo dei minori con problemi di identità. A fine mese la chiusura del centro nazionale. Le domande per l’Italia


Una «decisione storica». Impressiona che lo stesso Ministero della Salute che aveva a lungo sostenuto l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) in centri specializzati con l’autorizzazione dello Stato ora definiscano con questa espressione – usata martedì 12 dalla ministra della Salute Mary Caulfield – la decisione esattamente opposta, cioè il bando a quegli stessi farmaci, al termine di una lunga quanto rigorosa procedura scientifica e istituzionale.

Questo dietrofront clamoroso di cui giunge notizia da Londra, amplificato da tutti i media britannici come il capolinea annunciato di una vicenda assai travagliata, è il segno di una onesta ammissione dell’errore alimentato da chi ha sponsorizzato la transizione di genere come esito pressoché inesorabile di tutte le difficoltà di costruzione della propria identità caratteristiche della pubertà e della preadolescenza. In Inghilterra (e altrove in Europa e oltreoceano) si era scelto di fare da avanguardia e di affidare l’esame dei casi come la somministrazione dei farmaci a un centro nazionale unico, sotto controllo pubblico: la Clinica Tavistock di Londra (nome completo: Tavistock and Portman Nhs Foundation Trust, dove Nhs sta per ‘Servizio sanitario nazionale’).

Un primo, determinante colpo di freno era giunto nel 2022 con la Commissione d’indagine presieduta da Hilary Cass, pediatra di fama, che aveva esaminato i sempre più numerosi casi sospetti di sbrigativa prescrizione dei farmaci bloccanti della pubertà, somministrati a giovanissimi pazienti dei quali i medici ipotizzavano una incongruenza tra sesso alla nascita e identità personale concludendo per l’arresto farmacologico dello sviluppo, in modo da poter riattribuire il sesso secondo la scelta del giovane.

Una linea di condotta che la Commissione censurò osservando che nella grande maggioranza dei casi (si parla dell’80%) è una incertezza che non persiste nell’adolescenza. Un sintomo che scompare, insomma, ma che se preso come la prova che bisogna cambiare sesso produce conseguenze devastanti e quasi sempre irreversibili, se si ricorre ai farmaci o addirittura al bisturi. Allo stop annunciato per le attività della Tavistock erano seguite le nuove linee guida che in una fase transitoria delimitavano i casi da sottoporre a terapia farmacologica alla sola ricerca scientifica. Ora la decisione definitiva del governo inglese di mettere al bando i bloccanti della pubertà perché non ci sono «prove sufficienti» della loro efficacia e sicurezza. Una pietra tombale su qualsiasi farmaco dispensabile dai medici, a maggior ragione per prodotti che hanno effetti estremamente impattanti sulla salute della persona cui vengono prescritti.

La frenata che da due anni l’Inghilterra ha impresso al trattamento della disforia di genere ha numeri impressionanti: da 5.000 casi trattati nel 2022 ai 100 attuali. Un cambiamento di rotta a 180 gradi assai eloquente, non solo sul piano clinico e scientifico ma forse soprattutto su quello culturale: si pensi al supporto mediatico e ideologico assicurato al trattamento della disforia nella direzione della riassegnazione del genere e dell’identità sessuale come costrutto culturale soggetto alla scelta di ciascuno. Oltre al piano della salute dei minori, le conseguenze sono state rilevantissime. Come sulla gestione dei casi da parte delle scuole (si pensi agli istituti che in Italia senza alcun dibattito o esame di vicende-laboratorio come quella inglese hanno adottato la “carriera alias”) e degli stessi medici di base, che spesso hanno preferito assecondare la pressione ambientale e le paure dei genitori rimandando ogni caso problematico sul piano della personalità a centri per il trattamento della disforia, medicalizzando situazioni che richiedevano forse solo ascolto, pazienza, accompagnamento, impegno educativo e – nei casi più complessi – supporto psicoterapeutico.

Ora Londra aggiunge alla decisione di chiudere a fine mese il Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (il famoso Gids), gestito dalla Tavistock, la parola fine per la prescrizione dei farmaci. Un doppio colpo che deve far riflettere e che si lascia irreversibilmente alle spalle l’idea che in campo vi siano due teorie contrapposte e in fondo equivalenti (sì o no al trattamento della disforia per via farmacologica o chirurgica), rispetto alle quali non ci sarebbe nessuna evidenza prevalente. Col risultato che i farmaci ora banditi hanno continuato a circolare indisturbati.

E in Italia? Siamo dentro questo intreccio spesso inestricabile, che rende assai difficile assumere decisioni realmente nell’interesse del minore. Che qualcosa anche da noi non andasse nella direzione giusta l’ha rivelato l’indagine aperta in gennaio sul centro attivo presso il prestigioso Ospedale Careggi di Firenze, con l’intervento dapprima del Ministero della Salute con un’ispezione e poi della magistratura per far piena luce su possibili prescrizioni non necessarie di bloccanti della pubertà. I primi risultati fanno riflettere: il team di esperti ministeriali inviati a Firenze avrebbe infatti rilevato che non in tutti i casi di disforia di genere sarebbe stato effettuato il percorso preliminare di psicoterapia necessario a stabilire se fosse davvero inevitabile il ricorso a soluzioni senza ritorno.

Un anno fa sul delicatissimo tema intervenne la Società psicoanalica italiana, che per voce del presidente Sarantis Thanopulos scrisse al governo per esprimere «grande preoccupazione» e «forti perplessità» riguardo all’uso dei bloccanti della pubertà. «La diagnosi di “disforia di genere” in età prepuberale – fece notare la Spi – è basata sulle affermazioni dei soggetti interessati e non può essere oggetto di un’attenta valutazione finché lo sviluppo dell’identità sessuale è ancora in corso», mentre «solo una parte minoritaria dei ragazzi che dichiarano di non identificarsi con il loro sesso conferma questa posizione nell’adolescenza, dopo la pubertà». E in queste limitate situazioni? «Anche nei casi in cui la dichiarata “disforia di genere” in età prepuberale si confermi in adolescenza, l’arresto dello sviluppo non può sfociare in un corpo diverso, sotto il profilo sessuale, da quello originario. Lo sviluppo sessuale del proprio corpo anche quando contraddice un opposto orientamento interno consente un appagamento erotico che un corpo “bloccato” o manipolato non offre». Morale: «È importante avviare sulla questione dei ragazzi con problematiche di genere una rigorosa discussione scientifica». Che in Inghilterra è già arrivata a conclusione, dopo due anni di studi. Potremmo far tesoro del grande lavoro svolto in un Paese che, in un primo tempo fortemente favorevole, ora capisce di doversi fermare. Nell’interesse prioritario dei minori.


(Avvenire, 13 marzo 2024)

di Mira Furlani


Prima di partecipare via zoom a questo incontro di VD3 sul tema “La scommessa del partire da sé” sono andata a rivedere l’incontro in dialogo con Luisa Muraro svoltosi all’Alveare di Lecce il 7 marzo 2021 dal titolo Scommettere, rischiare investire sulla differenza sessuale.

Mi ricordavo quell’incontro perché a un certo punto Luisa Muraro si è soffermata sul discorso dell’autenticità femminile di cui parlava Carla Lonzi e che lei, Luisa, invece di autenticità chiama “verità soggettiva”.

La verità soggettiva come io l’intendo non è solo narrazione. Laura Minguzzi nel suo intervento ha parlato di nodo interiore da sciogliere; io invece percepisco la verità soggettiva come un andare a toccare la realtà che ci circonda e le relazioni in cui siamo immerse. Fare ciò comporta grossi rischi. Uno di questi è quello di esporsi, vale a dire esporre sé stesse agli attacchi di coloro che hanno fatto narrazioni e valutazioni diverse dalle nostre. La narrazione di per sé non è un esporsi, è un esporre più che un esporsi. Spesso è un esporre mosso da interessi personali, oppure sono visioni che si fanno passare per verità oggettive.

Io ho sperimentato cosa vuol dire scrivere un libro partendo da sé, cioè partendo dalla propria verità soggettiva. Quello che ho scritto aspettava di essere detto da più di quarant’anni, ma tacevo perché mi mancava il pensiero che poteva dare reale significato e valore alle mie parole. Questo pensiero, come potete immaginare, era il senso libero della differenza sessuale che Luisa Muraro mi ha trasmesso con i suoi scritti e con la sua amicizia, dandomi forza e coraggio.

Quando feci mio il pensiero della differenza sessuale davanti a me si aprì un mondo nuovo in cui mi ritrovavo e potevo stare. Finalmente potevo scrivere quello che sentivo in quanto donna e mi urgeva dentro come soggetto pensante. E come tale mi sono esposta. Non mi aspettavo lodi, ma neppure le reazioni cattive e il rifiuto al confronto con l’abbandono da parte di coloro che nella Comunità di base dell’Isolotto (Firenze) amavo di più. All’Isolotto fui isolata, rimasi sola.

In quel momento sperimentai in concreto quello che significava il partire da sé, dalla propria verità soggettiva.

Spiego meglio. Dalla comunità cristiana di base dell’Isolotto mi è stato subito rimproverato di aver scritto una delle tante narrazioni possibili sulla vicenda sociale/politica/religiosa di quel quartiere di Firenze. Cioè si è liquidata la mia narrazione come una delle tante possibili, cancellando così la verità soggettiva come qualcosa di relativo, non valido per tutte e tutti.

Bollare la verità soggettiva come discorso relativo serve soprattutto alla cultura neutra per cancellare l’esperienza femminile e disconoscere le cose che noi donne riteniamo importanti e che sappiamo hanno valore simbolico e politico per entrambi i sessi.

Negli anni ’70 nei gruppi di autocoscienza abbiamo eliminato la separazione netta tra personale e politico. Luisa Muraro nella presentazione del mio libro il 4 marzo 2017 alla Libreria delle donne di Milano, ha parlato di “rivolta nella rivolta”. Ha detto che anche in una stagione rivoluzionaria è possibile “scartare” percorsi femminili di libertà. È vero. Lo scrivere il libro ha avuto per me il significato di una lunga presa di coscienza del valore della differenza sessuale, un esporre dei fatti che riguardavano non solo me, ma tutto l’Isolotto; la mia narrazione non aveva lo scopo di infangare o screditare figure maschili, ma voleva invece, e ancora vuole, evidenziare la necessità di una seria autocoscienza maschile storica e nel presente.

Viviamo in un momento storico in cui si vuol rimuovere la differenza sessuale. Dobbiamo ritrovare il coraggio del partire da sé, la forza di esporci e di attraversare i conflitti, possibilmente in modo non distruttivo. Il partire da sé é verità soggettiva, è pensiero della differenza perché smaschera il pensiero neutro maschile. Perciò il femminismo della differenza fa tanta paura ai maschi: esso scardina i loro privilegi e rende le donne libere. Tutti i femminicidi sono fondamentalmente disperati tentativi di cancellare la libertà femminile sulla terra.

Nota: Il libro di Mira Furlani si intitola Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei (Gabrielli editori, 2016).


(Via Dogana 3, www.libreriadelledonne.it, 22 marzo 2024)

di Naomi Klein


È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina. Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.

Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.

Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile? Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.

Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, so-prattutto se palestinesi, arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista. Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?

Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo. Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.

All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani. Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.

In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.

Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo. Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.

Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington. Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”.


(Internazionale, 22 marzo 2024)

di Filippo La Porta


[…] «Il coraggio di alzare bandiera bianca». Le parole del papa ci costringono a una riflessione che va oltre la resistenza ucraina, rispetto alla quale continuo ad avere alcuni dubbi (Putin interpreterebbe qualsiasi cessate il fuoco come conferma che solo l’uso della violenza paga). In che senso? Associare il coraggio, e dunque cose molto “virili” come l’onore, la dignità, l’eroismo, etc. al pacifismo e alla non-violenza, a me pare un gesto eversivo. Sono però convinto che questo gesto, apparentemente “scandaloso”, possa essere compreso soltanto dalle donne. Credo di non fare un outing personale così clamoroso se confesso che nei film di guerra, anche quelli risolutamente contro la guerra, un po’ mi eccito sempre quando sullo schermo ci sono azioni guerresche, operazioni di commando, assalti, bombardamenti spettacolari. Il mio immaginario è assai meno evoluto dei miei principi morali. Mentre mia moglie di fronte alle stesse scene si annoia e non nasconde una estraneità totale, di tipo antropologico. Si obietterà: ma la grande tradizione epica consiste proprio nella esaltazione di imprese eroiche, di guerre e avventure, dai poemi eroici ai western di John Ford. Eppure ci volevano due donne a rileggere genialmente l’Iliade e a vedere in esso non tanto e solo il poema della forza ma un’opera che assume la forza stessa come illusione, e non come verità ultima della condizione umana. Simone Weil e Rachel Bespaloff, ebree in esilio, nei primi anni ’40 si sono rivolte all’Iliade per capire la tragedia del presente (segnato dalla guerra), scrivendo due saggi gemelli – e certamente audaci – pur non conoscendosi e non incontrandosi mai!

Non si riflette mai abbastanza su come nel corso del ’900 solo il pensiero femminile ha saputo indicare una via d’uscita dalla crisi, dalla spirale autodistruttiva della nostra stessa civiltà.

Provo qui a indicare due saggi apparsi su rivista a distanza di venticinque anni che insistono giustamente su questo aspetto. Nell’estate del 1997 Giancarlo Gaeta, curatore e traduttore dell’opera di Simone Weil per Adelphi, scrisse un saggio – La libertà di pensare le cose come sono – (“Lo straniero”), che così cominciava: «Virginia Woolf, Simone Weil, Etty Hillesum. Provo a ragionare intorno a queste tre figure di scrittrici del Novecento tra un gruppo assai più vasto, la cui frequentazione è stata importante per la mia vita intellettuale e spirituale. Tra queste Marina Cvetaeva e Karen Blixen, innanzitutto, e poi altre che si sono espresse nei decenni successivi alla guerra, come Elsa Morante, Hannah Arendt, Anna Maria Ortese […] una generazione più giovane di pensatrici e di scrittrici, quella formatasi nel cuore drammatico del secolo, non aveva esitato a spingere lo sguardo fino al fondo dell’abisso, cercando risposte nuove alla crisi […] A me sembra che nell’insieme la risposta più alta alla crisi della civiltà occidentale sia venuta lungo l’arco di questo secolo da alcune donne». E aggiunge: «Non solo hanno saputo cogliere e interpretare perfettamente il carattere distruttivo della crisi, ma hanno anche trovato in se stesse energie sufficienti per indicare le porte strette per ricominciare, senza distogliere lo sguardo dal cumulo delle macerie». Insomma, nel pensiero femminile l’ultima parola non è mai la morte, il nulla, la distruzione, e poi solo lo sguardo femminile è capace di vedere le cose come sono, senza calcoli di dominio, senza secondi fini, senza alcuna volontà di controllo sulle cose stesse. L’idea stessa di conoscenza muta radicalmente: in María Zambrano, filosofa andalusa, diventa passività ricettiva, saper accogliere. In Zambrano la conoscenza è «un lasciar alle cose il tempo e il modo di manifestarsi nel loro essere proprio». E, al fine di «lasciare che l’altro venga alla presenza da sé», bisogna restare fiduciosamente in attesa e rinunciare a qualunque esito immediato. […]

Gaeta e Cacciari, studiosi pur diversissimi tra loro, giungono alle stesse conclusioni: solo nel pensiero di alcune donne del ’900 si schiude la possibilità di salvarsi per l’Occidente (salvarsi dall’autodistruzione cui porta la mera volontà di potenza). Solo una obiezione, o piuttosto una considerazione in margine: non bisognerebbe mai sottacere la radicalità di pensiero e di esistenza di queste donne. Zambrano, Weil, Bespaloff hanno attraversato gli orrori del secolo breve: sempre disperatamente in fuga. Per loro la “salvezza” è legata a una esperienza interiore di tipo mistico, inaccessibile e inscrutabile, a un salto vertiginoso così distante dalle nostre quiete, protette esistenze.

Torno al papa. Se pensiamo che l’essere umano consiste solo in una volontà di potenza che «assale il diverso e lo conosce solo come barbaro», sia esso il migrante o il nemico in guerra, non capiremo mai il papa. Se invece riteniamo che «siamo capaci anche nel più duro conflitto di rispettare l’avversario» (Cacciari), allora potremmo farlo. La conclusione del poema, il ritorno del corpo di Ettore a Priamo, il piano che accomuna Priamo ad Achille, uccisore di suo figlio, interrompe la logica della guerra e – pur riconoscendo per intero il tragico della nostra condizione – ci fa intravedere qualcos’altro: gli antagonisti irriducibili possono riconoscere reciprocamente il proprio valore, entro una umanità comune. Non sempre prevalgono inimicizia e odio. La pace contiene una verità forse più profonda della guerra. Ecco, anche soltanto immaginare questa possibilità – che ci hanno mostrato alcune pensatrici del secolo scorso e poi la chiesa nei suoi momenti più alti –, è oggi un dovere per tutti noi.


(L’Unità, 21 marzo 2024)

di Adriana Cavarero


Una lezione sul momento che viviamo, con guerre, questione demografica e questione climatica. La filosofa femminista analizza la maternità come esperienza conoscitiva partendo dal pensiero di autrici come Elena Ferrante, Annie Ernaux, Simone De Beauvoir, Maria Zambrano e Clarice Lispector.


Il link al video: https://youtu.be/lGLJkZzJzNs?si=5k4-OqfrewzBoHyu


(You Tube, https://lucysullacultura.com/, 21 marzo 2024)

di Michele Giorgio


Storica portavoce palestinese, esponente di punta della società civile nei Territori occupati e docente universitaria, Hanan Ashrawi non ha smesso un giorno nei passati cinque mesi di invocare la fine dell’offensiva israeliana a Gaza e la realizzazione dei diritti del suo popolo negati da Israele e dai suoi alleati. L’abbiamo intervistata sugli ultimi sviluppi.

Il governo Netanyahu non sembra avere intenzione di fermare il suo attacco a Gaza.

È così. Non riesco a immaginare altro che la continuazione di bombardamenti e raid israeliani che stanno radendo al suolo Gaza e uccidendo e portando alla fame la sua intera popolazione. Tutto ciò potrebbe terminare solo se gli alleati di Israele, Stati uniti ed Europa, decidessero di far fermare il genocidio in atto. Washington a parole si spende per gli aiuti alla popolazione mentre fornisce a Israele munizioni, bombe, per continuare distruzione e massacri.

Quali gli aspetti più contesta della politica occidentale nei riguardi di Israele e Gaza?

Siamo scioccati. Siamo rimasti senza parole di fronte alla rapidità con cui gli Usa hanno accettato certe menzogne israeliane. E dalla velocità con cui gli europei si sono allineati alle posizioni americane. Dopo il 7 ottobre i leader dell’Ue si sono precipitati a dare il via libera a qualsiasi mossa (del governo Netanyahu) contro Gaza, anche la più brutale. Non si sono posti il problema di verificare certe affermazioni, hanno accettato tutto ciò che Israele ha detto e fatto contro i palestinesi. Usa, Gran Bretagna e vari paesi europei hanno inviato forze militari in Medio Oriente a protezione di Israele, assieme ad armi e munizioni. Sono stati complici nella distruzione di Gaza. Poi, quando la loro gente, le loro società civili hanno protestato nelle strade contro gli orrori a Gaza, per convenienza hanno mutato il tono delle loro dichiarazioni. Ma non cambiano politica.

Aiuti umanitari che peraltro arrivano solo in minima parte ai palestinesi di Gaza.

I paesi occidentali dovrebbero imporre a Israele l’apertura dei valichi terrestri e la distribuzione senza limite di cibo e generi di prima necessità alla popolazione. Invece non vanno oltre qualche proclama. Cosa vogliono, che la popolazione scampata alle bombe muoia di fame? Ripetono che Israele non deve invadere Rafah mentre l’attacco a quella città è già cominciato. Penso che la mentalità colonizzatrice non permetta ai paesi occidentali di avere un approccio serio e razionale verso Israele.

L’amministrazione Biden afferma l’appoggio alla creazione di uno Stato palestinese. È una svolta o sono solo parole?

Sono parole. Biden ha capito di essere andato troppo in là nel sostegno al genocidio a Gaza. Ha visto che i sondaggi (per le presidenziali di fine anno, ndr) lo danno sfavorito tra i cittadini americani, in alcuni Stati importanti che si oppongono al sostegno di Israele. Così ha moderato la sua linea e propone la creazione di uno Stato palestinese. Ma di concreto c’è solo il sostegno che Biden garantisce a Israele. I palestinesi non sono stupidi. A Biden dico: non venderci solo parole, ferma l’invio di bombe e armi a Israele.

Ci sono stati negli ultimi giorni movimenti nell’arena politica palestinese. Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha nominato premier incaricato l’economista Mohammed Mustafa, un suo fedelissimo, scatenando l’ira di Hamas che parla di una mossa unilaterale contro l’unità nazionale palestinese. Cosa ne pensa?

Penso che mai come in questo momento abbiamo bisogno di unità nazionale e di un processo decisionale democratico e inclusivo. Sostituire un premier ubbidiente con un altro premier ubbidiente non cambia nulla. Piuttosto è necessario coinvolgere tutti, non solo partiti e movimenti politici, ma anche le espressioni della società civile. Siamo chiamati tutti a recuperare la fiducia della popolazione nel nostro sistema politico. I palestinesi non hanno più alcuna fiducia nel governo, nel presidente, nelle istituzioni, vanno attuati cambiamenti reali. Abu Mazen in pratica segnala di voler realizzare le riforme nell’Anp chieste da Washington, a cominciare da un governo di tecnici. Ma non è quello che si aspettano tutti i palestinesi, l’unità nazionale.

Le fratture politiche avranno riflessi nel futuro di Gaza?

L’unità nazionale palestinese è fondamentale. Ora però la priorità assoluta è la fine dei massacri israeliani a Gaza, dei bombardamenti e delle distruzioni e cibo per la nostra gente. Il cambiamento deve avvenire prima di tutto nell’atteggiamento dei paesi occidentali e in Israele dove un governo fascista tiene prigioniero il mondo intero.


(il manifesto, 21 marzo 2024)

di Antonella Mariani


Novecento giorni senza scuola. Il 20 marzo le porte delle aule si sono riaperte per i bambini, le bambine e per i ragazzi. Non per le ragazze, escluse dalle aule per il terzo anno consecutivo. Triste inizio dell’anno solare afghano, per loro, nel Paese più triste del mondo, come ha decretato proprio mercoledì, nella Giornata internazionale della felicità, il Wellbeing Research Centre dell’Università di Oxford. Il bando all’istruzione femminile dopo i 12 anni, unico caso al mondo, è stato tra i primi decisi dall’Emirato islamico dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto del 2021. Poi è stato uno stillicidio di oltre 50 decreti – nessuno dei quali ritirato – che uno dopo l’altro hanno picconato la libertà e la dignità delle donne: vietato frequentare i corsi universitari, vietato praticare sport, vietato entrare in bagni pubblici, musei, palestre, parchi o saloni di bellezza, vietato lavorare fuori casa e per le organizzazioni non governative straniere, vietato viaggiare se non con un parente stretto, vietato mostrarsi in pubblico senza il burqa… Il risultato è un apartheid di genere senza precedenti, che genera nelle ragazze ansia e frustrazione, senso di ingiustizia e depressione. Se le più piccole hanno ancora una speranza, seppur lieve, di potere in futuro tornare in classe, le più grandi vedono sfuggire, anno dopo anno, ogni prospettiva non solo di emancipazione e di indipendenza, ma di crescita. Gli osservatori assistono impotenti a un aumento di suicidi giovanili, di matrimoni e di parti precoci. Si tratta di un dramma che colpisce un’intera generazione, ma anche di una grave ipoteca sul futuro del Paese, privato non solo oggi ma per i decenni a venire di metà delle sue risorse intellettuali e professionali. Se il bando all’istruzione secondaria e universitaria femminile durerà ancora a lungo, si creerà un fossato difficilmente recuperabile, se non con il rapido ritorno in patria degli esuli, appartenenti all’ex élite afghana istruita e produttiva del Paese nel ventennio dell’occupazione occidentale.

«L’istruzione è essenziale per la pace e la prosperità» si limita a scrivere su X la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), invitando il governo taleban a porre fine a «questo divieto ingiustificabile e dannoso». Da due anni e mezzo gli organismi internazionali e le diplomazie occidentali – che non riconoscono l’Emirato islamico ­- sono impegnati ad aprire spiragli di dialogo con i taleban, più recettivi su altri punti (ad esempio la cooperazione umanitaria: si calcola che il 50% della popolazione viva una condizione di estrema povertà e decine di ong operano sul territorio), ma completamente sordo su questo. Uno scenario che i taleban stanno profilando è quello di allestire nuove scuole coraniche per le ragazze, sul modello delle madrasse in cui generazioni di giovani maschi sono stati educati a una visione estremista e distorta dell’islam. L’Onu ha documentato l’esistenza di 7.000 madrasse, di cui 400 femminili, dove la frequenza è senza limitazioni di età; nel 2023 i taleban hanno lanciato una campagna di reclutamento per 100mila nuovi insegnanti. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da una parte le ragazze hanno la prospettiva di uscire di casa e spezzare l’isolamento, dall’altra c’è il rischio concreto di una ulteriore radicalizzazione a lungo termine del Paese. Un altro triste scenario nel Paese più triste del mondo, dove per le femmine la campanella non suona più.


(Avvenire, 21 marzo 2024)

Elena El Asmar, C’era una volta ed era celeste, La Vita Felice 2023. Un libro metà dipinto e metà scritto, che ci fa “ballare al bordo delle parole” e viaggiare da una costa all’altra, da Venezia a Baalbek in compagnia di palme sospese in pagine blu e oro. “Un nocciolo di oliva mi ha guardato stamattina … ho ricambiato il suo sguardo”: Elena El Asmar raccoglie il suo esercizio quotidiano davanti alla finestra, osservando se stessa e il mondo. In dialogo con l’artista Francesca Pasini, Rosella Prezzo e Ginevra Quadrio Curzio.

Per acquistare online C’era una volta ed era celeste:

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di Wanda Tommasi


Inizio dicendo alla buona come ho sempre inteso la pratica del partire sé, nei suoi due significati, quasi opposti, ma entrambi presenti nell’espressione stessa ed entrambi necessari: partire da sé significa sia cominciare da sé, dalla propria posizione soggettiva e dal contesto in cui ci si colloca, sia allontanarsi da sé, decentrarsi, per incontrare altre e altri, per farsi comprendere e per condividere un percorso anche con chi non si attiene a tale pratica né si colloca in un orizzonte femminista. Tutto questo è ben sintetizzato da Luisa Muraro nell’espressione «la partitura della nascita», che «mette insieme lo staccarsi e il prendere inizio, il separarsi e l’originarsi»,[1] come è accaduto nella nascita di ciascuno/a: una separazione dal corpo materno che ci ha consegnato alla precarietà e al rischio delle relazioni, innanzitutto con colei che ci ha messo al mondo e poi con molte altre e altri. Il saggio di Muraro a cui faccio riferimento s’intitola Partire da sé e non farsi trovare…:quel “non farsi trovare” va interpretato come mobilità, come agilità, come attitudine a non fissarsi in una traiettoria già prevista, nella posizione più ovvia, dove gli altri si aspettano che una sia. Questa postura è collegata a quel momento di sospensione, di silenzio, necessario per stare in ascolto del proprio sentire, sottraendosi alle cose già pensate e scontate, come ha ricordato Chiara Zamboni nella sua relazione introduttiva.

Mentre la pratica del partire da sé è spesso assunta spontaneamente da donne, anche non femministe, invece essa risulta più ostica per molti uomini, forse perché questi ultimi temono il rischio di soggettivismo e si sentono chiamati a esprimere un punto di vista imparziale, oggettivo. Forse è vero, come ha osservato Ida Dominijanni, che oggi, a differenza che in passato, diversi uomini anche nella sfera pubblica si sbilanciano in un’esposizione soggettiva, ma non credo che questo significhi da parte loro fare propria la pratica del partire da sé; ritengo piuttosto che questa sia una strategia comunicativa, un esporsi in prima persona per accattivarsi la simpatia di chi li ascolta.

Desidero infine intervenire su un punto della relazione introduttiva di Riccardo Fanciullacci: è un punto che riguarda l’università, luogo in cui anch’io ho insegnato per molti anni. Riccardo accenna ad alcune patologie dell’università, fra cui il potere. A suo avviso, tuttavia, il potere che si esercita nell’istituzione universitaria non sarebbe una vera e propria patologia, quanto piuttosto il sintomo di una «società a responsabilità limitata»: sarebbe in definitiva una giustificazione per non assumersi del tutto la responsabilità delle proprie azioni e iniziative, soprattutto quelle innovative e non previste, con la scusa che il potere le renderebbe vane. Probabilmente questo ha a che fare con la governance neoliberale, che tende alla de-responsabilizzazione: ne parlerò più avanti.

A mio parere, però, il potere in università è una vera e propria patologia, anzi è una piaga senza rimedio. Forse, se confrontato con quello che si esercita in altri contesti, quello universitario non è poi un grande potere, ma in ogni caso esso è coniugato col prestigio; e, come ricorda la sempre lucida Simone Weil, il prestigio è ciò che costituisce per più di tre quarti il potere. È prestigioso insegnare all’università: è un privilegio di cui a lungo ho apprezzato gli aspetti positivi – fare ricerca liberamente, scrivere, pubblicare, essere in relazione con le/gli studenti e con docenti affini che condividono la passione per il sapere –, ma di cui ho mal tollerato gli aspetti deleteri, le patologie, in particolare proprio quella del potere. Il potere in università c’è sempre stato e nessuna legge, per quanto ben intenzionata, è riuscita a scalfirlo minimamente: questo si ripercuote pesantemente sul reclutamento, sull’assunzione delle persone più giovani, quasi sempre cooptate non tanto per il loro merito – un po’ di merito si spera comunque che ce l’abbiano – quanto piuttosto perché gradite a chi il potere lo detiene e lo esercita senza scrupoli.

Chiara Zamboni, nella sua relazione introduttiva, ha accennato alla rottura delle relazioni in università iniziata nel 2007 con l’introduzione di questionari anonimi di valutazione del personale amministrativo da parte dei docenti e di questi ultimi da parte degli studenti. Allora ci opponemmo, non solo Chiara e io ma anche diverse altre/i, perché la nostra politica puntava e scommette tuttora proprio sulla forza e sulla fiducia che circolano nelle relazioni. Tuttavia, in seguito, questo attacco alle relazioni ebbe la meglio. A partire dal 2008, con la riforma Gelmini – fieramente avversata dalla stragrande maggioranza di docenti e studenti – e con altre negli anni successivi, l’autonomia degli atenei si tradusse di fatto in una governance neoliberale che concepì le università come aziende in competizione fra loro; furono indirettamente invitati a competere fra loro, rispettivamente, sia docenti sia studenti; e la competizione avvelena le relazioni. L’aziendalizzazione dell’università, con gli studenti ridotti a “clienti”, e la governance neoliberale conferirono un nuovo assetto al potere universitario, reso in un certo senso più anonimo e de-responsabilizzante, come ha notato Fanciullacci, ma senza intaccarne il carattere patologico. Noi di Diotima ci siamo sempre mosse sempre puntando al massimo di autorità con il minimo di potere: sul piano dell’autorità, questa scommessa è stata sicuramente vincente, ma, per ciò che riguarda il potere, com’era tutto sommato prevedibile, non siamo riuscite a scalfirne i meccanismi di fondo.

La questione del potere in università e la governance neoliberale sono stati i due motivi principali per cui ho lasciato il mio lavoro, per altri versi molto amato, prima del tempo previsto per il mio pensionamento. Benché sia convinta che l’esistenza di Diotima e molte iniziative legate alla politica delle donne abbiano creato spazi di libertà femminile in università e altrove, mi resta tuttavia l’amarezza per il fatto che Diotima non abbia eredi, nell’ateneo di Verona, nell’insegnamento della filosofia. Certo, il pensiero e le pratiche della differenza sessuale possono brillare ovunque una si trovi, e il mondo è ben più grande dell’università. Ciononostante, l’amarezza rimane: non mi stupisce, ma mi addolora profondamente che coloro che detengono il potere nella mia università non abbiano sentito il dovere di dare continuità all’insegnamento filosofico di Diotima. Dal loro punto di vista, noi di Diotima siamo state solo “meteore”. Per me, restiamo comunque delle stelle che possono fare luce altrove.

(Via Dogana 3 – www.libreriadelledonne.it, 20 marzo 2024)


[1] Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare…, in Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996, p. 13.