di Virginia Nesi


Letizia sale sul palco, si avvicina al microfono e dice: «Come stai?». È la prima domanda per Elena Cecchettin. Lei risponde senza incrinare la voce: «In quattro mesi mi sono ammalata una decina di volte. Quando stai male, stai male anche fisicamente. Adesso mi sto riprendendo, ma non posso dire di stare bene». Nella Sala Azzurra del Salone Internazionale del Libro di Torino tutte le poltrone sono prese. Le occupano soprattutto ragazze e ragazzi. Sono venuti – in tanti anche quaranta minuti prima in coda – per ascoltare la sorella di Giulia, uccisa a coltellate l’11 novembre 2023 dall’ex fidanzato Filippo Turetta. L’ultima volta che Elena aveva parlato in pubblico era nell’Aula Magna dell’Università di Padova alla laurea in memoria di Giulia, lo scorso 2 febbraio. Dopo oltre tre mesi, torna a esporsi per dialogare con i coetanei e le coetanee della Generazione Zeta attraverso un incontro realizzato in collaborazione con La27ora e D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, che hanno raccolto le domande.

Giovanni le chiede come si convive con tanto dolore. «In famiglia ci manca Giulia in momenti diversi. Io sto cercando il mio modo per convivere con la sofferenza che non se ne andrà mai. Sto tentando di riappropriarmi della mia vita». Agata domanda quali sono gli aspetti di sessismo della nostra vita quotidiana a cui non facciamo più caso. «Bisogna cercare di prevenire: dal cat calling ai commenti che sessualizzano le donne o a quelli che le sminuiscono. Sono tutti atti di violenza». Eleonora vorrebbe invece sapere quanto ritenga ostacolante il fenomeno del victim blaming (colpevolizzazione della vittima ndr) nel percorso di denuncia. E lì la risposta di Elena fa partire un forte applauso: «Se le donne denunciano e non vengono credute, saranno meno spronate a farlo. Ma al di là delle denunce io dico alle persone che subiscono violenza: parlatene con gli amici, con la famiglia. Cercate di comunicarlo in giro, anche tramite i social, fate in modo che si sappia: può aiutare».

Denis chiede se esistano dei modelli per una mascolinità più consapevole. «Gli uomini devono mettersi in discussione. Noi donne non dobbiamo smettere di avere delle pretese, dobbiamo richiedere il nostro spazio, se dico no è no». Letizia ha un’altra domanda. Come si reagisce allo sguardo giudicante della società? «La cosa più brutta della mia vita è successa l’11 novembre 2023. Trovo assurdi i commenti d’odio sui social. Ci rido sopra. Ma è importante circondarsi di persone che ci ricordano veramente chi siamo».

Risponde a tutto Elena mentre scava dentro di sé riflessioni e pensieri. Il suo sguardo a volte è ondivago, sempre gentile. Accanto a lei ci sono Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicaria del Corriere della Sera e Alessandra Campani, operatrice di centro antiviolenza e referente del gruppo prevenzione di D.i.Re. Dice Stefanelli: «La famiglia Cecchettin sta portando il discorso della violenza fuori dalle accademie e lo sta mettendo nelle nostre case. La loro generosità ci aiuterà a cambiare». Proprio per cambiare dobbiamo continuare a fare rumore, non solo con le chiavi in mano, anche con le parole, insiste Campani. «In Italia gli omicidi diminuiscono, i femminicidi no. Spesso la parola stessa – femminicidio – viene contestata. Bisogna ripartire dal linguaggio per contrastare questo fenomeno», aggiunge Stefanelli. Poi Campani insiste su un punto: «Il femminismo è per tutte e tutti. Non è per le donne, è per la libertà che garantisce a uomini e donne».

Ecco allora il parallelismo tra la lotta delle partigiane nella Resistenza e le battaglie delle donne. Elena, che cos’è la forza? «Forza è anche resistenza. Dobbiamo voler essere forti, non solo tirare i pugni ma resistere. Magari ci vorrà tantissimo tempo ma sono convinta che il cambiamento prima o poi arriverà. È rivoluzionario credere di valere». Valere, valgono – senz’altro – le sue parole per le quali, alla fine, in moltissimi la ringraziano.


(Corriere della Sera, la 27esima ora, 12 maggio 2024)

di Susan Abulhawa


In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20.00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere. Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito. Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante. Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo. Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così. Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore. Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria. Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca. Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio. Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra. Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto l’aeroporto di Heathrow a Londra. Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie. Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia. Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato l’assenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi. La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla. Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie d’erba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola. Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio. Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi. Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg. Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli. Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete. La farina è scarsa e più preziosa dell’oro. Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno. E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti. Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri dodici in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino. Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare. Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt] e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale. Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria. La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca. Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso. A un certo punto l’umiliazione della sporcizia è inevitabile. A un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco. Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco. Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se fosse stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri. Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese? Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale. Di storie. Di ricordi, libri e cultura. Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo. Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università. Il genocidio è la demolizione intenzionale dell’umanità di un altro. È la riduzione di un’antica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare l’indicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino. È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dell’umanità dei palestinesi. Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming l’immagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti. Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel XXI secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo. La traduzione dall’inglese è di Aldo Lotta.


L’articolo è tratto dal sito Zeitun – Notizie e libri sulla Palestina (https://zeitun.info/).


(Erbacce, 12 maggio 2024)

di Mirella Serri


In un dipinto di William White Warren dai tenui colori rosa e giallo crema le due sorelle Nightingale – Parthe diminutivo di Parthenope, classe 1818, e la più giovane Florence detta Flo – appaiono raffigurate in perfetta armonia. Ma il bel quadro è mendace. Le ragazze che avevano visto la luce a Napoli e a Firenze (da cui i loro nomi) durante un lungo tour dei facoltosi genitori, quando rientrarono in Inghilterra, a Embley Park, non trovarono pace. La rivalità tra le sorelle stravolse la quiete campestre, con la mamma Fanny spalleggiata da Parthe nell’osteggiare le ambizioni della ribelle Florence. Quest’ultima però vincerà su tutta la linea: diventerà la grande madre dell’assistenza infermieristica moderna, la creatrice dei più avanzati ospedali da campo, l’ideatrice della ricerca statistica d’avanguardia per la cura e l’assistenza ai malati. Adesso in America e in Inghilterra la bella biografia scritta come un romanzo di Melissa Pritchard, Flight of the Wild Swan [‘il volo del cigno selvatico’, Ndr] (Bellevue Literary Press, elogiata dal New York Times), dedicata a Florence Nightingale ha suscitato un grande dibattito sui modi e sulle forme con cui il “cigno selvatico” riuscì ad emergere nonostante l’ostilità della famiglia patriarcale.

Come e dove nacque la tempra di Flo, prima donna a lottare per dare alle altre donne un ruolo nella medicina moderna e fu capace di sconfiggere gli esponenti del mondo accademico, medico e militare che la ostacolavano?

Flo, come scriveva nel diario, sia a Londra che in campagna si sentiva prigioniera. Furono le tate a dare lezioni di buone maniere e di comportamento a Parthe e a Flo. Papà William impartiva invece nozioni di greco, latino, italiano, francese, tedesco, storia, filosofia e matematica: Florence era un’appassionata di questi studi che l’indolente Parthe non considerava adatti a una signorina. A ventiquattro anni Flo annunciò la sua vocazione: non voleva sposarsi bensì diventare infermiera. Le reazioni della madre e della sorella furono incontrollate: era un lavoro inadatto alla sua condizione sociale e le infermiere erano considerate alcoliste e frequentatrici di lupanari e bassifondi. La testarda Flo, però, passava il tempo a compulsare i primi rapporti sulla salute pubblica inglese, che stavano iniziando a uscire attorno a metà ’800.

Nel 1853 fu finalmente libera di realizzare la sua vocazione medica grazie al contributo annuo versatole dal padre. Partì, assieme ad altre trentotto infermiere, per Scutari, sede dell’ospedale militare dopo che nel 1854 l’Impero britannico, alleato della Turchia, era entrato in guerra contro la Russia. All’arrivo la giovane donna fece una scoperta tremenda: più di diecimila soldati giacevano non curati e abbandonati nella sporcizia, pieni di pustole e colpiti da malattie infettive. Miss Nightingale riuscì a imporre una situazione più vivibile ed elaborò importanti teorie su come un ambiente sano e una dieta appropriata limitassero la diffusione dei microbi.

Gli alti comandi militari la consideravano una mestatrice, non tolleravano la sua ingerenza e cercarono di sabotarla in tutti i modi. In Inghilterra, però, grazie alla pubblica opinione e a giornali come The Times, si verificò un importante cambio di passo: si diffuse la leggenda della “signora con la lampada”, di Flo, un angelo che di notte, in ospedale, portava sollievo a feriti e moribondi. Nightingale riuscì ad avviare una riforma completa della sanità militare. Dopo essersi gravemente ammalata, ripartirà per la Crimea, e darà vita a una personale “unità di combattimento”, fatta di amici e di sostenitori dei suoi progetti di cura che mantenevano i contatti con i politici e con i giornali, che diffondevano i dati clinici da lei analizzati e rappresentati tramite grafici colorati, “torte” e istogrammi.

Per Florence, dunque, in un primo momento le istanze del patriarcato furono incarnate dalla madre e dalla sorella e poi dalla società maschile tradizionalista. Non è un caso che a vent’anni Flo componesse un saggio sulle convenzioni sociali che opprimevano le donne, che le costringevano alla pigrizia mentale e a sottovalutare le proprie potenzialità. La sua capacità di “resilienza” al diktat sociale nacque dunque proprio resistendo alla famiglia. Ma si trasformò in un impulso a elaborare, a partire da una condizione personale, strategie e programmi che coinvolsero l’intera società.

Nel 1860 pubblicò Notes on Nursing, pietra miliare del curriculum delle scuole per infermieri che ancora oggi rappresenta l’introduzione classica a quell’attività di cura.


(La Stampa, 12 maggio 2024)


Ida Dominijanni e Giulia Siviero


Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona, 5 aprile 2024

Secondo incontro del ciclo Pensare il presente 2024

Ida Dominijanni, Realtà e verità: la pornografia dell’orrore

Giulia Siviero, Il giornalismo occidentale e la narrazione del conflitto



di Claudia Mazzilli


In occasione della presentazione in Libreria, il 17 maggio 2024, proponiamo la ricca recensione di Claudia Mazzillial libro di Gabriella Galzio Ritorno alla Dea, Agorà & CO. 2022, pubblicata il 5 maggio 2022 su ODISSEA, Blog di cultura, dibattito e riflessione diretto da Angelo Gaccione:

https://libertariam.blogspot.com/2022/05/lo-sguardo-giano-dellutopia-diclaudia.html


Odissea, 9 maggio 2024

di Donatella Di Cesare


Uno dei capisaldi intorno a cui, sin dall’inizio di quest’epoca di guerra, ruota la propaganda bellicista è la riduzione sistematica di ogni discorso sulla pace alla favoletta dei soliti buonisti. Ecco le “anime belle”, coloro che si pretendono candidi e puri, disarmati e incontaminati, ma che al dunque si rivelano incapaci di guardare in faccia la realtà, di operare sul corso degli eventi e mutarlo. La favoletta dei buonisti si va riaffermando in questi giorni di concitata campagna elettorale, dato che le vecchie accuse sembrano ormai tutte cadute. Susciterebbe almeno ilarità dare del putinista o putiniano a chi, già due anni fa, aveva sollevato dubbi sul crollo imminente della Federazione Russa, sulla caduta ingloriosa di Putin, sulla magica e sfavillante vittoria dell’esercito ucraino, forte di armi e sostegno occidentali. I pacifisti avevano ragione su tutti i fronti. A parlare sono i fatti. E non è certo gradevole il ruolo delle cassandre inascoltate. Ma il paradosso è che quegli stessi che allora promuovevano la campagna di Russia con articoli boriosi e interventi altisonanti, ora si sono rimangiati tutto; fischiettano e fanno finta di nulla o, peggio, si impossessano delle parole dei propri oppositori. Dato che in questo Paese non ci sono tradizionalmente limiti a piroette ciniche, capriole impudenti, voltafaccia e ribaltoni di ogni risma, si può perfino condire qui e là il proprio eloquio in patria con le due sillabe “pa-ce”, per poi infilarsi l’elmetto in Europa, pronti all’invio continuo e moltiplicato di armi. E i pacifisti? Quelli che sin dai primi giorni dell’invasione russa chiedevano trattative? Ebbene restano nel torto ontologico: sono miopi buonisti, antiquati cattocomunisti, neoperonisti seguaci del papa argentino, pericolosi esponenti di un francescanesimo militante, ecc. Gente che immagina di risolvere tutto a colpi di slogan, senza fare i conti con la “dura realtà”, quella della linea del fronte, degli eserciti che si combattono, dei metri guadagnati o persi. Il loro grande rimosso sarebbe la dura, inaggirabile realtà della guerra. Senonché le cose stanno esattamente all’opposto. Le fiamme, i proiettili, le schegge di bombe, le sventagliate di mitra non hanno risolto nessun problema, né nelle pianure ucraine né nelle tendopoli desolate di Gaza. L’unico risultato è stato un numero spropositato di corpi umani immolati sull’altare del vetusto rito della guerra e del nuovo profitto tratto dalle armi. Non uno scontro di civiltà, bensì un incontro di interessi. Questo non ha nulla a che vedere con la politica il cui scopo, oggi più che mai, è quello di preservare le vite. Che cosa dovrebbe venire prima? La posizione dei pacifisti è dunque quella di chi ragiona, argomenta, analizza e considera le vie concrete e percorribili che può aprire una politica assennata, cauta, lungimirante. Abbiamo ancora sempre nelle orecchie quella propaganda gridata, gli insulti e gli attacchi personali che coprono ogni serio confronto. I pacifisti non si arrendono all’invio di armi, né credono alla favola (questa sì, favola) della guerra asettica e intelligente, condotta da qualche parte, magari in un cielo lontano, da dispositivi neutri e neutrali. La guerra è sempre sporca e sempre stupida. Soprattutto: non riguarda un cosmo lontano. Miete vittime continuamente e si avvicina a noi. Perciò vogliamo parlare di prospettive e avere da coloro che si candidano per il Parlamento europeo risposte precise. Come immaginano nel futuro prossimo il rapporto con la Russia? Lavoreranno per ristabilire i contatti venuti meno oppure ritengono che quella crepa, anzi quella cesura in territorio europeo, che passa per il Donbass, sia definitiva? E sarebbe anche opportuno che i vari candidati ci parlassero dei modi per salvare ciò che resta dell’Ucraina, per ricostruirla. Ci sarà – speriamo – un dopo-Zelensky. E allora si pone necessariamente anche il problema dell’Europa. Mai se ne è parlato così poco. Segno del terribile degrado, culturale e politico. Ma sintomo anche di un grande disorientamento che investe anche una Unione europea che sembra disgregarsi e perdere definitivamente i propri obiettivi sotto i colpi della guerra e dell’avanzata ovunque della destra estrema. E vogliamo anche sapere da candidati e partiti come intendono rilanciare il ruolo, delicatissimo e indispensabile, dell’Europa in Medio Oriente. Che ne sarà dei sopravvissuti alla carneficina di Gaza? Ci sarà una sorta di protettorato arabo, saudita? Come vedono il futuro del popolo palestinese? E come si può sostenere quella parte, per quanto piccola, della società israeliana che si è opposta a Netanyahu? Questi sono i temi di una politica della pace che vengono intenzionalmente aggirati da chi vuole continuare a far parlare solo di armi e a lasciare la parola solo alle armi.


(Il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2024)

di Silvia Baratella


Ieri, 8 maggio 2024, è morta a ottantasette anni Giovanna Marini. Compositrice, cantante, etnomusicologa e ricercatrice sul campo, autrice di ballate, ha “salvato” e fatto conoscere un enorme patrimonio di brani di musica di tradizione orale del nostro paese. Per me è stata importantissima. Dai dodici-tredici anni ho cominciato a conoscere le sue opere, presenti in casa nella collezione de “I dischi del sole” di mio padre. Era una delle poche donne in quell’ambito che non si limitasse a raccogliere e interpretare le canzoni popolari ma producesse anche testi, e dunque parola propria: le sue famose ballate. Ancora oggi in parte vedo la società statunitense con gli occhi del suo Vi parlo dell’America, un 33 giri di due facciate sul suo soggiorno a Boston nel 1965/66. Per me era importante dare credito a un pensiero e una voce di donna come la sua, anche se lei non sottolineava il suo sesso né si dichiarava femminista.

Non era femminista, ma ha tracciato un filo di genealogia femminile riconoscendo il suo debito con Giovanna Daffini, ex-mondina che le insegnò il modo di usare la voce nel canto tradizionale e le trasmise il suo patrimonio di canzoni.

Non era femminista, ma ha saputo affondare il suo sguardo lucido, intelligente e spietato nel groviglio complesso del materno e delle relazioni tra madre e figlia, e qui voglio ricordarla proprio con la sua opera La creatora (ovvero in nome della madre) del 1972. È una ballata che mette in scena una creazione traposta al femminile e gli effetti deleteri del rifiuto della figlia di riconoscere il debito con la madre, della sua incapacità di agire il conflitto, della sua sterile negazione. Da ragazzina l’avevo interpretato come un atto d’accusa alla tirannia delle madri, aiutata in questa lettura di comodo dal fatto che Giovanna Marini non faceva sconti a nessuna delle sue due protagoniste, finché non lessi un’intervista in cui lei stessa spiegava, spiazzandomi, di essere «ovviamente» dalla parte della madre… Chissà che la mia attuale idea di femminismo non la debba anche un po’ a questa sua lezione imprevista.


(http://puntodivista.libreriadelledonne.it, 9 maggio 2024)

di redazione QN


Roma, 8 maggio 2024 – La voce di Giovanna Marini. Una voce che veniva da lontano. Dalla storia del nostro Paese, dai canti popolari, dalle canzoni contadine e da quelle di lotta. Ma anche la sua modernità, la sua ironia, la sua intelligenza: la sua compostezza. Giovanna Marini, scomparsa oggi a ottantasette anni, è stata tutto questo. La voce più limpida della canzone d’autore, di quella d’impegno politico. Una luce, all’origine della lunga e meravigliosa storia della canzone d’autore italiana.

C’è un disco, che Giovanna Marini nel 2002 ha inciso insieme a Francesco De Gregori. Si chiama Il fischio del vapore. Insieme, i due raccolgono e reinterpretano classici della musica popolare italiana. Ed è un disco che profuma di amicizia, di complicità: si sente che è il frutto di un lungo dialogo, di un rispetto reciproco, di un affetto. E di una appartenenza a una storia comune.

Nata a Roma il 19 gennaio 1937, figlia del compositore Giovanni Salviucci, allieva del leggendario chitarrista classico Andrés Segovia, Giovanna Marini è stata una delle prime, e delle più importanti cantastorie del panorama musicale italiano. Ben prima che i cantautori diventassero moda, ventata di novità, prodotto da vendere. All’inizio degli anni ’60 lei frequentava intellettuali e scrittori, da Pier Paolo Pasolini a Italo Calvino; conosceva l’esperienza di Cantacronache e incontrava i primi grandi protagonisti della canzone sociale e politica italiana: personaggi come Ivan Della Mea o come Paolo Pietrangeli, l’autore di Contessa, che diventerà canzone simbolo del ’68 italiano. Ma già prima, Giovanna Marini partecipava al Festival dei Due Mondi di Spoleto, nel 1966 a Ci ragiono e canto di Dario Fo. E intanto imparava: da una mondina, Giovanna Daffini, imparava le canzoni delle lavoratrici dei campi di riso, dal poeta sardo Peppino Marotto l’arte del racconto popolare. La canzone come vocazione, come voce degli ultimi, come strumento di denuncia sociale.

Negli anni ’70, Giovanna Marini fondò la prima scuola popolare di musica in Italia, al Testaccio. La chiamavano “la Joan Baez italiana”. Ha avuto, della Baez, la stessa forza, lo stesso coraggio di affrontare il mondo con una voce e una chitarra soltanto. Ha raccontato con le sue canzoni le lotte contadine e l’autunno caldo nelle fabbriche italiane, l’Italia degli anni di piombo e della strategia della tensione, del terrorismo. E lo ha fatto dalla prospettiva dei perdenti, di coloro che subiscono la storia. Ha raccontato l’omicidio di Pasolini, l’amico poeta massacrato all’Idroscalo di Ostia, e la vicenda di Ulrike Meinhof, la donna “suicidata” in prigione dai suoi carcerieri. Ha raccontato la tragedia mineraria di Marcinelle, le Fosse Ardeatine, la strage di Ustica. Lo ha fatto con l’approccio quasi di una giornalista, di una cronista che racconta con partecipazione, mai con distacco. E lo ha fatto anche da un punto di vista colto: per dieci anni, ha insegnato etnomusicologia all’Università Paris VIII.

Una donna grandissima la cui arte è un viaggio, un’avventura dentro la voce, dentro la Storia, dentro l’emozione. Una donna che di sé diceva: «Faccio la musica con la mia testa, con le mie mani, come i biscotti della nonna».


(Quotidiano Nazionale, 8 maggio 2024)

di Viola Giannoli


Si fa presto a dire natalità. In Italia una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre e il 72,8% delle convalide delle dimissioni dei neogenitori riguarda le donne.

Anche per questo è ancora in calo il numero medio di figli per donna che partoriscono sempre più tardi rispetto alla media europea, a 32 anni e mezzo. E il 2023 ha registrato un nuovo minimo storico delle nascite in Italia, ferme sotto i 400mila bambini, con un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente. Le donne scelgono di non avere figli o ne hanno meno. E la contrazione della natalità che accompagna l’Italia da decenni ormai coinvolge anche la componente straniera della popolazione.

Se il rinvio della maternità e la bassa fecondità sono frutto di numerose concause, i dati rivelano che più aumenta la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, più aumenta il tasso di fecondità. Un elemento da tenere in debita considerazione, in un mercato del lavoro che sconta ancora un gap di genere fortissimo.

Poche occupate, ancor meno se con figli

Dai dati del Rapporto di Save the Children, emerge che in Italia il tasso di occupazione femminile (età 15-64 anni) è stato del 52,5% nel 2023, un valore più basso della media dell’Unione Europea (65,8%) di ben 13 punti percentuali. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese, nello stesso anno, era di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alle differenze osservate a livello EU27 (9,4 punti percentuali).

Per le donne, il tema del bilanciamento tra lavoro e famiglia rimane critico per chi nella propria famiglia svolge un lavoro di cura non retribuito. Una spia delle difficoltà che le madri affrontano nel conciliare impegni familiari e lavorativi è rappresentata dal numero di donne occupate di età compresa tra i 25 e i 54 anni: a fronte di un tasso di occupazione femminile del 63,8%, le donne senza figli che lavorano raggiungono il 68,7%, mentre solo poco più della metà di quelle con due o più figli minori ha un impiego (57,8%). Al contrario, per gli uomini della stessa età, il tasso di occupazione totale è dell’83,7%, con una variazione che va dal 77,3% per coloro senza figli, fino al 91,3% per chi ha un figlio minore e al 91,6% per chi ne ha due o più.

Marcate sono pure le disparità territoriali, a danno delle regioni del Sud d’Italia dove per le donne, l’occupazione si ferma al 48,9% per coloro senza figli (sono il 79,8% al nord e 74,4% al centro) e scende al 42% in presenza di figli minori arrivando al 40% per le donne con due o più figli minori (al nord sono il 73,2% e al centro 68,3%).

Dimissioni volontarie: opportunità per gli uomini, sacrificio per le donne

Anche guardando ai dati delle dimissioni volontarie post genitorialità è evidente come la nascita di un figlio influisca sulla disparità di genere nel mondo del lavoro. A dimettersi sono principalmente le madri, al primo figlio ed entro il suo primo anno di vita. Nel corso del 2022, infatti, sono state effettuate complessivamente 61.391 convalide di dimissioni volontarie per genitori di figli in età 0-3 in tutto il territorio nazionale, in crescita del 17,1% rispetto all’anno precedente. Il 72,8% del totale (pari a 44.699) riguarda donne, mentre il 27,2% riguarda uomini (pari a 16.692), con una crescita maggiore di quelle femminili rispetto all’anno precedente. E se per gli uomini la motivazione predominante è di natura professionale, per le donne quella principale è la difficoltà nel conciliare lavoro e cura del bambino/a: il 41,7% ha attribuito questa difficoltà alla mancanza di servizi di assistenza, mentre il 21,9% ha indicato problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Complessivamente, le sfide legate alla cura rappresentano il 63,6% di tutte le motivazioni di convalida fornite dalle lavoratrici madri.

Il part-time è donna

Dai dati emerge inoltre che in Italia, mentre il lavoro a tempo pieno è più comune tra gli uomini rispetto alle donne, accade l’opposto per il lavoro part-time. Solo il 6,6% degli uomini che lavora, lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, che per la metà dei casi (15,4%) subisce un part-time involontario. Tra coloro che hanno figli, aumenta notevolmente la percentuale di donne impiegate a tempo parziale (36,7%) rispetto a quelle senza figli (23,5%). Tra gli uomini, invece, si passa dall’8,7% per chi non ha figli al 4,6% per i padri.

Le regioni mother friendly

In cima alla classifica delle regioni più mother friendly c’è ancora una volta la Provincia autonoma di Bolzano, seguita dall’Emilia-Romagna, mentre l’ultimo posto è della Basilicata, preceduta da Campania e Sicilia. La Toscana guadagna una posizione, conquistando il terzo posto. Tra le regioni che più sono migliorate rispetto all’anno precedente, il Lazio che passa dal tredicesimo all’ottavo posto guadagnando cinque posizioni e la Lombardia che dall’ottavo si attesta al quarto.


(la Repubblica, 8 maggio 2024)

di Monica Ricci Sargentini


Per lui quella bambina non doveva nascere, quasi nove anni fa pregava la donna con cui aveva una relazione di non metterla al mondo, di non “condannarlo a morte”.

«Per una che dovesse andare avanti con la gravidanza anche se il maschio non vuole […] è una violenta […] perché penso, dio cristo, che l’aborto è una conquista per tutti, non solo per le donne» scriveva Armando (il nome è di fantasia) nel settembre del 2015.

Ma per lei abortire era «un gesto impensabile» e lui addirittura minacciava di uccidersi.

«Mi metto di fronte a te in ginocchio, supplicante. Non trafiggermi, non affondare la tua lama nel mio corpo. Non condannarmi a morte. Perché questo è quello che succederebbe, io ne morirei in un modo o nell’altro» scriveva a settembre del 2015.

E ancora:

«Dato che hai sequestrato il mio spermatozoo adesso è tuo? Questa è una minaccia, una minaccia mafiosa» si legge in un messaggio datato agosto 2015.

La donna porta avanti la gravidanza da sola, la bambina nasce e l’uomo non la riconosce. Ma a un certo punto ricompare chiedendo il riconoscimento della bambina, tra cui la prova del Dna, ma soprattutto il cambiamento del nome di battesimo della minore nonché l’anteposizione del suo cognome a quello della madre e altre imposizioni sul regime educativo della minore stessa. Inizia così una vicenda giudiziaria senza fine.

Oggi quella bambina ha otto anni, la chiameremo Maria, e vive nella costante paura di essere portata via alla sua mamma. Si rifiuta in modo categorico di incontrare il padre che ha fatto richiesta di riconoscimento tardivo e ora si batte nei tribunali per averla con sé. Nessun giudice ha mai voluto ascoltare questa bambina, che oggi ha otto anni, nonostante la Corte di Cassazione si sia espressa più volte in tal senso. In una relazione datata 23 luglio 2019 le maestre dell’asilo parlano di «una bambina molto intelligente, affettuosa e partecipe» che, però, regrediva ogni volta che doveva essere consegnata al padre.

«La bambina conosce la scansione del tempo, cosa piuttosto inusuale per la sua giovanissima età, e riconosce ordinatamente anche i giorni della settimana. Questo le permette di distinguere le giornate dedicate alla madre e quelle nelle quali il ritiro era previsto da parte del padre. In particolare, durante queste ultime, il suo stato d’animo notevolmente agitato durante tutta la mattinata, assumeva atteggiamenti di chiusura e auto-protezione. In particolare queste giornate erano caratterizzate da pianti inconsolabili con la continua richiesta di chiamare la madre, supplicandoci che con il padre non voleva andare» scrivono le educatrici.

Qualche settimana fa l’atto esecutivo emesso dal tribunale di Venezia, senza che sia stata svolta alcuna istruttoria, in cui la piccola viene affidata di giorno ai servizi sociali per poi tornare dalla madre di sera.

«Io sono entrata in tribunale pensando di avere tutte le ragioni e di essere tutelata, non mi sarei mai immaginata una cosa del genere, quando mia figlia aveva diciotto mesi il Ctu [consulente tecnico d’ufficio, Ndr] ha stabilito che la bambina era affetta da conflitto di lealtà e che io le inviavo messaggi subliminali» dice oggi la donna, il cui caso è stato uno di quelli presi ad esempio dalla Commissione Femminicidio come esempio di vittimizzazione secondaria.

Ora la donna ha impugnato in appello il provvedimento chiedendo intanto la sospensione. Il caso coinvolge anche il Parlamento. La senatrice Valeria Valente, che nella scorsa legislatura ha presieduto la Commissione Femminicidio, ha richiesto gli atti al tribunale per verificare come sia possibile che un meccanismo infernale del genere possa andare avanti in totale spregio delle sentenze della Cassazione. E così nel frattempo è stato investito anche il ministro Carlo Nordio.

«Ci sembra che qualcosa non quadri in ottica della riforma Cartabia. Proporremo alla commissione femminicidio di acquisire gli atti per vederci chiaro» ha detto Valente alla Dire.

Sulla vicenda è intervenuta anche la capogruppo di Alleanza verdi e sinistra alla Camera, Luana Zanella: «È un caso doloroso a cui va trovata assolutamente una soluzione, la Commissione Femminicidio se ne occupi. – ha spiegato – Conosco da tempo la donna, le sue ragioni sono molto forti, la commissione parlamentare deve riprendere in mano il suo dossier, studiarlo, verificare le criticità della riforma Cartabia e il perché il Tribunale di Venezia non abbia applicato la Convenzione di Istanbul».


(lepersoneeladignita.corriere.it, 7 maggio 2024)

di Katia Ferretti


https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=1400,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2024/04/screenshot-2024-04-30-alle-171502.png
Da una infanzia ucraina. Una galleria di scatti presi da librerie, archivi privati, artisti contemporanei, bancarelle, commentate da pagine narrative, che compongono un cifrario dell’oggi: “La foto mi guardava”, Adelphi


Costruito come corredo di didascalie narrative a una galleria di cinquantasette immagini fotografiche della più disparata provenienza, il libro di Katja Petrowskaja La foto mi guardava (traduzione di Ada Vigliani, Adelphi, pp. 259, € 24,00) sprigiona una forza che attinge in eguale misura al dominio della parola e a quello dell’immagine: l’una rinvigorisce e feconda l’altra, la colora di senso e magia. Per realizzare il suo lavoro – che raduna brani nati tra il 2015 e il 2021 come singoli pezzi giornalistici, ognuno dotato di un titolo carico di significato – l’autrice compulsa volumi fotografici e archivi privati, visita gallerie di artisti contemporanei, setaccia librerie antiquarie e bancarelle.

Attenta al punctum di Roland Barthes come alla sezione aurea, insegue la logica che vige nello spazio di ogni foto, la sua capacità di farsi “esperienza”, di essere vissuta con un alto grado di interattività (in “Babuška in cielo” la figura di anziana vestita di tutto punto, stile primi anni ’70 sovietici, e librata a mezz’aria su una seggiovia che si inerpica su una qualche vetta, innesca un intenso scambio di visione tra chi è ritratto e chi vede la foto).

Petrowskaja seleziona scatti evidentemente fortuiti, di un minimalismo disarmante, o immagini cesellate «fino a che non resti altro che l’anima distillata». Se «ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio», in alcuni casi «ciò che accade all’improvviso plasma il tempo», come nell’inquadratura di Vanessa Winship commentata nel pezzo titolato “Sul Mar Nero”, in cui conta ciò che resta fuori dal campo visivo, ciò che è immaginato come “in procinto” di entrare in scena.

L’intento dichiarato è quello di cogliere il rapporto trasognato che si instaura tra luce e oscurità, umanità e paesaggio, movimento e immobilità: tutte le «transizioni tra natura e cultura», insomma. Non senza interrogarsi sullo statuto di verità reclamato da una foto, per rilevare eventuali distorsioni tra realtà e imposture: è il caso di “Curva radiosa” – con la simulazione di normalità inscenata dal governo sovietico alla Corsa per la Pace partita in bicicletta da Kiev nel maggio 1986, mentre le onde radioattive di Černobyl’ colpivano alla stregua di un nemico invisibile;  o di “Paese calpestato”, in cui l’Ucraina del ’42 è fotografata da un soldato tedesco come se le tracce della guerra fossero parte del ciclo delle stagioni.

Nelle pagine di questo volume Petrowskaja rincorre temi e luoghi prediletti, capi di una trama narrativa già dipanata diffusamente in Forse Esther, itinerario romanzesco e documentario al tempo stesso nei meandri della propria genealogia: le peculiarità del mondo ebraico e i diritti delle donne, il destino storico dell’Ucraina e le vicissitudini di Praga o Berlino, i relitti dell’utopia sovietica andata in pezzi (nel brano “Restricted Areas” il sogno della felicità futura viene fatto indietreggiare fino a toccare il più remoto passato, quello dell’era glaciale). Ma anche «lo scollamento tra vita reale e American Dream», e perfino l’incontro tra quei due blocchi al tempo della guerra fredda – come in “Samantha dello spazio”, o “Disgelo”; o in “Eyes Wide Shut”, in cui viene richiamato il viaggio nell’Urss del 1947 di John Steinbeck e Robert Capa.

Il libro è saturo di rimandi culturali, al crocevia di molte arti, emozioni e saperi: ci imbattiamo nei nomi di Andrej Tarkovskij, David Lynch o Wim Wenders, ma anche nelle performance del giovane artista russo Pëtr Pavlenskij – assimilato ai martiri protocristiani per il suo uso del corpo come strumento di sfida allo stato. Su tutto dominano gli scrittori: Calvino e Lispector, Kafka e Šalamov, Kerouac e molti altri ancora, ad animare un personalissimo, decisamente accogliente pantheon letterario ideale.

E se la pittura, madre della fotografia, è costantemente sullo sfondo, alcuni tra i più classici prototipi artistici universali trovano nuova carne e veste in creature del più concreto oggi: ci viene così incontro una Venere di Botticelli in panni di migrante, avvolta nel velo dorato di profuga scampata al mare ed emblema di tutti i salvati; o una “Madonna dell’Alentejo “– la madre rom portoghese intenta ad allattare nel primo piano di una movimentata foto di gruppo che «mostra tutte le sfumature tra l’autenticità e la messinscena», «tra la street photo e il tableau vivant».

Mettendosi sulle tracce delle biografie di fotografi variamente noti, o accumulando congetture su quelli anonimi, Petrowskaja lascia emergere una manciata di tratti che si stagliano indelebili: il genio di Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; il volto ineffabile della regista e danzatrice Maya Deren (ripreso in copertina); le imprese documentaristiche di Josef Koudelka al tempo della Primavera di Praga. Su tutto si innesta la grana del ricordo, senza eccessive distinzioni tra reminiscenze dell’infanzia sovietica e memoria storica, déjà-vu più o meno veritieri, che rendono possibile abbracciare stratificazioni temporali multiple, o ricordi mancati che scattano nell’atto stesso del guardare e colmano vuoti o afasie indicibili. Oppure sogni altrui in cui veniamo catapultati.

Ne viene fuori un libro-caleidoscopio della modernità e dei suoi smarrimenti, taccuino di catastrofi immani e di singoli gesti coraggiosi, che è al contempo camera oscura della memoria personale di Petrowskaja e flip book del presente dell’umanità. Un cifrario dell’oggi che si srotola nella ricerca di verità e bellezza, vivificato da gioie minime di artista: quando l’autrice fotografa una nuvola insolita, si dichiara felice come se fosse stata lei a crearla.


(Alias – il manifesto, 5 maggio 2024)

di Franca Fortunato


Identità di genere, maternità surrogata (Gpa), legalizzazione della prostituzione intesa come lavoro (sex-work), blocco della pubertà in bambine/i che si percepiscono di sesso diverso da quello di nascita, uso di un linguaggio “neutro” che per essere inclusivo esclude le donne, sono temi che in questi anni sono stati divisivi e scomodi. Divisivi tra le femministe e scomodi per quei partiti e organizzazioni della sinistra che li sostengono, li hanno fatti propri, e non hanno mai accettato un dialogo e un confronto con le femministe della differenza che pure, in varie occasioni, l’hanno cercato. Alcune di loro oggi ci riprovano con un libro dal titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, curato da Daniela Dioguardi, con l’introduzione di Francesca Izzo e edito da Castelvecchi. Le autrici, «unite dalla passione per la differenza e la libertà femminile» ribadiscono le ragioni, ragionate e argomentate, della loro contrarietà alla teoria dell’identità di genere che «elimina il dato di natura in base a cui si nasce di due sessi», alla Gpa che elimina la madre, la donna, al sex-work che sdogana la prostituzione definita da Rachel Moran “stupro a pagamento”. Questioni sostenute dal movimento Lgbt+, da Non Una di Meno e dal transfemminismo, che «inneggiano a una libertà individuale incondizionata», «senza vincoli nel disporre di sé sul mercato». Con il transfemminismo lo slogan «il corpo è mio e lo gestisco io» è diventato «il corpo è mio e lo vendo io», ultima «frontiera del neoliberismo». Non è un caso che nel movimento ci sia «una forte presenza maschile che rielabora il femminismo». Molti i racconti di esperienze, fatti, eventi, che testimoniano il clima di intolleranza, intimidazione e «prevaricazione ideologica» in Italia, in Europa, come nel mondo anglosassone, alimentato da chi sostiene quelle teorie. Un clima in cui chi osa «manifestare un pensiero diverso, esprimere una critica, un dissenso» viene insultato, accusato di “istigazione all’odio”, bollato come di destra, reazionario, omofobo, transfobico, perfino fascista. La narrazione corrente vuole che chi è a favore è di sinistra, progressista, difende la libertà e l’autodeterminazione. Le autrici raccontano di femministe cacciate «con urla e spintoni» da università, eventi, manifestazioni, censurate con impedimento a parlare. Un clima inaccettabile, nel silenzio assordante delle forze progressiste. Perché «le transfemministe condannano la violenza domestica e applaudono la violenza a pagamento nella prostituzione e nella Gpa?», «credono davvero che prostituirsi o portare figli che non si desiderano siano forme di libertà?». «Perché per porre fine alle discriminazioni e dare diritti a transgender, queer, gay, si deve cancellare la differenza sessuale?». Perché la sinistra sostiene queste idee? Per convinzione, per paura di perdere consensi o per l’uso della «terminologia dell’inclusione e della lotta alle discriminazioni, cara al mondo progressista dei diritti»? Le autrici mettono in luce come “inclusione”, “parità”, “diritti ugualitari” si stanno ritorcendo contro le donne. Nei tribunali se una madre tenta di opporsi all’“affido condiviso” con l’ex violento, la minaccia è l’allontanamento delle/i figlie/i. Associazioni storiche di donne come Udi e ArciLesbica vengono escluse dai finanziamenti pubblici perché non hanno “soci”, sono vietate le società quotate in borsa di sole donne come le liste di sole donne nelle elezioni politiche e il ministro Valditara introduce la “quota blu” nel concorso per dirigenti scolastici. Basta rivendicare nuove leggi paritarie, va fatto “vuoto legislativo” e quelle che danneggiano le donne vanno cancellate. La sinistra e le forze progressiste accetteranno di dialogare con le femministe della differenza?


(Il Quotidiano del Sud, 4 maggio 2024)

di Barbara Bertoncin


Cristina Gramolini, insegnante di Storia e Filosofia, ha fatto coming out nel 1989 e l’anno seguente è diventata attivista del movimento lesbico. È stata tra le promotrici delle tre “Settimane Lesbiche Italiane” nel 1991, 1996 e 1998. Nel 1996 ha partecipato alla fondazione dell’associazione nazionale Arcilesbica e ne è stata la presidente dal 2002 al 2005, e di nuovo dal 2017 a oggi. Il libro di cui si parla nell’intervista è Noi, le lesbiche. Preferenza femminile e critica al transfemminismo (AA.VV.), Il dito e la luna, 2021.


Puoi raccontarci qual è stato il tuo tragitto?

Sono nata nel 1963 in una città di provincia e l’omosessualità è stata sempre la mia condizione. Ovviamente non l’ho subito accettata, mi ha anche un po’ spaventata quando ero adolescente. Prima di grandi innamoramenti o fantasie romantiche, comunque, non ero stata una ragazzina aderente al modello femminile. Poi sono arrivate le prime cotte e lì mi sono un po’ preoccupata, sinceramente. Nel senso che mi sono resa conto che avrei dovuto affrontare una difficoltà grande. Essendo stata sempre un po’ anticonformista, il fatto di essere diversa era qualcosa che potevo sopportare tranquillamente. Ma quella cosa lì, mi sono chiesta: la reggerò? Insomma, mi ha fatto paura. All’inizio ho pensato: chissà, magari è temporaneo, però mi succedeva sempre! A un certo punto me lo sono detta. In effetti, nel movimento noi dicevamo che prima di tutto il coming out bisogna farlo con se stesse. Questa riflessione però è venuta dopo. In quel momento ero sola. Quindi mi sono detta: vabbè, è così, cercherò di proteggermi. Perché mi sentivo molto minacciata.

Non so quanto fosse reale quella percezione, o quanto ingigantita. Avevo paura di cosa potesse succedere in casa, mi sembrava una cosa che non sarebbe mai stata dicibile. Sto parlando dell’inizio degli anni Ottanta. Era una cosa troppo mia, non sapevo con chi affrontarla. Quindi ho deciso che l’avrei vissuta con molta discrezione. Però non ho mai fatto finta di essere altro. All’epoca ero anche un’attivista nel movimento degli studenti. Mi è sempre interessato fare un po’ di agitazione. È stato così che ho incontrato il movimento delle lesbiche, che a quel tempo era separatista. È accaduto in modo casuale: sul foglio del “Paese delle Donne” c’era un invito a una vacanza lesbica del Cli, il Collegamento delle lesbiche italiane. Così io e la mia compagna ci siamo andate. Per me era una cosa completamente inaspettata, perché quelle donne non erano facili da trovare. Io leggevo i giornali dei movimenti, della sinistra, andavo alle manifestazioni, ma non le incontravo mai! Ecco, in quella vacanza ho visto che loro esistevano e ho subito capito che mi interessava quello che facevano: in sostanza mettevano in atto forme di visibilità prudente, comunque coraggiosa, ma un po’ protetta. A quel punto ho pensato: beh, questo lo posso reggere. Rimaneva il fatto che conducevo una doppia vita: quando andavo a quei convegni, a quegli appuntamenti, ero dichiarata, però mi guardavo sempre un po’ le spalle rispetto al controllo delle informazioni su di me nella vita di tutti i giorni.

Nel frattempo ero diventata un’insegnante, mia madre mi diceva: «Se lo scoprono, cosa ti succederà?».

Ai tuoi genitori quando l’hai detto?

A un certo punto gliel’ho detto, purtroppo in un momento di rabbia. Comunque ero già grande, avevo ventisette anni.

Loro lo sapevano, secondo te?

Facevano finta di non saperlo, però non sono trasecolati. Non hanno detto: «Ah, certo, è la scoperta dell’acqua calda!», però non si sono neanche stupefatti. Purtroppo, come dicevo, è avvenuto in un contesto di rabbia, non è stata una cosa serena. Comunque dopo ho iniziato a ricevere questa raccomandazione costante di stare attenta. Insomma, non è stato motivo di gioia familiare, ma neanche chissà quale catastrofe, come fantasticavo prima.

Nel 1994 il Parlamento europeo ha fatto una risoluzione che sollecitava gli Stati membri, quindi anche l’Italia, a promulgare delle leggi per equiparare la posizione dei cittadini omosessuali. Era una notizia da telegiornale in prima serata, che ha provocato una grande discussione, un grande turbamento anche sui giornali, finalmente.

Questo avvenimento ha fatto decollare il movimento gay, nel senso che sono cominciati i pride, quelli con i cortei. Prima c’erano, ma erano celebrazioni che avvenivano in circuiti di cui sapevi solo se facevi parte del giro. A Milano si era fatto qualcosa già nel ’92, avevano inscenato dei matrimoni in piazza della Scala, officiati da Paolo Hutter che era consigliere comunale. Però normalmente non facevano notizia nazionale. Invece quel provvedimento dell’Ue ha proprio dato una spinta, non tanto alle lesbiche femministe ma all’associazionismo gay, per uscire fuori, proprio in mezzo alla strada. Ecco, ricordo di aver provato un’attrazione fortissima per una visibilità piena: sentivo che era quello che desideravo. Non volevo più vivere nell’ansia della doppia vita: basta!

Mi sono quindi allontanata dal movimento delle lesbiche femministe perché mi sono come ubriacata della piazza, del corteo, del coming out, dell’andare ai convegni presentandomi per quello che ero. Devo dire che non sono tanto coraggiosa, però, pur continuando ad aver paura, sentivo il forte bisogno di vivere una vita fuori dalla clandestinità. In questo senso dico sempre che ho un debito con tante realtà e tante persone e certamente con il movimento gay. La spinta alla visibilità l’ho presa da lì.

Dopodiché è venuto il momento in cui l’ho detto a scuola. Certo, tutte le volte con timore, perché non sai mai… Nel corso di una discussione sui provvedimenti dell’Unione europea mi è stato chiesto come la vedessi e ho risposto: «Penso questo e questo, perché mi riguarda». Mi sarebbe sembrato ambiguo e ipocrita non espormi. Poi, ripeto, non ne potevo più e quindi l’ho detto. Però se prima avevo avuto paura in famiglia, dopo ho avuto paura a scuola. Ho pensato: «Mi chiameranno? Ci sarà qualche famiglia che…». Perché non era come adesso. Comunque non è mai successo niente. I colleghi? Per lungo tempo, ma in fondo anche adesso, fanno finta di niente, perché non sanno come trattare la materia. È capitato che facessero delle domande sulla mia situazione familiare perché non sapevano e dopo erano pentiti di avere chiesto.

Devo dire che mi considero fortunata. Non a tutte è andata bene. Se penso al mio percorso, so di aver avuto tanta paura, ma poi non mi è mai capitato di essere veramente in pericolo. Altre persone, donne e uomini, hanno dovuto affrontare delle ostilità. Nel mio caso, una volta che l’hanno saputo tutti, giovani e vecchi, parenti vicini e lontani, è passata anche la paura. Chi non c’è passato non lo capisce: è come se qualcuno potesse minacciarti, scoprirti o colpevolizzarti in qualunque momento. È stata una brutta vita. È durata fino a ventisette, ventott’anni e poi per fortuna è finita!

Da allora raccomando il coming out a tutti. È meglio affrontare il problema invece che vivere con questo fantasma. Va anche detto che rispetto ai miei racconti antidiluviani nel frattempo è cambiato tutto.

Nel libro Noi, le lesbiche, ripercorrendo il vostro percorso, individuate una data cruciale, quella delle unioni civili, dopo la quale alcuni nodi cominciano a venire al pettine…

Chiaramente dentro la comunità Lgbt c’era già chi voleva metter su famiglia con i figli, chi andava a fare l’inseminazione artificiale, oppure c’era chi voleva fare la transizione e chi l’aveva fatta. C’è sempre stata tutta una gamma di tematiche. Tuttavia per molto tempo la questione di punta era il riconoscimento delle coppie, quindi le altre cose rimanevano un po’ in secondo piano.

Anch’io, rispetto a cose sulle quali avevo dei dubbi, non stavo lì a dire: «Su questo vorrei dei chiarimenti», perché – appunto – la battaglia era concentrata su un altro obiettivo. Quello che è uscito fuori dopo le unioni civili, quindi, non è piovuto dal cielo. Semplicemente, una volta raggiunto quel traguardo venivano avanti le altre questioni. Solo che non c’è stato il tempo di discuterne; è stato dato tutto per scontato, invece c’erano cose su cui non c’era accordo. E poi, di punto in bianco, è cambiato il clima. Anche prima delle unioni civili c’erano state delle divergenze all’interno del movimento, ad esempio tra chi voleva il matrimonio, chi l’unione civile e chi non voleva niente perché era omologante. C’era addirittura un’associazione gay di destra, berlusconiana. Poi c’erano gli omosessuali credenti… insomma, c’era un panorama frastagliato, però si conviveva, nessuno è stato mai cacciato, stigmatizzato o allontanato con infamia, ostracizzato perché portatore di istanze particolari. E ti assicuro che ce n’erano di tutti i gusti…

Invece sulla questione di come avere figli e di come determinare la propria identità di genere è subentrata improvvisamente l’intransigenza. E io, che nel 2016 avevo già una certa età e che nel movimento avevo passato tutta la mia vita adulta, nel giro di un anno mi sono ritrovata delegittimata e infine estromessa.

Pensavo che davanti a disaccordi avrebbero potuto mandarci a quel paese, ma non essere addirittura cacciate.

Puoi raccontare cos’è successo?

Noi avevamo già manifestato alle Famiglie Arcobaleno che dentro Arcilesbica c’erano delle forti perplessità, che a un certo punto avevamo messo nero su bianco. Le famiglie Arcobaleno sono nate con l’obiettivo di tutelare le coppie dello stesso sesso con figli avuti da precedenti matrimoni, o avuti altrimenti. In quella fase (2012) ero anche stata invitata a un loro appuntamento per discutere proprio di questo. In prima battuta il mio pensiero era: se la Gpa [gestazione per altri, Ndr] è una cosa fatta gratuitamente, va bene, perché se una donna lo fa senza ritorno economico vuol dire che ti vuole bene, e quindi chi sono io per dire: no, tu non devi? Siamo andate avanti per alcuni anni cercando di stare su questo crinale. Intanto però si era iniziato a parlare di rimborsi. Ricordo anche chi diceva: «Beh, se vengono da noi dei padri che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri all’estero, noi comunque li accogliamo».

Già nelle ultime manifestazioni a favore delle unioni civili c’era stata una polemica sulla stepchild adoption (l’adozione del figlio del partner), perché Renzi l’aveva tolta dalla proposta di legge per evitare il riconoscimento automatico dei figli nati da Gpa all’estero, e questo aveva suscitato malumori.

Ecco, ricordo l’ultima manifestazione prima dell’approvazione della legge con tutti gli interventi sul palco che esplicitamente rivendicavano la gestazione per altri. Devo dire che la cosa mi aveva turbato per la leggerezza di certi approcci. La madrina della manifestazione, dal palco, si era detta disposta a farla lei la gestazione per altri.

Insomma, ero lì di sotto ed ero rimasta piuttosto imbarazzata. In Arcilesbica facciamo periodicamente dei congressi. In uno di questi la sociologa Daniela Danna ci ha messo in guardia su come anche la Gpa gratuita in realtà tale non fosse, producendo documenti sui rimborsi erogati alla “gestante per altri” per guadagni non conseguiti, e dimostrando che sono una forma di pagamento. A quel punto abbiamo detto: «No, allora niente». Cioè, bisogna pensare ad altre soluzioni. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo dichiarato e lì sono cominciati i guai. Questo infatti non è stato accettato. Ci hanno accusato di avere una posizione omofobica. L’argomento era: «Voi accettate le madri lesbiche e non accettate i padri gay». Noi abbiamo risposto: «Scusate, ma la donna che va a fare l’inseminazione artificiale, certo, prende il seme dal donatore, ma il figlio lo fa lei! Non mette nessuno a fare lavoro riproduttivo». Un falso paradigma egualitario ha fatto sì che noi sembrassimo discriminatorie: per noi donne i figli sì, per voi uomini no. Ci hanno accusato di odiare gli uomini.

La produzione del seme per l’uomo e l’estrazione degli ovociti e poi la gravidanza e il parto per la donna sono due procedure radicalmente diverse.

Tra l’altro l’uso di due donne, della donatrice e della portatrice, è un modo per tutelarsi da un ripensamento, perché, attenzione, se l’ovocita è il mio, posso anche firmare un contratto, ma se ci ripenso, essendo il genitore genetico, non c’è contratto che tenga. Se invece la portatrice porta un ovocita non suo non c’è legame genetico. Io a un certo punto mi sono proprio scandalizzata: più apprendevo come avveniva realmente la pratica più la trovavo sbagliata. Non rispetta la salute e l’integrità della gestante, va solo a vantaggio dei committenti.

Nel 2015 c’è stato un appello da parte di un gruppo di femministe di Roma intitolato «Quale libertà» e io ho l’ho firmato a titolo personale. Pensare che un soggetto con reddito forte potesse ottenere un servizio riproduttivo retribuito o rimborsato, regolato da un contratto che monetizza i rischi per la salute, mi evocava sempre più una pratica coloniale. Per non parlare della questione dell’assistenza psicologica alla gestante, che alcuni contratti raccomandano, altri impongono. Una specie di affiancamento a garanzia che il tutto vada a buon fine, che si presta a varie riflessioni.

Devo dire che tutto questo non me lo aspettavo. Il nostro era un movimento libertario, critico della sessualità, critico della propaganda, demistificante… e all’improvviso ci ritrovavamo con il raccontino della famigliola felice. Mi è stato detto: se uno ha i soldi, e invece di comprare un appartamento preferisce portare a casa un neonato grazie a una donna disponibile, qual è il problema?

Ecco, noi siamo passati dall’essere un movimento di liberazione a questa cosa qui.

E poi c’è la questione del senso del limite. Voglio dire, qui non parliamo di persone sterili. Basterebbe “collaborare”, per così dire. Un tempo esisteva l’autoinseminazione. La casa editrice Il Dito e la Luna ha pubblicato un libello, in traduzione dall’inglese, che si intitola appunto Autoinseminazione, di Lisa Saffron. Grazie a questo libro, c’è della gente che ha fatto nascere dei bambini. Eravamo una comunità. In una comunità ci sono delle amicizie. L’amicizia non è un amore, ma è una relazione e quindi si faceva questa cosa, che non erano rapporti sessuali occasionali, era proprio l’autoinseminazione. La donna rimaneva incinta e il bambino aveva due genitori. Costo zero, senza manipolazione medica, né contratti. Qui a Milano conosco più di un caso di bambini nati così, che hanno avuto la possibilità di crescere stando un po’ con la madre lesbica e un po’ col padre gay. Per dire che non è vero che non ci siano altre strade. In fondo, se una donna vuole proprio dare un figlio a un amico, oggi lo può fare: esiste il parto anonimo; lui è il padre genetico e in quanto tale può assumere la responsabilità genitoriale. Mi dispiace dirlo, ma quando si parla di Gpa io vedo un racconto falso di solidarietà mentre si parla di commercio.

Ora sono troppo vecchia, ma ho considerato un percorso accettabile quello di mettere al mondo un bambino o una bambina con un amico, poi non l’ho fatto. Certo, non c’è niente di facile, perché puoi non andare d’accordo, però è una dimensione umana, di rapporto, di responsabilità. Si rischia in un rapporto d’amore, si rischia in un rapporto di amicizia, ma almeno non si compra.

Un discorso critico non riguarda solo gli uomini, perché anche le donne lesbiche, temendo che, specularmente, l’amico donatore potesse rifarsi avanti, hanno immaginato di avere una figliolanza senza un padre che potrebbe improvvisamente diventare un nemico. Poi hanno cominciato anche loro a concepire l’idea di un figlio di due donne. Allora, per carità, si sa che la relazione di cura non passa tramite il Dna, però se convivo con una donna e vogliamo fare questa esperienza, una delle due la fa nel corpo, l’altra la assume come piena responsabilità, però resta una differenza radicale tra le due.

Io non so che farci, ma non riesco a concepire un certificato che dice che qualcuno è nato da due persone dello stesso sesso. Nessuno nasce da due persone dello stesso sesso. Come fai a scriverlo? Una donna è madre, l’altra è madre adottiva. Ora invece si vuole il riconoscimento alla nascita. A me sembrerebbe più logica l’adozione: se il partner del padre vuole assumere la responsabilità genitoriale, sarà genitore adottivo.

Comunque sono tutte discussioni dove si può essere più moderati, o più utopisti, più conservatori, però mi sembrano riflessioni legittime. Invece è diventato tutto tabù: se solo dici che, secondo te, il secondo genitore deve adottare, sembra che tu voglia nuocere ai bambini.

Se dici che due madri e due padri rappresentano condizioni diverse, sei omofobica. Insomma, tutto questo ha creato dei dissapori immensi. Dopodiché è uscita fuori la questione dell’identità di genere e lì il conflitto è deflagrato.

Com’è avvenuta la spaccatura nel movimento?

Il conflitto è divampato dentro Arcilesbica, che è una rete di tanti circoli locali. Quando siamo andate a discutere di come riconfigurare la richiesta dei diritti ci siamo spaccate. Una parte era più allineata con la piattaforma pride; l’altra parte, dove mi sono collocata anch’io, era per mettere dei paletti. Questa discussione, che ci ha dilaniate, è stata seguita dall’esterno da tutto il movimento che faceva il tifo per la parte più affine. Alla fine ha prevalso, di misura, la parte che ha assunto delle posizioni, diciamo, femministe. Il movimento, che aveva scommesso sulla vittoria dell’altra parte, è ricorso a delle contromisure. Il nostro congresso si è tenuto a dicembre del 2017, a maggio del 2018 ci hanno mandato via dal Cassero, la sede Lgbt di Bologna.

Già prima del nostro congresso, mentre divampava la polemica interna, il circolo Mario Mieli di Roma aveva chiesto il nostro allontanamento dal pride. Abbiamo fatto piuttosto casino: ho chiamato il Comune, l’assessore alle pari opportunità di Bologna, ma non c’è stato niente da fare. Non hanno trovato neanche un’altra soluzione. Il Cassero è stato concesso all’inizio degli anni Ottanta e quindi c’è un rapporto consolidato, per cui l’amministrazione di sinistra ha creduto alla versione secondo la quale noi eravamo un piccolo gruppo ideologizzato. Sergio Lo Giudice ha dichiarato a La Repubblica che l’involuzione ideologica di Arcilesbica non era più compatibile con quella sede. Però quella sede era stata compatibile con i gay di destra quando c’era Berlusconi!

Quello che francamente mi ha ulteriormente infastidito è che hanno preteso di spiegare a noi che cos’è femminista, e cioè l’autodeterminazione della donna che vuole fare la Gpa per loro. Insomma, alla fine noi eravamo dipinte come bigotte che volevano impedire alle donne l’uso del loro corpo. Siamo finite su tutti i giornali di Bologna. È stata una cosa pesante da reggere per tutte le parti contendenti.

Quando i gay sono, per così dire, saliti in cattedra, diverse donne li hanno confermati. Anche perché non confermarli voleva dire doversene andare, e molte non se la sono sentita. Io però non ce l’ho fatta a far finta di non capire quello che stavano dicendo. Per la mia storia politica e per l’idea che ho della libertà ho dovuto andarmene. Pensa che una mia amica, Lucia, che non ha mai voluto firmare nulla per discrezione, che diceva sempre: «Firmiamo come associazione», beh, da quando c’è questa polemica vuole firmare tutto con nome e cognome, perché dice: «Voglio che un domani si sappia da che parte stavo».

Capisci? Questo movimento per un sacco di anni si è presentato come di sinistra, perfino di estrema sinistra, anticapitalista, femminista e poi guarda adesso…

È venuta al pettine anche una gerarchia tra gay e lesbiche. Un capitolo del vostro libro è emblematicamente intitolato: “Le lesbiche non sono le mogli dei gay”.

Ci sono delle partecipazioni femminili alle imprese maschili, miste, che sono partecipazioni collaborative. Accade anche nei partiti, cioè le donne danno una mano, magari sono anche brave, più brave, ma fanno quella cosa lì. Noi, da che siamo nate ci siamo chiamate “Arcilesbica” perché ci consideravamo portatrici di una alterità rispetto ai gay, e anche di una indisponibilità. Cioè non eravamo sempre pronte a seguire: ci riservavamo di sostenere o meno le iniziative di volta in volta.

Ci sono donne che sono rimaste nell’Arcigay perché a loro non piaceva la separazione delle donne. Quelle più femministe volevano invece un’organizzazione propria. Finché siamo andati d’accordo o in presenza di pochi dissidi, ha funzionato, quando è scoppiato lo scontro tra i fratelli e le sorelle, alcune donne hanno scelto i fratelli. Quindi, anche se abbiamo vinto il nostro congresso, siamo rimaste solo noi, perché quelle che lo hanno perso sono andate via.

Oggi le piazze sono piene di donne. Ci sono anche molte giovani lesbiche che ci disprezzano perché ci credono discriminatorie. Il fatto è che in questo frangente la differenza tra gli interessi maschili e quelli femminili è venuta fuori, per chi l’ha voluta vedere.

Anche nelle ultime vicende sulla trascrizione dei certificati di nascita dei figli è riemersa l’idea che non sia rilevante la differenza tra i sessi, che le coppie dello stesso sesso, a prescindere da quale, sarebbero equivalenti nella genitorialità e quindi debbano avere pari diritti. Ma il paradigma egualitario nell’attività generativa, riproduttiva, nella funzione materna o paterna, non funziona. Non a caso nella Gpa la gestante non deve allattare, per evitare che si rafforzi l’attaccamento che già esiste tra il neonato e la donna che l’ha partorito. In nome di un’uguaglianza intesa come livellamento, non si vuole distinguere tra ruoli differenti di madre e padre. Molte giovani lesbiche pensano che noi siamo discriminatorie perché diciamo questo.

Oggi il movimento si definisce transfemminista…

È un termine ombrello, ci stanno dentro anche gli etero. Per me è un discorso che viene dai centri sociali. Transfemminismo ha questo prefisso, “trans”, che non vuol dire transessuale, bensì che travalica le norme di genere. Chiunque travalica quelle norme è già trans, capisci?

Hanno creato questa cornice in modo da avere dei movimenti di ribellione in grado di accogliere il numero più alto di persone. Io ci vedo anche la volontà di ricomposizione di un blocco antagonista. L’altra caratteristica tipica dei centri sociali è l’idealizzazione della marginalità in chiave antisistema. Infatti alle transfemministe non interessa tanto la coppietta coi bambini, interessa di più la sex worker o la trans perché quella è una figura antisistema. Nell’orizzonte psicologico e politico degli antagonisti si deve sempre tirar fuori qualcosa di eversivo, e quindi hanno creato queste icone. Poco gliene importa se la realtà fuori dall’icona è lo sfruttamento della prostituzione. Loro dicono: «sex work is work» [‘il lavoro sessuale è lavoro’]. A me sembra che vogliano più che altro scioccare i benpensanti.

Sono piuttosto delusa da questo ambiente, che pure è stata la mia parte politica. Io sono sempre stata di sinistra. I centri sociali non erano il luogo del mio impegno, ma facevano parte della grande famiglia, e adesso mettono in atto delle pratiche che non mi piacciono affatto.

Sono cresciuta pensando che la sinistra fosse il luogo del pensiero illuminato, adesso ci ritroviamo che non si può né pensare né parlare. La sinistra moderata ha abdicato a tutte le cose socialiste, quindi, ripeto, sono piuttosto delusa, però questo non mi ha in nessun momento portato a guardare a destra o alla Chiesa. Sono una donna di sinistra senza rappresentanza, senza un luogo. È stato anche per questo che con altre, per non essere messe in un angolo, tacitate, abbiamo iniziato a cercare compagne e compagni di strada che, in base a principi progressisti, di sinistra, libertari, rifiutassero certi propositi che per noi sono falsi diritti. Rimaniamo una minoranza, pure abbastanza negletta, però ora una rete c’è. Va anche detto che quelli che invece prima erano marginali, nel frattempo sono diventati mainstream e tengono in pugno anche le forze politiche progressiste. Il pensiero critico oggi è minoritario. Io non ho paura di essere minoranza, sono rammaricata per il fatto che le donne che osano sollevare critiche oggi sono censurate in tutti gli ambienti Lgbt. Anche uomini importanti per il movimento sono stati sacrificati e messi da parte per le loro posizioni. A volte sento che potremmo in qualche modo essere in pericolo; voglio dire, se ci presentassimo in certi luoghi, beh, non so come andrebbe a finire. Esiste un video di una recente manifestazione a Bologna dove c’è una performance con degli attori mascherati che srotolano dei sacchi neri dove ci sono delle facce; c’è un secchio di vernice viola, loro ci mettono i piedi dentro e poi calpestano le facce dei “potenti del mondo”. Ebbene c’è la faccia di Erdoğan, di Salvini, di Meloni… e c’è pure la mia! Capisci cosa voglio dire? C’è un livello di tensione che può diventare pericolosa.

Come ti spieghi questa violenza, queste pratiche cosiddette di “deplatforming” con cui si mettono delle persone al bando, le si zittisce?

Purtroppo sono pratiche che vengono dall’estrema sinistra. I fascisti non devono parlare, punto. «Fuori i fascisti dall’università»: quante volte l’abbiamo detto? Il problema è che se tutti quelli che non la pensano come te diventano fascisti… Questa modalità è farina del nostro sacco, nostro in quanto sinistra. Sicuramente non è farina del sacco Lgbt, perché soprattutto i gay hanno sempre usato l’ironia, la parodia, come arma polemica. Quando frequentavo il Cassero i primi anni, c’era un gay che diceva: «Ah, quella lì mi ha trattato male, allora le volevo dare… una sventagliata!», cioè un colpo con il ventaglio. Questo era il modo di fare invettiva, quindi figurati.

Questa enfasi sulla famiglia è una novità nel movimento.

È così, il movimento è cambiato. D’altra parte cambiano i climi culturali; adesso in effetti c’è molto familismo. Quando c’è stata l’ondata della contestazione si è messo in discussione tutto, poi c’è stato un refluire, un rientrare un po’ nell’alveo, e anche gli omosessuali hanno voluto trovare una dimensione di normalità. Si può ben capire.

Come ricordavo prima, quando ero molto giovane, il passaggio dall’essere clandestina al non esserlo più ci ha fatto scoprire il piacere di essere finalmente normali. Passati i faticosi anni del coming out, dell’“oddio, cosa succederà?”, visto che alla fine non succedeva niente, si cominciava a uscire con la propria compagna, ad andare a casa dei genitori. Per un po’ ci siamo godute la tranquillità. Lo stare sempre contro, sempre fuori, è anche sfibrante. Nell’attuale contesto, credo che una parte della comunità abbia pensato: anche se sono omosessuale non vuol dire che non possa dare un nipotino ai miei genitori, in qualche modo si può dire che ha voluto “tutta la normalità”.

Guarda che prima era proprio brutto, nel passato molti rapporti non stavano in piedi perché la gente combatteva intimamente contro se stessa, quindi nascevano degli amori, delle relazioni che però magari non reggevano perché uno dei due fuggiva. Abbiamo molto sofferto, perciò se qualcuno oggi sogna una normale famiglia felice, io non ho niente da dire. Mi oppongo a che si aprano varchi ad abusi, violenze, sfruttamenti. Mi va bene che ognuno scelga e cerchi la felicità dove vuole, purché non si legittimino rapporti sociali ingiusti o nocivi.

Non ho fatto tutta questa strada per arrivare qui! Cioè, quando vedo le foto di donne puerpere per altri, quelle di colore che costano di meno, oppure i cataloghi dove puoi scegliere la portatrice… io mi vergogno!

Mi dispiace che siamo arrivati qua. Forse semplicemente i movimenti, quando vincono, cambiano pelle. Mica è successo solo a noi. Certe volte penso anche alla storia del socialismo, al fatto che un movimento nel vincere manca la promessa. Però non è che per questo sono state battaglie sbagliate. Bisogna rimettersi in moto.

Io poi non ho soluzioni, ti sto raccontando quello che ho visto succedere. Forse se le persone transessuali accettassero di essere persone transessuali, se ognuno trovasse un suo posto nel mondo, senza prendere il posto di qualcun altro, se si accettassero le differenze, potremmo ritrovarci. Non so quando accadrà, però io spero che prima o poi sarà possibile mettersi attorno a un tavolo e discutere di come tutelare i diritti di tutte le persone senza che ne vada però dei diritti delle donne, che da sempre sono i soggetti sacrificabili.

Come spieghi questa adesione di tante giovani donne al transfemminismo? È una questione di generosità femminile?

Non credo. Da giovane, se mi avessi chiesto se preferivo occuparmi dei campesinos [contadini, Ndr] salvadoregni o delle donne, ti avrei risposto: dei campesinos!

Il fatto è che impegnarsi per migliorare la condizione delle donne vuol dire assumere la differenza come il punto da cui tu parti, e invece noi donne spesso da lì vogliamo sloggiare! Per questo io, qui, più che la generosità vedo un desiderio di fuga dalla differenza femminile.

Questa esplosione di un apparente desiderio di diventare uomini da parte di ragazze giovani fa molto pensare…

Sono d’accordo. Il fatto è che essere donna non è tanto conveniente. Io oggi mi sto dedicando a ricreare una rete, non solo come protezione per chi non può parlare, ma anche per parlare nonostante altri non vogliano. Una volta che immetti nel corpo sociale dei pensieri, questi faranno la loro strada, anche se si vorrebbe metterli a tacere. Il nostro obiettivo è di riaprire un canale di comunicazione con le sinistre per richiamarle a un ruolo più critico, perché poi spetterebbe a loro trovare una sintesi. Io sono portatrice di una differenza, sono lesbica e non voglio che nei cortei mi si dica che esistono le lesbiche col pene. Questo proprio no.

Nel documentario Human adult female, una delle intervistate, vigile del fuoco inglese, racconta di essere stata bannata da un sito di appuntamenti lesbici perché nelle tre righe di presentazione aveva segnalato la sua preferenza per «donne biologicamente femmine».

È questo il paradosso: per salvaguardare le possibilità dell’autodefinizione, in qualche modo io non posso più esistere. Perché lui si possa autodefinire donna, io non mi posso più definire tale. Ripeto, penso che sia anche compito della politica intervenire. Io non voglio scomparire, dopodiché non è solo compito mio trovare la sintesi.

Dopo aver vissuto un tempo in cui l’omosessualità era un grave handicap, ora mi trovo a vivere in un tempo in cui sono emerse delle contraddizioni che vanno affrontate con il massimo di intelligenza possibile. Ogni periodo ha un tema urgente. Ai tempi dell’università, con le mie amiche e compagne ci interrogavamo su quale potesse essere il nostro ruolo per incidere nella realtà. Io ho risposto impegnandomi a dare visibilità a questa condizione, mi sono esposta personalmente. Mi sembrava che di libri ce ne fossero tanti e di facce poche, così ho deciso di metterci la faccia. Oggi di nuovo si tratta di capire cosa ha senso fare e in qualche modo risolveremo anche la contraddizione del presente perché la strada intrapresa ha degli aspetti di totale assurdità: le lesbiche non accetteranno mai di fare sesso con uno che ha il pene, anche se si cerca di farle sentire in colpa. Ci sono in campo delle pretese che non hanno nessuna chance di avere corso. Forse possono riuscire a colpevolizzare una sedicenne dicendole che non è abbastanza accogliente e inclusiva, ma noi no.

Molti compagni e compagne non vogliono starci a sentire, ma non possono liquidarci definendo fasciste delle donne che hanno settant’anni e hanno passato la vita nell’Udi; così perdono di credibilità loro. Noi per un po’ siamo rimaste sotto schiaffo, perché è stato tutto molto doloroso, si sono rotte delle amicizie, poi però ci siamo riprese.


(Una Città n° 300/2024, 1° maggio 2024)

di Francesca Visentin


L’aumento di violenza, stupri, femminicidi nascono anche dalla crisi del patriarcato e dall’indebolimento dell’autorevolezza maschile: gli uomini non sopportano di perdere potere. Invidia, paura, rabbia innescano più comportamenti violenti che nel passato. Lo sostiene il film Il popolo delle donne, lectio magistralis della psicanalista Marina Valcarenghi, militante, studiosa, fondatrice di Viola, associazione per lo studio e la psicoterapia della violenza. Il film è girato dal regista Yuri Ancarani nel chiostro della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, dopo la tappa alla Statale di Milano dei giorni scorsi, sarà proiettato l’8 maggio a Torrioni in provincia di Avellino nella sala comunale (ore 17.30) e il 29 maggio a Venezia al Multisala Rossini (ore 18.30), con il regista Ancarani.

Valcarenghi è stata la prima psichiatra italiana a lavorare in carcere con detenuti in isolamento per violenza, stupri, pedofilia. Gli stupri, la violenza nascono dalla paura. Tutti gli odi vengono dalla paura. La crisi del patriarcato ha fatto esplodere frustrazioni, bisogno di rivalsa maschile, ribadisce la psicoterapeuta nell’intervento firmato da Ancarani. Un ragionamento che nasce dai suoi studi e va alle radici dell’odio, anche basandosi sulle testimonianze raccolte in tanti anni di terapia con i detenuti o con uomini che in vario modo hanno agito la violenza. Riflessioni sulle dinamiche relazionali di trent’anni di storia italiana e esperienze del lavoro di psicanalista, fanno emergere le paure legate al cambiamento dei ruoli di uomini e donne.

Il titolo del film, Il popolo delle donne, vuole essere un monito e una speranza, «che un giorno le donne si sentano parte di un’unica comunità con richieste condivise e battaglie collettive». Lo squilibrio tra il lungo periodo in cui le donne sono state oppresse dal potere maschile e il breve e veloce periodo (tra il 1946 e il 1976 circa) in cui si è sviluppata l’emancipazione femminile, anche grazie a leggi e cambiamenti sociali, ha generato una reazione maschile violenta, che secondo Valcarenghi si poteva prevedere. C’è una strada per il cambiamento? «Non c’è da cambiare strada, c’è da proseguirla. – sottolinea Valcarenghi – Proseguirla per me vuol dire per esempio insistere sul pensiero della forza delle donne e sulla forza del pensiero delle donne, sia nella vita politica che in quella personale, ognuna di noi con gli strumenti che ha o che si trova, o che le sono più congeniali. Quando lo scontro si fa più duro, come adesso, è il momento più importante per non mollare, per alzare le difese, oltre che per andare avanti».

Nel film si sostiene che l’insicurezza femminile sopravvive, nonostante le conquiste economiche e sociali. «I miei corsi e i miei libri in tutti questi anni sono stati rivolti a incoraggiare e sostenere le donne nella ribellione alla tradizione rassegnata del passato – dice Valcarenghi – per sentirsi sempre di più protagoniste della loro vita. Ma per affrontare un problema è necessario averlo riconosciuto». Il regista Yuri Ancarani ha evidenziato che «Valcarenghi ha lavorato sui diritti delle donne, portando nelle carceri di Opera e Bollate la psicanalisi, parlando con stupratori e assassini e studiando la violenza di genere. Da tempo volevo occuparmi della violenza di genere, ma ho capito che non poteva essere un film di finzione: tutti i film che contengono uno stupro, per quanto le registe e i registi stiano attenti, non fanno che amplificare la morbosità di chi guarda. Quindi è intrattenimento. E lo stupro non può essere trattato come intrattenimento».

Valcarenghi porta l’esperienza di psicoterapia con uomini violenti: «Per dodici anni nel mio lavoro di psicoanalista in carcere ero settimanalmente chiusa per tre ore insieme a quindici detenuti, che mi avevano voluta, in un’aula, senza testimoni e nel più rigoroso segreto professionale, con l’analisi dei sogni, l’ascolto delle vicende personali e il confronto fra i partecipanti. Quando alcuni uscivano per fine pena, entravano altri. Dopo la loro liberazione non si è mai verificato alcun caso di recidiva».


(Corriere della Sera – La 27esima ora, 3 maggio 2024)

di Pasqualina De Amicis


In occasione della pasqua ebraica, una rete di gruppi ebraici contro l’occupazione ha proposto l’iniziativa internazionale «Freedom for All Seder» per celebrare la tradizionale cena pasquale in solidarietà con il popolo palestinese. I promotori sono: Na’amod (Gran Bretagna), IfNotNow (Usa), Freedom for all Zürich (Svizzera), LƏA Laboratorio Ebraico Antirazzista (Italia), Jews for Racial and Economic Justice (New York) e All That’s Left (Israele/Palestina).

In Italia l’evento è stato organizzato da LƏA, nato durante le mobilitazioni contro la demolizione delle case palestinesi a Sheikh Jarrah, che ha promosso insieme ad altre organizzazioni un appello per il cessate il fuoco a Gaza raccogliendo oltre 150mila firme.

Nella tradizione ebraica la pasqua è la festa della libertà: con racconti, storie, canzoni e il consumo di cibi simbolici ogni anno ricordano l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso e la fine della schiavitù. Chi ha partecipato ai «Freedom for All Seder» (29 eventi pubblici tra Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti, Germania, Francia, Bulgaria, Canada, Spagna, Sudafrica e oltre 500 iniziative in forma privata) ha così voluto dire che se la libertà ebraica dipende dall’oppressione di un altro popolo, questa libertà è ingiusta e incompleta.

«In questo Pesach, come movimenti ebraici che mobilitano le nostre comunità contro l’occupazione, ci impegniamo nuovamente a lottare per una vera libertà – la liberazione collettiva di ebreƏ, palestinesi e di tutti i popoli» proseguendo una tradizione ebraica di resistenza contro ogni forma di oppressione.

L’Haggadah (in ebraico «racconto») che si recita durante la cena, è stata rivisitata in un lavoro collettivo di scrittura, ricerca delle fonti, illustrazione, revisione e traduzione. Attraversando fusi orari e diversità culturali, le organizzazioni promotrici hanno prodotto un dialogo tra il testo tradizionale e una selezione di commenti da due millenni di letteratura ebraica, voci palestinesi, contributi originali composti per l’occasione.

Per esempio, il canto di gratitudine Dayenu, che ripete la formula «ci sarebbe bastato», è stato accompagnato da potenti preghiere laiche: «Se combattiamo per i nostri diritti ma non per coloro che hanno bisogno al nostro fianco: non ci basta. Se ci opponiamo all’antisemitismo, ma non all’islamofobia: non ci basta».

A Roma, il 28 aprile nel giardino di Casetta Rossa si sono riunite circa ottanta persone, ebree e non, dai quattro mesi ai 96 anni, per recitare insieme le formule rituali di ringraziamento per la libertà conquistata nel segno dell’impegno per la libertà futura di tutte le popolazioni del mondo.

Il rito è stato officiato da una giovane studiosa ebrea che lo ha arricchito con spiegazioni dotte e richiami alla condizione dei migranti, alla persecuzione degli antifascisti. Il piatto con i cibi rituali è stato completato con olive e altri simboli (arancio per le lotte femministe, queer e trans contro l’emarginazione, la coppa di Miriam, un bicchiere d’acqua per il ruolo misconosciuto e dimenticato delle donne nella storia), come da tradizione ebraica anti-oppressione. Le olive per rappresentare la lotta del popolo palestinese per la terra e l’autodeterminazione sono state offerte da un amico palestinese.

«Per me è stata un’esperienza curativa, mi sento meglio», ha detto una giovane palestinese giunta al Seder tra mille dubbi e preoccupazioni. «Siamo dalla parte giusta della Storia», commenta una partecipante al suo primo Seder. «Siamo molto felici. Per noi questo è quello che Pesach dovrebbe essere sempre», dicono da LƏA che ha affermato di voler così esprimere la solidarietà con il popolo palestinese «in virtù del nostro ebraismo, non suo malgrado».

La serata si è conclusa mescolando tradizionali canti ebraici, partigiani e anarchici. Il ricavato andrà all’organizzazione ACS (Associazione di Cooperazione e Solidarietà in Palestina) per progetti di solidarietà a Gaza.


(il manifesto, 3 maggio 2024)

di Luca Liverani


Un appello a tutti i cittadini italiani perché si dichiarino obiettori di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Assieme alla richiesta al Parlamento perché conceda l’asilo agli obiettori ucraini, russi, bielorussi, palestinesi e israeliani, a rischio di carcere e ritorsioni. È partita anche in Italia la “chiamata all’obiezione di coscienza” del Movimento Nonviolento: se fin dall’inizio dell’invasione russa il sostegno era per gli obiettori di entrambi i fronti, anche col sostegno delle spese legali, ora parte il lancio dell’iniziativa italiana, rivolta a tutte le cittadine e ai cittadini di ogni età: una dichiarazione da sottoscrivere, indirizzata alle massime autorità dello Stato.

Quella lanciata dal Movimento nonviolento è infatti una “chiamata all’obiezione al militare” preventiva a un eventuale richiamo alle armi in Italia. Difficile, ma non impossibile: «Poiché la leva obbligatoria è sospesa [e non abolita, ndr] e tale sospensione resta a discrezione del potere esecutivo di governo – si legge nel testo – dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione». In caso di bisogno, gli obiettori affermano comunque la loro disponibilità alla difesa nonviolenta.

Nella “Dichiarazione di obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione” il Movimento chiede al governo italiano di rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che enuncia tra gli altri anche il diritto all’obiezione di coscienza. E ricorda un precedente importante: l’accoglienza degli obiettori e disertori delle Repubbliche dell’ex-Jugoslavia, decisa dal Parlamento italiano nel 1992. «Non mi sottraggo al dovere di proteggere la mia comunità – recita la dichiarazione – ma credo, come l’esperienza storica dimostra, che sia possibile difendere la vita senz’armi». A questo scopo il Movimento Nonviolento rinnova dunque al Parlamento la richiesta di approvare una legge per l’istituzione della difesa civile non armata e nonviolenta.

«Sì, è giunto il momento di dichiararsi obiettori di coscienza – spiega Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento – per far sapere al governo che non siamo disponibili a nessuna chiamata alle armi». Basta compilare la Dichiarazione di obiezione, indirizzata ai presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, in cui viene contestualmente chiesto che i nomi di chi obietta vengano inclusi in un apposito albo.

Al Ministero della Difesa infatti già esiste l’elenco degli obiettori di coscienza alla leva obbligatoria dal 1972 – anno della prima legge, la 772, sul servizio civile alternativo al militare – e che non possono essere richiamati per servizi armati. E presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 hanno svolto il servizio civile volontario e non sono disponibili per quello armato.

«Rumori di guerra, sempre più forti, dal Medio Oriente all’Ucraina, dal Mar Nero al Mediterraneo – afferma il presidente del Movimento Nonviolento Mao Valpiana – e le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, spingono sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione militare: più spese per la difesa armata e più personale disponibile per il ripristino della leva obbligatoria». E allora «la risposta immediata alla guerra “a pezzi” – sostiene Valpiana – è la fermezza del no alla guerra, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi».

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti – giovani o adulti, donne e uomini – afferma che chi firma ripudia la guerra ma vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e stampata su carta, e inviata personalmente.


(Avvenire, 2 maggio 2024)

di Roberto Ciccarelli


Lo hanno creato i freelance di Redacta, calcola i compensi dignitosi tra chi fa i libri, e non solo. Una guida per determinare il valore del lavoro è stata definita grazie all’alleanza con i dipendenti. Un prototipo per l’attività sindacale: la fiducia tra le persone insieme alla tecnologia. Il primo maggio dei lavoratori autonomi: quando l’auto-organizzazione crea nuovi strumenti di lotta


I freelance non si organizzano, rifuggono i sindacati, sono imprenditori di se stessi. Redacta, lo snodo dell’associazione dei freelance Acta che si occupa del lavoro nell’editoria libraria, ha sfidato questa solida convinzione culturale e antropologica e ha costruito un prototipo per l’azione politica e sindacale. Ha realizzato un’inchiesta condotta tra 825 partite Iva, ha stilato una guida pratica ai compensi dignitosi mai realizzata finora e ha creato un algoritmo (il «redalgoritmo», algoritmo redazionale o algoritmo «rosso») per calcolarli. In un settore basato sull’individualismo, e dove dilaga l’auto-sfruttamento e il lavoro gratuito, è una novità. L’uso incrociato di questi strumenti ricorda una strategia antica e insieme nuova: per agire bisogna conoscere la propria condizione, la conoscenza è frutto della cooperazione, il sindacato nasce dalla fiducia reciproca.

«Noi ci rivolgiamo alla nostra parte, prima che alla nostra controparte – afferma l’editor freelance Mattia Cavani di Redacta – Quando ci si mette in una stanza, e si comincia a parlare di esperienze, a condividere problemi, a trovare soluzioni, allora tutto il carico ideologico che grava su questo lavoro tende a scomparire e si riesce a trovare percorsi di azione condivisa. Un esempio è stata la vertenza con la casa editrice Il Saggiatore nel 2021. La determinazione e la fiducia tra le persone sono state sorprendenti, pur essendo in una situazione di forte disparità hanno trovato la forza in comune».

«L’aspetto ideologico si avvita con le condizioni materiali di frammentazione e alienazione quando si lavora da casa o nei coworking che sono posti sempre meno accessibili. – aggiunge la editor e ghostwriter Silvia Gola di Redacta – In cinque anni di lavoro abbiamo capito che vedersi dal vivo è un modo per dirsi la verità e riconoscere i problemi comuni. È un modo per non pensare che si è poco capaci, e cattivi lavoratori. Su di me ha funzionato molto e anche gli altri dicono “Ma che bello fare una riunione”».

Un altro strumento è l’inchiesta. Viene da una tradizione illustre, la «con-ricerca» dell’operaismo, è stata adottata da Redacta: «Lavorando con Sergio Bologna, che di Acta è socio, esiste una continuità con queste pratiche – osserva Mattia Cavani – Non ci siamo mossi con l’idea di continuare una tradizione, ci muoviamo in maniera pragmatica. Se uno si pensa da solo, con l’auto-inchiesta capisce che non è così: si lavora insieme anche quando si è separati. Il lavoro tiene collegati tutti e l’inchiesta permette di uscire da sé. Altrimenti ci sono le ricostruzioni di Confindustria che ha altri motivi per fare ricerca».

Tra chi ha risposto al sondaggio il 36,7% vive in Lombardia. Seguono Lazio, Emilia-Romagna e Piemonte. La maggior parte è nata tra il 1984 e il 1995. Ed è alle prese con redditi bassi, scarse o nessuna tutela. E con la disorganizzazione del lavoro: troppe urgenze ed eccesso di concentrazione dell’attività in certi periodi, e in altri no. L’editoria specialistica e quella scolastica registrano redditi medi più alti. Le attività autoriali sono le meno redditizie, seguite da quelle redazionali. Guadagnano di più gli editor e gli uffici-diritti.

Quello editoriale è un lavoro a prevalenza femminile, la stessa Redacta è composta al 90% da donne. La domanda più ricorrente è: «Possiamo parlare della scelta di avere figli?». Il problema è evidente quando si fa una mediana dei compensi orari netti: per le donne sono il 18% inferiori a quelli degli uomini. Il doppio lavoro è dunque una necessità. E doppia è anche la fatica. Si lavora nei fine settimana, e di notte, in nero e in maniera occasionale. Inoltre con redditi bassi non si lascia casa. Chi dichiara di non mantenersi vive spesso con la famiglia di origine. Fra chi si mantiene, una buona parte vive in condivisione con coinquilini. Per chi lavora unicamente in editoria, il reddito netto medio di chi ha figli tra gli intervistati dell’inchiesta è 21.800 euro, 16.100 di chi non li ha. Fa figli chi può permetterselo. In media si fanno tardi e la tendenza è quella di non averne.

La pratica dell’inchiesta ha permesso a Redacta di incontrare altre associazioni che hanno adottato un metodo simile: «“Mi riconosci” lo fa per i beni culturali, ART workers Italia lo fa per gli artisti. Come noi, anche loro hanno fatto una guida ai compensi. – afferma Silvia Gola – Il terziario avanzato sfugge alle statistiche ufficiali: il lavoro è ibrido, le traiettorie professionali sono multiformi. L’inchiesta permette di capire la filiera, fare sindacato è la conseguenza».

Dal sito di ACTA è possibile oggi scaricare la guida ai compensi dignitosi e usare facilmente il «redalgoritmo» per calcolarli. «Sono strumenti di consapevolezza e di lavoro che si completano – osserva Mattia Cavani – non siamo un ordine professionale, non c’è modo per imporre le tariffe, il mercato è una questione delicata, ma sapere che il lavoro può essere pagato in maniera dignitosa è importante». «Possiamo calcolare i compensi con pochi click sul nostro sito, in base al contratto dei grafici editoriali – aggiunge Silvia Gola – Così possiamo fare preventivi attendibili. A Bologna, Milano e Roma ho visto reazioni di grande entusiasmo tra chi ha iniziato a usare la guida e l’algoritmo. Noi siamo convinti che questa non è la notte in cui tutte le vacche sono nere».

Del prototipo REDACTA se ne parlerà al salone del libro di Torino il 9 maggio alle 12.45. Il titolo dell’incontro è un programma: «I libri sono belli ma la vita di più».


(il manifesto, 1° maggio 2024)

di Federica Sozzi

Togliamoci la maschera della virilità e costruiamo insieme un nuovo immaginario maschile


Maschile Plurale è una rete nazionale di uomini che si incontrano in gruppi locali per promuovere una cultura che superi il patriarcato e una società liberata dal maschilismo e dal sessismo.

Incontrare Stefano Ciccone è come entrare in contatto con il cuore di Maschile Plurale. È autore di saggi, libri e articoli riguardanti la ricerca di un nuovo immaginario maschile. Ricerca scrupolosa, in se stesso e fuori da sé, nella storia e nell’esperienza, grazie a un dialogo aperto e attento per cercare nuove strade, nuove parole e nuove identità. Da questo punto di vista Maschile Plurale sembra essere la naturale evoluzione della sua ricerca ventennale.

L’idea di Maschile Plurale nasce nel 2007 a seguito della pubblicazione di un Appello nazionale contro la violenza sulle donne, scritto da alcuni uomini della Rete nel settembre del 2006 e controfirmato in pochi mesi da un migliaio di altri uomini di ogni parte d’Italia.

Dopo diciott’anni da quell’appello, Maschile Plurale ha di recente organizzato un convegno a Roma dal titolo La violenza maschile parla di noi: parliamone.

Chiedo a Stefano cosa sia cambiato in tutti questi anni e cosa sia emerso dal dibattito.

«Oggi c’è una grande attenzione alla violenza maschile contro le donne, ma dobbiamo cambiare il modo di parlarne nei media e nella televisione. Rappresentiamo gli autori della violenza come dei mostri che non ci mettono in discussione: lo straniero, il maniaco. Invece noi di Maschile Plurale facciamo il contrario, proviamo a capire cosa c’è in comune tra me e quell’uomo che ha fatto violenza.

C’è una cultura del possesso, il controllo, la gelosia, l’idea che la donna è preda, l’uomo è cacciatore, l’idea che io devo difendere l’onore, l’idea che io proteggo le donne, che le donne sono deboli, sono sotto la tutela degli uomini. Ognuno di questi piccoli elementi sono dei fili che collegano l’uomo normale, cosiddetto, l’uomo perbene, con quello che invece noi consideriamo il mostro. Questo serve ad alimentare politiche xenofobe, securitarie o altro, ma non ad attuare un cambiamento. Quindi paradossalmente è una specie di allarme rassicurante. Io creo un grande allarme, ma rimuovo il problema, anziché creare un cambiamento».

Le radici della violenza di genere 

Nel suo libro Essere Maschi. Tra potere e libertà Stefano Ciccone rintraccia come radice della violenza di genere la percezione ancestrale di uno scacco del corpo maschile rispetto a quello femminile, di una sua accessorietà del processo generativo. Le donne generano vita, gli uomini no.

«Da quello sconcerto per non poter generare la vita l’uomo sentendosi relegato, secondario, ribalta i valori, costruisce una società che inneggia alla sua libertà dal corpo. 

Le donne diventano donne attraverso le mestruazioni, vivono cicli mensili, rimangono incinte, sperimentano la menopausa. Il dialogo con il loro corpo è costante. Per gli uomini no. Ecco dunque la presunta superiorità degli uomini: il corpo non li condiziona. Per fare un esempio nel libro Essere maschi Ciccone riporta lo stralcio di un dibattito alla Camera del 1950 in cui un deputato sostiene l’impossibilità delle donne di ricoprire il ruolo di giudice per la loro instabilità data dal periodo mestruale. L’accesso delle donne alla magistratura verrà sancito solo nel 1963.

Invece di riconoscersi parziale rispetto alla donna, l’uomo ha scelto di porsi al vertice di un sistema simbolico basato sulla razionalità, l’autocontrollo e l’uso del corpo come strumento di dominio».

Alla scoperta del corpo maschile 

«Astraendosi dal proprio corpo l’uomo perde la propria identità. Il corpo è parte necessaria nello svelare e conoscere la propria identità. E qui c’è il concetto di virilitàcome controllo del proprio corpo, astrazione dal proprio corpo, violenza come miseria della socialità e della sessualità maschile.

L’uomo ha fatto del silenzio del corpo la condizione per costruire una soggettività libera, un esercizio di potere, un’illusoria emancipazione dalla corporeità per dominare la realtà».

È da questo corpo inascoltato e costretto in una virilità che può essere confermata solo dall’esterno che si genera la violenza, le guerre e i nazionalismi. È da questo corpo inascoltato che si genera un’esperienza sessuale impoverita, vissuta come penetrazione e possesso. È da questo corpo inascoltato che l’uomo ha dovuto rinunciare alle emozioni, all’intimità, alla paternità.

Rinunciare al potere dunque significa riappropriarsi della propria libertà, di sentire, di essere e quindi scoprirsi. Il punto di partenza è quindi riconoscere la propria parzialità e invece di competere con le donne cercare nella relazione un nuovo modo di essere.

«La chiave fondamentale per me è riconoscere quanto nel potere, nel privilegio maschile ci sia anche una miseria nella vita degli uomini, nelle relazioni con gli altri uomini, nel dover indossare continuamente una maschera, nel dover continuamente separarsi dalle proprie emozioni».

Maschile Plurale: meno potere più libertà

Ecco perché è così rivoluzionaria l’esperienza di Maschile Plurale, perché rompe quell’impossibilità degli uomini di creare spazi condivisi solo per il piacere di stare insieme senza per forza dover trovare un motivo che occulti un naturale desiderio di intimità: il calcetto, la caccia, la pesca.

«Nel gruppo del calcetto se riveli una sofferenza rischi di essere preso in giro. Nei gruppi di Maschile Plurale non succede, hai la libertà di esporti senza temere di essere giudicato. C’è il riconoscimento reciproco di avere un problema condiviso».

Stefano mi racconta che fin dall’inizio nei gruppi si sono misurati con la fatica di vivere un’intimità tra uomini.

«A noi uomini ci manca la risorsa della vicinanza fisica. Perché mi mette a disagio essere a contatto con un altro uomo? Difficilmente dormiamo insieme, ci accompagniamo in bagno, come fanno le donne. In Italia se due uomini si tengono per mano significa che sono omosessuali. In Medio Oriente non succede, vedi uomini molto mascolini tenersi naturalmente per mano, e questo ti dà l’idea della costruzione tutta culturale di certi modelli.

Mentre tutto quello che riguarda i diritti anche se faticosamente viene cambiato, la sfera delle emozioni e dell’intimità genera ancora molta vergogna».

Il diritto al ridicolo 

Stefano mi racconta di un esperimento fatto nel suo gruppo romano in cui ad occhi chiusi si tennero per mano seduti intorno a un tavolo. L’imbarazzo provato per un’intimità non codificata ha fatto capire a Maschile Plurale quanto ci siano in noi tabù introiettati di cui spesso non siamo consapevoli.

«Quando tu ti misuri con il ridicolo stai toccando un confine di legittimità, stai facendo qualcosa che non è permessa, ti stai femminilizzando. L’omofobia si nutre di misoginia. La caricatura dell’omosessuale ostenta tutti i difetti del femminile, ipersensibile, schifiltoso, emotivo, pettegolo, si muove come un’oca… un uomo che si comporta come una donna è ridicolo? Quindi tu maschio devi evitare di comportarti in un certo modo o ti getterà nel ridicolo. Lo stigma verso la diversità costruisce una disciplina che imprigiona me che sono un maschio eterosessuale.

Solo a cinquant’anni ho deciso di ballare anche se mi sentivo ridicolo. Ogni volta che mi sento in imbarazzo sto imparando qualcosa, ogni volta che mi sento gratificato in realtà sto confermando delle aspettative sociali.

Avere il coraggio di attraversare il ridicolo, l’imbarazzo è qualcosa che mi permette di costruire degli spazi di libertà fuori dai recinti che mi hanno costruito».

Valorizziamo il desiderio di cambiamento degli uomini

Maschile Plurale ha sentito la necessità e la responsabilità di costruire delle parole condivise, che disegnino un nuovo mondo.

«Faccio sempre un esempio molto banale, che è quello dei mammi. Oggi ci sono moltissimi uomini che si prendono cura dei figli e la parola che noi usiamo per definirli è mammi. Non abbiamo una parola socialmente riconosciuta per definire un padre che si prende cura dei figli. Finché non esiste una parola per raccontare qualcosa, quella cosa non esiste fino in fondo, giusto? Perché non la puoi nominare. O meglio, quando lo nomini stai dicendo, quell’uomo è uno che fa un po’ la mamma, è uno che fa delle cose non da vero uomo, no? E quindi non gli dai mai la piena legittimità sociale.

Il problema è che oggi c’è un’urgenza: è molto più visibile l’atteggiamento degli uomini che si lamentano del femminismo, le istanze dei padri divorziati, un vittimismo rancoroso del maschile e molto poco visibile il desiderio di cambiamento del maschile. Il cambiamento c’è, ma non è mai socialmente legittimato. I percorsi di cambiamento del maschio sono molto intimi, individuali. Invece noi cerchiamo il modo di rendere più visibile questo cambiamento che c’è, ma non è ancora visibile». 


(UltimaVoce, 1° maggio 2024)

di Anna Maria Selini


Haggai Matar è il direttore del magazine indipendente israeliano +972 – come il prefisso internazionale che vale sia per i telefoni israeliani sia per quelli palestinesi – che si è fatto notare ancora di più dopo il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha attaccato il Sud di Israele e in risposta è scattata la più violenta delle operazioni contro la Striscia di Gaza.

Matar e il suo team, composto da israeliani e palestinesi che operano sul campo, anche a Gaza, hanno realizzato scoop e inchieste decisive, come quella che ha fatto il giro del mondo sul sistema di intelligenza artificiale Lavender, usato dall’esercito israeliano per individuare e bombardare i propri obiettivi, con una scarsa supervisione umana. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, sono civili e abitazioni colpiti in massa, in violazione di tutte le convenzioni del diritto internazionale, con le vittime palestinesi che sono ormai più di 33mila a metà aprile 2024. Abbiamo incontrato Matar in occasione dell’evento “La guerra di Gaza: i fatti e le narrazioni”, organizzato dalla Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) a Roma il 19 marzo.

Matar, che cosa vedono gli israeliani di quello che succede nella Striscia di Gaza, o in Cisgiordania, per esempio, rispetto agli attacchi dei coloni? Il cittadino medio è informato e quanto è interessato alla sorte dei palestinesi?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e capire che il nazionalismo e il giornalismo israeliano sono strettamente interconnessi. Questo è un assunto un po’ di base che è stato preso come un dato di fatto dal mondo dell’informazione negli ultimi decenni ed è ancora vero oggi, dopo il 7 ottobre. Quindi, la maggior parte dei media in lingua ebraica si concentra soprattutto sulla vita degli israeliani ebrei mentre si parla veramente molto poco dei palestinesi. Vengono visti quasi esclusivamente come gli autori dei massacri contro gli israeliani, non come esseri umani: nella narrazione giornalistica non vengono trattati come persone che conducono una loro vita, che hanno una cultura, un lavoro, e così via.

Il 7 ottobre ha generato comprensibilmente uno shock, un vero e proprio trauma per tutti noi e questo ha portato al contesto attuale, per cui è impossibile capire le ragioni e le motivazioni degli attacchi. Io questo lo considero un fallimento per il giornalismo israeliano. Siccome non è mai stato raccontato per bene il contesto, oggi nel Paese non si sa il motivo reale del perché i palestinesi fanno resistenza, non si sa come avviene e il fatto che ci sono anche dei sentimenti di ostilità nei loro confronti, nei nostri confronti. Questo ovviamente non giustifica quello che ha fatto Hamas, ma la situazione attuale è una mancanza di strumenti da parte degli israeliani per capire la situazione e ciò li ha portati ad autopercepirsi unicamente come vittime: chi supporta il cessate il fuoco o chi esprime preoccupazioni per quello che sta succedendo a Gaza viene immediatamente tacciato di antisemitismo e di tradimento nei confronti di Israele.

E questo concetto viene riaffermato ogni giorno nella modalità con cui i giornalisti coprono il conflitto: le immagini di morte, di distruzione e di fame non raggiungono davvero il pubblico israeliano, non vengono trasmesse sui media mainstream e così giungono soltanto in maniera indiretta e sempre come una sorta di rimprovero. Ci viene detto che la comunità internazionale sta perdendo la pazienza con noi, perché c’è questo “problema” dei profughi palestinesi. Quindi è veramente scarsissima la conoscenza diretta di quello che sta succedendo ai palestinesi, della loro resistenza che non viene assolutamente coperta, così come le alternative alla guerra. E questo è fatto appositamente, per farci vedere il conflitto come l’unica strada possibile.

+972 ha realizzato scoop molto importanti dal 7 ottobre, come rivelare che l’esercito israeliano ha usato l’intelligenza artificiale per scegliere gli obiettivi da colpire, ovvero senza quasi nessuna precauzione per i civili, e ciò spiegherebbe l’alto numero di vittime. Come lavora il vostro team? Quanto è facile fare informazione indipendente in Israele e come hanno reagito gli israeliani alle vostre inchieste?

+972 è un collettivo di giornalisti israeliani e palestinesi che collaborano da undici anni, le notizie vengono pubblicate anche in inglese e abbiamo una sezione web, che si chiama Local Call, in ebraico. Abbiamo deciso di mettere a disposizione anche questa fonte, proprio per dare accesso agli israeliani a un’informazione indipendente.

I nostri reporter sono sul campo, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e siamo l’unico sito web che copre regolarmente dall’interno quello che avviene nei Territori occupati, dove i giornalisti palestinesi lavorano soltanto per noi. È una sfida molto grande: vogliamo offrire queste fonti sia al pubblico internazionale sia a quello israeliano, ma è molto difficile oggi lavorare in questo modo. Se +972 viene seguito da diverse testate in tutto il mondo e i nostri articoli sono stati tradotti in tantissime lingue, quello che è sul sito in ebraico non viene ripreso dai media mainstream interni.

Quindi la nostra percezione è quella di avere tanti lettori ma poca influenza sulla società israeliana. Anche se a dover affrontare le sfide più grandi sono i nostri reporter che ogni giorno raccontano questo conflitto dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, dove rischiano la loro vita e quella delle loro famiglie. Le difficoltà che proviamo noi sono nulle a confronto.

I conflitti sono da sempre anche guerre di propaganda, come funziona quella israeliana, dietro la quale c’è un vero e proprio apparato con teorie consolidate?

La propaganda, che noi chiamiamo hasbara, potrebbe essere oggetto di un seminario intero e ci vorrebbero ore per parlarne. Si tratta di un vero e proprio connubio tra i media ufficiali e quelli mainstream, che hanno le proprie narrative, trasmettono i propri messaggi, che spesso sono poco verosimili, per usare un eufemismo. Già nel passato si sono verificati casi in cui hanno raccontato delle vere e proprie menzogne.

Accanto a questo, negli ultimi venti-venticinque anni è stato molto interessante vedere che si è creata una specie di rete non ufficiale di propaganda, per cui ci sono degli attivisti, delle organizzazioni della società civile, spesso supportate direttamente o indirettamente dal governo, che hanno creato una vera e propria rete globale con l’obiettivo di spingere la narrativa in una determinato direzione.

Il fatto che non siano media ufficiali sembra dare una parvenza di libertà e indipendenza, quasi di maggiore credibilità a queste fonti ma spesso, invece, lavorano per la propaganda ufficiale, sia per quanto riguarda i contenuti, sia a livello di finanziamenti.

Come operano nello specifico a livello internazionale?

Per esempio, recentemente, si sta verificando un fenomeno per cui all’interno delle università israeliane vengono create le cosiddette world rooms, “stanze internazionali”, dove gli studenti israeliani parlano ad altri studenti che provengono da Paesi stranieri, per far sì che questi veicolino delle informazioni sui loro social media in diverse lingue, cercando di diffondere determinati messaggi. Di solito sono collegate a organizzazioni di stampo sionista attive in tutto il mondo, che mettono in circolazione una narrazione sempre riconducibile a quella ufficiale del governo israeliano.

Come si conciliano le immagini sui social network, girate spesso dagli stessi soldati israeliani, che si filmano magari nelle case palestinesi attuando comportamenti che sembrano essere in qualche modo contrarie alla narrativa ufficiale governativa?

Penso che il tema condiviso di entrambi questi fenomeni sia la disumanizzazione. Da una parte ci sono i media mainstream, che demonizzano i palestinesi semplicemente ignorandoli, dall’altra ci sono questi video con i soldati che rubano oggetti dalle case oppure fanno vedere la biancheria che trovano all’interno delle abitazioni.

Il punto di intersezione sono i media ufficiali, che mostrano invece i soldati mentre entrano nelle città sui carri armati: non è che gli israeliani non vedono le immagini del conflitto, ma hanno una visione di Gaza completamente deumanizzata.

La osservano, tanto quanto i carri armati che distruggono le case e le macerie, ma non vedono le persone che lì ci abitano. Anche le immagini dei soldati sono una modalità di deumanizzazione perché se non faccio vedere il volto di chi muore, diventa più facile raccontarvi che sono terroristi. E questo è il fine ultimo di questo gioco: mostrare e nascondere, mostrare e nascondere.

Dove trovate il coraggio per fare un lavoro così pericoloso, che implica non solo il rischio della vita, ma anche, specie per i giornalisti israeliani, un rischio di attacco e isolamento sociale?

Non posso agire diversamente, specialmente dal mio punto di vista, che è un po’ quello dell’oppressore. Io penso che da questa posizione non riuscirei neppure a vivere, a guardarmi allo specchio ogni mattina, senza esercitare questo tipo di resistenza, che per me è il giornalismo. Ma oltre all’aspetto negativo del non avere scelta, ce n’è anche uno positivo: so che Israele sembra un posto che vive in uno splendido isolamento dal mondo.

Ma ci sono state manifestazioni contro questa profonda ingiustizia, ci sono sempre più movimenti in tutto il Pianeta che chiedono al governo di prendersi le proprie responsabilità, anche in sede giudiziaria e secondo le regole del diritto internazionale. E il giornalismo ha svolto e svolge un ruolo fondamentale in questo. In più, per quanto mi riguarda, il tutto viene legittimato dal fatto che ci basiamo sulle voci sia di giornalisti israeliani sia palestinesi, che operano sul campo. Insomma, non è solo una questione di non avere altra scelta: c’è tanto da guadagnare nel fare giornalismo in questo modo e in questo momento.


(AltraEconomia, 1° maggio 2024)

di Dijana Pavlović


Per rom e sinti il giorno della Liberazione, il 25 aprile, ha una importanza enorme. Per vari motivi.

Primo: perché siamo stati sterminati. Abbiamo subito un genocidio su base razziale. Mezzo milione di morti nei campi di sterminio. Nei campi dei tedeschi nazisti. Ma anche internati in più di cinquanta campi di concentramento fascisti, costruiti appositamente per noi. Da lì poi ci spedivano in posti come Zigeunerlager, ad Auschwitz.

Il secondo motivo è che moltissimi partigiani rom e sinti, del tutto sconosciuti, hanno contribuito a liberare l’Italia dal fascismo. Figli e nipoti di questi partigiani, e anche figli e nipoti di quelle che sono state internate nei campi italiani, ora vivono in altri campi, quelli di oggi, in condizioni di segregazione razziale.

Terzo motivo: siamo un popolo che nonostante un genocidio e la persecuzione secolare non ha mai armato gli eserciti per conquistare una terra. Viviamo in tutti i paesi del mondo, parliamo tutte le lingue del mondo, abbiamo tutte le religioni del mondo, e in questo momento della follia di guerra crediamo di potere essere d’esempio. Essere un esempio per tutti.

Oggi, 25 aprile, sfiliamo per la pace.


(l’Unità, 1° maggio 2024)