Le donne lasciano un segno sulle guerre di Putin. Le madri dei soldati guidate da Valentina Melnikova hanno saputo mettere in crisi il potere sovietico e poi russo nelle sue diverse stagioni politiche e storiche. È accaduto sempre. Dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan all’invasione dell’Ucraina passando per le guerre in Cecenia. Anche nell’agosto del ’91, a Mosca, in prima fila alla manifestazione che celebrava la fine del golpe c’erano loro, le madri dei soldati. Simboli di disobbedienza civile, dal ventre della società, lungo i suoi undici fusi orari.

Quel che le donne hanno fatto nelle guerre in Cecenia è noto e costituisce un riferimento per chi promuove la risoluzione 1325 dell’Onu, che riconosce il ruolo delle donne nei processi di pace. Donne che hanno aiutato le madri dei figli scomparsi, prigionieri o caduti al fronte, recuperando i loro corpi o facendoli liberare grazie a relazioni radicalmente estranee alla guerra e perciò capaci di linguaggi e sensibilità per superare limiti costituiti.

Nella guerra di oggi accade altrettanto, fuori dai riflettori. Non si vedono o si finge di non vederle. Si cerca di nasconderle sotto al tappeto perché sono un problema. Disturbano chi le vorrebbe nell’esclusivo ruolo di creatrici di vite da spezzare, per soddisfare il bisogno di uomini per la guerra. Eppure loro agiscono. Fanno rumore. Nei modi e nei luoghi utili a creare ascolto e dialogo. Sono le donne che creano gruppi e associazioni come “Riporta il marito a sua moglie”, iniziata con la donna andata a cercare il marito di cui non aveva più notizie. L’ha trovato, prigioniero. Poi lei ha scelto di restare in Ucraina per fare da tramite per altre donne e riportare altri soldati a casa e, come dice lei, per fare il possibile per fermare la guerra. Qualcuno ricorderà i girotondi delle donne di Ulan Ude, capitale della Buriazia, quando Putin lanciò la mobilitazione. Protestavano mettendo in imbarazzo le forze dell’ordine, che non osarono arrestarle.

Molte di quelle donne oggi sono vedove per avere perso i mariti proprio a causa di quella mobilitazione. Non hanno mai smesso di protestare. Hanno creato un’associazione di vedove, “Donne forti”. L’organizzatrice è una donna che ha perso lei stessa il marito. Per cercare di contenerne la rabbia le autorità hanno messo a loro disposizione una sede e uno psicologo. Le donne si sono dotate di un avvocato. Come riportarono sull’account Instagram e Telegram Bajkal People, «la cosa più importante è che lì ci riuniremo e tra noi ci capiremo sicuramente». E ancora: «Gli amici siano amici, ma quando perdi una persona cara, non tutti capiscono i tuoi sentimenti e il tuo dolore. Le vedove che hanno vissuto il trauma possono capirsi di più, raccontare come ognuna di noi riesce a sopravvivere. Non esiste un’unica opzione per sopravvivere al dolore. L’esperienza può aiutare, e grazie a questa ognuna può farcela».

Parole che già allora suonavano come un avvertimento. Oggi, all’indomani dell’annuncio da parte della leader dell’associazione della volontà di candidarsi alle elezioni presidenziali chiedendo l’immediata fine della guerra, suonano come un avvertimento per Putin. Gli episodi che rappresentano il malessere verso la guerra sono tanti, come emerge pure dai sondaggi. Dal coro che sulla piazza di Ekaterinburg durante il discorso di Capodanno proiettato sul grande schermo manda al diavolo Putin, alla preoccupazione crescente per la violenza di ritorno dal fronte e per l’amnistia ai criminali in cambio del servizio al fronte, ai bambini della scuola vicina al Lago Bajkal che accolgono i volontari in divisa, giunti per sostenere i figli dei caduti, con una famosa canzone contro la guerra nota per essere eseguita da una cantante che sui social si esprime contro la guerra, alla rabbia, sempre delle donne buriate, che chiedono in incontri pubblici e in dirette tv perché un caduto buriato valga meno di uno della parte occidentale del Paese.

Sono malesseri antichi che vedono colpita questa popolazione da tempo. La storia insegna che il malessere delle donne può trasformarsi e smuovere poteri, anche quelli più forti o apparentemente tali. Donne che sfuggono di mano. Giornaliste, insegnanti, attrici, registe, poetesse, madri e vedove, tante già dietro le sbarre per il loro nonviolento “no” alla guerra, che possono diventare più di un disturbo perché toccano nervi sempre più scoperti e vanno oltre gli schieramenti, sfidando anche quelli ritenuti invalicabili.

Una prova di questo sentire è quanto accaduto a Mosca dove le mogli dei mobilitati dell’associazione “La strada verso casa”, arrivate nella capitale da altre regioni, hanno deposto fiori sulla Tomba del Milite ignoto vicino alle mura del Cremlino e organizzato picchetti nel centro della città e vicino al palazzo del Ministero della Difesa. Altrettanto a San Pietroburgo, dove sul Campo di Marte i fiori sono stati deposti vicino alla Fiamma eterna.


(Avvenire, 10 gennaio 2024)

Osservatori, think thank, progetti partecipativi e non solo… Ecco i luoghi più interessanti da conoscere sul tema del femminismo oggi: sono reali e virtuali, istituzionali oppure di frontiera, storici o nati da poco

Il femminismo oggi non è solo parità di genere. È un’economia che guarda ai divari da una prospettiva di genere, osservatori che mettono i dati al servizio delle persone, think tank intergenerazionali e reti tessute per affermare le competenze femminili o per affermare le tante nuove forme d’amore. Luoghi dove sperimentare progetti partecipativi e luoghi dove proteggere dalla violenza di genere, spazi digitali dove combattere tutti i razzismi e spazi fisici dove immaginare un’umanità “libera, allegra e consapevole”. Qui alcuni dei tanti luoghi – fisici e non, istituzionali e di frontiera, storici o sbocciati da poco – che può essere interessante conoscere per capire da vicino come evolve la galassia femminista.

L’economia di genere è qui 

Un sito di divulgazione, Ladynomics.it, che parla di economia e politica dalla prospettiva delle donne e che mira dritto ad affermare una visione di genere che trasformi il Paese. «Millenni a prenderci cura delle persone non possono essere passati invano», scrivono nel manifesto le due fondatrici, le economiste e ricercatrici Giovanna Badalassi e Federica Gentile. «È ora che questo sentire si traduca in presa di coscienza pubblica, per un’economia al servizio delle persone e non al loro comando». Da seguire se si hanno cuore da pasionaria e sguardo acceso e si cerca una lettura facilitata delle grandi questioni che coinvolgono la metà del pianeta.

La voce di tutte 

Una startup sociale dal respiro internazionale, un media civico impetuoso contro le discriminazioni di genere, un progetto partecipativo di attivismo ed elaborazione di contenuti a opera di firme prestigiose: tutto questo è Le Contemporanee (lecontemporanee.it), una voce autorevole e pragmatica che sa farsi ascoltare nei luoghi che contano, come quando le sue attiviste si sono battute perché il PNRR riconoscesse la crucialità degli asili nidi – che sono numericamente una miseria – per favorire l’occupazione femminile, modesta anch’essa. Delle donne Contemporanee piace la capacità di attraversare tutti i femminismi e connettere le generazioni.

Fuori dagli stereotipi 

Qui pulsa un femminismo intersezionale molto vitale, grazie al team di scriventi Millennial e GenZ che più vorticoso ed eterogeneo di così non si potrebbe: è bossy.it, nato quasi dieci anni fa dalla passione di una ragazza visionaria, Irene Facheris. Sorellanza, diritti LGBTQ+, erotismo, razzismi, politica e tutte le forme della violenza di genere: ogni tema è buono per accendere una storia fuori dagli stereotipi e dagli schemi. Sono banditi i maschili sovraestesi, benvenute le schwa.

Contro la violenza

D.i.Re – Donne in rete contro la violenza è la rete italiana di Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne. 106 i centri antiviolenza, 62 le case rifugio per le donne e i figli minorenni, più di 20mila le donne ascoltate in un anno. Le parole chiave: auto-aiuto, autodeterminazione, empowerment, segretezza e antidiscriminazione, gratuità.

Luoghi simbolo/Milano 

La Libreria delle donne (nella foto in alto, da Facebook), dal 1975 luogo storico di elaborazione teorica del femminismo della differenza, con sede prima in via Dogana 2 e ora in via Pietro Calvi 29, e la Casa delle Donne, altra istituzione del femminismo della seconda ondata, convivono con i luoghi abitati dalle ragazze e i ragazzi del femminismo intersezionale più di frontiera: questi ultimi si incontrano oggi al Csoa Lambretta, allo Zam e al PianoTerra del quartiere Isola. 

Luoghi simbolo/Roma 

La Casa internazionale delle donne è centro congressi, foresteria, ristorante e mette al centro l’autodeterminazione e le scelte libere sulla salute riproduttiva, il sostegno alle donne vittime di violenza, il contrasto al sessismo. TUBA è, invece, libreria, bar e bazar ed è costruita quotidianamente da un gruppo di femministe e lesbiche che, dicono, «credono in una società libera, allegra e consapevole e lottano contro le discriminazione di genere, orientamento sessuale, classe, colore della pelle, provenienza geografica». 

Più competenze, meno pregiudizi 

Per togliere ogni alibi a chi organizza panel con solo uomini o scrive articoli senza mai citare una donna esperta (“perché di donne esperte in questo campo non se ne trovano”, dice lo stereotipo) nasce 100esperte.it, che propone profili, competenze e cv di professioniste della scienza e della tecnologia, dell’economia e della finanza, della politica internazionale, della storia e della filosofia (grazie all’Osservatorio di Pavia e all’associazione Gi.U.Li.A). L’ultima sezione nata è quella dedicata alle donne esperte di sport. Perché femminismo è oggi più che mai anche lotta agli stereotipi e ai pregiudizi. 

La politica si fa con i dati 

Period è il think tank femminista intersezionale (thinktankperiod.org) che usa i dati per monitorare le azioni della politica. Da seguire gli Osservatori femministi che ha costituito sul territorio per fare il punto sull’andamento dei progetti del PNRR e valutare l’impatto che hanno sulle donne e i giovani.

Mobilitazione permanente 

Non Una Di Meno è un grande movimento femminista e transfemminista, un intreccio di reti, un flusso di assemblee e sit-in, una mobilitazione permanente contro le tante forme che assume il patriarcato. Il prossimo 25 novembre, giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lancia i cortei nazionali a Roma e Messina Transfemministǝ ingovernabili contro la violenza patriarcale.

Un concentrato di approfondimenti 

«L’economia ha bisogno di essere riletta con uno sguardo che assuma la differenza tra i sessi e denunci le disuguaglianze»: è il manifesto del documentatissimo webmagazine ingenere.it, forziere di dati, studi, analisi e approfondimenti a opera di economiste, docenti universitarie, studiose delle scienze sociali, giornaliste che tengono il punto sul panorama nazionale e internazionale. 

Più vie dedicate alle donne 

Il 40% delle vie e delle piazze del nostro Paese sono intestate a uomini, appena il 3% a donne, sostanzialmente martiri e sante. Toponomastica femminile (toponomasticafemminile.com) è un’associazione che punta a svegliare le amministrazioni affinché mettano in luce il valore delle tante donne che hanno contribuito a costruire il Paese e leggano la storia non dal solito punto di vista.

Nella foto: Chiara Zamboni, Jennifer Guerra e Laura Colombo alla Libreria delle donne di Milano, durante l’incontro dal titolo “Orientarsi con l’amore” organizzato dalla rivista Via Dogana Tre l’11 giugno 2023.

(StartupItalia.eu, 9 gennaio 2024)

ro un’adolescente quando vivevo a Gaza vent’anni fa. Ricordo che un giorno avevo un ciclo pesante. Ero alla fermata dell’autobus al valico di Rafah, che aveva sedili di plastica bianca. Ho traboccato e ho macchiato il sedile. Una donna anziana mi ha chiamato e mi ha indicato il sangue. Sono una femminista e sono cresciuta bene con mia madre femminista. Indossavo addirittura un assorbente e avevo preso tutte le precauzioni. Eppure, ricordo quanto fu stigmatizzante per me quel momento.

Oggi, seduta a Brooklyn, negli Stati Uniti, guardando la mia città ridotta in macerie, continuo a pensare a quel giorno alla fermata dell’autobus e mi chiedo cosa stiano attraversando le donne mestruate in questo momento a Gaza, che è sotto assedio israeliano da quasi tre mesi. Posso sentire la vergogna e l’umiliazione che devono provare. Molte di queste ragazze e donne portavano con sé solo uno zaino quando se ne andavano. Cosa potrebbero portare in quello zaino? Non sorprende sentire che a Gaza la richiesta di pillole per bloccare le mestruazioni e contraccettivi è aumentata dopo questa invasione. Le donne non vogliono avere le mestruazioni perché non c’è acqua.

Mi chiamo Farah Barqawi. Attualmente sto terminando un MFA [Master of Fine Arts, cioè in belle arti, Ndt] in scrittura creativa saggistica e sono una poeta. Scrivo di Gaza, del confine, di mia madre e dell’ULFA [University of Lethbridge Faculty Association]. È tutto sconvolgente perché mia madre Zainab al Ghonaimy, settant’anni, ora è a Gaza City. Attivista femminista e difensora dei diritti umani, è stata lì fin dall’inizio, sopravvivendo all’artiglieria israeliana, alle bombe e al fosforo bianco. Ha co-fondato un rifugio per donne sopravvissute a violenza domestica e abusi. Nonostante gli immani bombardamenti è rimasta nel suo appartamento a Gaza City. Nel bel mezzo del conflitto, deve sopravvivere da sola e anche gestire il rifugio. Non so quando e se potrò rivederla.

Da queste parti, la guerra ha un impatto sulle donne a molti livelli. Naturalmente stiamo perdendo un gran numero di uomini, giovani, ragazzi e anziani, e questo è devastante. Ma in queste guerre, le donne che sopravvivono si trovano arretrate di decenni nelle condizioni di vita. Le donne devono diventare le principali fonti di sostentamento per i loro figli e dovranno prendersi cura per tutta la vita dei loro familiari maschi mutilati o invalidi. Bisogna anche ricordare che, nonostante l’enorme autonomia delle donne palestinesi, la nostra è una società alquanto conservatrice e la maggior parte delle donne non si sente a proprio agio nel cambiarsi, fare il bagno o anche fare pipì negli spazi pubblici.

Ora pensate a tutte le migliaia di donne sfollate a causa di questa guerra che attualmente trovano rifugio in appartamenti o stanze anguste che condividono con altri rifugiati, uomini e donne. E si tratta pur sempre di donne della classe media o medio-alta. I poveri vivono in tende di plastica o in baracche improvvisate. Non c’è acqua, essenziale per mantenere l’igiene genitale. Ristrette in questi spazi o rimaste orfane o sfollate a causa dei bombardamenti, molte giovani donne sono anche a rischio di abusi sessuali. Ci sono così tante donne incinte e così pochi servizi di emergenza ancora sopravvissuti.

Intenzionalmente o no, l’esercito di occupazione israeliano ha preso di mira gli ospedali. L’ospedale arabo Al Ahli, che disponeva delle migliori strutture di maternità e parto di Gaza, è stato uno dei primi a essere bombardato. Molti dei miei cugini erano nati lì. Tante donne incinte hanno avuto aborti dolorosi a Gaza a causa della mancanza di strutture per il parto e di medicinali.

Alcune delle mie compagne di scuola sfollate dalla zona di Al-Remal a Gaza sono madri giovani o di mezza età con tre-quattro figli ciascuna. Le loro case sono state completamente demolite. Mi dicono che la situazione nei rifugi di fortuna e nei campi degli sfollati è orribile. Si mettono in fila per l’acqua e per l’uso del bagno e poiché non c’è acqua potabile, molti vengono umiliati e trattati come animali e costretti a bere l’acqua non potabile del bagno.

Questo è il motivo per cui mia madre si è rifiutata di lasciare la sua casa a Gaza City. Ha detto che è vecchia e che le fanno male le ginocchia, e che preferirebbe morire a casa piuttosto che vivere una vita di umiliazione come sfollata abusiva, per sempre in fuga. Mi preoccupo per lei. Tutti mi dicono di portare via mia madre da Gaza. Ma lei è forte e la sua forza dà forza anche a me.

L’organizzazione di mia madre rappresenta e difende le donne che divorziano, vengono private dell’eredità e combattono per l’affidamento dei figli. Nei giorni normali ha un team di avvocate che lavora con lei. Per tutta la vita ha lavorato duramente per creare spazi umani in cui le donne potessero interagire tra loro e con i loro figli, in particolare le donne divorziate in causa per l’affidamento.

Tutto questo lavoro ora è stato interrotto. Il rifugio è ancora in funzione, ma è un rifugio antiaereo. Non sappiamo quando potrebbe essere bombardato.

Io stessa ho seguito un corso per formatrici della CEDAW [Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, Ndt], un’iniziativa delle Nazioni Unite in base alla quale le organizzazioni per i diritti delle donne si trovano a marzo di ogni anno e discutono di protezione delle donne. Ma qual è il punto adesso? Chi formerò? A Gaza sono stati violati tutti gli accordi per i diritti minimi indispensabili delle donne.

Di tutti i servizi che Gaza ha sviluppato nel corso degli anni, come l’assistenza sanitaria, l’emancipazione delle donne, l’istruzione e la sensibilizzazione sui diritti, il cambiamento di uomini e donne – tutte le generazioni che sono cambiate o che ci stavano lavorando – metà degli operatori e operatrici sono morte o non sono più lì. Chi penserà ai diritti adesso? Al femminismo? È un passo indietro in tutti i sensi per il movimento femminista. Eppure le donne – le femministe – di tutto il mondo stanno ancora decidendo da che parte stare. Ciò che sta accadendo a Gaza è una punizione collettiva e le donne sono quelle che la subiscono.

Mentre sto scrivendo, mia madre è a Gaza e così la sua famiglia: due delle mie zie, tutti i miei cugini e le mie cugine da parte di madre sono a Gaza, solo un paio di noi è all’estero. Non sappiamo cosa ne sarà di loro, ma finora mi è stata risparmiata la tragedia di perdere una persona cara. Per questa volta. Ma due anni fa, nella guerra di maggio a Gaza, ho perso mia cugina, suo marito e due figli. Il suo unico figlio sopravvissuto ora ha dodici anni.

Continuo a pensare a cosa deve passare oggi quel dodicenne. Quali immagini gli passano per la testa? È sopravvissuto una volta. È sopravvissuto sotto le macerie come tante persone adesso a Gaza. Le donne forti di Gaza tengono duro e continuano a combattere. Ma per quanto tempo? Rivedrò mai mia madre? Per ora non ho risposte.

(Outlook India, 7 gennaio 2023. Traduzione nostra, qui l’originale)

C’è chi parla di radere al suolo la striscia di Gaza. Chi chiede di non avere nessuna pietà “per i crudeli”. Chi invoca l’uso della bomba nucleare. È l’escalation verbale che si sta verificando nel discorso pubblico in Israele, escalation che accompagna quella delle violenze e dei bombardamenti nella striscia di Gaza. Un gruppo di personaggi pubblici israeliani ha inviato una lettera per prendere posizione contro questo incitamento “esteso e palese” al genocidio e alla pulizia etnica e chiedere al procuratore generale e ai procuratori statali di intervenire per fermare la normalizzazione di un linguaggio che viola la legge israeliana e internazionale. Tra i firmatari ci sono scienziati, accademici, ex diplomatici, ex parlamentari, giornalisti e attivisti.

«Per la prima volta da quando abbiamo memoria, gli appelli espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati una parte legittima e ordinaria del discorso israeliano», scrivono. «Oggi, appelli di questo tipo sono quotidiani in Israele».

La lettera, lunga undici pagine, contiene numerosi esempi del «discorso di annientamento, espulsione e vendetta». L’elenco di israeliani che hanno incitato ai crimini di guerra include ministri del governo e membri del parlamento israeliano, ex alti ufficiali militari, accademici, personaggi famosi e influencer. Tra i commenti citati nella lettera c’è quello del parlamentare Yitzhak Kroizer, che ha dichiarato in un’intervista radiofonica: «La Striscia di Gaza dovrebbe essere rasa al suolo, e per tutti loro c’è solo una sentenza, ed è la morte».

Tally Gotliv, del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha chiesto al primo ministro di usare una bomba nucleare su Gaza come «deterrente strategico», si legge nella lettera, «prima di considerare l’inserimento di truppe di terra, arma del giorno del giudizio». Un altro deputato del Likud, Boaz Bismuth, ha evocato il massacro biblico di Amalek, nemica dell’antico Israele. «È vietato avere pietà dei crudeli, non c’è posto per alcun gesto umanitario», ha detto riferendosi a Gaza, aggiungendo poi il riferimento alla Bibbia: «La memoria di Amalek deve essere cancellata».

Non sono solo i politici a portare avanti il discorso d’odio: il giornalista Zvi Yehezkeli ha dichiarato in televisione: «Avremmo dovuto uccidere 20mila persone molte volte, [avremmo dovuto] iniziare con una botta da 100mila».

La lettera è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, Michael Sfard, che si è detto stupito dalla velocità con cui l’incitamento al genocidio e altri discorsi estremisti sono stati normalizzati in Israele. «Non avrei mai immaginato di dover scrivere una lettera del genere», ha dichiarato.

«Il fatto che questo tipo di discorso sia entrato nel mainstream in modo così massiccio per me è incomprensibile. Il primo pericolo è che le persone agiscano in accordo con questo tipo di discorso, e poi mi chiedo che tipo di società saremo dal momento che questo è il discorso che regola il nostro trattamento dei palestinesi. Ci sono 2,3 milioni di persone a Gaza, la maggior parte delle quali è minorenne». Anche nella lettera si sottolinea come «il linguaggio del genocidio rischia di influenzare il modo in cui Israele conduce la guerra. Un discorso normalizzato che invoca l’annientamento, la cancellazione, la devastazione può influenzare il modo in cui i soldati si comportano».

Se, da un lato, è mancata un’azione giudiziaria anche sui casi più gravi e pericolosi di incitamento all’odio contro gli abitanti di Gaza, dall’altro si sta verificando un’intensa campagna da parte della magistratura nei confronti di chi, nei suoi discorsi, avrebbe mostrato sostegno ad Hamas, prosegue la lettera. Alla fine di novembre, erano state aperte 269 indagini e 86 incriminazioni. «È sorprendente il numero di indagini penali, quando si tratta di cittadini palestinesi che vivono in Israele», ha detto Sfard, che ha sottolineato come nella maggior parte dei casi si tratti di persone comuni che non hanno alcun seguito nel discorso pubblico. «Il divario tra questo trattamento e la libertà e l’impunità per coloro che sostengono ogni genere di cose – pulizia etnica, uccisioni di civili, bombardamenti di aree civili e persino genocidio – non quadra. Le autorità devono spiegare».

La lettera è stata inviata poco prima che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte internazionale di giustizia per aprire una causa contro Israele, accusando il paese di genocidio. «Abbiamo inviato questa lettera la settimana scorsa, prima che il Sudafrica presentasse la sua denuncia e senza sapere che l’avrebbe fatto», ha detto Sfard. Le accuse di istigazione mosse dal Sudafrica includono il linguaggio citato nella lettera e sottolineano l’incapacità delle autorità di intraprendere un’azione giudiziaria in risposta. Adesso sarà il procuratore generale a doversi esporre e prendere posizione: «Vogliamo dare alle autorità l’opportunità di fare qualcosa», ha concluso Sfard.

(Valigia Blu, 4 gennaio 2024)


Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, ho cominciato a curiosare nel diario di Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Cercavo, nelle pagine di questa donna che ha iniziato il femminismo italiano scrivendo un libro formidabile – Sputiamo su Hegel – un riferimento al massacro del Circeo, il più tremendo dei femminicidi del suo tempo. Protagonisti tre ragazzi della borghesia romana. Rapirono due adolescenti, le picchiarono e le violentarono per 36 ore e poi le uccisero (anzi credettero di averle uccise entrambe, invece una si salvò). Ancora oggi si parla di quel delitto. Ma all’epoca la discussione fu enorme. Chissà cosa ne aveva pensato, mi chiedevo, Lonzi. Pubblicamente, è noto, niente. Ma sono stato sorpreso di scoprire che nemmeno nelle pagine del suo diario ne fa cenno. Sorpresa moltiplicata dal fatto che, mentre sfoglio, deluso, le pagine di quell’autunno del 1975, mi accorgo che un altro episodio di cronaca irrompe nel diario e lo occupa per giorni. L’assassinio di Pier Paolo Pasolini.

Scrive: “Adesso che sei stato ucciso fratello mio, anima mia, ti piango”. Sono le prime parole che le vengono in mente appena appresa la notizia al telegiornale delle 13.30 che lo scrittore era morto nella notte tra l’1 e il 2 novembre. I sostantivi che usa sono eclatanti. “Fratello”, lo chiama: una donna che aveva scritto nel luglio del 1970 il manifesto di Rivolta femminile, la cui ultima frase, gelidamente, recitava: “Comunichiamo solo con donne”. Un riconoscimento mai concesso a nessun altro. E poi, “anima mia”: detto da una lettrice di Carl Gustar Jung, secondo cui “l’anima” è la componente femminile della psiche di ogni uomo. È un rispecchiamento piuttosto significativo: la più importante delle critiche del patriarcato che si identifica con un maschio. Ancora più rilevante se si considera che Pasolini, in gran parte, aveva ignorato il femminismo, e anzi si era convinto che la componente femminile della rivolta degli anni Settanta fosse l’elemento più negativo della rivolta stessa. E che inoltre aveva fantasticato – in una delle sue tarde poesie, La Couvade – il parto maschile. Un mondo che si rigenera senza donne. Fatto solo di maschi. 
Teoricamente, avrebbe dovuto sputargli in un occhio. Almeno quanto a Hegel. Invece si sente sua sorella. Lo percepisce come parte di sé (“anima mia”). Ma perché? Da dove viene questa attrazione? È noto che il 21 gennaio del 1975 spedisce a Pasolini una lettera. Lui aveva scritto un articolo che il Corriere della Sera sintetizza con questo titolo: Sono contro l’aborto. Ma Pasolini aveva parlato anche, e soprattutto, di ciò che viene prima: cioè, il coito. Da omosessuale temeva che l’aborto avrebbe sacralizzato la sessualità della maggioranza, la cosiddetta normalità, escludendo tutto ciò che “è sessualmente diverso”. Com’era lui, per esempio: omosessuale. Su questo Lonzi è d’accordo. La legalizzazione dell’aborto, pensa, avrebbe lasciato intatto il rapporto sessuale basato sul piacere maschile. Lei stessa aveva abortito due volte: in entrambi i casi, nel rapporto sessuale non aveva raggiunto l’orgasmo. Perciò, interpreta la legalizzazione come “una tappa obbligata del patriarcato che si rinnova per sopravvivere”. E a Pasolini dice: “Il tuo articolo l’ho letto con partecipazione, come se senti la voce di un fratello, e con l’amarezza di constatare che il fratello continua a arrivare prima della sorella a farsi ascoltare. Non ti dico questo per vittimismo ma perché non voglio lasciare incompleto il gesto di fiducia che faccio a mandarti questa lettera”. 
Da tempo Lonzi desiderava instaurare un rapporto con Pasolini. Un desiderio talmente profondo che affiora anche nei sogni, e ben due volte, prima che si decida a spedire quella lettera. Il primo sogno lo annota nel diario il 29 dicembre del 1974. “Sono con Pasolini, so che è omosessuale, mi appare timido. Ma io trovo degli argomenti che lo sciolgono a poco a poco”. Lei nel sogno appare cosi: “Faccio la calza e sono molto calma”. E certo bisogna esercitare la fantasia al massimo per immaginarsi Lonzi placida, con i ferretti in mano. “A un certo punto mi aiuta a passare un gomitolo tra dei fili di lana, cosa che mi sembra un gesto d’intesa fra me e lui. Dopo di che diventa addirittura euforico, parla e parla”. Poi, prima del risveglio, la sensazione finale: “Provo un estremo bisogno di conquistarlo e sono certa di riuscirci”. Il secondo sogno è del 11 gennaio del 1975, dieci giorni prima della lettera. “Pasolini su una povera strada di campagna”. Lei continua a percepire la difficoltà di entrare in contatto con lui. “Intuisco di dover condurre gli approcci in modo molto delicato”. Pian piano però si apre un varco. “Ogni tanto dico qualcosa che lo colpisce, faccio centro”. Finché Pasolini diventa “sempre più allegro, più loquace”. E il gioco è fatto. “Non vedo l’ora di dire a Lucia della mia amicizia con Pasolini”.

Il giorno dopo l’invio della lettera, Lonzi si libera di colpo di ogni dilemma su cui si era arrovellata in precedenza: scrivergli, non scrivergli, cosa penserà, risulterò “ingenua”, oppure “machiavellica”. “E una gran sensazione”, essersi lasciata i dubbi alle spalle. Pensa al rapporto fratello-sorella, a San Francesco e Santa Chiara. È convinta: “Un incontro si prepara”. Ma mentre passano i giorni, e lui non risponde, è assalita dall’incertezza: “Cosa può avere capito da quella lettera?”. Ma subito la respinge. “Per me è, in assoluto, la cosa più importante. Non posso non essere attratta, non cercare un contatto con chi mi si mostri in quella veste”. La delusione si abbatte su di lei il 30 gennaio. Pasolini risponde sul Corriere della Sera. Ma non a lei. Bensì ad Alberto Moravia. Il “patriarca” delle lettere italiane. Confessa che vorrebbe dargli del “fascista”. Respinge, sdegnato, l’accusa di essere un “cattolico”. M agli dice anche che, in parte, sono “affratellati”. 
La stessa vicinanza offerta a lui da Lonzi. Che ne deduce: “Non dà spazio per me e per quelle come me”. Se “il migliore di loro, non capisce, non vede, non è toccato”. Ne ricava una regola generale: “Viene dato spazio alla donna quando è già portavoce di un’esigenza in comune con l’uomo”. E descrivendo una dinamica che considera tipica: la donna promuove la battaglia, come quella sull’aborto, “ma poi, al momento opportuno, come sempre, l’uomo la impugna, la gestisce, la con-trolla”.

Pasolini non risponderà mai alla lettera di Lonzi. In tutto il suo corpus letterario, composto da dieci volumi di meridiani Mondadori, più un grande tomo di lettere, non c’è un riferimento a Lonzi. Per Pasolini, Lonzi, semplicemente, non esiste. Non è mai esistita. Lei, invece, continuerà a sentirsi ferita ogni volta che lo legge, a ridimensionarlo, ad accusarlo di sentirsi al centro delle ingiustizie del mondo, mentre, per cecità calpesta chi sta più in basso di lui, come le donne, come lei. Si convince che lui sia in cerca del riconoscimento dei fratelli, e che le sorelle non lo interessino, La disillusione giunge al culmine 18 ottobre, quando scrive: “Cosa ho da spartire con Pasolini?”. È una domanda a cui vorrebbe rispondere: “Nulla”. Ma sa che non è così. Tornando un po’ indietro nel tempo, nelle pagine del diario, si trova un’altra lettera a Pasolini. Ancora più lunga. Ma pochissimo nota. È dell’agosto del 1974. E non risulta essere stata mai spedita. 
Dopo aver visto il suo film, Il fiore della mille e una notte, Lonzi gli scrive che la sua mitizzazione del sottoproletariato è destinata a fallire. La comprende benissimo, sia chiaro: l’ha vissuta anche lei. L’ha cercata “nei santi, negli artisti, nei poeti, nei popoli primitivi, infine nelle donne”. Ma ha capito che non funziona: è solo nostalgia di un paradiso terrestre. E il paradiso è irrimediabilmente perso. C’è poco da fare. “Adesso che conosco il mio diritto all’infelicità e perciò alla coscienza”, gli scrive, “ho finalmente imboccato la strada della felicità”. Colpisce, in questa lettera, il fatto che Lonzi anticipi un fallimento che nella vita di Pasolini avrà conseguenze catastrofiche: il crollo del mito dei sottoproletari, che gli aprirà le porte di una disperazione feroce. Ma non è solo questo, ci sono altri due elementi notevoli. Il primo è che in pochi ebbero la lucidità di avvertirlo in diretta. Mentre tutto ciò avveniva. Il secondo è che dei pochi che glielo fecero notare (per esempio, Franco Fortini) nessuno si era posto, come Lonzi, al suo stesso livello: senza guardarlo dall’alto in basso, trincerato nella sicurezza ideologica, dicendogli piuttosto: “Guarda che anche io ho provato la stessa cosa”. È una delle testimonianze delle qualità intellettuali di Carla Lonzi (disgraziatamente ancora non accolta nell’esclusivo mondo dei pensatori italiani del Novecento).

Ed è anche una testimonianza del suo metodo. Che parte innanzitutto da sé. E dice: ti critico, sì. Ma mettendo in gioco anche me stessa. Non puntando il dito. Non in astratto. Non solo in teoria.

Quando Pasolini viene ucciso, alcune femministe prendono le parti del ragazzo che lo aveva assassinato. Si mettono nei panni del borgataro che aveva dovuto offrirsi sessualmente al maschio con più potere di lui e pensano: in fondo se l’è meritato, quella del ragazzo è una ribellione comprensibile. Carla Lonzi si arrabbia. “Donne del Padre”, scrive, “mi tormenterete sempre: mi fate sentire più simile a un uomo che alla mia specie”. Osserva che nessuna di loro conosceva il ragazzo che lo aveva assassinato. Ignoravano perché lo avesse fatto. Cos’era scattato in lui.

Si schieravano, cioè, in maniera dottrinaria. 
Come Moravia: che non garantiva di “sentire” in termini femministi, ma garantiva di “pensare” in termini femministi. Proprio ciò su cui lei sputava: l’astrattezza teorica, anziché il vissuto. In questo, la voce di Pasolini era diversa, e lei l’aveva sentita come quella di un fratello. Perché “ci aveva parlato di sé”, scrive, per questo “possiamo avere delle relazioni personali”. 
Mi spiega Annarosa Buttarelli, tra le maggiori studiose di Lonzi, filosofia e curatrice della riedizione delle opere lonziane per La Tartaruga della Nave di Teseo, che questo punto è centrale per comprendere cosa sia, nell’universo lonziano, la battaglia contro il patriarcato. “Significa anche disobbedire alle regole imposte da un ruolo, agli imperativi sociali, alle parole dette da altri. Per trovare, invece, la propria lingua. Parlarla. Dire, appunto, di sé”. Ho chiuso il diario di Carla Lonzi mentre era diventato impossibile non discutere della morte di Giulia Cecchettin con gli amici a cena, con la propria compagna, con le colleghe al lavoro, con gli sconosciuti in metro. La novità è che parecchi uomini hanno parlato di una responsabilità della cultura maschile. Mentre altri l’hanno respinta, credendo che la colpa sia solo e soltanto di quel ragazzo che ha ucciso Giulia, Filippo Tu-retta. Personalmente mi sento più vicino ai primi che ai secondi. Ma ho imparato un criterio che distingue i maschi che ne parlano veramente dai maschi che ne parlano retoricamente. Questi ultimi tendenzialmente prendono la parola a nome della categoria: “Noi uomini”, eccetera. Gli altri invece raccontano cosa sin la cultura maschile nella loro vita – come la esercitano, come ne sono ricattati – usando la prima persona singolare. Il sé, avrebbe detto Carla Lonzi. 


(Review-Il Foglio, 28 dicembre 2023)

Leggendo i numerosi articoli riguardanti la recente morte di Toni Negri, mi è tornato alla memoria un breve saggio che Ida Dominijanni, in un post apparso su Facebook, ha definito «quel piccolo capolavoro che è La differenza italiana (nottetempo, 2005) dove Toni colse perfettamente, con mia stupefazione, l’essenziale del pensiero della differenza sessuale».

Non ho frequentato i testi del teorico dell’operaismo, ma mi sembra che per ricordare la sua attività filosofica questo breve saggio abbia un’importanza legata anche al giudizio che in quella sede ha dedicato al pensiero della differenza sessuale.

Secondo Negri la filosofia è l’analisi critica che consente di comprendere l’epoca in cui si vive, di orientarsi in essa, di contribuire alla costruzione di un destino condiviso e di testimoniarne la realtà con questo obiettivo: a questa definizione segue il giudizio che di filosofia, dopo Gentile e in parte Croce, nel XX secolo non ve ne sia stata (almeno in Italia).

Questo netto giudizio ha tre importanti eccezioni: Gramsci che ha «reimpiantato la filosofia là dove doveva stare, nella vita e nelle lotte della gente comune», Mario Tronti, e «quasi nascosto eppure profondissimamente agente […] il pensiero femminista della differenza sviluppato da Luisa Muraro».

Il pensiero filosofico può emergere solamente quando ci si sofferma sul tema biopolitico della riproduzione e quando si creano, in questo ambito, soggettività nuove come dallo scontro operaio contro il lavoro salariato e «nell’insorgere femminile contro il dominio patriarcale».

Negri ritiene che il pensiero delle due eccezioni che individua nella seconda metà del ’900 abbiano in comune sia la «lotta contro la dialettica» (in particolare quella hegeliana, citando Carla Lonzi), cioè contro il processo dialettico che nega, supera un momento, una categoria e, al tempo stesso, lo eleva e conserva, sia «l’imponente fenomenologia della differenza che interpretano».

In entrambe, l’azione sovversiva nei confronti della condizione umana attuale si orienta verso l’adesione, in prima istanza, al separatismo: della classe operaia per Tronti e delle «donne in rivolta contro le istituzioni borghesi del dominio patriarcale: così si organizza polemica la prima presa di coscienza femminile della differenza».

La pratica di distacco, enfatizzando le differenze, condurrà a una fase successiva più profonda: un cambiamento ontologico che coinvolge entrambe queste posizioni. Si tratta di una separazione creativa che «spinge queste differenze a proliferare, a produrre innovazione […]. In Italia in brevissimo tempo si dà il passaggio dall’affermazione separatista della differenza a un’affermazione costituente della medesima. […] qui non c’era più semplicemente teoria, ma pratica trasformatrice».

I movimenti delle donne vanno oltre la mera critica dell’esistente e lo sostituiscono con l’idea di metamorfosi, modificazione e trasformazione che riguardano sia il piano individuale che collettivo.

Per Negri «la differenza è resistenza […] una resistenza che rompe l’orizzonte del dominio [in questo caso patriarcale] non dai margini ma dal centro, meglio, ricostruendo un centro, un punto su cui far leva per trasformare la realtà, là, davvero nel cuore del sistema».

Un riconoscimento teorico e politico del pensiero della differenza sessuale, un pensiero che modifica l’orizzonte filosofico ed è «reale produzione del legame sociale».

Senza, infine, dimenticare una sua produzione di discendenze «che operano su più grandi scene [… e che escono] dai seminari e dai laboratori» e che sono attive nei movimenti e nella società: la differenza sessuale «ha finito di essere separazione, è diventata creativa e comincia a produrre avvenire».


(puntodivista.libreriadelledonne.it, 19 dicembre 2023)

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