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Marina Terragni

Fino a non molto tempo fa gli uomini non parlavano di aborto. Era una cosa di donne, una di quelle cose vicine alla nascita – sangue, parti, concepimenti -, di cui preferivano non impicciarsi. Era il silenzio di chi lasciava fare alla competenza femminile, e non senza qualche ragione di comodo: sbrigatevela voi. Da qualche tempo invece hanno preso a metterci il naso. Ne parlano molto più delle donne, che si sentono costrette a rispondere. Soprattutto i “contro”, i cosiddetti pro life, con toni accesi e accusatori, accostando l’aborto all’omicidio e alla pena di morte.
Le donne non hanno mai posto la questione in termini di pro o contro. L’aborto è sempre stato un fatto della vita, e anche quelle che non abortirebbero mai non hanno mai giudicato e condannato chi l’ha fatto, confidando nelle sue buone ragioni. Dalla notte dei tempi, le donne si sono sempre dimostrate di necessità pro choice.
Un’affollata riunione alla storica Libreria delle Donne di Milano, indetta in mezzo a questo fervoroso dibattito maschile, e in seguito alla presentazione della Lista per la vita concepita da Giuliano Ferrara, mantiene questa impostazione: nessuna posizione reattiva, ma un discorso sull’aborto che riprende il filo delle moltissime cose già dette, vissute e pensate dalle donne, e le fa andare avanti. Nessun rituale “la legge 194 non si tocca”, né tanto meno una difesa del supposto “diritto d’aborto”, diritto che nessuna mai nel femminismo ha rivendicato. L’aborto, come dice Luisa Muraro, tra le fondatrici della Libreria, fa anzi parte di quelle “materie di confine per le quali la lingua dei diritti non aiuta di sicuro a trovare la parola giusta”.
Muraro ipotizza che l’aborto “tocca inconsciamente gli uomini, che sono nati e nascono da donne”. Anche secondo altre l’offensiva maschile può essere letta come capitolo di una generale guerra alle madri, la cui competenza non è più riconosciuta. Le donne sono costrette a negoziare non solo la loro volontà di non avere figli, ma soprattutto quella di averne. Con i datori di lavoro, con chi decide i tempi di vita nelle città, con una società che non aiuta le madri e che vede i bambini solo come un incomodo. Ma soprattutto devono negoziare con gli uomini, per i quali non è mai il momento giusto per diventare padri: “La fine del patriarcato” osserva Lia Cigarini, altra fondatrice della Libreria “si esprime anche in questo disinteresse maschile per il rapporto padre-figlio”. Dietro a ogni aborto c’è sempre un uomo, e quasi mai uno che avrebbe invece voluto diventare padre. Ma se non vogliono diventare padri, perché poi dicono di volere i bambini?
L’interesse maschile si ferma al feto, a quella fase in cui il bambino è ancora totalmente dipendente da una madre fantasticata come onnipotente, irresponsabile e crudele. È una specie di fissazione sull’embrione, un’identificazione con lui contro la madre “nemica”. Poi quando il bambino nasce torna a essere un affare di donne, lasciate sole a svolgere il loro compito. “La filiera” dice qualcuna “si interrompe con il parto”.
Da quando l’embrione è stato separato dal corpo della madre il disordine simbolico è straordinario. Da quando la competenza materna come è data in natura è stata esautorata, irrompendo nella stanza del concepimento e del parto e inondando con la luce della tecnica ciò che è sempre accaduto nel buio e nel silenzio, l’antagonismo tra madre e figlio è definitivamente sancito. Ma più si farà guerra alle madri, meno bambini ci saranno. Non c’è verso: diritto o non diritto, è sempre e solo il sì della madre che dà inizio a ogni nuova vita umana. La sola cosa che si può fare è costruire le condizioni perché il più delle volte questo sì venga.
Dietro questo aggressivo interesse maschile per il feto, Marisa Guarneri della Casa delle Donne Maltrattate di Milano dice di intravedere “un sentimento di controllo e di possesso, quella stessa ossessione, molto diffusa, di essere tagliati fuori dalle donne, che è il brodo di coltura da cui si generano i comportamenti violenti”. Un’altra nota che le donne abortiscono soprattutto quando sono sole.
Nel 1971, sette anni prima dell’approvazione della legge 194, Carla Lonzi, una delle madri del femminismo italiano, scriveva: “L’uomo ha lasciato la donna sola di fronte a una legge che le impedisce di abortire: sola, denigrata, indegna della collettività. Domani finirà per lasciarla sola di fronte a una legge che non le impedirà di abortire. Ma la donna si chiede: per il piacere di chi sono rimasta incinta e (…) sto abortendo?”. È proprio sull’impossibilità di separare il discorso sull’aborto da quello sulla sessualità che molte insistono. “Se c’è un elemento unificante negli aborti – dice Ritanna Armeni, autrice del libro-inchiesta La colpa delle donne – è la soggezione alla sessualità maschile. Per la donna del sud la sessualità del marito non si discute. Al nord è l'”incidente”, la contraccezione che non ha funzionato. Ma questa soggezione c’è per tutte”. Gli uomini che discutono di aborto sono disponibili a parlare anche di questo?
Infine: la parola più strettamente politica che esce dal dibattito è “depenalizzazione”. Per la legge italiana l’aborto è ancora un reato perseguibile, a meno che non venga praticato nella struttura pubblica. Esemplare il caso di Torino, dove il ginecologo Silvio Viale e altri tre medici sono indagati per violazione della legge 194, avendo concesso ad alcune pazienti di tornare a casa in corso di somministrazione della pillola abortiva RU 486, il che secondo gli inquirenti avrebbe comportato la possibilità di abortire fuori dall’ospedale. Depenalizzazione vuole dire che l’aborto non sarebbe più reato, né dentro né fuori dagli ospedali. Quindi che si potrebbe abortire anche nel privato.
40 anni fa, prima dell’approvazione della legge 194, un lungo dibattito contrappose la proposta di depenalizzazione, avanzata da piccoli gruppi di autocoscienza che vedevano l’aborto come una questione che eccedeva il campo del diritto (ipotesi sostenuta dai Radicali), alla proposta di legalizzazione contro l’emergenza degli aborti clandestini, sostenuta della maggioranza delle donne. Alla gran parte l’idea di depenalizzare pareva solo un’interessante posizione teorica e ultralibertaria. Oggi ci sono anche immediate ragioni pratiche per riconsiderarla.
Dall’entrata in vigore della 194 il numero degli aborti si è ridotto di oltre il 40 per cento, la legge sembra aver funzionato. Ma ormai da tempo la sua applicazione non è più garantita a causa del numero crescente di obiettori negli ospedali. La leva delle ginecologhe e dei ginecologi “cresciuti” a fianco del movimento delle donne e sfiniti da anni di prima linea e di progressivo isolamento, viene via via rimpiazzata da giovani medici che di aborti non vogliono più saperne, spesso per ragioni di carriera, ma anche per una diversa sensibilità al problema.
Gridare che “la 194 non si tocca”, quindi, oggi serve a poco: nessuno, neanche la Chiesa, sembra più intenzionato a toccarla. L’auspicio semmai è quello di vederla in breve svuotata dall’interno, estinta per morte naturale. La depenalizzazione consentirebbe anche di “liberare” quei pochi posti in ospedale e nelle cliniche convenzionate – l’intervento resterebbe garantito e mutuabile -, formalizzando una situazione di fatto che oggi vede soprattutto straniere rivolgersi alla struttura pubblica, mentre chi ha la possibilità di sottrarsi alla trafila va ad abortire in Svizzera, in Spagna, a Londra.
E poi sì, certo, meno aborti possibile, e al più presto possibile. Questo resta l’obiettivo primario. “Ma chi vuole davvero vedere nascere più bambini” dice Luisa Muraro, “dovrebbe mostrare il desiderio che ha di loro, di vederne di più, di starci più insieme. E di condividerli con le madri”.