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Vita Cosentino

Ho partecipato ai lavori del Forum sociale europeo e mi sono trovata bene. Ero con il mio corpo assieme ad altri 65.000, pure mi sentivo perfettamente a mio agio e mi è sembrata una realtà composita e mobile alla ricerca di altre forme della politica.
Io -come alcune altre- vi ho trovato una forte impronta femminile: lo ha già detto Naomi Klein per il modo di prendere le decisioni, io sono soprattutto colpita dal ritrovare al suo interno l’idea che è possibile cambiare il mondo senza la conquista del potere (è anche argomento di due libri appena usciti, uno in Argentina e l’altro in Francia e non ancora tradotti in Italia) che per me è stata l’invenzione più potente del femminismo. Qui però cominciano le questioni critiche perché è in gran parte inconsapevole che questa idea sia stata anticipata dal femminismo e questo mancato riconoscimento fa problema a donne che quella scommessa portano avanti da più di 30 anni, così come fa problema anche a me il mescolarsi di idee e pratiche che vanno in questa direzione con vecchi schemi di politica antagonista, con ripetizioni (maschili) di ricerca di massima visibilità.
Così di ritorno dal forum voglio affrontare solo una questione che riguarda la domanda che mi portavo dentro: la possibilità o meno di praticare esplicite relazioni politiche di differenza donna/uomo.
In alcuni momenti l’ho sentita veramente a portata di mano, in altri toccarne l’impossibilità si è esplicitato in conflitto. Ascoltando le reazioni dentro di me ho capito, come cercherò di mostrare, che in gioco c’è la libertà nel pensare, di uomini, di donne.
Ho sentito per me donna un possibile terreno di scambio quando ho percepito un ragionare maschile più libero: meno preoccupato a costruire una teoria in cui tutto si tiene e da cui dedurre un agire e un organizzare, e più attento a cogliere le occasioni che si aprono nella contraddittorietà del presente per dei soggetti vivi e pensanti; e invece un’impossibilità quando non c’era questa condizione.
Mi spiego con due esempi concreti dell’una e dell’altra situazione. Per un’apertura di possibilità di relazione mi riferisco all’intervento di Roberto Savio al seminario coordinato da Anna Pizzo su “Informazione e cultura”, ma lo stesso discorso vale per es. per l’intervento di Pierluigi Sullo al seminario per la “Democrazia partecipativa” e per altri che ho ascoltato.
Roberto Savio è il coordinatore del gruppo di lavoro per la comunicazione del Forum mondiale di Porto Alegre e il suo discorso era al tempo stesso realistico e animato da una forte scommessa politica che faceva conto sulla forza che risulta da soggetti consapevoli, da una miriade di comportamenti quotidiani diversi, da altri stili di vita, altre esistenze, altre idee. Era realistico perché prendeva atto che viviamo nel capitalismo e che tutto sta nella logica del mercato, che è la logica del “fare soldi”. Anche per l’informazione – diceva – la logica è la stessa: è dominata da alcuni grandi editori a cui non interessa comunicare, ma vendere. In questa stessa logica del capitalismo Savio, però, vedeva anche il suo punto debole e come prospettiva politica indicava, lo riassumo in breve con parole mie: “se noi invece di spendere energie a lamentarci che non abbiamo spazio sui giornali andiamo decisamente per la nostra strada facendo sempre più opinione pubblica su un’altra idea del vivere e della società umana, questo fa saltare il meccanismo. Un gruppo editoriale come Murdoch che ha come suo unico interesse vendere se continua a parlar d’altro e a ignorarci vedrà crollare le sue vendite come già sta incominciando a succedere, e sarà costretto per il suo profitto ad occuparsi di noi e dei temi che ci stanno a cuore.”
Si può condividere o meno il ragionamento (io lo condivido anche), ma ho più apprezzato l’operazione di libertà: non rinuncia a un’analisi complessiva, tuttavia non la riempie completamente, si limita a delineare un possibile orizzonte politico in cui è ancora tutto da giocare. A queste condizioni io mi sento attratta a partecipare al gioco con la mia differenza.
Viceversa mi sono sentita nella disperazione dell’incomunicabilità quando al laboratorio sui saperi (organizzato anche da amiche e amici dell’autoriforma della scuola di Firenze assieme al forum locale) è intervenuto Marco Revelli e ho aperto un conflitto, aiutata dal fatto che al tavolo c’era anche Ida Dominijanni che ha mostrato tutt’altro approccio rendendo manifesta la contraddizione.
Il suo sguardo era fisso sul capitalismo di cui analizzava la tendenza in epoca di globalizzazione e le trasformazioni che operava per cui la conoscenza è vittima della globalizzazione e il sapere è sottomesso alla logica produttiva. Da qui tirava due conseguenze: la morte dell’intellettuale che prima era chi poteva riflettere sui processi sociali rimanendo indipendente dai processi di produzione, invece ora con un’intellettualità di massa che porta saperi frammentati manca la possibilità di una sintesi conoscitiva organica; la seconda era il venir meno dello spazio pubblico: la scuola sussunta dal capitale diventa una fabbrica di mezzi di produzione regolata dal marketing. Da qui allora il problema di come ricostruire lo spazio pubblico, se statale o autogovernato, e la proposta del reddito minimo di sopravvivenza.
Il mio è solo un breve riassunto ricostruito sugli appunti: l’analisi era organica, l’oratore raffinato, ma io che di scuola mi sono occupata tutta la vita mi sentivo sulla luna, assieme alle maestre che fanno le maestre anche sotto il terremoto… in quel modo di costruire un’analisi che vuole spiegare tutto e abbracciare tutto c’era l’azzeramento dei soggetti viventi in carne ed ossa, del loro agire quotidiano, delle idee che vi portano e che hanno cambiato e cambiano i luoghi stessi. Non a caso il suo discorso tutto imperniato sulle trasformazioni ignorava totalmente la femminizzazione della scuola, che è la trasformazione più significativa degli ultimi trent’anni.
Insomma c’è un conto da fare sul tipo di relazioni che si instaurano parlando e rimettere in discussione -questo ho cercato di dirgli – le gerarchie di valore e il potere quando si parla: sia nel senso di una parola che cerca la supremazia teorica, sia nella costruzione del ragionamento politico in un modo che crea una sorta di rapporto di subordinazione tra chi elabora la teoria (l’intellettuale organico?) e chi agisce (le masse?). A queste condizioni io mi sento respinta e ricacciata in qualche modo in una dinamica da cui sono già fuggita tanto tempo fa approdando al femminismo.
Per concludere, quello che ho visto al Forum europeo – ma anche in altre situazioni – è che è cominciato un “disfare” maschile di apparati concettuali e modi di essere intellettuale che contenevano anche una pretesa di dominio sulla realtà e questo, per quanto mi riguarda, crea un terreno favorevole a una relazione di differenza che incrementa la libertà. Ma questo è tutt’altro che assodato come ho cercato di mostrare con due esempi di uomini. Accennerò solo a un terzo che fa vedere come la questione della libertà sia tutta aperta anche fra le donne. Al seminario “Donne – uomini: conflitto necessario per un futuro comune” organizzato e presieduto dalle donne della Marcia mondiale per la pace ho assistito a un conflitto in questo senso condotto da un giovane uomo di Roma, nei confronti delle donne della presidenza. Ma questa è un’altra storia che racconta Maria Castiglioni sempre sul nostro sito…