Pellegrinaggi fotografici di Khoroshilova
libreria
14 Aprile 2009
di Valentina Parisi
«Un pellegrinaggio attraverso il paese degli spazi locali», così il critico Vitalij Patsyukov ha definito, con una formula tortuosa ma calzante, l’ampio ciclo fotografico Russkie (Russi), realizzato di recente da Anastasia Khoroshilova ed esposto fino al 2 maggio alla galleria Impronte di via Montevideo 11 a Milano. Luoghi remoti, talvolta geograficamente isolati, ma sempre e comunque rischiarati dalla presenza umana, quelli che la fotografa ha attraversato per dimostrare il carattere plurale dell’identità russa, al di là delle odierne derive nazionalistiche e populiste. In questa ottica, il titolo della mostra assume una sfumatura chiaramente paradossale, quasi provocatoria.
Che cos’hanno infatti in comune il giovane monaco buddista in scarpe da tennis e le donne ciuvasce ritratte nei loro costumi tradizionali che ci fissano imperturbabili da queste foto? Oppure gli artisti di un circo sperduto in una steppa dell’Asia centrale e le esponenti femminili di tre generazioni, riunite intorno a una culla in un angolo imprecisato della repubblica tatara?
Nella sua sfaccettata complessità, la Russia documentata dalla Khoroshilova sembra l’erede diretta di quell’entità sovranazionale che fu l’Unione Sovietica, oppure – per utilizzare una metafora ricorrente nella sua opera – un arcipelago formato da isole assai più distanti di quanto la contiguità spaziale non farebbe ipotizzare, forse addirittura ignare della loro reciproca esistenza. Di certo, a tenere insieme mondi così diversi è il metodo adottato dall’artista nei confronti dei suoi soggetti, che si traduce in una cifra stilistica ben riconoscibile, definita da Viktor Misiano come «grado zero della fotografia». I «russi» della Khoroshilova fissano invariabilmente l’obiettivo, quasi a voler instaurare, con i loro sguardi carichi di fiduciosa aspettazione o scetticismo, un dialogo col fotografo che, inevitabilmente, si rifrange anche sullo spettatore. Indifferente al fascino della tranche de vie inseguita dallo scatto del reportage, la Khoroshilova si rifiuta di cogliere di sorpresa i suoi modelli, anzi permette loro di adottare le pose rigide, ma psicologicamente rassicuranti tipiche delle foto di gruppo. Oppure chiede loro di scegliere lo sfondo su cui vorrebbero figurare, consentendogli di portare con sé, nell’universo ideale dell’inquadratura, gli abiti e le cose che meglio definiscono la loro personalità – quasi stessero partendo per un viaggio.
Incastonati come in una nicchia nello spazio «locale» che li racchiude, i soggetti di Russkie non sono dunque mai soli, ma accompagnati dalla presenza di animali totemici spesso esotici come il falco o il dromedario, strumenti musicali non meno inconsueti, oggetti-attributi ora buffi (come il cocomero di plastica esibito per qualche ignoto motivo da una vecchietta), ora spiazzanti (come nel caso di una donna di mezza età, seduta da sola su una panchina accanto al ritratto di una danzatrice classica).
Forse, il fascino di questo ciclo (e, insieme, la valenza etica del «pellegrinaggio» della fotografa) risiede proprio nel rispetto profondo con cui la Khoroshilova si accosta agli abitanti della campagna e della provincia russa. Sospesi tra l’immensità degli orizzonti che domina alcuni esterni e lo spazio delimitato, ristretto ma mai angusto, degli scorci domestici, i protagonisti di Russkie, con i loro sguardi colmi di compassata dignità, sembrano voler lanciare allo spettatore un appello alla comprensione reciproca cui è davvero difficile sottrarsi.