Parliamoci ma senza usare lo schwa. Intervista ad Annarosa Buttarelli
Raffaella De Santis
6 Settembre 2024
di Raffaella De Santis
Diritti, nuovi linguaggi, cultura woke, donne sono al centro del Festivaletteratura. Da sempre Mantova è un laboratorio per discutere senza preconcetti intorno ai temi che dominano il dibattito pubblico.
Nella seconda giornata di festival, in una città fiaccata da una pioggia battente ma non tradita dai lettori, Goldie Goldbloom, ebrea ultraortodossa attivista Lgbtqia+, ieri ha raccontato la sua storia all’interno della comunità chassidica. E oggi Olivia Laing (con Chiara Valerio in Piazza Castello alle 19,15) promette di concentrarsi su corpi e desideri, mentre l’ecuadoriana María Fernanda Ampuero parla di violenza di genere in contesti svantaggiati (Seminario vescovile, ore 19). Sabato sarà la volta di Deborah Levy e domenica di Jessa Crispin e Mona Awad.
Uno degli incontri più affollati, sotto il tendone di Piazza Sordello, ha visto protagonista la filosofa Annarosa Buttarelli, allieva e assistente di Luisa Muraro, curatrice delle opere e dell’archivio di Carla Lonzi, radici dunque nel femminismo della differenza. Libri recenti: Bene e male sottosopra (Tlon) e Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione (Feltrinelli). Sarà il titolo dell’incontro, “Contro il politicamente corretto”, sarà che a Mantova il pubblico è motivato e non si lascia sfuggire momenti di discussione, non c’è un posto libero e qualcuno rimane in piedi. Per Repubblica è un’occasione per proseguire a Mantova il dibattito sul diritto di parola. Con una sorpresa, che emerge parlando con la filosofa alla fine del suo incontro: può e deve essere cercato un punto di conciliazione.
Ci sarà pure un modo per sanare le rigidità degli opposti estremismi, per tentare di ricucire gli strappi tra femministe di ieri e di oggi, tra chi segue la teoria del gender e chi ne diffida?
Quel punto di equilibrio si chiama “discernimento”.
Vale a dire?
Sta nella capacità di recuperare un pensiero critico che sappia contestualizzare, mettere le cose in una prospettiva storica. Non si può ragionare a prescindere dai dati di realtà. Le posizioni differenti vanno sempre valutate dentro le situazioni per non cadere nei pre-giudizi che sono appunto giudizi formulati a priori.
Ottimo, proviamo a dare concretezza a quanto sta dicendo, visto che lei è una intellettuale che non ama le speculazioni astratte ma la filosofia concreta. Che pensa dello schwa e del linguaggio inclusivo?
È un’astrazione, e perdipiù non è pronunciabile. Non si può imporre una regola calata dall’alto al linguaggio che è qualcosa di vivo. La lingua materna, quella del cuore e delle lacrime, ci riconnette con ciò che sentiamo. Tutto il resto è una neolingua che rischia di diventare un codice astratto, studiato a tavolino. E poi noi donne abbiamo lottato tanto per conquistarci le declinazioni femminili, nei mestieri ad esempio, e ora ci viene proposto il neutro.
Quel neutro è un tentativo di inclusione. Non si tratta di escludere ma semmai di evitare di tenere fuori qualcuno. Perché dovrebbe dar fastidio?
In realtà anche la parola inclusività non mi convince del tutto. Mi sembra sia una forma di annessione. Mi viene in mente l’ambra che cattura dentro di sé gli insetti. Insomma, mi pare una forma di egemonia. La vera inclusività democratica per le donne è iniziata nel 1946 con il voto.
Passi che non le piace parlare di inclusione, che propone?
Mi piace il verbo accogliere.
È cattolica?
Né cattolica, né credente. Come Margherita Hack credo nel mistero e sono attratta dalla spiritualità.
Le sembra che questo sistema di regole per rendere i nostri comportamenti e modi di parlare più rispettosi delle minoranze manchi forse di spiritualità?
A volte manca di quella che Flannery O’ Connor chiamava la grazia, che è una forma di imprevisto, una sorta di folgorazione. Non vorrei rinunciassimo a produrre pensieri originali, autonomi, per attenerci ai diktat del politicamente corretto.
Non è un peccato che ci si divida tra femminismi? Non sarebbe meglio unire le forze del mondo progressista?
Si è creata una frattura nel femminismo, vero. Faccio notare che l’ondata queer ha radici nella cultura americana, lacerata da una schizofrenia tra il puritanesimo e l’idolatria delle libertà individuali.
Dunque?
Ho l’impressione che si stia cadendo in un paradosso, che il superamento di quello che viene detto il binarismo possa portare a una ricaduta in un’altra forma di identitarismo. Non è un caso che si parli di “identità di genere”. Gli stereotipi vanno smontati, sempre. È questo in fondo il significato ultimo del femminismo della differenza. All’università sono stata una volta processata perché avevo detto “noi donne”. Processata perché uno studente con barba e sottane si era sentito escluso, anzi esclusa. Poi abbiamo trovato un punto di conciliazione: avrebbe potuto essere considerato donna a patto di assumersi sopra le spalle la storia di noi donne: i roghi, gli abusi subiti durante le guerre, le lotte….
Non è una grande libertà potersi definire al di là della biologia?
Certo, a patto che anche io possa chiamarmi “donna” e non “persona che mestrua”. Su questo fronte ha ragione J.K. Rowling. Ha però sbagliato quando ha attaccato la pugile olimpionica Imane Khelif, che è una donna a tutti gli effetti nonostante un eccesso di ormoni maschili.
Provi a proporre una formula concreta che sostituisca lo schwa?
A volte dico: “noi qui, donne, uomini e altri generi”.
Tenda la mano anche filosoficamente.
Noi filosofi abbiamo la responsabilità di portare luci. Possiamo incontrarci sul rispetto della condizione umana.
(la Repubblica, 6 settembre 2024)