Pacifisti da combattimento
4 Giugno 2006
Un gruppo composto da 120 refusnik israeliani e 120 ex prigionieri politici palestinesi cerca di spezzare il cerchio della diffidenza e degli istinti suicidi. «Siamo diversi, ma abbiamo lo stesso obiettivo»
Giuliana Sgrena – Inviata a Tel Aviv
Abbiamo incontrato Zohar Shapira sul lungomare di Tel Aviv durante una pausa del suo lavoro di insegnante. 36 anni, sposato con una bambina di poco più di un anno, che deve andare a recuperare all’asilo appena finita l’intervista, è uno dei fondatori – israeliani – del gruppo «combattenti per la pace». La composizione del gruppo – 120 refusnik israeliani e 120 ex-prigionieri politici palestinesi, di cui 24 donne – costituisce senza dubbio una novità sullo sfondo del sempre più bloccato conflitto israelo-palestinese. L’organizzazione, che oltre al nucleo centrale – volutamente limitato – gode di molti sostenitori sia israeliani che palestinesi, è nata l’anno scorso dopo anni di incubazione e riflessione ma è apparsa ufficialmente sulla scena politica solo da qualche mese.
Zohar Shapira, per quindici anni nell’esercito, comandante di una unità d’élite incaricata delle missioni speciali (le più sporche) nei territori palestinesi, come è arrivato alla decisione di lasciare l’esercito e di rifiutarsi di tornare in servizio nei territori occupati? «Dopo l’inizio della seconda intifada – racconta – nel 2002, ero impegnato nell’operazione shield of defence e dopo l’attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l’odio».
Refusnik, altro che traditori
Nel frattempo il movimento dei refusnik si stava allargando… «Sì, allora eravamo 6-800 – prosegue Shapira – ma soprattutto tra i refusinik non c’erano più solo soldati di leva ma anche piloti, comandanti. Tanto che il movimento dei refusnik arrivò ad imporsi come un punto di discussione nell’agenda del governo israeliano. Non potevamo più essere indicati semplicemente come traditori da Sharon, i refusnik erano diventati una realtà accettata dalla gente. Ora circa il 40 per cento dei riservisti, quando richiamati, si rifiutano di andare a servire nei territori occupati. Il problema era però come andare al di là delle manifestazioni e diventare più incisivi. Non sapevamo se c’erano palestinesi disposti a parlare con noi, poi abbiamo contattato Tayush (un’organizzazione di palestinesi e arabi di Israele, ndr). All’inizio eravamo molto sospettosi, diffidenti, da entrambe le parti».
In Tayush militava anche Suleiman al Himri di Betlemme, con alle spalle quattro anni e mezzo passati nelle carceri israeliane (prima a Hebron e poi a Ansar III), condannato per azioni contro Israele quale leader locale durante la prima intifada. Suleiman al Himri, militante di Fatah e funzionario del ministero degli interni, conferma la diffidenza iniziale. Lo abbiamo incontrato in un albergo di Betlemme dove i suoi compagni stavano preparando le schede degli iscritti in vista del sesto congresso di Fatah, che dovrebbe tenersi entro l’anno.
Ci sono state molte riunioni, molte discussioni prima di arrivare alla formale costituzione del gruppo «combattenti per la pace». Su quali basi lo chiediamo a Suleiman. «Abbiamo raggiunto un accordo su diversi punti: il riconoscimento del diritto dei palestinesi ad avere uno stato con Gerusalemme est come capitale; la dimostrazione al popolo, soprattutto quello israeliano, che esiste un partner palestinese; il rifiuto della violenza contro la popolazione civile, sia palestinese e israeliana».
Teoria e pratica della non-violenza
La non-violenza è senza dubbio la scelta più impegnativa per entrambi i componenti, posto che la violenza è alla base della militarizzazione della società, dovuta al conflitto, che non risparmia nessuno e si insinua fin dentro le mura domestiche. Ma proprio gli effetti devastanti della violenza, soprattutto dopo la seconda intifada, nei territori palestinesi si sta diffondendo la pratica della non violenza con corsi di formazione organizzati da ong. Ma a sostenere la non violenza contro i civili, a condannare gli attentati suicidi sono anche persone come Suleiman, che non rinuncia a combattere l’occupazione. o Zohar, che in passato ha comandato una delle unità più aggressive dell’esercito israeliano, o Elik Elhanan, la cui sorella è rimasta vittima dell’attentato commesso da un kamikaze.
«Solo la non violenza può spezzare il cerchio della morte», afferma Zohar che racconta l’emozione e anche i timori provati quando per la prima volta ha varcato il muro ed è entrato nei territori palestinesi senza armi: mi guardavo in giro per vedere se c’erano soldati per proteggermi, ma poi, quando sono entrato nella casa di Suleiman e ho conosciuto la sua famiglia, non ho più avuto nessun timore. Ora io e i miei compagni andiamo nei territori palestinesi e i palestinesi vengono nelle nostre scuole per dimostrare che un partner c’è, per far conoscere l’altro. Non vogliamo dire che siamo uguali: siamo diversi, ma abbiamo lo stesso obiettivo della pace ed è importante conoscersi», sostiene Zohar. Il progetto che vede palestinesi e israeliani tenere insieme lezioni nelle scuole e nelle università palestinesi e israeliane è senza dubbio una delle azioni più importanti ed efficaci dei «combattenti per la pace».
In che cosa si distingue questo gruppo da altri costituiti insieme da israeliani e palestinesi? Risponde Suleiman: «L’obiettivo è diverso: noi non vogliamo la normalizzazione dei rapporti, vogliamo lavorare insieme per un obiettivo concreto: la fine dell’occupazione».
E questa impostazione diversa rispetto al passato sembra aver segnato tutti i gruppi israelo-palestinesi, anche quelli nati contro il muro o i blockwatchers, che controllano i posti di blocco. Nel week i militanti israeliani organizzano visite guidate: «Gli israeliani non conoscono il muro, non l’hanno mai visto, quindi possono credere alla propaganda del governo… ma basta farglielo vedere da vicino perché capiscano che non serve alla sicurezza ma solo alla divisione dei territori palestinesi in bantustan», sostiene Jeff Halper, coordinatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd), che ora ha allargato il proprio obiettivo promuovendo una campagna anti-apartheid. Un obiettivo ancora più difficile da raggiungere. «Ci riusciremo, il problema – aggiunge – è come e quando. Ci è riuscito Mandela …».
Ha vinto Hamas? Niente panico
A Jeff Halper chiediamo anche se la vittoria di Hamas abbia cambiato i loro rapporti con i palestinesi. «In Israele – risponde – non c’è stato nessun panico per la vittoria di Hamas. Noi non abbiamo rapporti con Hamas, ma continuamo a lavorare con i palestinesi come prima e vedremo che cosa veramente farà Hamas. Dopo gli accordi di Oslo avevamo avviato un dialogo, ma l’inizio della seconda Intifada aveva scioccato tutti e gli israeliani erano spariti, ora i palestinesi hanno realizzato che per porre fine all’occupazione hanno bisogno degli israeliani».
Tuttavia non sembra ci siano molti israeliani favorevoli a uno stato palestinese… «Gli israeliani – prosegue Halper – non pensano alla pace come a qualcosa di positivo, partono dal principio che gli arabi sono nemici e che non ci sarà mai pace. Per gli israeliani la pace è solo una sorta di “pacificazione”. In Israele le parole hanno un senso “orwelliano”: pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento».
Quindi c’è poco da sperare in un cambiamento della politica di Israele. «Penso che l’ingiustizia sia insostenibile a lungo andare – aggiunge ancora Halper – perché contiene i semi della distruzione. Alla fine ci sarà il collasso, e questo non vuol dire che dopo l’ingiustizia ci sarà giustizia, ma che Israele non potrà mantenere a lungo questa situazione».