«Mangeremo così» Ecco l’Onu del cibo – da Il Manifesto
21 Ottobre 2004
Al via a Torino «Terra madre», l’incontro organizzato da Slow Food. 5 mila produttori di 1.202 «comunità» a confronto su biodiversità, diritto alla terra e alle sementi, lotta agli ogm.
di Marina Forti
Ci sono i semi, le mandrie, la materia prima data dalla natura e coltivata o allevata dagli umani, e poi c’è chi conosce l’arte di trasformare queste materie prime in olio, vino, formaggio, cibi consumabili – e poi ancora c’è la cucina, che è l’arte di dosare sapori e spezie in qualcosa di gradevole ed è in sé una cultura. Questa, in sintesi (molto) estrema, è la visione illustrata da Carlo Petrini, presidente di Slow Food, all’affollata assemblea che ieri ha inaugurato la rassegna chiamata Terra Madre, incontro mondiale delle «comunità del cibo». L’idea di mettere insieme chi produce, cura e trasforma il cibo («contadini, pescatori, allevatori, nomadi») è coerente con un’associazione nata per difendere e valorizzare il buon cibo. Il risultato è l’incontro di quasi cinquemila persone che rappresentano 1.202 «comunità» di produttori: dai coltivatori di uvetta di Herat in Afghanistan ai produttori di un certo tè chiamato makoni dello Zimbabwe, passando per un mappamondo di associazioni, consorzi o cooperative di persone che si sono unite per lavorare la terra. Dunque: al Palazzo del lavoro di Torino sono da ieri riunite persone venute da 129 paesi, pochi meno di quelli rappresentati alle Nazioni unite: ciascuno per raccontare il proprio lavoro, spiegare come sono riusciti ad addomesticare una certa erba degli altopiani masai che ha proprietà nutritive eccezionali e può crescere in ogni orto del Kenya, o come funziona l’economia dei pastori nomadi della Mongolia – e via con infiniti esempi. Il merito va a Slow food e a un comitato organizzatore che comprende la città di Torino, la regione Piemonte e il ministero dell’agricoltura (sindaco, presidente regionale e ministro erano infatti sul palco, ieri, insieme a delegati e relatori). Il colpo d’occhio rende conto della diversità umana rappresentata in un congresso simile: le carnagioni, le fogge degli abiti che molti indossano, i colori, i linguaggi, per non dire degli idiomi parlati (è garantita la traduzione simultanea da 7 lingue). Già solo chiamare sul palco un delegato per ogni paese è stato cosa lunga. E però questa non è solo una rassegna di diversità, ecologica e umana.
Il senso di questo incontro sta in quella definizione, «comunità del cibo»: è più che «comunità rurale», perché le comunità qui rappresentate sono persone che si sono unite volontariamente per valorizzare il proprio lavoro, migliorarlo, superare dei problemi, e spesso mantenere un tessuto sociale e culturale: come la cooperativa degli altopiani del Burkina Faso che attraverso il mutuo soccorso e il lavoro insieme è riuscita a combattere la siccità e la povertà e a difendere il «bene comune». Persone che «disegnano una nuova società solidale ed equa», per usare le parole di Petrini: «Donne e uomini impegnati a difendere tradizioni, culture e colture», «depositari di saperi antichi e moderni»: gli «intellettuali della terra».
Non si pensi però a una visione idealizzata, o alla celebrazione di un mondo bucolico. Petrini parla di mondo solidale e del valore della fraternità, e insieme di scelte culturali che diventano scelte politiche. Sottolineare l’importanza dell’agricoltura e dei saperi porta a parlare di biodiversità, a schierarsi per il sacrosanto diritto alla terra e alle sementi, a combattere «le multinazionali dei pesticidi e degli organismi transgenici». Porta ad esempio a schierarsi contro la brevettabilità degli organismi viventi, come ha sostenuto con parole accese il ministro dell’agricoltura Gianni Alemanno (sembrava di ascoltare un no global). Frei Betto, coordinatore del progetto «Fame zero» del governo di Lula da Silva, va oltre: spara sul il sistema di aiuti internazionali che «regala» cibo ai paesi poveri («serve a aiutare l’agricoltura dei paesi donatori, distrugge la cultura locale, crea dipendenza, favorisce la corruzione di chi distribuisce gli aiuti») e difende uno sviluppo sostenibile basato sulle economie locali. La fame, in Brasile come in tutto il mondo, «non dipende dalla mancanza di cibo, perché quello c’è: quello che manca è la giustizia redistributiva». Ecco: contro la «colonizzazione globale», che ha la sua espressione culinaria nella «mcdonaldizzazione», Frei Betto auspica «slow food e giustizia urgente».
Da oggi dunque qui si parla di agricoltura, di risorse naturali, di diritti dei coltivatori, di riforme agrarie, di sviluppo dei piccoli mercati, di «filiere» produttive, di pace e di guerra («l’agricoltura ha bisogno di pace») – oltre che di varietà da valorizzare, di alimenti naturali o transgenici – contro cui ha spezzato una lancia ieri l’indiana Vandana Shiva. Si parla di quello che l’agroeconomo cileno Miguel Altieri ha definito il «modello della sovranità alimentare»: un’agricoltura basata sull’accesso ala terra e alle sementi, sui piccoli agricoltori da sostenere con credito e politiche di aiuto accorte, sulla piccola agroindustria, la moratoria sugli organismi transgenici, la battaglia contro i monopoli. A poca distanza da qui, al centro congressi del Lingotto, oggi comincia anche il Salone del gusto, appuntamento più tradizionale dello Slow Food: tenere insieme i due appuntamenti, ha detto Petrini, è stata «una scelta culturale: la buona qualità del cibo parte dai produttori».