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Tradotte dal bengali, sono uscite per Einaudi sotto il titolo La preda le storie della scrittrice indiana scelte da Anna Nadotti. In questi racconti, dove nulla blandisce il lettore, i drammi del mondo rurale brutalizzato dal governo
Silvia Albertazzi

Su The Hindu del 22 giugno si poteva leggere di una nuova emergenza agraria in India, che ha spinto al suicidio più di trecento contadini nelle ultime sei settimane nell’Andhra Pradesh, dopo aver già causato un numero imprecisato di morti per stenti nel corso di questo 2004. Fame e suicidi sono comunque all’ordine del giorno da lungo tempo tra la popolazione rurale indiana, e non sono da ascriversi tanto a occorrenze meteorologiche avverse, come la siccità, quanto a una cattiva politica agraria, che si può far risalire addirittura ai giorni dell’Indipendenza, nel 1947. Di tutto ciò, la letteratura indoinglese che troviamo in traduzione non parla, così come non parlano di queste tragedie i nostri quotidiani (ma raramente ne fanno cenno gli stessi giornali indiani). È però appena uscita da noi una raccolta di storie – tradotte, è bene rilevarlo, dal bengali e non dall’inglese – in cui questa India non esotica, non misteriosa, non frequentata dagli agenti e dai critici letterari occidentali, occupa il primo piano. La preda – titolo sotto cui sono riuniti sette racconti scelti da Anna Nadotti all’interno dei quarantadue volumi scritti da Mahasweta Devi nell’arco di mezzo secolo – è un libro che introduce il lettore in questo dissestato panorama rurale indiano, alle radici della tragica situazione che ha spinto e continua a spingere tanti contadini a opporre l’estrema protesta del suicidio a una società che non si è mai curata di loro.

 

Racconti non certo scritti “per far piacere ai lettori” (è la stessa autrice a dichiararlo) le storie di Devi colpiscono come un pugno allo stomaco la cattiva coscienza del primo mondo. “Dopo aver letto i miei lavori, il lettore dovrebbe affrontare la verità dei fatti, vergognarsi della vera faccia dell’India” – afferma Mahasweta Devi in un’intervista citata nella postfazione del volume. E aggiunge: “La mia esperienza mi fa essere perpetuamente arrabbiata, ci sono sfruttatori e forme di sfruttamento imperdonabili […] E dal momento che io credo nella collera, in una violenza giustificata, strappo la maschera all’India progettata dal governo, per denudarne la brutalità.” Racconti di rabbia, dunque, e di violenza, che riflettono l’impegno civile che ha caratterizzato tutte le battaglie combattute nell’arco di un’ormai lunga esistenza (è nata nel 1926) dall’attivista Devi, da sempre impegnata nella lotta contro ogni sorta di ingiustizia, a cominciare dai privilegi e dagli abusi castali, dalla sopraffazione arrogante su cui si regge il sistema feudale agrario.

 

Cresciuta nella borghesia privilegiata – padre intellettuale, madre assistente sociale – educata, come Tagore, Satyajit Ray e Amartya Sen, a Shantiniketan, prestigiosa scuola di utopiche convinzioni, laureata in letteratura inglese a Calcutta, Devi sceglie di scrivere in bengali tanto i suoi racconti e romanzi quanto i saggi e le opere teatrali, in cui sostiene con veemenza e infaticabile energia – la stessa che da sempre riversa nella propria attività sociale – i diritti degli aborigeni indiani (è fondatrice dell’Aborigenal United Association).

 

Visioni di un mondo tribale, senza edulcorazioni, le storie di Mahasweta Devi non chiedono la complicità del lettore, né la sua lode. Non vogliono stupirlo né blandirlo: gli domandano semmai una forte e lucida indignazione. Due forme di ignoranza si fronteggiano: quella rassegnata di un popolo spogliato persino della propria dignità e quella, violenta e superba, di chi detiene qualsivoglia forma di potere, dal padrone terriero al rappresentante dell’ordine, dal militare al latifondista. Ma soprattutto, Devi ci regala grandi figure femminili: donne del popolo non remissive, donne che resistono – come la Draupadi del primo racconto – all’uomo e al potere, e nel momento più crudele, quello dello stupro, con la loro stessa dignità feriscono l’aggressore; o figure come la Kunti dell’ultima storia, atemporale eppure viva creatura del mito.

 

Scrittrice da non confondersi con le indiane di lingua inglese le cui opere narrative pullulano sugli scaffali delle nostre librerie, Mahasweta Devi certo deluderà chi è alla ricerca dell’ultima Monica Ali, di un’altra Jumpa Lahiri o della prossima imitatrice di Arundathi Roy. Se le sue storie descrivono un mondo penosamente diverso da quello delle giovani scrittrici osannate dai recensori occidentali, e se il tessuto narrativo che le sostanzia, pur nel suo rimandare alla mitologia e al racconto popolare, è intrecciato di dati documentari, di fatti, di aspre denunce, la sua lingua non è solo “altra” dalla loro, in quanto lontana dall’inglese che esse adottano. È soprattutto – come sottolinea Anna Nadotti nella postfazione – un idioma in cui “lingue e dialetti, mescolandosi, assolvono allo stesso compito che i colori assolvono sulla tela”: raccontano, descrivono, rendono l’inesprimibile, danno voce (nel caso delle contaminazioni inglesi presenti nei testi) alla violenza del potere. Peccato che, nella traduzione, molto di questo vada perduto: non certo per difetto dell’ottima versione di Babli Moitra Saraf e Federica Oddera, ma per l’impossibilità di trasferire in un altro linguaggio la complessa intelaiatura linguistica del testo di Mahasweta Devi, dovendo operare, per forza di cose, riduttivamente. Così, se anche le traduttrici, invece che anteporre la leggibilità alla filologia, avessero agito in senso opposto, muovendo verso una resa filologica puntigliosa del testo, i risultati non sarebbero stati più in linea col dettato originario, né la fruizione dell’opera sarebbe risultata più agevole. Del resto, la scelta della leggibilità non si risolve, nel lavoro di Saraf e Oddera, in un appiattimento del racconto né in una serie di concessioni alla pigrizia del lettore occidentale, pronto a incasellare entro un immaginario orientalista (nel senso dato da Edward Said al termine) gli elementi della narrazione. Al contrario, nel testo di Devi l’attenzione è volta a sottolineare modi, situazioni e temi della narrativa della povertà e dello sfruttamento, comuni a ogni latitudine.

 

In questo senso, la traduzione di Mahasweta Devi assume per noi oggi un’enorme importanza. Non si tratta soltanto di prendere coscienza, attraverso i suoi racconti, delle miserie dei fuori casta indiani e neppure di comprendere la realtà tragica delle aree rurali del subcontinente. Se è vero che la narrativa di Devi riesce laddove hanno fallito i media, ovvero nel porre le grandi masse alfabetizzate a confronto con i mali della società tribale indiana, è ancor più certo che con le sue parole l’anziana scrittrice assolve in maniera emblematica a quello che, secondo Édouard Glissant, il grande scrittore e pensatore martinicano, è il ruolo fondamentale dell’artista: attirare l’attenzione su questioni che nessuno osa porre e verità che nessuno osa formulare.