Maggy, che salvò migliaia di bimbi dal machete
19 Maggio 2007
Toni Fontana
Maggy Barankitse è una donna straordinaria. Sorridente, solare, vestita con coloratissimi abiti burundesi, raffigura un’Africa carica di speranze, che non si arrende davanti alle tragedie. Quando si è trovata dentro la “guerra dei machete” è stata tra i pochi che hanno rifiutato la violenza etnica. Maggy non solo non si è schierata, ma ha scelto di abbattere gli steccati ed ha teso la mano alle piccole vittime dell’odio. Più di 10mila bambini di tutte le etnie sono passati dal 1994 nella “casa Shalom”, la struttura di accoglienza creata da Maggy in Burundi. Questo il suo racconto.
“Quando il presidente Ndadaye venne assassinato abitavo nel mio villaggio natale, sono tutsi come l’80% della popolazione di quella parte del Burundi. Subito, fin da giovane, mi ribellai alle ingiustizie sociali. Ero una privilegiata, ho potuto studiare. Quando diventai insegnante mi accorsi che gli alunni erano in maggioranza tutsi, denunciai questa ingiustizia e mi cacciarono dalla scuola. Quando sono tornata dalla Svizzera dove avevo studiato, ho iniziato a lavorare nei servizi sociali della Chiesa a Ruyigi, presi con me dei bambini, sia hutu che tutsi, non li avevo adottati ufficialmente, pagavo i loro studi. Iniziò la repressione (dei militari Nrd) andai all’arcivescovado, incontrai intellettuali hutu che vivevano nel terrore. Allora non capivo la profondità dell’odio che mi circondava. Ho nascosto degli hutu all’arcivescovado. Tutti fuggivano, il terrore si diffondeva anche a Ruyigi. Ho detto agli hutu di nascondersi. Una mattina sono venuti per uccidere, dapprima hanno lanciato le pietre, poi sono entrati. Mi hanno legato ed hanno versato benzina ovunque. Ho detto loro: “Il fatto che abbiano ucciso dei tutsi non giustifica la vostra vendetta. La vita è sacra”. Davanti a me hanno assassinato 72 persone. Erano quasi tutti hutu, ma tra loro c’erano due donne tutsi. Una era una mia amica. Era sposata con un hutu, gridò: “non uccidete mio marito”. Le dissero: “Morirai anche tu”. In braccio aveva Lidya, una bimba di tre anni, me l’ha gettata tra tra le braccia. Poi è stata decapitata”.
Maggy si alza, cerca il telefonino, mostra la foto di una bella ragazza sorridente: “Ora vive con me”. Poi riprende il suo racconto: “Ho nascosto altri 25 bambini nella sacrestia del vescovado. In quella ore tragiche ho capito che avevo una missione da compiere, noi, hutu e tutsi dobbiamo vivere assieme; in Burundi si deve affermare una nuova generazione, la protezione reciproca deve prevalere sulla separazione. Quel 24 ottobre sono fuggita come gli altri, sono andata da alcuni cooperanti tedeschi per chiedere aiuto. All’indomani sono arrivati alcuni bambini, anche tutsi, feriti con i machete. I cooperanti tedeschi ci aiutavano: la gente sapeva che mi avrebbe trovata da loro, il governo della Germania ha inviato un elicottero in soccorso. Con me c’era ormai 100 bambini, il vescovo mi ha dato una scuola abbandonata, noi l’abbiamo restaurata con l’aiuto di molti, anche italiani. Poi ho aperto la “casa della pace”: i volontari italiani che partivano mi hanno lasciato le loro abitazioni. Ho creato altri piccoli centri dove accoglievo bambini hutu e tutsi. La prima casa l’abbiamo chiamata “maison Shalom”, la seconda “casa della pace”, la terza “oasi della pace””.
“Successivamente abbiamo aperto un centro nella capitale Bujumbura e in altre città. Nelle nostre strutture i bambini trovano un’occasione per recuperare un’identità, apprendono un messaggio di riconciliazione, vengono educati alla pace. Noi non vogliamo creare nè ghetti nè orfanotrofi. Ora – prosegue Maggy mostrando alcune foto che riprendono una struttura in costruzione – vogliamo realizzare un grande ospedale per dare alle donne la possibilità di vivere, di non morire, di salvare i loro bambini. Noi cerchiamo di creare una “colonna vertebrale” della società civile, di ridare dignità a chi ne è stato privato, il nostro obiettivo è la riconciliazione, alcuni bambini sono andati dai loro genitori ed hanno detto loro: perdonate. Nel film che abbiamo realizzato gli “attori” sono Gandhi, Mandela, Martin Luther King. Gli aiuti che riceviamo servono solo ed esclusivamente per far sì che i bambini possano vivere dignitosamente, diventino i protagonisti della riconciliazione. Noi dobbiamo voltare pagina, avere speranza. In Burundi abbiamo 800mila orfani della guerra e dell’Aids, su una popolazione di 7 milioni”.
Qual è – chiediamo – l’origine dell’odio? “La cattiva gestione politica, io sono tutsi, ma mi sono sempre opposta all’umiliazione degli hutu. In un Paese nel quale l’80% della popolazione è hutu, per 40 anni vi sono stati presidenti imparentati tra loro”.
Crede – chiediamo – che il colonialismo porti responsabilità per quanto è accaduto nel suo paese? “Sì, quaranta anni dopo abbiamo finalmente capito di essere stati ingannati, i colonialisti hanno considerato noi tutsi la “razza eletta”, dicevano che sono belli ed intelligenti e che dunque non meritavano di essere neri. I tutsi si sono convinti che ciò era vero, gli hutu hanno maturato un complesso di inferiorità, dunque alla base di tutto vi è una gestione politica errata che ha puntato sulla appartenenza etnica. In Ruanda il presidente (hutu ndr) Habyrimana ha osato dire, prima del genocidio, che i tutsi non potevano tornare perchè il Paese era troppo piccolo. In Burundi, 13 dei 15 governatori delle province provenivano dalla stessa regione. E poi, ma non da ultimo, ci sono le ingiustizie profonde che permangono nel nostro Paese. Se la gente ha di che vivere, se può mandare i figli a scuola e può permettersi le cure negli ospedali non pensa ad uccidere il proprio vicino. Nelle nostre strutture ci sono bambini hutu ruandesi, bambini tutsi ruandesi, bambini congolesi. Alla ripresa delle scuole, in settembre, noi manderemo più di 15mila bambini, permetteremo ai bambini poveri di frequentare le lezioni, abbiamo sviluppato piccole attività, una panetteria, un atelier per parrucchiera”.