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Subcomandate insurgente Marcos

Secolo XXI. Il nuovo secolo ripete in alto la vocazione del suo predecessore: le proposte politiche trovano fondamento nel dominio e nell’esclusione dell’altro. Che cosa c’è di nuovo? Come prima, oggi si ricorre alla guerra, alla menzogna, alla simulazione, alla morte. (…) Il progetto di mondo del neoliberismo non è altro che una riedizione della torre di Babele.(…) Il neoliberismo tenta di fare la stessa costruzione, ma non per raggiungere un cielo improbabile, bensì per liberarsi una buona volta della diversità, che considera una maledizione, e per assicurare al potere che mai cesserà di esserlo. (…) Il nuovo dio del denaro ripete la maledizione originaria ma all’inverso: sia condannato il diverso, l’altro. Nel ruolo dell’inferno: il carcere e il cimitero. Il boom dei profitti delle grandi imprese transnazionali è accompagnato dalla proliferazione di prigioni e camposanti. Nella nuova torre di Babele, il compito comune è l’omaggio a chi comanda. E colui che comanda lo fa solo perché supplisce alla mancanza di ragione con un eccesso di forza. (…)

 

Se nella torre di Babele della preistoria l’unanimità era possibile con la parola comune (lo stesso linguaggio), nella storia neoliberale il consenso si ottiene con gli argomenti della forza, le minacce, l’arbitrio, la guerra.

 

Posto che vivere nel mondo significa farlo in contiguità con il differente, le opzioni che abbiamo sono tra essere dominante o dominato. Per il primo ruolo la quota è esaurita e farne parte è ereditario. In cambio, per il ruolo di dominato ci sono sempre posti liberi e l’unico requisito è rinnegare la differenza o nasconderla.(…)

 

II. La geografia delle parole

 

Se la preistoria è terminata tre anni o venti secoli fa non sembra importare molto. Là in alto, quelli che sono il potere e il destino, si impegnano a convincerci che la storia si ripete, checché ne dicano i calendari. L’annullamento del differente è una moda sempre di attualità. E benché, nell’essenziale, non ci sia nulla di differente tra le catapulte dell’Impero romano e le «bombe intelligenti» di Bush, adesso il progresso tecnologico funziona come il nuovo cappellano delle truppe di occupazione (dipinge di bontà quel che non cessa di essere un crimine a distanza) e come lo scenografo dello spettacolo (i bombardamenti in televisione si trasformano in intrattenimento pirotecnico «affascinante»: Cnn dixit). (…)

 

Dove mancano le ragioni, pullulano i dogmi. Il primo dogma appoggia la causa, poi la deforma e la trasforma in destino. Nel cannocchiale del potere, l’orizzonte è sempre lo stesso, immutabile ed eterno. La lente del potere è uno specchio. Il differente sarà sempre inatteso e all’inatteso sempre si opporrà la paura. E la paura sempre si farà forte del dogma per schiacciare l’inatteso. Nel cannocchiale del potere, il mondo è piatto, sbiadito e sudicio. (…)

 

III. La geografia del potere

 

(…) Coloro che abitano nel nord non si trovano nel nord geografico, ma nel nord sociale, vale a dire che stanno sopra. Coloro che vivono nel sud, stanno sotto. La geografia si è semplificata: c’è un sopra e un sotto. Il luogo di sopra è stretto e ci entrano solo alcuni. Quello di sotto è tanto grande da comprendere qualunque luogo del pianeta, e offre posto a tutta l’umanità.(…)

 

Nell’epoca moderna, il potere conduce guerre multiple di conquista. E non mi riferisco a «multiple» nel senso di «molte», ma nel senso di «in molte parti e in molte forme». (…)

 

Oggi, i civili in Iraq, uomini, bambini, donne e anziani, all’improvviso hanno qualcosa in comune con il prospero manager nordamericano. Questi fabbrica missili Cruise, quelli li ricevono. Gli eserciti di Stati uniti e Gran Bretagna sono solo gli amabili postini che uniscono due punti tanto lontani geograficamente. Così che dobbiamo ringraziare persone come Bush, Blair e Aznar per essersi presi il disturbo di nascere nella nostra epoca. Senza persone come loro, sarebbe impensabile, la geografia moderna. Ma questa guerra non è contro l’Iraq, o non solo contro l’Iraq. È contro ogni tentativo, presente o futuro, di disobbedire. È una guerra contro la ribellione, vale a dire contro l’umanità. È una guerra mondiale nei suoi effetti e, soprattutto, nel NO che gli effetti provocano.

 

IV. Il destino di Polifemo

 

(…) Le mobilitazioni in tutto il pianeta, tra altre cose, provano che questa è una guerra contro l’umanità. Se c’è qualcuno che ha inteso bene che l’Iraq si trova oggi in qualunque parte del pianeta sono i giovani. Mentre altri guardano una carta geografica e si consolano misurando le migliaia di chilometri che separano Baghdad dalle loro case, i giovani hanno compreso che le bombe (quelle esplosive e quelle della disinformazione) non vogliono solo distruggere il territorio iracheno, ma il diritto ad essere differente.

 

E quando un giovane dipinge un «No» su un cartello, su un muro, in un quaderno, in una voce, non sta solo dicendo «No alla guerra in Iraq», sta anche dicendo «No alla nuova torre di Babele», «No alla omogeneità», «No all’egemonia». Perché i giovani ribelli usano il »No» come pennello, e tenendolo in mano e nello sguardo dipingono e prevedono un’altra geografia.

 

Come il ciclope della letteratura greca, Polifemo, il potere fa dell’odio verso il differente il suo unico occhio. È in verità molto forte, e sembra invincibile. Ma, come già a Polifemo, un fantasma chiamato «Nessuno» lancia una sfida al potere. Perché, quando il potente si riferisce agli altri, con disprezzo li chiama «nessuno». E «nessuno» è la maggioranza di questo pianeta. (…)

 

Nel mondo che sta per nascere, (…) quando qualcuno chiederà: «Chi ha fatto questo mondo?», la risposta sarà: «Nessuno».

 

E per prevedere questo mondo e cominciare a costruirlo, è necessario vedere molto lontano nella geografia del tempo. Chi sta in alto ha la vista corta e si sbaglia, quando confonde uno specchio con un cannocchiale. Chi sta in basso, «nessuno», non deve nemmeno mettersi sulla punta dei piedi, per indovinare quel che seguirà. Perché il cannocchiale del ribelle non serve neppure per vedere qualche passo più in là. Non è che un caleidoscopio in cui le figure e i colori, complici le une e gli altri con la luce, non sono attrezzi da profeta, ma una intuizione: il mondo, la storia, la vita avranno forme e modi che non conosciamo ancora, ma che desideriamo. Con il suo caleidoscopio, il ribelle vede più lontano del potente con il suo cannocchiale digitale: vede il domani. I ribelli camminano nella notte della storia, sì, ma per arrivare al domani. (…)

 

I ribelli non cercano di emendare la pagina o riscrivere la storia perché cambino le parole e la ripartizione della geografia, semplicemente cercano una nuova mappa, in cui vi sia spazio per tutte le parole. Una mappa in cui la differenza tra i modi di dire «vita» non sia nella bocca di chi li pronuncia, ma nella totalità di coloro che si esprimono. Perché la musica non si compone di una sola nota, ma di molte, e il ballo non è un solo passo ripetuto fino al disgusto. Così, la pace non sarà altro, se non un concerto aperto di parole e di molti sguardi su un’altra geografia…

 

Dall’Iraq delle montagne del sud-est messicano, e vedendo il cielo oscurarsi di aerei ed elicotteri militari della Operación Centinela, marzo del 2003. (Il testo sarà pubblicato integralmente nel prossimo numero di Carta)