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di Assia Baudi di Selve

Nel giorno del suo funerale nessuno potrà vestirsi di nero. Ci saranno tre cerimonie che si svolgeranno contemporaneamente a Belgrado, Amsterdam e New York. E se qualcuno sarà tentato di commuoversi, sulle note di My Way di Frank Sinatra, dovrà trattenersi. Sissignore, niente lacrime. E’ una richiesta che ha l’arroganza di un ordine, accettabile solo perché a farla è lei, una che gli ordini li ha dati per tutta la vita prima di tutto a se stessa. Marina Abramovic ha ordinato a Marina Abromovic di gettarsi tra le fiamme e rimanerci sino a soffocare, di ballare al ritmo di tamburo fino allo svenimento, di incidersi una stella a cinque punte sulla pancia e sanguinare, le ha ordinato di rimanere per dieci ore al giorno su una montagna di ossa bovine sporche di residui di carne e sangue, per pulirle una alla volta, e guadagnarsi il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1977. Marina Abramovic ha ordinato a Marina Abramovic di resistere per dodici giorni e dodici notti nella galleria Sean Kelly di New York nel 2002, senza mangiare, con gli occhi fissi in quelli del pubblico, affinché ognuno potesse vedere riflessa in lei la propria vulnerabilità, ma anche la propria capacità di resistenza. Le ha ordinato di pensare sempre alla situazione più pericolosa e realizzarla. Durante le sue performance ha spesso rischiato la vita. E dopo trentacinque anni di arte estrema è ancora qui. Il titolo della sua retrospettiva prevista al Moma nel 2010 parla chiaro: The Marina Abramovic foundation for preservation o: The artist in present. E lo sarà anche dopo: Perché se ha già deciso tutto del suo funerale, ha già deciso anche quel che lascerà in eredità f performance art.
Quasi duemila metri quadrati in ristrutturazione a Hudston, a due ore da Manhattan, che saranno pronti nel 2010 dopo la mostra del Moma. Io donna è andata a trovarla a New York, per farsi raccontare in anteprima “il progetto della sua vita”. E scoprire quale è, se esiste, il confine trea coraggio e follia.
Quando arrivo all’appuntamento, la trovo in piedi, davanti Al computer. Gira la testa, mi saluta e guarda l’orologio. <<Sei in anticipo>>. Sì. Di cinque minuti. Il suo Ufficio di Mildtown è un oper space grane quanto basta per due scrivanie, due computer bianchi ultrasottili, un tavolo da riunioni. Luminoso, ordinatissimo. Lei è vestita di nero, con ballerine a scacchi, capelli corvino, sessantuno anni invisibili sulla pelle bianca. Ha il corpo forte, i tratti marcati, e un’inaspettata morbidezza nei gesti e nella voce. Quando le chiedo di raccontarmi la sua storia dall’inizio e spiegarmi come l’essere cresciuta nella Belgrado socialista abbia determinato la sua vita e il suo lavoro, indica il ritratto di Tito alle sue spalle.
E parla del padre: <<Un Eroe>>. Un ero della resistenza che ha combattuto contro i tedeschi quando la Serbia era diventata un satellite della Germania nazista. <<Da lui ho imparato che puoi realizzare qualunque cosa: E mi ha trasmesso l’idea che la vita che la vita va vissuta in modo leggendario. Da mia madre invece, ho imparato la disciplina: se devi fare una cosa la fai, anche a costo del dolore fisico>> . Ha gli occhi concentrati, con qualche traccia di sofferenza sul fondo. Le chiedo se le piacerebbe essere definita un’artista soldato. Risponde di no, abbassa lo sguardo e quando sembra che stia pensando ad altro corregge: <<Sono un’artista guerriero>>.
Oggi l’artista guerriero marcia in fretta, come si marcia in fretta a New York. La sua missione è quella di trovare 10 milioni di dollari per portare a termine il suo progetto entro settembre del 2010, determinata ad adempiere l’altro comandamento: diventare leggenda. O per lo meno, cercare di passare alla storia, consacrandosi con una fondazione a suo nome. Ha venduto la sua casa di Amsterdam, dove ha vissuto per ventisei anni dopo aver lasciato Belgrado nel 1967, e con 950.000 dollari della vecchia ha comprato il palazzo degli anni Trenta dove nascerà la Fondazione. Il progetto dell’architetto Tennis Wedlick prevede due auditorium, di cui uno immenso con 1.700 posti, una libreria con archivi video e un caffè. <<Sarà il luogo dove voglio che venga dimenticato il tempo, dove si assisterà solo a performance che dureranno ore>>. Parola d’ordine: resistenza. Quella dei performer, e quella del pubblico. Ha previsto di invitare cinque artisti residenti l’anno, di esibirsi lei stessa e insegnare.
Una delle sue lezioni consiste nel rimanere cinque giorni nei boschi senza mangiare né parlare.
Il suo credo <<L’arte deve essere una deviazione dalla normalità. Un rischio mentale. Perché solo confrontandosi con l’imprevisto e la paura ci si può evolvere>> Ha mai avuto paura di spingersi troppo oltre, di perdere il controllo, d’impazzire? La parola follia sembra non fare eco in nessuna parte di lei. Con la matita rafforza le lettre di alcune parole scritte sul foglio davanti a sé. <<Nelle mie performance sono qui e ora. Incredibilmente presente>> Poi con la piccola matita traccia un cerchio, e un punto al centro. Lei è il punto. La perdita del suo centro, l’unica cosa che forse può essere chiamata follia. Marina Abramovic l’ha sperimentata solo una volta, nella performance più lunga della sua vita: la relazione di dodici anni con Ulay, suo alter ego nell’arte e nella vita. <<Avevo messo il mio centro nel suo: E quando mi ha lasciata ho perso me stessa>>.
A dimostrazione che il tallone di Achille degli eroi è sempre e comunque l’amore. La disperazione però, se l’è concessa solo dopo aver realizzato con lui l’azione più drammatica della sua vita, nel 1988: lui è partito da un’estremità della Muraglia cinese, lei dall’altra. Hanno camminato per tre mesi per raggiungersi a metà strada e dirsi addio. Sotto gli occhi di una telecamera, naturalmente. Riprende la matita e disegna un altro centro accanto al suo e con voce sempre più calma spiega: <<In una storia d’amore i centri devono rimanere separati. E’ una lezione importante, io l’ho imparata a caro prezzo>>. Per poi metterla in pratica con l’artista Paolo Canevari.
Stanno insieme da undici anni. Vivono tra il loro loft di Soho e una splendida casa non lontano da Hudson, tutta grandi vetrate e legno, a forma di stella. Frequenta la New York di Francesco Clemente, Matthev Barney e Lou Reed. Ma quando lui due anni fa le ha chiesto di sposarlo, erano <<davanti al supermercato, sotto la pioggia, con le buste della spesa>>. Come due comuni mortali: Poco prima della fine dell’intervista chiede a Davide Balliano, il suo efficientissimo assistente, di mostrarmi delle fotografie sul computer: lei con un vestito azzurro di Givenchy in un fiume del Laos. Vorrebbe che Io Donna le pubblicasse, <<perché in queste fotografie mi trovo bella>>: Poi me ne fa vedere un’altra, scattata da suo marito. La ritrae avvolta in un telo di raso stropicciato seduta a terra in modo regale, con un neonato nudo sul ginocchio. Lo indica. Madonna contemporanea forte e fiera. Le chiedo perché non ha mai avuto figli. Risponde. <<Ho deciso che non ne avevo bisogno>>: Sulla fotografia Gesù è femmina: E allora capisco. Marina Abramovic, generata, non creata, da Marina Abramovic.