L’arte in silhouette
libreria
12 Dicembre 2006
Arianna Di Genova
L’ombra come doppio, luogo della produzione fantastica e “isola” felice dell’identità. Sotto la sua protezione, l’alone misterioso che sparge intorno ad ognuno di noi, vivono storie e passioni. È lì che paure, non detti, miraggi e visioni, come spiega nel suo testo in catalogo Lea Vergine, curatrice della mostra al Palazzo delle Papesse dal titolo D’ombra, finiscono per essere proiettati, diventano accadimenti, scure percezioni di mondi altri.
Il tema proposto in questa rassegna – prossima tappa al Man di nuoro – è piuttosto ambizioso e di non semplice trattazione: come “gestire” l’ombra nell’arte contemporanea? Solo con un’assenza che racconta per ellisse? La scelta è caduta su una suggestione: quella tendenza ad una realtà popolata di fantasmi, rimozioni e incantesimi luminosi che rimanda a volte alle lanterne magiche, altre all’impossibilità di definizione esatta di un universo oggettivo. Ombra come finzione, dunque o, meglio, come indizio svaporato fra ciò che si vede e ciò che si intuisce. Entrando alle Papesse di Siena, si viene subito accolti dall’installazione di Ann Hamilton, un vestito da derviscio rotante che “vola” nello spazio, privo di qualsiasi corpo che lo indossi. È una dichiarazione di intenti che non lascia dubbi: la partita fra ombra e luce, tangibilità e sparizione, verrà giocata, da qui in poi, in una dimensione intima, a tratti malinconici. Seguendo principalmente due linee teoriche: l’ombra temporale, fisica e quella dell’apparenza delle cose. A rinforzare la prima impressione interviene anche la scelta di un’artista come la praghese Jana Sterbak (vive e lavora in Canada) e della sua corazza telecomandata, simulacro di un corpo che non c’è più ma che ha abitato quello spazio, privo però di ogni controllo razionale e completamente affidato agli automatismi della tecnologia.
La mostra, con il suo allestimento labirintico, fa perdere ogni punto di riferimento e immerge lo spettatore in un ambiente “umbratile” che invita ad esplorazioni interiori, viaggi negli inferi, coraggiosi itinerari verso il nulla e l’immateriale. A guidarci, ci sono le fotografie ritratto di Francesca Woodman, clonazioni di identità improvvisate da sagome nere ma anche il trompe-l’oeil di Gino De Dominicis, artista che ha sempre sottolineato la mancanza degli oggetti nei suoi quadri, lasciando solo impronte.
L’evanescenza che si solidifica in una azione tanto da divenire un loop – l’uomo/silhouette che batte sui tasti – è invece il soggetto del video Typist di William Wegman con il conseguente disagio che si prova a visitare le sale di un museo in compagnia di un fantasma silenzioso ma molto affaccendato.
Ironia, memoria, ricordi, biblioteche digitali stipate in una sorta di caverna platonica delle idee: è la materia psichica che emana dall’installazione di Gary Hill, I Believe It Is an Image in Light of the Other. Prelude ad inquietanti sdoppiamenti di personalità questa full immersion al buio totale, alla scoperta di tesori perduti, pagine e scritture segrete. Per Christian Boltanski è stata allestita una vera e propria cripta: è lì che si sprigionano le figurine di Candles, tremolanti acrobati impegnati in danze tribali intorno al fuoco.
Il mondo sottosopra è la firma “ombrosa” di Fiona Tan che divide l’immagine in due, rovesciandola e facendo trasmigrare la stessa sostanza – cioè l’aria – in entrambe. Così anche l’anglopalestinese Mona Hatoum che non parte da terra ma dal soffitto. In una stanza dai toni infantili, troneggia una lampada che fa giochi di luci e di ombre. S’inanellano sulle mura cornicette di stelline, molto natalizie, intervallate però da soldati con mitra. Sagome di guerra rincorrono i sonni dei bambini, ingoiando la Storia recente in un vortice di tensione.