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di Serena Tarabini


Máxima Acuña, la contadina peruviana simbolo mondiale delle lotte contro l’estrattivismo: «Ricevo minacce di morte, ma credo che grazie all’unità delle lotte si possa vincere contro il potere»

Con il suo metro e mezzo scarso di altezza e la sua voce mite, la contadina peruviana Máxima Acuña da più di dieci anni sta tenendo testa a un colosso minerario. Difende un bene ancora più prezioso dell’oro di cui l’industria estrattiva va a caccia senza scrupoli: il suo diritto a esistere e la salute dell’ambiente. La sua origine è umilissima: nata a Sorocucho sulla Cordigliera andina nel 1970, è cresciuta nella casa dov’è nata, con i genitori, anche loro contadini, persone semplici che come lei non sapevano né leggere né scrivere ma che le hanno insegnato a lavorare la terra e a convivere con la natura. Il terreno dove si trova la sua casa e vive con la famiglia, il marito e quattro figli, è l’unica cosa che possiede; si nutre dei prodotti da lei coltivati, beve l’acqua della laguna che alimenta il suo terreno e lavora la lana delle sue pecore per realizzare vestiti e artigianato da vendere. Una vita, la sua e quella di migliaia di altri campesinos che non vale nulla di fronte alla sete di profitto di una multinazionale. Suo malgrado è diventata una famosa attivista e simbolo di resistenza, insignita di premi e riconoscimenti, chiamata da ogni parte a raccontare una storia che non è ancora finita e che riguarda tanti. È venuta di recente in Italia dove fra le altre cose ha partecipato a GEA, la scuola di giustizia ecologica e sociale che si è tenuta a Trevignano.

Quando e perché è iniziata la sua lotta?

La mia lotta è iniziata nel 2011 quando le imprese Yanacocha del Perù e Newmont degli Stati Uniti hanno iniziato a invadere il nostro territorio con i loro macchinari per espandere la loro attività estrattiva. Hanno convinto tutti i nostri vicini a vendere le loro terre anche se in realtà è come se gliele avessero rubate perché sono stati intimiditi e minacciati e alla fine hanno ricevuto una somma molto minore del reale valore delle loro terre. Noi non abbiamo accettato i soldi in cambio della vendita perché crediamo che la terra abbia un valore che non si può quantificare ed è l’unico bene che possediamo. Noi ci sentiamo i custodi della terra.

La società mineraria Yanacocha vuole realizzare un imponente e controverso progetto di estrazione di oro e di rame dal nome “Conga”. Un investimento di 5 miliardi di dollari che mira a creare una miniera estesa per oltre 20 km². Con quali conseguenze per il territorio e chi lo abita?

La realizzazione del progetto Conga porterebbe alla distruzione di migliaia di ettari di territorio andino: l’estrazione dell’oro rilascia metalli tossici nella terra che noi coltiviamo, prosciuga le più di venti lagune che forniscono l’acqua che noi beviamo e utilizziamo per irrigare i nostri campi, rilascia polveri nell’aria che respiriamo. Alcune di queste lagune sono l’unica fonte di acqua per gli abitanti di Celendín e Cajamarca. Inoltre per noi queste lagune non hanno un valore solo materiale, ma anche simbolico importantissimo. L’elemento liquido dell’acqua nella cosmovisione andina è centrale, l’acqua ci dà la vita, senza l’acqua nessuno potrebbe vivere. La gente della città deve pagare per bere l’acqua, noi campesinos prendiamo l’acqua dalle fonti di acqua pura, non dobbiamo pagare niente. Quest’acqua, l’acqua della Pachamama (madre terra in quechua, la lingua andina) dà vita anche a tutte le persone nella città perché arriva dalle lagune.

In che modo il conflitto con l’impresa mineraria ha condizionato e danneggiato la sua vita? Quali minacce ha ricevuto?

Abbiamo subito maltrattamenti fisici e psicologici. Siamo stati picchiati dalle forze di polizia locali, su pressione della società mineraria abbiamo subito uno sfratto illegittimo, siamo stati denunciati ingiustamente di invasione di terreno. Ci è stato reso difficile coltivare, abbiamo visto uccidere i nostri animali, i raccolti della nostra terra sono stati rubati. Abbiamo trovato la nostra casa distrutta in più occasioni, una volta anche il tetto e i pannelli solari e la videocamera che avevamo istallato per registrare i soprusi di cui eravamo vittime. La nostra libertà di movimento è limitata perché non possiamo più uscire ed entrare in casa senza essere identificati dai check-point che l’impresa ha insediato. Inoltre, è partita contro di me e la mia famiglia una campagna pubblica di diffamazione in cui si sostiene che siamo dei bugiardi e dei pazzi che si oppongono allo sviluppo. In questo modo hanno convinto i vicini di casa a non avere nessun tipo di relazione con noi. Un’altra conseguenza è che a causa di questa nomea non possiamo trovare lavoro. Non abbiamo più privacy, pace, tranquillità nella nostra casa perché con i loro macchinari sono arrivati sui confini della nostra terra, nel cielo sopra di noi vola un drone, siamo circondati dalla polizia e dalla loro vigilanza privata che ci controllano e che sono corrotti dall’impresa. Ci hanno proibito di andare nelle lagune della nostra terra, hanno anche distrutto i documenti che attestano che la proprietà della terra è nostra.

Nel 2014 la Corte Suprema della regione l’ha prosciolta dall’accusa di occupazione illegale, nel frattempo la sua lotta è diventata nota a livello internazionale, nel 2016 ha vinto il premio Goldman, il più importante per l’ambiente a livello mondiale, una sentenza recente della Corte di Giustizia regionale (agosto 2024) ha accolto la richiesta di fermare il progetto a causa dei danni che provoca all’ambiente; tuttavia la battaglia non è finita.

Io devo ancora lottare insieme alla mia famiglia. Continuiamo a ricevere minacce di morte e a essere mandati in prigione, le denunce non si fermano. Siamo molto più soli e abbandonati, perché la gente dei villaggi che prima ci appoggiava ora è sparita, sono stati intimiditi dalle imprese coinvolte. Il processo giudiziario non è ancora terminato e noi non abbiamo le risorse economiche per seguirlo fino alla fine. Ma il pericolo più grande rimane quello della vita: è un rischio molto concreto, molte volte questo tipo di problemi è stato risolto in questo modo e nessuno lo è venuto a sapere oppure nessuno ha pagato per questo.

In che modo andare avanti? Di cosa c’è bisogno per vincere questa battaglia definitivamente?

L’unico modo è l’unità; un’alleanza fra autorità, organizzazioni, politici, giovani e anche le altre donne che lottano. Penso che questa possa essere la strada per vincere contro questi poteri. Per questo ho accettato l’invito della Scuola Gea di venire a Roma, per tessere nuove alleanze e costruire una rete di lotta comune. Sono molto grata alla scuola Gea perché con loro ho potuto incontrare il partito di Sinistra Italiana e dei Verdi che si sono impegnati a sostenere le mie spese legali e a portare il mio caso nella commissione esteri del Parlamento italiano. Ho incontrato anche il Dicastero dello Sviluppo umano integrale della chiesa di Papa Francesco e loro si sono impegnati a mettermi in contatto con il vescovo di Cajamarca. Solo lottando insieme le ingiustizie contro la mia famiglia e la distruzione di Madre Terra termineranno. La nostra lotta non riguarda solo la nostra terra, ma anche quella di coloro che vivono nelle città e pensano solo ai soldi: la fame un giorno arriverà anche lì, e allora che faremo? Dobbiamo lottare non solo per noi, non solo per voi, ma per il Pianeta intero.


(il manifesto – Extraterrestre, 26 settembre 2024)