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di Marta Ragozzino


Alla Libreria delle donne di Milano si possono trovare tutte le edizioni originali (i “libretti verdi”) delle opere di Carla Lonzi e degli scritti di Rivolta Femminile.

La redazione


«Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente». Con queste perentorie parole si chiude Sputiamo su Hegel, forse il più noto scritto di Carla Lonzi (1931-1982), storica e critica d’arte assai acuta, poi filosofa femminista radicale, il cui pensiero non convenzionale è all’origine del femminismo della differenza sessuale. Annarosa Buttarelli, nel suo recente Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Milano, Feltrinelli 2024, un breve ma denso profilo intellettuale e politico, pubblicato nella collana Eredi a cura di Massimo Recalcati, scrive che il rivoluzionario testo, stampato nell’estate del 1970, rappresenta per la sua autrice «il primo pericoloso passaggio – in pubblico – verso la liberazione». Proprio quell’estate, Lonzi aveva fondato, con la pittrice Carla Accardi e la giornalista e attivista Elvira Banotti, il movimento Rivolta femminile, il cui manifesto in sessanta punti aveva tappezzato i muri di Roma e poi di Milano. Liberarsi dall’hegeliano rapporto servo-padrone, riportato alla millenaria oppressione della donna da parte del patriarcato, è uno dei nodi della filosofia della trasformazione di Lonzi che, attraverso autocoscienza, deculturazione e rivolta femminile, voleva letteralmente «sputare Hegel fuori da sé», e fuori dalle altre donne trasformate. «La donna così com’è è un individuo completo», scriveva Lonzi, «la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».

Parole chiare, e forse scomode, soprattutto allora, che hanno distinto un pensiero filosofico d’avanguardia, molto amato e negli anni costantemente approfondito. 

Non pochi sono stati infatti i contributi di studiose femministe, storiche dell’arte, critiche o filosofe, prevalentemente donne, che hanno affrontato l’opera mirabile (e ineludibile) di Lonzi, avvicinandola dal lato filosofico o da quello della critica d’arte. Dalle prime ricerche sul femminismo di Maria Luisa Boccia negli anni ’90 (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano 1990), fino ad arrivare, appunto, a quelle attuali di Buttarelli, secondo la quale Lonzi è la pensatrice femminista più amata al mondo. Certamente è impossibile immaginare la storia del femminismo in Italia senza di lei. 

Su questo non si può non concordare, al di là delle specifiche passioni, o appropriazioni, scatenate da un pensiero filosofico tanto originale e al contempo rigoroso e concreto, che accende l’interesse anche delle nuove generazioni di giovani irriducibili, che oggi rifiutano ogni forma di patriarcato e pretendono confidenza con le parole e le forme più feconde del femminismo del passato. Anche per questo, forse, si stanno ripubblicando le preziose opere, ciclicamente irreperibili, della prima e della seconda Lonzi, la critica d’arte e la filosofa femminista, grazie all’iniziativa della casa editrice La Tartaruga (con la supervisione e cura proprio di Buttarelli), che segue il precedente sforzo di Sandro D’Alessandro e della sua Et al./edizioni, che aveva già riproposto, tra 2010 e 2011, diversi titoli dell’autrice, di nuovo esauriti in tutte le edizioni (o con prezzi alle stelle su e-bay).

Io sono stata fortunata, ho ritrovato in casa la prima edizione di Sputiamo su Hegel, quel piccolo libretto con la copertina verde degli Scritti di Rivolta femminile, la casa editrice fondata da Lonzi, testimonianza aurorale del femminismo di mia madre, Grazia Centola, che poi la intervistò nel 1981 per “Quotidiano donna”, il suo giornale. Proprio quel «sottile libretto verde» che, scriveva mia madre, «ha aperto a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano». Molto lontano. Attraverso una profonda irrinunciabile trasformazione del modo di pensare e di essere delle donne, della cultura borghese dalla quale spesso provenivano, del marxismo e del loro stesso fare politica, anche attivamente, nei partiti o gruppi della sinistra, della psicanalisi, della famiglia e semmai dei figli, dei rapporti uomo-donna, ma anche tra donne, del proprio corpo, dei desideri, della sessualità. 

La conversazione, intitolata “Con il problema dell’uomo alle spalle”, verteva sull’ultimo libro di Lonzi, intitolato Vai pure, allora da poco pubblicato sempre da Scritti di Rivolta femminile, spregiudicata analisi a due voci del rapporto di coppia che, nei diciassette anni precedenti, aveva legato Lonzi allo scultore Pietro Consagra, al quale, alla fine del lungo dialogo registrato con il magnetofono (che è anche, di nuovo, un discorso sull’arte e nell’arte e soprattutto sul potere, oltre che il “verbale di un fallimento spaventoso”), Carla appunto dice “vai pure”. «E dopo, dopo cosa succede?», chiedeva mia madre, «Non voglio sapere come finirà, perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non sarà più congeniale per me riprendere il cammino da sola per una esplorazione finale della mia vita». 

Era un discorso lungimirante, benché animato, ora capisco, da un profondo rovello. Ma purtroppo, fatta ancora una volta tabula rasa, non ci fu più tempo, Lonzi, che era stata male negli anni Sessanta, si ammalò di nuovo e morì, a Milano, l’anno successivo, con Consagra al suo fianco. 

La nuova collana promossa dalla casa editrice fondata nel 1975 da Laura Lepetit, che fu molto vicina a Lonzi e alle sue compagne nei primi anni Settanta, oggi della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi e diretta da Claudia Durastanti, è stata aperta, l’estate scorsa, proprio dal volume Sputiamo su Hegel e altri scritti, che raccoglie i primi scritti femministi di Lonzi, pubblicati nei “libretti verdi” e poi stampati in unico volume nella medesima collana nel 1974. Quello del 1970 che dà il fulminante titolo all’intero libro, il successivo e forse ancor più radicale La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971, anch’esso dotato di un titolo “scomodo” che subito infranse un tabù e un modo di essere, distinguendo due categorie femminili e privilegiando la donna clitoridea, svincolata e liberata anche dagli schemi sessuali imposti dal patriarcato (e non dalla fisiologia, spiega l’autrice con tanto di illustrazioni). Raccolti insieme ad altri scritti di Rivolta femminile, tra cui naturalmente il Manifesto del gruppo, che apre il volume ed è una chiarissima e “lapidaria” dichiarazione di intenti, che si conclude con il famoso «Comunichiamo solo con donne».

La nuova edizione ha una copertina assai bella, che chissà se le ribelli separatiste di Rivolta femminile avrebbero approvato. Si tratta di Violarosso, un quadro del 1963 proprio di Accardi, con i classici segni dell’artista, ormai sottili e quasi grafici, che compongono una specie di calligrafia-pattern. Tra i segni di Accardi, che si ripetono su un fondo di colore uniforme (che nella stampa risulta fucsia ma in verità è viola), alla ricerca di un potente effetto luminoso che Gillo Dorfles chiamò “brillanza”, ve ne è anche uno che, un poco dilatato, diventerà poi il logo di Rivolta femminile. Anche per questo, efficace il progetto grafico, accattivanti i colori, significativa l’opera scelta, esposta tra l’altro nella grande retrospettiva dedicata nel 2024 ad Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, forte il messaggio che passa, anche nella specialissima relazione tra le due Carle, molto legate negli anni precedenti il 1970 e destinate ad allontanarsi un po’ bruscamente nel 1973. «Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo fare l’artista, non la femminista», confida Accardi ad Anne-Marie Sauzeau, anche lei critica, femminista e compagna di vita di artista (Alighiero Boetti), in uno scritto su Lonzi di qualche anno fa. Anche perché Accardi funge, in un certo senso, da trait d’union tra i due periodi, la critica e il femminismo, e tra i due primi libri editi da La Tartaruga. 

Il secondo è infatti Autoritratto, il capolavoro di Lonzi critica d’arte, che dialoga con 14 importanti artisti del suo tempo, registrando le conversazioni (raccolte tra 1965 e 1969) e ricomponendole poi, «in modo da riprodurre una specie di convivio, reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo», con un montaggio coraggioso e poetico, quasi una ricerca sulla lingua oltre che sui linguaggi dell’arte. Lonzi è insofferente, cerca una critica orizzontale, paritetica, rifugge il rapporto di potere che si cela nell’atto critico, ma partecipa al dialogo come una di loro.

Il volume, rieditato nei mesi scorsi sempre per la cura di Buttarelli, che anche in questo caso sceglie di non premettere un saggio introduttivo è un «libro fondamentale per come si scrive d’arte ma è anche il preambolo della pratica dell’ascolto che rivoluzionerà il femminismo di Carla Lonzi».

Naturalmente Accardi è compresa, unica donna, tra gli artisti protagonisti del famoso convivio (gli altri sono Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato e, in assenza, Twombly), apice di un sodalizio «largamente comunicativo e umanamente soddisfacente», come lei stessa scrisse. Pubblicato nel 1969 da De Donato, con in copertina un Concetto spaziale di Fontana, il più anziano e famoso tra gli artisti coinvolti, forse non approvato dall’autrice, che aveva scelto con cura il resto dell’apparato iconografico del volume, composto prevalentemente da piccole fotografie molto private e intime, sue e degli artisti che colloquiano con lei, Autoritratto è un’opera fondamentale nella storia della critica d’arte italiana per metodo e contenuti. Un’opera preziosa per comprendere le vicende della cultura non solo artistica di quegli anni, con la quale di colpo si chiude la vicenda critica di Lonzi, e si apre quella filosofica e femminista.

A ben vedere, impossibile immaginare non solo la storia del femminismo ma anche quella della critica d’arte senza di lei che, dopo aver rotto ogni schema in quel campo, fu capace all’improvviso di lasciare tutto, scegliendo la strada filosofico-politica, la strada dell’autocoscienza, del separatismo, e della concreta trasformazione, come ricorda Buttarelli nel suo libro.

Lei, che era stata l’allieva più promettente di Roberto Longhi, padre-patriarca della critica d’arte italiana, lei che era stata una delle «menti più lucide della generazione critica che aveva attraversato gli anni sessanta», come scrive Laura Iamurri nel suo volume su Lonzi e l’arte in Italia, descrivendone anche, sulla base delle fonti, i precedenti anni di formazione.

Ma nulla, forse, fu davvero improvviso, bensì inesorabilmente consequenziale e connesso al problema del potere (lo approfondiscono sia Iamurri che Giovanna Zapperi). L’arte, per Lonzi, non poteva farsi vettore di quelle forme liberatorie di costruzione del sé e di formazione dei legami, sulle quali stava lavorando dai primi anni sessanta, anche con Accardi, l’arte alla fine è maschile, e lei si allontana anche dagli artisti.

Non era facile, non era scontato, c’era stato anche il Sessantotto. Si apriva un decennio nuovo: di lotte, conflitti, tensioni, violenza, e anche di nuovi linguaggi creativi, nuove parole chiave, nuovo femminismo, nuove priorità, tra cui liberarsi da ogni forma di oppressione. Ma Lonzi quella vita vissuta a fianco degli artisti in difesa dell’autonomia della creazione, e della creatività, libera infine anche dal potere della critica, l’aveva lasciata: aveva scelto il femminismo, l’“uscita allo scoperto”, come lei stessa dice, lo sdegno per quella cultura maschile millenaria e misogina che aveva imposto l’inferiorità della donna.

Con Rivolta femminile aveva dimostrato di «saper andare via da dove una donna non può stare», come scrive Buttarelli, in un libro che non è esattamente una biografia e nemmeno un’esegesi, bensì si pone in risonanza con Lonzi, in un attraversamento dell’inesausta vitalità del suo pensiero, lungo un percorso scandito da capitoli che toccano in maniera non cronologica i principali scritti del periodo femminista, rileggendoli per similitudini e confronti e fornendo chiavi e spunti di riflessione, più che di interpretazione, sempre interni al corpo a corpo con il pensiero e l’opera dell’autrice.

Lonzi oggi si studia in tutto il mondo, non so dire se più come filosofa femminista che come critica.

Ma, a conti fatti, forse non furono veramente due vite e due Carle, anche se così parve, e in questi termini, quasi contrapposti, Lonzi era stata letta negli anni.

Un prima e un dopo, con il giro di boa del decennio più lungo del secolo breve a fare da discrimine. 

Due ambiti di ricerca e pratica separati, quasi che questo iato tra un prima e un dopo, questo farsi lei stessa, come scrive, tabula rasa, in un pensiero/azione assolutamente identificato con la vita, fosse irriducibile. Difficile, seppur utile, interpretare però. Buttarelli, che vuol far «far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé» invece un poco lo considera un tradimento. Del resto, Lonzi scrive nel suo Taci anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978 da Rivolta femminile, «Quando un altro mi spiega una cosa mia, mi interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza perché io lo accetti». Dunque Lonzi rifugge dall’interpretazione e non vuole lasciare alcuna eredità? O forse, come scrive Buttarelli, che molto si rivolge al monumentale diario, la sua è una eredità senza testamento «di cui non ci si può appropriare ma si può abbracciare»? Scritti trasformativi che cambiano la vita, li definisce la filosofa che ha avuto, dal 2017, la responsabilità scientifica del Fondo Carla Lonzi, per qualche anno depositato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per volontà del figlio Battista Lena e sensibilità dell’allora direttrice Cristiana Collu. Partì allora una meritoria attività di catalogazione e digitalizzazione dei documenti, preziosa per le studiose e gli studiosi di ambo i fronti, il femminismo e la critica d’arte. In questi ultimi mesi, tra grandi polemiche, il comodato è stato sospeso, per la visione diversa della nuova direttrice, e il Fondo sta cercando un’altra casa. Di sua iniziativa, mia nipote ventenne ha rintracciato online, digitalizzate, le minute delle lettere di Carla a mia madre, sua nonna, in occasione di quella intervista. Conferma del fatto che Lonzi interessa ancora alle più giovani.

Grazie alla sua visione e al suo pensiero, che tocca temi e nodi nuovamente attualissimi, Lonzi ha potuto cambiare «il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità e dei loro desideri». Rimbombano nelle orecchie le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto […] ora serve una sorta di rivoluzione culturale».

In particolare la lotta al patriarcato e la liberazione dai ruoli, anche sessuali, imposti da una cultura misogina pervasiva, che si annida anche nelle rivendicazioni egalitarie contro le quali Lonzi e le altre allora insorgevano «L’uguaglianza tra i sessi è la veste con cui si maschera oggi l’inferiorità della donna». Affermazioni che colpiscono con chiarezza e senza mediazioni, «Non vogliamo tra noi e il mondo nessuno schermo». Anche per questo, forse, il Manifesto e gli scritti di Lonzi possono avere ancora oggi un effetto dirompente sulle ragazze che vivono un femminismo diverso, intersezionale e connesso alle rivendicazioni di genere.

Ma non era questo il suo obiettivo. Lonzi non è mai diventata una maestra. Non era nella sua rivolta. Lei aveva decostruito, decolonizzato, deculturalizzato, utilizzando autocoscienza e separatismo per smontare, con autenticità, in primo luogo la sua vita e la sua cultura, tabù e pregiudizi, stereotipi e ruoli, ma non per essere una maestra del pensiero.

Del resto non voleva lasciare un’eredità, come suggerisce Buttarelli, ma piuttosto scrollarsi di dosso ogni incrostazione, ogni retaggio e vincolo di una cultura di sopraffazione millenaria, rifiutata con un taglio netto.

Ci vuole un grande coraggio per fare questo vuoto. Buttarelli è sincera, rivela di essere diventata “lonziana” da giovane, di aver avuto una vera e propria conversione nel 1974: «da quel momento ho iniziato a essere una donna».

E in questa decostruzione, in questo svuotamento quasi artaudiano, Buttarelli parla anche del vuoto dello zen e delle mistiche contemporanee, come Teresa di Lisieux, che Lonzi avrebbe scelto come riferimento morale, per comprendere l’abbandono di parti di sé e di posizioni, fuori da qualunque compromesso, verso un’autenticità inesorabile, come prima di lei per esempio Cristina Campo, Lonzi si consuma, pur non essendo una mistica.

La nuova edizione di Autoritratto porta in copertina una fotografia di Teresa di Lisieux nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, durante una mise en scène al convento del Carmelo. Durastanti scrive che era desiderio dell’autrice “accompagnare” il suo libro proprio con questa fotografia, o forse con un particolare, come il primissimo piano del volto della santa mistica, diventato un’opera di Giulio Paolini proprio nel 1969. Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione, omaggio all’amica Carla, che all’epoca «nutriva un particolare interesse per la figura di Teresa di Lisieux».


(Doppiozero, 27 settembre 2024)