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Karima Isd

In India è viva una tradizione storica di resistenza economica ai poteri forti e multinazionali che risale alla lotta contro la colonizzazione inglese. Ed è là che la multinazionale di Atlanta ha i maggiori dispiaceri, da un po’ di tempo. Boicottaggi anti Coca Cola (per il suo comportamento antisindacale, per l’induzione a consumi dannosi, per i danni ambientali e per essere fra i finanziatori dei presidenti Usa) fioriscono un po’ ovunque, ma il top è in India. Là è stato ammesso un calo delle vendite del 14% nel trimestre aprile-giugno rispetto ai mesi precedenti, malgrado le favorevoli condizioni climatiche (caldo estremo). L’opposizione sta coinvolgendo consigli di villaggio (in Kerala e Gujarat), attivisti di città, tribunali e perfino governi e amministrazioni. Le ferrovie hanno bandito dai vagoni le bollicine multinazionali in favore di bevande locali. Adesso ci si mette anche il governo dello stato meridionale del Kerala: il quale, riferisce il ricco sito indiano www.indiaresource.org (dell’omonima campagna che ha dato risonanza internazionale alla lotta e che solo in giugno ha ricevuto 80.000 visite) ricorrerà contro la multinazionale davanti alla Corte suprema dell’India. L’accusa: sottrarre preziosa acqua di falda per nutrire a colpi di milioni di litri al giorno la grande fabbrica di una sua affiliata indiana a Plachimada, area soggetta a crisi idrica. Il governo, insomma, mette in discussione il diritto di un privato multinazionale di sprecare acqua buona per un prodotto così voluttuario. Kutty Ahmed Kutty, ministro dell’Autogoverno locale, accusa inoltre Coca Cola di non aver rispettato le direttive statali in materia di controllo dell’inquinamento. Nella fabbrica entrava acqua pura di falda lasciando a secco i villaggi e insieme alle zuccherose bottiglie dalla fabbrica uscivano effluenti carichi di cadmio. Nella saga della Coca a Plachimada, ormai un caso di studio, sono anni che il minuscolo consiglio del villaggio (panchayat) Perumatty tiene in scacco il colosso mondiale, rifiutando di rilasciare l’obbligatoria licenza di prelievo d’acqua. Negli ultimi 16 mesi la fabbrica è rimasta chiusa, dopo essere stata presidiata dagli abitanti dei villaggi ininterrottamente per mesi. Ma il 7 aprile scorso, l’Alta corte del Kerala aveva permesso alla compagnia di estrarre mezzo milione di litri di acqua al giorno per la fabbrica di Plachimada, e aveva ordinato al panchayat ribelle di rinnovare la licenza. In tutta risposta, quest’ultimo aveva fatto ricorso alla Corte suprema e chiesto al governo del Kerala di dire qualcosa di sociale, rispettando il proprio dovere di proteggere le risorse naturali.

 

Analoghe proteste si sono verificate nello stato del Gujarat, luogo natale di Gandhi. Con tutti i boicottaggi che la colpiscono altrove per ragioni ambientali e sociali, con tutti i dispiaceri in India, a Cola Cola tocca sperare perfino nell’Iraq. Dove rimette bottiglia dopo un’assenza di 37 anni, realizzando una joint-venture con l’azienda di imbottigliamento turca Efes Invest e il suo partner iracheno Hmbs, per competere con la Pepsi, fra un raid americano e un’autobomba. La famosa bibita artificiale statunitense dovette lasciare l’Iraq nel 1968, quando la Lega araba le scagliò contro un boicottaggio ante litteram a causa dei suoi legami con Israele. Il boicottaggio anti-Coca finì nel 1991 ma a quel punto fu l’embargo mondiale guidato dagli Usa a tenerla fuori dal paese; dove l’ex licenziatario della Pepsi, la Baghdad Soft Drinks, si mise a riciclare le vecchie bottiglie di Pepsi riempiendole con estratto «falso» proveniente dall’Est europeo, senza più pagare le royalties, unico «vantaggio» portato al paese dalle sanzioni. Nacque poi la Kufa Cola, sostituto locale prodotto nell’area di Kufa. Ma niente paura, a Baghdad, Bassora, Mosul torna Coca Cola e torna Pepsi. Gli iracheni non padroneggiano l’idea del boicottaggio economico: la loro ostilità verso gli Usa, spiega il quotidiano britannico, si esprime più direttamente in attacchi alle relative truppe.