Israele e Palestina, la sfida della pace
9 Giugno 2004
Regista, militante nei movimenti pacifisti, Keren Yedaya, autrice di «Or», rappresenta le nuove generazioni del cinema israeliano. Che metabolizzata la lezione dei più «grandi», guerra, occupazione, violenza la raccontano nella cifra segreta e implacabile del vissuto quotidiano
Cristina Piccino
Aconquistare la platea del festival di Cannes, nella serata finale, quella ragazza giovane, emozionata, praticamente sconosciuta ci ha messo un attimo. Quando salita sul palco per ritirare la Caméra d’or, con le lacrime agli occhi, ha ringraziato in nome della pace tra il suo paese, Israele, e la Palestina chiedendo a tutti di aiutare chi come lei nella pace ci crede e mette in gioco tutto per arrivarci. I tanti militanti israeliani che rischiano la galera se non la vita come suo padre o sua sorella, che ha solo diciannove anni, ha rifiutato di fare il servizio militare e ogni giorno aiuta i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Ma Keren Yedaya nei giorno precedenti aveva già colpito chi aveva visto il suo film. Perché Or – scoperto nella Semaine de la critique – è cinema emozionante, politico, che non rinuncia al respiro libero rifiutando per questo le immagini facili (a volte quasi imposte) della propria realtà. Or vive nel rapporto viscerale tra una madre prostituta e la figlia adolescente. È la città di Tel Aviv oggi, dove è stato girato, è la violenza di uomini e donne in una società che sembra avere metabolizzato nel profondo la logica della sopraffazione. La guerra c’è in Or ma fuori campo, dunque ancora più forte perché raccontata attraverso il vissuto. A Roma, dove la incontriamo (grazie al passaggio romano della Semaine, che da anni organizza con cura Francesco Martinotti) Keren Yedaya ci trasmette subito la stessa passione di quella sera. La pace per lei è tutto, è la vita e il solo futuro possibile per il suo paese. E il suo cinema è fatto anche di questo. Una passione scoperta da ragazzina, appena sedicenne, la scuola fino ai vent’anni, i cortometraggi tra cui Elinor, spietata critica dell’esercito israeliano nel ritratto di una ragazza soldato che ha come solo compito la pulizia dei gabinetti. Racconta: «non so se è arrivato prima il cinema o il lavoro politico. Direi che le due cose vanno insieme, le storie che racconto arrivano dai miei incontri». Già perché Keren lavora in molte associazioni che aiutano le prostitute, le donne che subiscono violenza familiare, i bimbi che vivono in strada.
Mattina di sole. Caffè, sigarette fatte col tabacco, la gioia di essere a Roma, città che trova bellissima.
Il tuo lavoro nelle associazioni che aiutano le donne: come entra nel tuo cinema?
On the edge, che ho girato coi ragazzini che vivono in strada, nasce dal lavoro che abbiamo fatto insieme. Visto che nessuno di loro va a scuola, quando venivano al centro li facevo giocare con la telecamera. Così hanno imparato a girare, abbiamo realizzato dei videoclip… Penso che sia importante usare i miei film e il mio mestiere in questo modo, il cinema deve essere qualcosa di vitale, che interagisce col mondo. Il mio secondo cortometraggio era sulla prostituzione. Cercavo di dare voce ai problemi di queste donne, e era possibile perché avevamo lavorato insieme. Non riesco a fare i miei film senza conoscere le persone di cui parlo, soltanto un legame intimo mi permette di trasformare l’esperienza in cinema. È come se nelle immagini scivolasse anche una componente personale, non pubblica. Perché poi è anche vero che quando conosco persone in situazioni complesse non posso stare senza far nulla.
Parlavi di ragazzini che vivono in strada. È strano, all’esterno percepiamo Israele come un paese ricco.
La società israeliana, e credo che sia lo stesso qui in Italia, è fatta di ricchi e di poveri. Abbiamo molti problemi economici anche se non si tratta solo di questo. Se appartieni alle classi alte, al di là della ricchezza, puoi prenderti maggiori libertà. Una donna come Ruthie, la madre di Or, viene messa subito ai margini. È ovvio poi che la miseria riguarda soprattutto i palestinesi. Oggi sono la fascia sociale più bassa, non possono lavorare, la guerra impedisce lo sviluppo di una loro economia. Ecco, la guerra. È il nostro problema principale. Assorbe tutto, denaro, energie, possibilità di essere felici. Come si fa a vivere bene in uno stato permanente di guerra e di occupazione? La gente in Israele soffre di depressione, è paranoica.
È la forza di «Or». Cioè il conflitto resta fuori campo, non ci sono armi, eserciti ma si percepisce una violenza che è quasi uno stato d’animo.
È vero che la storia raccontata in Or può accadere ovunque, visto però che siamo in Israele ci sono aspetti legati in modo specifico alla società israeliana. Non credo che un film sia politico perché fa vedere occupazione o guerra. A me interessava di più trovare una linea tra la vita di Or e di sua madre e la guerra. Non si tratta insomma dei problemi di due donne, in questo c’è anche il senso di un paese che ha scelto finora di vivere occupandone un altro. Ti faccio un esempio. Nel ristorante dove Or lavora, la sola persona gentile con lei è il lavapiatti palestinese. Entrambi sono al livello sociale più basso, sono schiavi messi in gabbia. Eppure – per questo li ho filmati così – stanno in quella cucina voltandosi le spalle. La tragedia del nostro paese per me è proprio questa. Le minoranze non lavorano insieme ai palestinesi, preferiscono girare le spalle. Mi piace pensare che la gente guardando il film, capisca di vivere nella stessa situazione. E che per questo è importante cambiare.
«Or», come altri film israeliani visti di recente, penso a «Alila» di Gitai o a «Campfire» di Joseph Cedar, evidenzia una forte aggressività verso le donne.
La nostra società sacrifica gli esseri umani per nulla. C’è una teoria femminista che traccia una connessione tra la presenza dell’esercito e la prostituzione. In un paese dove prevalgono armi e soldati, le ragazze diventano il regalo agli uomini. Che sono anche loro delle vittime. Se infatti avessero il coraggio di capire la sofferenza fuggirebbero via dalle guerre. Ma non possono. Da noi si dice che chi non fa la guerra non è un uomo. È assurdo perché Israele avrebbe potenzialità magnifiche, è un paese giovane, bello, insieme alla Palestina sarebbe il nostro piccolo paradiso. E invece è un inferno. Per questo non c’è altra soluzione che vivere insieme fermando l’occupazione. Non puoi esistere se il tuo vicino non esiste più.
La pace. Quale pensi che sia oggi la strada possibile per realizzarla?
Quarant’anni sono moltissimi per chi soffre ma sono anche pochi di fronte alla Storia. Sono ottimista, anche se è difficile. Il prezzo da pagare è alto, ma la guerra costa molto di più. Il problema è soprattutto nella testa della gente, per questo bisogna aiutare in ogni modo chi lavora per la pace e contro l’occupazione da entrambe le parti.
In Europa da qualche tempo si tende a sovrapporre la critica a Sharon all’antisemitismo. Cosa ne pensi?
È chiaro che si sono differenze enormi tra criticare la politica di Sharon e essere antisemiti. Anzi credo che sia necessario criticare Israele, la sua politica, per spiegare cosa accade. La connessione con l’olocausto è sempre molto forte, eppure non ci si può fermare a questo. Così come non basta per giustificare la violenza la paura del terrorismo. A volte mi chiedo che differenza c’è tra un attentato e il terrore che diffonde uno stato «democratico» con un’occupazione che uccide la gente ogni giorno. È molto facile odiare quando si è spaventati.